la ‘chiesa in uscita’ di papa Francesco in 10 punti

chiesa “in uscita”

un decalogo

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Andrea Lebra

dalla “Evangelii gaudium” e da altri interventi di papa Francesco si capisce cosa egli intende per “Chiesa in uscita missionaria”. Nelle sue parole sono presenti molti temi: uno stile di Chiesa, il kerigma, le donne, i laici, i poveri, la Parola e il linguaggio.

la “Chiesa in uscita missionaria” è una delle novità che maggiormente caratterizzano il servizio di papa Francesco. Secondo alcuni, questa sarebbe addirittura la vera novità del suo pontificato. Si tratta di una categoria decisamente originale attorno alla quale è costruito il programma pastorale consegnato all’esortazione apostolica Evangelii gaudium dove «la riforma della Chiesa in uscita missionaria» per annunciare la gioia del Vangelo è indicata come la prima delle sette questioni sulle quali Francesco intende soffermarsi (n. 17).
ma quali sono le specificità di una Chiesa in uscita missionaria per annunciare gioiosamente che la salvezza realizzata da Dio è per tutti (n. 113)? Dalla Evangelii gaudium è possibile farne sinteticamente emergere almeno dieci, tutte di straordinaria importanza.

1. Tutti siamo Chiesa!

 In primo luogo, va detto che la Chiesa non è limitata ai presbiteri, ai vescovi o al Vaticano. La Chiesa sono tutti i fedeli! È popolo in cammino verso Dio (n. 111). Tutti i battezzati sono la Chiesa. Tutti i cristiani, in quanto battezzati, hanno uguale dignità davanti al Signore e sono accomunati dalla stessa vocazione, che è quella alla santità. Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione implica un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati (n. 120).

2. Più spazio alle donne.

 Nella Chiesa c’è bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva (n. 103). Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne, a partire dalla ferma convinzione che uomini e donne hanno la medesima dignità, pongono alla Chiesa domande profonde che la sfidano e che non si possono superficialmente eludere (n. 104). È urgente accogliere e offrire spazi alle donne nella vita della Chiesa, tenendo conto delle specifiche e mutate sensibilità culturali e sociali. È necessario studiare criteri e modalità nuovi affinché le donne si sentano non ospiti, ma pienamente partecipi dei vari ambiti della vita ecclesiale (Discorso, 7 febbraio 2015).

3. Chiesa non autoreferenziale.

 La Chiesa in uscita missionaria evita la malattia spirituale dell’autoreferenzialità; non si chiude in se stessa, nella parrocchia, nella cerchia di chi la pensa allo stesso modo, ma si apre all’incontro con gli altri, anche con chi la pensa diversamente o professa un’altra fede (Discorso, 18 marzo 2013). È una comunità di discepoli che prendono l’iniziativa per andare incontro ai «lontani», per intercettare ai crocicchi delle strade gli «esclusi», per accorciare le distanze con la gente (n. 24). In essa tutto viene pensato in chiave di missione: si tratta non di aspettare che la gente venga, ma di andarla a cercare là dove vive per ascoltare, benedire e camminare insieme, cogliendone l’odore, fino a restare impregnati delle sue gioie e delle sue speranze, delle sue tristezze e delle sue angosce (Messaggio alla Fuci, 14 ottobre 2014).

4. Gerarchia delle verità.

Nella Chiesa in uscita missionaria il Vangelo è annunciato non per imporre nuovi obblighi, ma per condividere una gioia, per segnalare un orizzonte di bellezza, per offrire la partecipazione ad un banchetto desiderabile (n. 14). Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere, ma si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e, allo stesso tempo, più necessario (n. 35). Per raggiungere questo obiettivo è soprattutto necessario tenere in debita considerazione un criterio proposto dal Vaticano II ma spesso dimenticato e trascurato: la gerarchia delle verità, che vale tanto per i dogmi di fede quanto per l’insieme degli insegnamenti della Chiesa, ivi compreso l’insegnamento morale (n. 36).

5. Primato della Parola.

 La Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare. È indispensabile che la parola di Dio diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale (n. 174). Lo studio della sacra Scrittura deve essere una porta aperta a tutti i credenti. È fondamentale che la Parola rivelata fecondi radicalmente la catechesi e tutti gli sforzi per trasmettere la fede. L’evangelizzazione richiede la familiarità con la parola di Dio e questo esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le aggregazioni cattoliche propongano uno studio serio e perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e comunitaria (n. 175).

6. Dimensione sociale del kerygma.

 La Chiesa in uscita è consapevole che la religione non deve limitarsi all’ambito privato e non esiste solo per preparare le anime per il cielo. Dio desidera la felicità dei suoi figli e delle sue figlie anche su questa terra, benché tutti siano chiamati alla pienezza eterna (n. 182). Una fede autentica, mai comoda e individualista, implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Tutti i cristiani, anche i pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore (n. 183). Dio, in Cristo, redime non solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli esseri umani e il cuore del Vangelo rimanda ad un’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana (n. 178).

7. Opzione per i poveri. 

Cristiani e comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società. Questo suppone che siano docili e attenti ad ascoltare il loro grido e a soccorrerli (n. 187). C’è un segno che non deve mai mancare tra i cristiani: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via (n. 195). Occorre affermare, senza giri di parole, che esiste un vincolo inseparabile tra la fede cristiana e i poveri (n. 48). Una Chiesa povera e per i poveri (n. 198) è una Chiesa che pratica una volontaria semplicità nella propria vita nelle sue stesse istituzioni, nello stile di vita dei suoi membri – per abbattere ogni muro di separazione, soprattutto dai poveri (Udienza, 3 giugno 2015).

8. Linguaggio chiaro.

 Nella Chiesa in uscita missionaria non solo si usa un linguaggio semplice, chiaro e diretto che i destinatari sono in grado di comprendere o che hanno bisogno di sentirsi dire (n. 154), ma soprattutto si usa un linguaggio positivo e attraente perché in grado di offrire speranza, di orientare verso il futuro e di liberare dalla negatività (n. 159). Nelle scelte pastorali e nell’elaborazione dei documenti deve prevalere non l’aspetto teoretico/dottrinale astratto utile solo ad alcuni studiosi e specialisti, ma lo sforzo di tradurre le une e gli altri in proposte concrete e comprensibili per tutti, anche per rafforzare l’indispensabile ruolo dei laici disposti ad assumersi le responsabilità che a loro competono (Discorso alla CEI, 18 maggio 2015).

9. Teologia che odora di popolo e di strada.

 Nella Chiesa in uscita la teologia da tavolino (n. 133), che si esaurisce nella disputa accademica o che guarda l’umanità da un castello di vetro, dev’essere sostituita da una teologia che odora di popolo e di strada in grado di versare olio e vino sulle ferite degli uomini e delle donne di oggi. La misericordia, che non è solo un atteggiamento pastorale ma è la sostanza stessa del Vangelo di Gesù, va declinata nelle varie discipline teologiche (dogmatica, morale, spiritualità, diritto e così via). La Chiesa in uscita ha bisogno non di teologi da museo che accumulano dati e informazioni sulla Rivelazione senza sapere che cosa farsene. Ad essa servono teologi capaci di costruire attorno a sé umanità, di trasmettere la divina verità cristiana in dimensione veramente umana (Lettera alla Pontificia Università Cattolica Argentina, 3 marzo 2015).

10. Chiesa che benedice e vivifica. 

La Chiesa in uscita è la comunità che si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania. Per testimoniare Gesù Cristo è pronta al martirio. Però il suo sogno non è di circondarsi di nemici, ma piuttosto che la parola venga accolta e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice (n. 24). Nella Chiesa in uscita l’identità cristiana non è né occultata (n. 79) né ostentata (n. 95), ma testimoniata in modo sempre rispettoso e gentile (n. 128). All’atteggiamento del nemico che punta il dito e condanna o del principe che guarda gli altri in modo sprezzante (n. 271) viene preferito uno stile fraterno e sororale che diventa attraente e luminoso (n. 99) agli occhi di tutti, in quanto in grado di illuminare e benedire, vivificare e sollevare, guarire e liberare (n. 273).

 

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i veri nemici sono quelli che ha più vicini

la misericordia di papa Francesco crea scandalo nella chiesa

Papa Francesco

papa Francesco

La Repubblica, 14 ottobre 2015
di ENZO BIANCHI

Il termine “apocalisse” non indica, come molti intendono, qualcosa di catastrofico, bensì un “alzare il velo”, una ri-velazione, l’emergere di una realtà inaspettata o nascosta. Per questo ciò che sta avvenendo non solo in questi giorni sinodali ma dall’inizio del pontificato di Francesco è un’apocalisse che fa conoscere situazioni che paiono impossibili e svela la verità delle coscienze e dei cuori, sovente nascosta dietro adulazioni, ipocrisie di linguaggio e di comportamento. Che cos’è in gioco in questo confronto sinodale che a volte appare un’aspra battaglia? Non ciò che la chiesa crede in obbedienza al vangelo. In particolare non è in gioco la dottrina cattolica sull’indissolubilità del matrimonio cristiano – e di questo papa Francesco più volte si è dichiarato garante – e nemmeno è in gioco un patteggiamento della chiesa, e in primo luogo dei pastori, circa la famiglia oggi, la sua crisi, le ferite che può registrare nelle storie di amore, la sua fragilità come le sue riuscite sempre incompiute e contraddette. No, in gioco è la dimensione pastorale, l’atteggiamento da assumere verso chi ha sbagliato e verso la società contemporanea. E in questo senso proprio la chiesa, che ha accolto i sacramenti dal Signore e crede in essi con obbedienza, per esserne ministra ha il compito di determinarne la disciplina rinnovandola e rendendola più fedele al vangelo compreso sempre meglio nella storia grazie all’azione dello Spirito santo.

Va detto con chiarezza: ciò che scandalizza è la misericordia! Sembrerebbe impossibile, ma non possiamo dimenticare che Gesù non è stato condannato e messo a morte perché si era macchiato di qualche crimine secondo il diritto romano, né perché aveva smentito la parola di Dio contenuta nelle legge e nei profeti, bensì per il suo comportamento troppo misericordioso che rompeva le barriere erette dai giusti incalliti contro i peccatori pubblici: annunciava infatti il perdono, senza far ricorso a una giustizia retributiva e punitiva, amava frequentare prostitute e peccatori noti come tali e stare alla loro tavola. Il suo modo di comportarsi ha rivelato che la misericordia non è un correttivo per mitigare la giustizia, non è neppure un soccorso per chi non conosce la verità: la giustizia di Dio è sempre misericordia anzi, è la misericordia che stabilisce la giustizia e rende splendente e non abbagliante la verità. I nemici di Gesù erano esperti della santa Scrittura (scribi) e uomini “religiosi” che confidavano in se stessi e nel loro comportamento scrupolosamente osservante.

È dunque rivelativo che un’opposizione analoga emerga anche contro papa Francesco e il cammino che tenta di tracciare per la chiesa, l’esodo verso le periferie esistenziali di un’umanità sofferente e mendicante amore, tenerezza, compassione in un mondo sempre più duro, sempre più incapace di prossimità e di fraternità. Ho già avuto modo di scriverlo fin dai primi passi di questo pontificato: se il papa sarà fedele al vangelo troverà opposizione, persino rigetto e disprezzo perché non potrà essere di più del suo Signore. L’ha profetizzato Gesù semplicemente leggendo le proprie vicende e quelle dei profeti prima di lui.

Ciò che stupisce è proprio che chi nei confronti dei papi precedenti non avanzava critiche o contestazioni ma semplicemente poneva loro domande, veniva subito additato come “non cattolico”, mentre oggi, grazie alla libertà che Francesco ha voluto assicurare al dibattito, alcuni arrivano a sospettare che lui permetta di lasciar manipolare un confronto che nella chiesa dovrebbe sempre essere ascolto dell’altro, eloquenza delle proprie convinzioni senza accanimento, riconoscimento che il successore di Pietro, il papa “fa strada insieme” (syn-odos) ai vescovi ma presiedendo la loro comunione con un carisma e un mandato proprio che proviene dal Signore stesso.

Siamo tornati al tempo del concilio, alle contestazioni più o meno manifeste, alle mormorazioni contro Giovanni XXIII e Paolo VI, ma questo non deve spaventare. Nella sua storia, la chiesa ha conosciuto ore più critiche, anche se indubbiamente queste vicende non offrono una testimonianza di parresia e di comunione fraterna. Stupisce che questa contestazione venga proprio da chi papa Francesco ha voluto tenere vicino a sé nel governo della chiesa o incaricare di aiutarlo per tracciare un cammino di riforma delle istituzioni. Ma questo dato rivela chi è l’attuale papa: non è un pontefice che scarta chi sa diverso da lui, chi ha sensibilità molto differenti, non è un “regnante” che emargina chi ha altre ottiche pastorali. Tutti possono costatare questo suo atteggiamento che certo gli nuoce e gli rende faticoso il suo servizio alla chiesa. D’altronde nella chiesa c’è chi vorrebbe che papa Francesco fosse solo una breve parentesi, chi afferma che “questo papa non gli piace”, chi lo considera “debole nella dottrina”, chi non ama il suo ecumenismo che vuole abbracciare tutti i battezzati e non creare muri nei confronti dei non cristiani e degli uomini e delle donne del mondo.

Per scelta di Benedetto XVI ho partecipato a due sinodi e non vedo in quello in corso una procedura radicalmente diversa, se non per l’invito di papa Francesco alla parresia e per una metodologia diversa pensata a servizio di questa libertà di parola: pubblicare il riassunto della discussione senza fornire i nomi dei singoli intervenuti e le frasi da loro pronunciate, per esempio, consente di non classificare i vescovi in tradizionalisti e innovatori, in conservatori e liberali sulla base di affermazioni apodittiche che non riflettono l’incidenza avuta dal confronto e dal dialogo nel corso del dibattito. Le diversità infatti sono legittime, soprattutto in un’assemblea veramente cattolica, in cui i vescovi sono portavoce del loro popolo, custodi della fede inculturata in una regione precisa che non sempre appare contemporanea ad altre.

Esser “servo della comunione” per papa Francesco è arduo, ma i cattolici credono anche che su di lui c’è la promessa fatta a Pietro da Gesù stesso: “Ho pregato perché la tua fede non venga meno e tu conferma i tuoi fratelli!”. Questa è un’ora di apocalissi nella chiesa e non sarà l’ultima: ognuno si assuma le proprie responsabilità nei confronti della comunione cattolica e, più ancora, nei confronti del vangelo al quale dice di voler obbedire.

 

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Marwan Barghouthi dalla cella n° 28 della prigione di Hadarim cella n°28

non ci sarà pace finché non cessa l’occupazione della Palestina da parte di Israele

di Marwan Barghouthi

leader palestinese in prigione e membro del Parlamento, detto spesso “il Mandela palestinese”

Bargouti

The Guardian

L’ escalation [di violenze] non è cominciata con l’uccisione di due coloni israeliani, è cominciata molto tempo fa ed è andata avanti per anni. Ogni giorno ci sono Palestinesi uccisi, feriti, arrestati. Ogni giorno che passa, il colonialismo avanza, l’assedio del nostro popolo a Gaza continua, oppressioni e umiliazioni si susseguono. Mentre molti oggi ci vogliono schiacciati dalle possibili conseguenze di una nuova spirale di violenza, io continuerò, come ho fatto nel 2002[1], a chiedere di occuparsi delle cause che stanno alla radice della violenza: il rifiuto della libertà ai Palestinesi.

Alcuni hanno detto che il motivo per cui non si è raggiunto un accordo di pace è stata la mancata volontà del defunto Presidente Yasser Arafat o l’incapacità del Presidente Mahmoud Abbas, mentre sia l’uno che l’altro erano disposti e capaci di firmare un accordo di pace. Il vero problema è che Israele ha scelto l’occupazione al posto della pace ed ha usato i negoziati come una cortina di fumo per portare avanti il suo progetto coloniale. Tutti i governi del mondo conoscono questa semplice verità, eppure molti di loro fanno finta che un ritorno alle ricette fallite del passato ci potrebbe permettere di raggiungere libertà e pace. Follia è continuare a fare sempre la stessa cosa e aspettarsi che il risultato cambi. Non ci può essere negoziato senza un chiaro impegno di Israele a ritirarsi completamente dal territorio palestinese (Gerusalemme inclusa) che ha occupato nel 1967, senza una completa cessazione di tutte le pratiche coloniali, senza il riconoscimento dei diritti inalienabili dei Palestinesi, compreso il loro diritto all’autodeterminazione e al ritorno, senza la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi. Non possiamo convivere con l’occupazione, e non ci arrenderemo all’occupazione.

Ci si esorta ad essere pazienti e lo siamo stati, offrendo occasioni e occasioni per raggiungere un accordo di pace, dal 2005 ad oggi. Forse val la pena ricordare al mondo che, per noi, espropriazione, esilio forzato, trasferimento e oppressione durano ormai da quasi 70 anni e che noi siamo l’unico problema che si trova nell’agenda dell’ONU fin dalla sua fondazione. Ci è stato detto che se ci affidavamo a metodi pacifici e alla strada della diplomazia e della politica, ci saremmo guadagnati l’appoggio della comunità internazionale per porre fine all’occupazione. Eppure, come già era avvenuto nel 1999 alla fine del periodo di interim, la comunità internazionale non ha intrapreso alcuna azione significativa, come ad esempio costituire una struttura sopranazionale per applicare la legge internazionale e le risoluzioni dell’ONU, varare misure per garantire la responsabilizzazione [delle parti], anche attraverso boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni, come era stato fatto per liberare il mondo dal regime [Sud Africano] dell’apartheid.

E allora, in mancanza di un intervento internazionale per porre fine all’occupazione, in mancanza di una seria azione dei vari governi per interrompere l’impunità di Israele, in mancanza di qualunque prospettiva di protezione internazionale per il popolo palestinese sotto occupazione, e mentre il colonialismo e le sue manifestazioni violente hanno un’impennata (compresi gli atti di violenza dei coloni israeliani), cosa dovremmo fare? Stare inerti ad aspettare che un’altra famiglia palestinese sia bruciata, che un altro giovane palestinese sia ucciso, che un altro insediamento sia costruito, che un’altra casa palestinese sia distrutta, che un altro bambino palestinese sia arrestato, che i coloni facciano un altro attacco, che ci sia un’altra aggressione contro il nostro popolo a Gaza? Tutto il mondo sa che Gerusalemme è la fiamma che può ispirare la pace e che può accendere la guerra. E allora perché il mondo rimane immobile mentre gli attacchi israeliani contro i Palestinesi della città e contro i luoghi santi musulmani e cristiani – specialmente Al-Haram Al-Sharif – continuano senza sosta? Le azioni e i crimini di Israele non distruggono soltanto la soluzione dei due stati secondo i confini del 1967 e non violano soltanto la legge internazionale, ma minacciano di trasformare un conflitto politico risolvibile in una guerra religiosa senza fine che indebolirà ulteriormente la stabilità in una regione che è già preda di un disordine senza precedenti.

Nessun popolo della terra accetterebbe di convivere con l’oppressione. È nella natura dell’uomo anelare alla libertà, lottare per la libertà, sacrificarsi per la libertà. E la libertà del popolo palestinese è in grave ritardo. Durante la prima Intifada il governo di Israele lanciò lo slogan “spezza le loro ossa per spezzare la loro volontà”, ma, una generazione dopo l’altra, il popolo palestinese ha dimostrato che la sua volontà è indistruttibile e non deve essere messa alla prova.

Questa nuova generazione palestinese non ha aspettato colloqui di riconciliazione per incarnare quell’unità nazionale che i partiti politici non hanno saputo raggiungere, ma si è posta al di sopra delle divisioni politiche e della frammentazione geografica. Non ha aspettato istruzioni per sostenere il suo diritto, e il suo dovere, di opporsi a questa occupazione. E lo fa disarmata, di fronte ad una delle maggiori potenze militari del mondo. Eppure continuiamo ad esser convinti che libertà e dignità trionferanno, e noi avremo la meglio. E che quella bandiera che abbiamo innalzato con orgoglio all’ONU sventolerà un giorno sulle mura della città vecchia di Gerusalemme, e non per un giorno ma per sempre.

Mi sono unito alla lotta per l’indipendenza palestinese 40 anni fa e sono stato imprigionato per la prima volta a 15 anni. Questo non mi ha impedito di adoperarmi per una pace basata sulla legge internazionale e sulle risoluzioni dell’ONU. Ma ho visto Israele, la potenza occupante, distruggere metodicamente questa prospettiva un anno dopo l’altro. Ho trascorso 20 anni della mia vita, tra cui gli ultimi 13, nelle prigioni di Israele e tutti questi anni mi hanno reso ancora più convinto di questa immutabile verità: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace. Coloro che cercano quest’ultima devono agire, e agire subito, perché si realizzi la prima condizione.

Marwan Barghouthi

Prigione di Hadarim                                                                cella n°28

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oggi al Parlamento Europeo sugli sgomberi forzati

sgomberi forzati dei rom

sgombero

il 14 ottobre, a Bruxelles, una delegazione dell’Associazione 21 luglio sarà ascoltata in audizione al Parlamento Europeo per fare luce sulla questione degli sgomberi forzati delle comunità rom in Italia e delle violazioni dei diritti umani che tali azioni comportano

L’audizione – ospitata dai parlamentari europei Soraya Post, Péter Niedermüller, Damian Dräghici, Sirpa Pietikäinen, Fredrick Federley, Barbara Spinelli, Terry Reintke, Benedek Jávor e dal direttore dell’Open Society European Policy Institute Neil Campbell – avrà come obiettivo generale quello di affrontare le discriminazioni razziali nei confronti dei rom in Europa con uno specifico focus sul diritto all’alloggio

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Oltre al caso dell’Italia, nel corso dell’audizione sarà esaminata la situazione degli sgomberi forzati in Bulgaria, Francia e Ungheria, grazie all’intervento di organizzazioni internazionali e della società civile che hanno documentato le violazioni dei diritti umani ai danni delle comunità rom coinvolte.

I casi di questi quattro Paesi serviranno a mettere in evidenza il fenomeno degli sgomberi forzati in Europa e a discutere su come utilizzare la Direttiva UE sull’Uguaglianza Razziale, la Raccomandazione del Consiglio d’Europa sulle efficaci misure di inclusione dei rom e sulle Strategie Nazionali di Inclusione dei Rom, così come gli altri standard internazionali sui diritti umani per affrontare la discriminazione dei rom nell’accesso al diritto all’alloggio, in particolare quando questa sfocia nella nella pratica degli sgomberi forzati.

L’audizione di domani – si legge nella nota diffusa dagli organizzatori – rappresenta un’occasione per le organizzazioni della società civile, per gli Stati Membri e per la Commissione Europea per individuare modi per prevenire gli sgomberi forzati attraverso i fondi europei e assicurare il rispetto dei diritti umani.

Se la situazione italiana risulta particolarmente grave soprattutto per la sistematica realizzazione di sgomberi forzati nelle città di Milano, Cosenza e Roma – dove l’Associazione 21 luglio ha documentato un’impennata degli sgomberi forzati con l’annuncio del Giubileo, in seguito alla quale l’Associazione ha lanciato la campagna internazionale #PeccatoCapitale – non appaiono migliori i contesti degli altri Paesi europei sui quali si concentrerà l’audizione.

In Bulgaria, malgrado i richiami della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, del Parlamento Europeo e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, il governo bulgaro sta continuando a demolire le abitazioni di famiglie rom in diverse cittdine del Paese. Tra maggio e settembre di quest’anno, 124 abitazioni di rom sono state distrutte a Garmen, 14 a Orlandovzi e 46 a Varna, rendendo così senza tetto centinaia di persone, tra cui molti minori e madri sole.

In Francia, nella prima metà del 2015, sono stati quasi 4 mila gli uomini, le donne e i bambini rom vittime di sgomberi forzati. Una situazione che ha provocato la preoccupazione dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Zeid Ra’ad Al Hussein che ha parlato di «sistematica politica nazionale per sgomberare forzatamente i rom».

In Ungheria, infine, a circa 450 rom residenti nell’area di Miskolc è stato intimato di abbandonare le proprie abitazioni in base all’emendamento a un decreto del governo locale che dava potere al Comune di mettere fino ai contratti di affitto in caso di persone che vivono sotto gli standard previsti per gli alloggi sociali. Queste misure, che obbligavano le persone a lasciare le loro abitazioni in cambio di una compensazione economica, sono state giudicate non a norma di legge dalla Corte Suprema lo scorso luglio.

 
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un vero miracolo: sulla tomba di Moro la figlia abbraccia i brigatisti assassini

preghiera sulla tomba di Moro

 quegli  incontri tra terroristi e  vittime

Moro

di Giovanni Bianconi
in “Corriere della Sera”  

 è accaduto più di tre anni fa, domenica 17 giugno 2012. Nel piccolo cimitero di Torrita Tiberina, 60 chilometri a nord di Roma, un gruppo di persone si ritrova davanti alla tomba di Aldo Moro, il presidente della Democrazia cristiana assassinato dalle Brigate rosse nel 1978. Recitano un Padre nostro, poi ognuno si raccoglie nei propri pensieri. Tra loro c’è la figlia dello statista, Agnese Moro, e altri familiari di vittime del terrorismo, rosso e nero. E ci sono tre ex brigatisti: due killer della strage di via Fani, in cui cinque agenti di scorta furono sterminati per rapire il leader dc, e la «postina» dei comunicati br. Sulla tomba del padre, Agnese Moro li abbraccia

Un miracolo per i credenti; una scena impensabile nei giorni dell’odio e del piombo, trentaquattro anni prima. Resa possibile da un cammino cominciato nel 2000, lungo il quale alcuni ex esponenti della lotta armata e parenti dei caduti sono arrivati a incontrarsi, dialogare e scambiarsi esperienze, ricordi e sensazioni. Che fondendosi hanno generato una «condivisione di memorie»; non più «congelate e fissate sul dolore subìto», bensì utili a rileggere il senso di fatti tremendi e incancellabili. Senza sconti per i colpevoli che hanno pagato il debito con la giustizia. Prima di scrivere agli ex terroristi, Agnese Moro ha ripreso in mano le pagine crude e terribili dell’autopsia effettuata sul cadavere del papà, che dava conto dell’agonia prima della morte: «Dopo questa lettura sono stata davvero sicura di non aver annacquato nulla; che il mio cammino verso di voi, come il vostro verso di noi, è stato fatto senza semplificare e senza mettere niente tra parentesi», ha chiarito. Parole che insieme a molte altre compongono ora un corposo volume, Il libro dell’incontro , nel quale si dà conto, tappa dopo tappa, del percorso compiuto. Non solo le vittime e «gli ex», ma anche mediatori e testimoni, coordinati dal gesuita Guido Bertagna, e dai docenti di Criminologia Adolfo Ceretti e di Diritto penale Claudia Mazzuccato; tutti esperti di problemi della detenzione, reinserimento sociale, «giustizia riparativa». Accompagnati, finché è stato in vita, dal cardinale Carlo Maria Martini, che guardava al passato per affrontare il futuro: «Ora c’è molta paura, degli immigrati, degli islamici… paura del disordine, ma il disordine esprime anche qualcosa, va ascoltato. La vostra iniziativa dovrebbe poter smuovere la società». Ci sono saggi che aiutano a comprendere il senso di un cammino compiuto in segreto, per proteggere i protagonisti da timori o condizionamenti. E soprattutto ci sono le voci delle vittime e dei carnefici, che più di ogni ragionamento danno conto del «miracolo». «Questo non è un gruppo di autocoscienza, è la storia del nostro Paese», rivendica uno. Anche se la verità su troppi passaggi (dalle stragi al caso Moro) è ancora incompleta. In questi incontri, però, gli obiettivi erano altri: «Il nostro prodigio è che si siano incontrati gli esseri umani, al di là di una storia che piomba come un avvoltoio sulle vite di noi tutti». Un ex militante dei gruppi armati spiega che guardare in faccia le vittime cancella ogni residuo di «velleità giustificatoria» rispetto alle scelte del passato. Le persone assassinate, degradate dai terroristi a simboli, riacquistano la loro umanità attraverso il contatto degli assassini con i familiari; e così gli assassini che se n’erano spogliati per uccidere. «Sinceramente vi ho odiato con tutto me stesso», racconta Giovanni Ricci, figlio dell’autista di Aldo Moro ammazzato in via Fani. «Poi sono cresciuto… convinto più che mai che dovevo confrontarmi con quel mostro. Ho scelto di doverlo combattere. Di doverlo affrontare. Di dover vivere di nuovo». Giorgio Bazzega aveva due anni e mezzo quando suo padre, il maresciallo Sergio Bazzega, morì fulminato dai colpi del giovane brigatista Walter Alasia, poi ucciso nel conflitto a fuoco (1976). Oggi racconta i propositi di vendetta su Renato Curcio, «che aveva indottrinato Alasia». Quando il fondatore delle Br fu scarcerato, a quasi vent’anni dall’omicidio del papà, la voglia di ritorsione aumentò, finché Giorgio ha cominciato a nutrire sentimenti diversi. E alla fine Curcio l’ha incontrato, in un dibattito pubblico. S’è presentato: «Quando lui ha capito chi ero si è spaventato.
Ma forte. In quel momento, con quella sua reazione mi sono sentito libero dal mio odio. Gli ho dato una pacca sulle spalle e ho detto: “Stai tranquillo… volevo solo che mi guardavi in faccia, fine”». Uno come Manlio Milani, che vide esplodere la giovane moglie nella strage di piazza della Loggia a Brescia (1974), sostiene che è utile ascoltare i colpevoli non certo per condividerne le ragioni, bensì «per comprendere quelle atrocità, e non restare chiusi nella logica del rancore e della rivalsa». Lina Evangelista, moglie di un poliziotto assassinato dai neofascisti dei Nar nel 1980, rivela: «Perdonare non significa dimenticare il passato, si ricorda tutto, ma in modo diverso»; e dopo aver incontrato gli assassini del marito confida: «I mostri si sono rivelati tutt’altro». Il libro dell’incontro nasce dalla decisione di condividere con il mondo esterno un’esperienza ricca e straordinaria, non tanto di «riconciliazione» quanto di «ricomposizione» delle fratture e dei dissidi che hanno seguito il conflitto di quaranta o trent’anni fa. Per continuare a scrivere una storia che non riguarda solo le vittime e i colpevoli, ma l’intera società. Senza più alibi per nessuno. «Mettere insieme le memorie significa poter chiedere apertamente allo Stato di rendersi più trasparente»; anche per tentare di arrivare a quei frammenti verità che ancora non ci sono.

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