perché non chiudere l’ex Sant’Ufficio?

 

riconciliarsi con i ‘repressi’ del postconcilio
chiudere il Sant’Uffizio

p. Ortensio da Spinetoli scrive al papa

Ortensio da Spinetoli

«Perché non pensare a un raduno dei “dispersi d’Israele”, cioè di quanti nella Chiesa hanno subìto incomprensioni, preclusioni, esclusioni, condanne, a motivo non di reati ma delle loro legittime convinzioni teologiche, bibliche o etiche”

così il  biblista p. Ortensio da Spinetoli scrive al papa dopo lunghi anni nei quali ha sperimentato sulla propria pelle la ‘persecuzione’ a motivo dell’insegnamento e della pubblicazione dei suoi studi biblici (qui sotto la presentazione che della lettera Adista ne fa):

 

La lettera l’aveva scritta circa due anni fa. Ma non avendo ad oggi ricevuto alcuna risposta, ha pensato di renderla pubblica, per il tramite della nostra testata, con l’obiettivo di rilanciarne i contenuti presso l’opinione pubblica laica e cattolica, oggi in particolare sintonia con il clima di dialogo e pluralismo che sembra caratterizzare l’attuale fase ecclesiale. Lui è Ortensio Da Spinetoli, classe 1925, prete cappuccino dal 1949, uno dei “grandi vecchi” della teologia conciliare e progressista. Esperto del Nuovo e Vecchio Testamento, ha dedicato gran parte della sua vita allo studio della Parola di Dio attraverso la mediazione della parola umana e all’approfondimento del Gesù storico. Non senza subire conseguenze per la sua ricerca libera ed il suo contributo innovativo all’esegesi delle Scritture: inquisito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (1974), non viene condannato ma viene comunque sollevato dall’insegnamento e limitato nei suoi interventi pubblici. Inizia così un quarantennio di silenziosa emarginazione da parte della Chiesa ufficiale, caratterizzato comunque da una intensa e feconda attività di ricerca (tra i suoi libri, vanno almeno segnalati Luca. Il Vangelo dei poveri, Assisi, Cittadella, 1982; Chiesa delle origini Chiesa del futuro, Roma, Borla 1986; La prepotenza delle religioni, Roma, Datanews, 1994; Gesù di Nazaret, Molfetta, La Meridiana, 2005; Bibbia parola di uomo, Molfetta, La Meridiana, 2009; Io credo, La Meridiana 2012).

La sua lettera, padre Ortensio l’aveva scritta a papa Francesco, poco dopo la sua elezione, chiedendo a lui quello che anche su Adista abbiamo recentemente – ma con voce assai meno autorevole – invocato: un gesto, un incontro, se non addirittura un atto di riconciliazione o una richiesta di perdono nei confronti di tutti quei preti, teologi, religiosi, laici, donne e uomini di fede che hanno a tutti i livelli subìto il clima autoritario e repressivo seguito agli anni del fermento post conciliare, specie sotto i pontificati di Wojtyla e Ratzinger (v. Adista Notizie n. 4/15).

«Caro papa Francesco – inizia così la missiva del religioso – è la seconda volta che mi indirizzo così in alto. Al tempo di Paolo VI fui esortato ad inviare una missiva “sul suo sacro tavolo” nella speranza di sottrarmi a un immotivato “atteggiamento persecutorio” da parte dei vescovi della regione, di due dicasteri vaticani e dell’Osservatore romano». Scrivo, chiarisce, perché intendo farle pervenire una proposta «in sintonia con il rinnovamento ecclesiale che sembra voler mettere in atto. Eccola»: «Perché non pensare a un raduno dei “dispersi d’Israele”, cioè di quanti nella Chiesa hanno subìto incomprensioni, preclusioni, esclusioni, condanne, a motivo non di reati ma delle loro legittime convinzioni teologiche, bibliche o etiche? Quante Lampeduse, non diciamo gulag, si possono riscontrare nella storia della Chiesa! Papa Benedetto, poco dopo la sua elezione, ha invitato nella sua villa estiva Hans Küng, ma quanti altri che pur ne avrebbero avuto diritto ne ha lasciati fuori? Non per un’assoluzione o promozione, ma per quel tanto di dignità e di rispetto loro dovuto e sempre negato».

Del resto, prosegue p. Ortensio, «la Chiesa è la patria di tutti, anche dei diversamente pensanti e perfino dei dissenzienti come avviene in qualsiasi società civile dove coesistono orientamenti contrapposti, persino ostili tra di loro senza che per questo vada a catafascio. La fede, che è comunione con Dio, è la stessa in tutti i credenti, mentre il modo di intenderla, che è teologia, non può essere che molteplice, a seconda dei luoghi, dei tempi, delle culture di coloro che l’accolgono; ancora più diversificati sono i modi di esternarla ossia di celebrarla (religione). Forse non si sa con certezza quello che Gesù “ha fatto e detto” (At 1,1) ma, vista la sua indole “mite ed umile” (Mt 11,29), la sua predicazione propositiva e non impositiva, il suo stile parenetico e non dommatico, i suoi temi preferiti quali l’accoglienza, la carità, l’amore, il perdono, nessuno può mai pensare che possa aver negato il suo riferimento, peggio abbia messo al bando chicchessia o abbia suggerito ai suoi di fare altrettanto con chi non era d’accordo con il suo e il loro insegnamento. Anzi, sembra che abbia fatto il contrario. “Lasciatelo stare” aveva risposto a chi gli aveva riferito di aver messo a tacere uno che si avvaleva del suo nome senza essere del suo gruppo (cfr. Lc 9,50). L’esclusivismo ha preso avvio con protagonisti della Chiesa nascente, a cominciare da Paolo che da buon giudeo imprigiona i discepoli di Gesù Nazareno (At 8,3) e da convertito fa espellere dalla comunità di Corinto un povero peccatore (1Cr 5,3). È lo stesso atteggiamento che si ritrova nella comunità di Matteo, in cui la presenza degli erranti per un certo tempo è tollerata ma poi segue l’espulsione (18,17). Ormai nell’unica Chiesa di Cristo si è instaurato un regime di preclusioni ed esclusioni che coinvolge presbiteri (Giovanni, Gaio, Demetrio) e pastori (Diotrefe, Timoteo, Tito e gli anonimi di Ap 2-3) (cfr. Lettere pastorali e cattoliche) e si allargherà irrigidendosi sempre più nel tempo fino ai nostri giorni».

«Il pluralismo di qualsiasi forma – prosegue p. Ortensio – non è una iattura bensì una ricchezza perché fa ridondare su tutti i carismi, le donazioni accordate a ciascuno. Quante energie sono andate perdute perché i supermen di turno hanno impedito ad altri di esprimersi. Papa Giovanni, veramente saggio oltre che santo, ripeteva che la Chiesa è un giardino tanto più bello quanto più ricco di molteplicità e varietà di fiori. È un campo in cui si ritrova ogni genere di piante, persino quelle che i profani dicono tossiche perché non ne conoscono le proprietà. Persino “i triboli e le spine” che stanno a ingombrare il terreno hanno la loro funzione che è quella di tenere sveglie le menti delle creature intelligenti. L’accettazione del pluralismo non significa che tutte le teorie o dottrine siano uguali o, peggio, tutte giuste e vere, ma che tutte hanno eguale diritto di libera circolazione nell’alveo comunitario, proprio secondo i dettami del Vaticano II che ha riconosciuto per la prima volta anche al cristiano “la libertà di coscienza”, cioè la facoltà di parlare del proprio credo secondo le sue conoscenze e competenze. Non si tratta di avallare un sincretismo religioso ma di rispettare le donazioni che ognuno ha ricevuto da Dio».

Se questo raduno dovesse aver luogo, scrive Ortensio da Spinetoli, «sarebbe un evento inatteso ma veramente profetico, sarebbe la sconfessione di un passato infelice, antievangelico, dittatoriale». Inoltre, «sarebbe straordinario se l’auspicato “raduno” potesse coincidere con la chiusura definitiva del supremo tribunale o ex Sant’uffizio, perché troppo in contrasto con il messaggio centrale del Vangelo, imperniato sulla carità e sul perdono prima che sulla giustizia, tanto meno quella punitiva che è propria dei regimi totalitari. Il Concilio l’aveva pensato e proposto, ma ciò nonostante è rimasto con tutto il suo rigore».

«Le auguro ogni bene e pregherò il Signore per lei e per la riuscita della sua missione; lei voglia avere un pensiero per me e per tutti noi. Frate Ortensio da Spinetoli». (valerio gigante)

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Pinocchio spiega la quaresima

 

che cosa è la quaresima spiegata da Pinocchio

abbandonare il Tonno che c’è in noi per cercare una soluzione al buio. Per farci desiderare il lume là in fondo
pinocchio geppetto quaresima
 

 

ma che cos’ è questa quaresima? proviamo a dirlo con le parole del libro di Pinocchio:
Tutti sanno che il burattino finisce nella pancia del pesce-cane (non della balena, del pesce-cane). Dentro c’è un buio pesto. Pinocchio si mette a urlare:

– Aiuto! Aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi?

A questo grido qualcuno risponde:

– Chi vuoi che ti salvi, disgraziato?… – disse in quel buio una vociaccia fessa di chitarra scordata.

Il padrone della voce è un tonno, che chiede al nuovo arrivato di identificarsi in quanto pesce. E quando Pinocchio gli risponde di non essere affatto un pesce, l’altro gli domanda perché mai allora si sia fatto inghiottire. La risposta è molto pinocchiesca:

– Non son io, che mi son fatto inghiottire: gli è lui che mi ha inghiottito! Ed ora che cosa dobbiamo fare qui al buio? …

Pinocchio ha ragione: il passato non conta: è il presente che chiede una soluzione. La sua domanda è la stessa che dà il titolo ad un famoso libro di Lenin all’inizio della Rivoluzione: “Che fare?”. Sottotitolo: Problemi scottanti del nostro movimento. Anche il buio nel ventre del pesce-cane è un problema scottante: “che fare?” che fare ora? La risposta è di quelle da far cadere le braccia:

– Rassegnarsi e aspettare che il Pesce-cane ci abbia digeriti tutt’e due.

Il seguito del dialogo segna la distanza ideologica tra i due inghiottiti. L’uno, l’eroe del libro, non può tollerare l’idea di una fine ingloriosa dei suoi giorni. Non è fatto per il buio, lui. L’altro è la figura simbolica del cinismo e della rassegnazione – della disperazione tamponata, stabilizzata, avrebbe detto qualcuno – tipiche della società borghese di fine Ottocento. E non solo.

– Ma io non voglio digerito! – urlò Pinocchio, ricominciando a piangere.
– Neppure io vorrei essere digerito, – soggiunse il Tonno, – ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando a che, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!…
– Scioccherie! – gridò Pinocchio.
– La mia è un’opinione, – replicò il Tonno, – e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate.
– Insomma… io voglio andarmene di qui… io voglio fuggire”.
– Fuggi se ti riesce.

Il dilemma è appunto questo: c’è o non c’è alternativa al buio dell’esistenza, al volere cieco della sorte che divora ogni cosa? La Quaresima si situa esattamente al centro di questo dilemma: da una parte il desiderio e la speranza di ritrovare la luce, dall’altra il convincimento “filosofico” che alla morte non esiste alternativa se non illusoria.
Ed è a questo punto che Collodi ci spiega in cosa consistono i giorni che ci aspettano dopo le ceneri. Pinocchio, infatti, decide di lasciare il tonno al suo pessimismo e si muove, brancolando, camminando

a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un passo dopo l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.
E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto, che gli pareva di essere a mezza quaresima.

L’odore di mezza quaresima, l’odore di pesce fritto, non ci appartiene più. Se n’è andato con quello del pane appena sfornato nei paesi, che segnalava la sera del sabato. Prima della loro scomparsa il tempo di Quaresima era tempo di magro, nel senso che si mangiava pesce, non carne, e al venerdì si faceva digiuno. La precisazione “mezza quaresima” è di un realismo nitidissimo perché l’odore non si spandeva subito per le strade: ci voleva un paio di settimane perché l’aria ne fosse impregnata. E quando si era giunti a quel punto si cominciava a veder più vicina la Pasqua, ossia si cominciava a vedere più chiaro: il lumicino in fondo al buio. Il definitivo trionfo della luce. E infatti, proseguendo verso quella luce sempre più distinta, il burattino

trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.

Pinocchio, alla fine del buio, ritrova suo padre. Quel tavolo assomiglia troppo a un altare perché si possa pensare che non rappresenti la Pasqua, l’annuncio di una possibile – forse certa – resurrezione. E infatti

A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un’ette che non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò ad urlare:

La Quaresima è il tempo che è dato a ciascuno di noi per preparare il nostro fisico – compreso il cuore e il cervello – a godere di un’allegrezza che non potrebbe essere “così grande e così inaspettata” (così illogica, avrebbe detto Gaber) se non avessimo mai sperimentato, nel buio dell’esistenza, la tremenda imminenza della morte. Come il figlio che, chiesta la sua parte di eredità e abbandonata la casa paterna, aveva deciso di farvi ritorno solo dopo aver conosciuto la tragedia del vivere soli e senza padre, così per Pinocchio, fuggito di casa in cerca di libertà, il ventre nero della vita che ci inghiotte diventa il luogo in cui più grande e più inattesa si presenta la salvezza:

– Oh babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!
– Dunque gli occhi mi dicono il vero? – replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi, – dunque tu se’ proprio il mi’ caro Pinocchio?
– Sì, sì, sono io, proprio! E voi mi avete digià perdonato, non è vero? Oh! babbino mio, come siete buono!…

Babbino, babbino, mi avete già perdonato, vero? La Quaresima è il tempo dell’esperienza del digiuno e del buio. Che bisogno c’è di proporla agli uomini, vien da domandare.

La prima delle 101 storie Zen – i buddisti non conoscono la quaresima, ma non importa – racconta di un professore che si presentò ad un monaco chiedendo che gli insegnasse lo zen.

Nan-in, il monaco, servì il tè, continuando a versarlo fino a quando il professore, vedendo traboccare il liquido dalla tazza, gli fece cenno di fermarsi: «È ricolma. Non ce n’entra più!»

«Come questa tazza,» disse Nan-in «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?».

Il professore, con le sue opinioni e le sue congetture, è la versione buddista del Tonno. I grandi maestri sanno da sempre che avere la tazza piena delle nostre disperate sicurezze può indurci – nel migliore dei casi – a ritenere un vantaggio finire sott’acqua invece che sott’olio.

Meglio, dunque, rifare l’esperienza del vuoto che ci consentirà di gridare di nuovo, dal profondo del buio: «Aiuto! Aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi?»

A questo appunto serve la Quaresima: a farci decidere di abbandonare il Tonno che c’è in noi per cercare una soluzione al buio. Per farci desiderare il lume là in fondo e gridare con tutto il nostro cuore, più di quanto non abbiamo mai fatto: «O Dio vieni a salvarmi. Signore vieni presto in mio aiuto».

QUI L’ORIGINALE

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non è vero che noi, di fronte alla crudeltà e violenza dello Stato Islamico, non possiamo farci nulla!

 

isis“tanto… non ci posso fare niente!”??

di Renato Sacco (coordinatore nazionale di Pax Christi)

“E io? E noi? Cosa possiamo fare? Niente!”. Davanti alle atrocità, uccisioni e violenze anche di questi giorni in Siria, Iraq, Libia, Ucraina… ci si sente impotenti. Ma non è vero che non possiamo fare niente!
Possiamo non essere complici della vendita di armi!

 

Oltre alla preghiera, al digiuno e alla carità, in questa quaresima possiamo:

–       Accogliere e tradurre in scelte concrete l’appello di mons Warduni, amico da tanto tempo, vescovo di Baghdad, (intervista ad Avvenire del 24 febbraio scorso): “Purtroppo quanto sta accadendo in Siria, nei villaggi cristiani assiri nella regione del Khabour non mi sorprende. Tutto il mondo sa chi è l’Is, lo Stato islamico, che compie cose orribili, impensabili, contro la giustizia e l’umanità. Allora chiedo: dov’è la comunità internazionale?”… “Quanto accade è perché – continua – Usa e Europa continuano ad armare questi barbari. Basta vendere armi a questi terroristi. È il modo migliore per disinnescare la violenza e sconfiggerli. Basta con il commercio di armi. Occupiamoci dell’emergenza umanitaria e dei milioni di persone che hanno perso tutto”.

–       Accogliere e tradurre in scelte concrete le parole di papa Francesco a S. Marta, lo scorso 17 febbraio: “Abbiamo questa possibilità di distruzione, questo è il problema. Poi, nelle guerre, nel traffico delle armi… ‘Ma, siamo imprenditori!’ Sì, di che? Di morte? E ci sono i Paesi che vendono le armi a questo, che è in guerra con questo, e le vendono anche a questo, perché così continui la guerra”.

–       La Quaresima – si legge nel comunicato (www.banchearmate.it) – “è fin dalle sue origini tempo di revisione della propria esistenza e di conversione dei cuori. Un tempo propizio, dunque, anche per ripensare alle proprie scelte, sia individuali che comunitarie, in campo economico a cominciare dalla scelta della banca in cui teniamo i nostri risparmi”.

Pax Christi, che fin dagli inizi nel 2000 ha promosso la Campagna di pressione alle ‘banche armate’ con la rivista Mosaico di Pace  insieme a Nigrizia e Missione Oggi, rilancia l’appello in occasione della Quaresima: «Chiediamo alle diocesi, alle parrocchie, alle comunità religiose e ai singoli credenti, e anche i non credenti, di accogliere il nostro invito a verificare se la banca di cui si servono ha emanato direttive sufficienti per un’effettiva limitazione delle operazioni di finanziamento e d’appoggio alle esportazioni di armi».

Sui siti www.banchearmate.it, www.paxchristi.it, www.mosaicodipace.it è possibile trovare tutte le informazioni e anche il fac-simile della lettera da spedire alla propria banca. Inoltre, è in distribuzione anche un depliant che riassume bene e in modo documentato tutta la questione del coinvolgimento delle banche nell’export di armi.

Quindi ognuno, personalmente o con la propria comunità può fare qualcosa che va proprio a toccare i meccanismi profondi della guerra: scrivere alla propria banca. Sono gesti magari piccoli ma importanti.

Come la firma per una Difesa civile non armata e nonviolenta: www.difesacivilenonviolenta.org. Come la pressione perché anche L’Italia riconosca lo Stato di Palestina e il ricordare anche con momenti di preghiera, il 1° marzo, l’anniversario dell’inizio della costruzione del muro: www.bocchescucite.org.

Come il viaggio che il Presidente di Pax Christi, mons. Giovanni Ricchiuti, farà a Gaza nei primi giorni della prossima settimana.

Gesti concreti per vivere la Quaresima, per non assuefarsi alla’ globalizzazione dell’indifferenza’.

Buona Quaresima!

Firenze, 26 febbraio 2015

d. Renato Sacco 

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il prete nella testa di papa Francesco: tutto un altro modello rispetto a quello sacralizzato della tradizione

 

 

 

Il prete di papa Francesco

L’IMMAGINE DEL PRESBITERO NELL’ESORTAZIONE APOSTOLICA “evangelii gaudium”

abbracio papale

una accurata descrizione di Armando Matteo  (in rivista ‘Settimana’ del 1 febbraio 2015 n. 5)

Emerge la figura di un presbitero che accetta, senza troppe nostalgie, i cambiamenti sociali ed ecclesiali; che non teme la creatività; che facilita il cammino della grazia; che vive la “mistica della comunità”; che custodisce la prossimità con i poveri e con le periferie; che sa dare anche fastidio. E questo perché ferito dallo sguardo d’amore di Gesù.

Quale immagine di prete emerge dall’Evangelii gaudium? Qual è, cioè, “il prete che serve” in quest’ora della Chiesa e del mondo secondo papa Francesco? Qual è il servizio più importante che il prete possa realizzare perché il compito missionario dell’annuncio della gioia del Vangelo possa essere svolto con maggiore lena e slancio? Proviamo a rispondere a questi interrogativi attraverso una lettura trasversale dell’esortazione papale, considerando non solo i riferimenti diretti al ministero sacerdotale, ma, più in generale, le attese che il papa nutre nei confronti di tutti i credenti; fino a prova contraria, del resto, i preti sono – si sforzano d’essere – anche loro dei credenti.

Il prete che serve è un prete che sa fare il lutto con la cristianità

Bisogna partire dalla constatazione che la nostra non è un’epoca di cambiamento ma un cambiamento d’epoca. L’EG ricorda, al riguardo, il cambiamento apportato dai nuovi mezzi di comunicazione, il cambiamento dell’economia e della finanza, della medicina, delle nuove tecnologie, delle nuove geografie umane e, in particolare, le nuove geografie urbane, il cambiamento dell’autocoscienza e del ruolo delle donne nella società (52, 71-75, 103-104); ricorda ancora l’impatto della secolarizzazione (64). Prendere atto di tutto questo è davvero essenziale per i preti. Si tratta, cioè, di prendere coscienza che quell’unità di cultura e quella cultura di unità, vigente in Occidente sino alla rivoluzione culturale del Sessantotto, non c’è più. Non solo: si tratta pure di capire che non c’è quasi più alcun riferimento e alcuna osmosi vivente tra le istruzioni per vivere e quelle per credere.

Per provare ora a meglio visualizzare un tale cambiamento, si faccia mente al fatto che noi diventiamo umani e cittadini di un dato tempo, facendo nostro il linguaggio umano in generale e, più specificatamente, il linguaggio di quel dato contesto storico e culturale, che tradisce e indica un ordine delle cose del mondo e del mondo delle cose. Ebbene, negli ultimi centocinquant’anni, abbiamo assistito ad un mutamento delle parole e del loro ordine, e dunque all’eclissi di alcune e all’emergere di altre. Sino agli anni 80 del secolo scorso, le parole decisive della vita umana erano eternità, paradiso, verità, natura, legge naturale, fissità, maturità, adultità, mortalità, spirito, mascolinità, sobrietà, sacrificio, rinuncia, autorità, diritto, tradizione. Oggi, al centro del nostro essere abitanti di questo tempo e di questo spazio culturale, si trovano le parole finitezza, alterità, pluralismo, tolleranza, sentimento, tecnica, salute, cambiamento, aggiornamento, corporeità, donna, consumo, benessere, giovinezza, longevità, singolarità, sessualità, democrazia, convinzione, comunicazione, partecipazione.

Esattamente questo provoca la rottura della cristianità, cioè di quella unità tra cultura e fede, tra esistenza e preghiera, tra quotidiano e santo, che, non senza qualche ombra come è naturale che sia, ha molto favorito il lavoro della Chiesa e del clero in particolare: in casa, a scuola, per la strada i codici linguistici – umano e credente – passavano facilmente da una parte all’altra. Ciò non è più dato. Assistiamo, perciò, ad un divenire estraneo del cristianesimo nelle nuove generazioni, che pur frequentano per non poco tempo i luoghi ecclesiali.

L’EG invita ad accettare tutto ciò senza risentimenti, senza cadere in depressione. Certamente, come credenti, si è più poveri, meno sostenuti dall’ambiente culturale, dalla lingua e dalla sensibilità diffuse, ma, se non si compie il lutto con tutto ciò, il rischio è la chiusura, l’introversione, l’autocommiseramento, il ridursi ad essere «generali di eserciti sconfitti» piuttosto che «semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere» (96). Senza il lutto con la cristianità, si lascia spazio alla «psicologia della tomba» (83), alla nostalgia verso «strutture e abitudini che non sono più apportatrici di vita nel mondo attuale» (108). A differenza di tutto ciò, invece…

Il prete che serve è un prete che non teme la creatività e l’immaginazione

 Sono davvero numerosi i passaggi che l’esortazione apostolica dedica a questo tema: la parola creatività ritorna così diverse volte (11, 28, 134, 145, 156, 278) come l’invito ad immaginare percorsi nuovi e proposte innovative. In verità, tanti gesti di fede che vengono con magnanimità proposti all’interno delle comunità cristiane non funzionano più o almeno non funzionano più bene come sarebbe giusto attendersi. Basterebbe pensare ai percorsi di iniziazione cristiana o all’impegno per la pastorale giovanile e su questo l’EG non teme di dire che, nell’uno e nell’altro caso, siamo in una sorta di anno zero (70 e 105). Ed è proprio per questo che l’esortazione sollecita, invita a non temere di cambiare. Dando vita pure ad un curioso neologismo: “primerear = prendere l’iniziativa” (24).

Due passaggi del documento papale meritano qui maggiore attenzione. Il primo, al numero 73, dove, ricordando i grandi cambiamenti avvenuti nelle città, che generano nuove culture, l’EG richiede di «immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane». Del passaggio ora citato faccio risaltare il riferimento pregnante alla preghiera: non è più dato ai preti di disinteressarsi dell’attitudine, della qualità e della quantità di preghiera di chi crede, non solo di chi non crede!

L’altro passaggio è la bella difesa che l’EG fa della parrocchia, ma con l’indicazione che essa necessita della docilità e della creatività missionaria del pastore e della comunità: la parrocchia è dotata – si legge al numero 28 – di «grande plasticità» e «può assumere forme molto diverse».

Un tale invito alla creatività e all’immaginazione, al primerear – è naturale – può lasciare i preti in parte sorpresi e impauriti per eventuali effetti non preventivamente calcolabili. Ma è la situazione che lo richiede in quanto chi non muta quando tutto muta alla fine resta semplicemente muto.

Il prete che serve è un prete che facilita la grazia

Qui è d’obbligo citare per intero un passaggio dell’EG: «Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (47). Il tono potrebbe suonare duro, specie per i

preti, ma queste sono le cose che stanno tanto a cuore a papa Francesco. Ma come possono facilitare, i preti, l’azione della grazia?

L’EG richiama la necessità di una Chiesa dalle porte aperte e il testo suggerisce di intendere la cosa sia in senso materiale che spirituale, la questione della pratica dei sacramenti (47), l’uso del confessionale, da parte del clero, non come «una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile» (44).

La mia esperienza dei parroci italiani mi dice che su questo, in verità, stiamo messi bene: la gente vuole in generale loro bene proprio per quel senso di grande accoglienza che sanno esprimere e per quell’attenzione verso la singolarità delle situazioni di vita che raramente loro manca.

Un tasto più dolente riguarda, invece, un altro ambito che – secondo me – rientra in questa azione dei preti di facilitare l’azione della grazia. Si tratta dell’impegno a mettere più Bibbia nella vita della comunità cristiana (174-175). Senza un tale contatto con la Parola, vissuta e celebrata, difficilmente verranno alla luce credenti capaci «di un’autentica testimonianza evangelica nella vita quotidiana». Su questo forse qualche domanda il clero deve porsela: facilitare l’azione della grazia non significa pure interessarsi della “dieta spirituale” dei propri fedeli? Li si abitua, per esempio, a leggere e a pregare il Vangelo? Si fa di tutto per far sorgere in loro il gusto della Parola?

Ed è in questo contesto che collocherei la questione dell’omelia: suo compito è quello di facilitare quella grazia speciale connessa al dialogo d’amore tra il popolo di Dio e Dio stesso e che, proprio per questa sua intrinseca verità e funzione, deve stare tanto a cuore ai preti.

Il prete che serve è un prete che vive la “mistica della comunità”

L’espressione mistica della comunità non si trova letteralmente in EG, ma il suo contenuto vi è senz’altro. Lo ravviso dove si dice che «oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (87, si veda pure il n. 272).

Al centro dell’azione pastorale di ogni prete si dovrebbe collocare, dunque, la cura della comunità, che potremmo dire l’impegno generoso affinché cresca la coscienza e la vita di una comunità in quanto comunità, in quanto popolo di Dio; affinché cresca una comunità caratterizzata «da una vita fraterna e fervorosa» (107). Questo è decisivo: per EG il contrario della gioia del vangelo è l’individualismo triste, promosso dal consumismo e dalle logiche del mercato. Ebbene, quale potrebbe essere l’antidoto contro l’individualismo se non una tale mistica della comunità? Non ci deve assolutamente sfuggire questo binomio essenziale tra gioia e comunità.

Certo, creare comunità è una cosa davvero difficile, oggi soprattutto. Ci sono difficoltà intrinseche connesse al dinamismo quanto mai delicato proprio del fare ed essere comunità o fraternità, ci sono difficoltà d’ambiente, ci sono poi specifiche questioni ecclesiali. Il papa enumera: il rapporto laici-clero (102), il rapporto gestione del potere ecclesiastico-donne (103 e seguenti), il rapporto adulti-giovani (105), la questione della pietà popolare (122), il rapporto tra le parrocchie e i movimenti (29). Sono tante sfide e tanti capitoli aperti rispetto all’urgenza della creazione di comunità, di sviluppo del sentimento e della realtà di popolo di Dio; e, detto sinceramente, in tutte queste questioni l’apporto di preti è decisivo.

Eppure mistica della comunità significa credere sul serio sulla forza sanante, liberante e di testimonianza della comunità: si dovrebbe scommettere di più su questo. Una Chiesa in uscita missionaria ha bisogno di più “comunità” e il punto di partenza della Chiesa italiana è quello di avere troppe parrocchie e forse poche comunità.

Il prete che serve è un prete che custodisce la prossimità con i poveri e con le periferie

Le parole che EG dedica alla necessità di stare vicino, accanto e dalla parte dei poveri sono di una chiarezza incredibile. Papa Francesco ricorda che tale attenzione non è un pallino suo o di qualche altro pastore o teologo: è Vangelo in presa diretta, è lo stile di Gesù, è costante tradizione della Chiesa. Anche su questo punto, la mia esperienza dei parroci italiani mi conferma che siamo in grande sintonia con il pontefice. In verità, esiste tutta una tradizione e un modello di parroco vicino alla gente e vicino in modo particolare ai poveri che in Italia è stato ed è assai fecondo.

Qualcosa di simile sento di poterla affermare anche per il tema tanto caro a papa Francesco delle periferie. Come è noto, è proprio questo il terminus ad quem che deve caratterizzare l’uscita missionaria della Chiesa odierna (20, 30). Una tale sensibilità per le periferie, per la marginalità, per gli esclusi, per gli invisibili, a molti livelli e in differenti modi, ha sempre marcato in verità l’esercizio del ministero dei preti italiani. Penso all’impegno per i giovani, per coloro che soffrono la dipendenza dalla droga, per gli immigrati, contro la prostituzione, contro la criminalità organizzata, per la pace, contro le ludopatie… Insomma, i parroci italiani sul serio hanno l’odore delle pecore.

In ogni caso, l’accorato accento con cui EG raccomanda tale prossimità ai poveri e a coloro che vivono nelle periferie esistenziali si collega pure con la costante stigmatizzazione, operata dalla stessa esortazione, della cosiddetta «mondanità spirituale» (93 e ss), la quale ultimamente consiste nel cercare, pur «dentro le apparenze di religiosità e persino di un amore alla Chiesa», non più la gloria del Signore, ma la gloria umana e il proprio benessere.

Il prete che serve è un prete che sa dare anche fastidio

Al n. 203 di EG si constata realisticamente che, a volte, il discorso cristiano sulla dignità di ogni persona e sulle conseguenze che essa impone al comportamento di tutti spesso suona fastidioso: «Dà fastidio che si parli di etica, dà fastidio che si parli di solidarietà mondiale, dà fastidio che si parli di distribuzione dei beni, dà fastidio che si parli di difendere i posti di lavoro, dà fastidio che si parli della dignità dei deboli, dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia».

L’ordine mondiale nel quale viviamo nutre, invece, un sentimento generalizzato di indifferenza e costantemente sollecita la passione tristemente individualista del narcisismo: per esso l’essenziale è che crescano consumatori avidi e mai compiutamente soddisfatti, sempre pronti a cadere nella rete delle illusioni immesse nel mercato e opportunamente pubblicizzate come l’autentico Vangelo della gioia. Senza tenere minimamente conto degli effetti distruttivi che tutto ciò opera sulla dignità umana di chi non ce la fa, degli esclusi, degli “scarti”.

Tale meccanismo, francamente, non produce nemmeno la felicità o la gioia promessa in coloro che vi aderiscono perfettamente: la nostra è l’epoca di una tristezza infinita (265).

Si richiede pertanto uno scatto, una parola di risveglio, un moto di risorgimento rispetto a questo scenario per nulla edificante. Le parole di EG sono talmente nette al riguardo che papa Francesco avverte il bisogno di chiarire che la sua non è la parola «di un nemico né di un oppositore». A lui interessa unicamente «fare in modo che quelli che sono schiavi di una mentalità individualistica, indifferente ed egoista, possano liberarsi da quelle indegne catene e raggiungano uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più fecondo, che dia dignità al loro passaggio su questa terra» (208).

Anche i preti, soprattutto i preti, sono chiamati ad inserirsi in questo difficile ministero di liberazione dei loro fratelli e delle loro sorelle (quando non anche di loro stessi) dalla mentalità dominante del successo, del godimento, della difesa del proprio interesse privato, dell’esclusione dei più deboli e dei meno dotati, che sta davvero producendo un’autentica desertificazione dell’umano, con ricadute negative praticamente su tutti.

Qui tocchiamo il punto più alto dell’evangelizzazione: il Vangelo è fonte di gioia in quanto è fonte di umanizzazione. Ci apre all’amore e ci libera da ogni chiusura egoistica che reca del male non solo agli altri ma anche a noi stessi. Il Vangelo ci libera da quel possibile male che possiamo fare a noi stessi, oltre che agli altri! E torna pure il tema della comunità e della comunione: la gioia è legata appunto all’esperienza di umanizzazione promessa e permessa dal Vangelo che ci libera dall’individualismo e ci libera per gli altri.

Certamente, tutto questo può apparire difficile e al limite delle nostre possibilità ed è per questo che al centro dell’immagine di prete che emerge dal cuore di papa Francesco si trova l’idea che…

Il prete che serve è un prete ferito dallo sguardo d’amore di Gesù

Senza un autentico incontro con il Signore Gesù, con il suo amore, con la sua misericordia per i nostri peccati, con il dono della sua salvezza, la missione dei cristiani, e quella dei preti in particolare, non avrebbe sufficienti garanzie di successo né di durata. Qui si trova il cuore della spiritualità di papa Francesco. Per questo è necessario per tutti lasciarsi affascinare da Gesù, lasciare che egli ponga il suo sguardo su di noi, che egli ci contempli, che egli tocchi la nostra vita e «ci lanci a comunicare la sua nuova vita!» (264).

Senza il legame di amicizia con Gesù, che si traduce concretamente nello stare davanti ai suoi occhi in contemplazione e nel continuamente meditare le sue parole e i suoi gesti, raccolti nel santo Vangelo, manca quell’entusiasmo, quella forza, che è il principio vero della comunicazione della fede: la Chiesa non cresce per proselitismo ma per «attrazione» (14, citando Benedetto XVI).

Qui, e solo qui, possiamo davvero realizzare la convinzione che chi segue Gesù diventa più uomo, perché nessuno è stato così umano come Gesù, e proprio qui possiamo trovare la forza per rinnovare la passione missionaria dei credenti e dei preti: attratti da Gesù, dal suo amore di misericordia, dalla carica di umanizzazione che ha il suo Vangelo, attraiamo a nostra volta verso Gesù, offrendo una comunità concreta in cui vivere in pienezza la nostra umana dignità.

Armando Matteo

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