Fiorello, un ‘normale’ sinto di Lucca

 

Storia di Fiorello, un rom “normale”

 

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Il primo appuntamento telefonico va a vuoto. Fiorello, o il signor Lebbiati, mi risponde dallo scooter dicendo che deve correre a casa, è in ritardo per il pranzo e non vuole «prendersi un cicchetto» (rimprovero, in toscano) dalla compagna. Ci risentiamo la sera stessa, da una casa famiglia per donne in difficoltà di Lucca. Lavora lì, sta facendo la notte. Fiorello Lebbiati, italiano di 33 anni, vive e lavora tra Lucca e Capannori, ha una figlia di undici anni, si è sposato, divorziato e ora convive con la nuova compagna in una casa in affitto che sogna prima o poi di acquistare. Cosa c’è di “strano”? La madre di Fiorello è una rom italiana, il padre è figlio di un sinto lombardo e di una sinta piemontese. Italiani da secoli.

Nella storia della sua famiglia, non mancano le tracce della discriminazione: il nonno materno (di origine montenegrina), intagliatore di rame, è uno dei sopravvissuti ai campi italiani di concentramento per “zingari” della Seconda guerra mondiale (Prignano, Tossiccia, Boiano, Gonars e altri, tutti dimenticati), mentre negli anni Sessanta il padre ha frequentato a Lucca le scuole speciali per soli “nomadi”, quando la pedagogia teorizzava che i bambini rom e sinti dovessero studiare in aule separate. Fiorello nacque nel 1982 a Fucecchio, il paese di Indro Montanelli, e ha pure un secondo nome: Miguel, dalla passione della mamma per Miguel Bosè. Allora la famiglia girava con la roulotte tra le provincie toscane. Il padre lavorava un po’ in nero, la madre vendeva canovacci, centrini e fiori come ambulante.

Racconta: «Non so quante scuole ho dovuto cambiare; facevo amicizia con i nuovi compagni, tornavo a casa e, dopo pranzo, ci mandavano via». Si ricorda ancora di un appuntamento dato un pomeriggio ad alcuni suoi amici: «Al parco, per mostrare una nuova mossa di arti marziali, di cui ero un campione. Non ci potei andare perché arrivò la polizia per allontanarci». Eppure, oltre a prendere la terza media, cambiare scuola volle anche dire avere tanti amici in giro per la Lucchesia: «Conosco mezza Lucca», riassume. Più avanti, Fiorello ha fatto la scuola serale e dei brevi corsi di economia, di animazione e di gestione gruppi. Ora ha tre lavori: operatore in Caritas, dove coordina un progetto sul recupero del cibo avanzato nelle mense scolastiche, educatore nei laboratori di falegnameria e arti istintive in una scuola media e collaboratore dell’Associazione 21 luglio di Roma.

Ce ne sarebbe anche un quarto – «Ho appena fatto una comparsa in Zoolander II di Ben Stiller» – ma non può svelare per quale parte. Con la sua compagna (gagia, come sono chiamati i non rom), medico podologo, vivono in una casa alle porte di Lucca: «Abbiamo voluto che avesse il giardino, per coltivare l’orto e – Fiorello fa pure lo scultore – modellare il marmo». I genitori, invece, abitano nella casa popolare ottenuta negli anni Novanta. Fiorello si definisce un attivista, «colui che attiva il mondo intorno a sé». «Da un lato – spiega – occorre far crescere la consapevolezza dei propri diritti ai rom e sinti; dall’altro si sa pochissimo del mio popolo, solo immagini negative. Vorrei offrire una chance di conoscenza ai non rom, anche a chi poi sceglierà di odiarci. Io stesso, se avessi come unica immagine dei rom quella della metro di Roma, non ne penserei bene».

Insieme ad altri attivisti, Fiorello ha scritto una lettera ai media; tra i firmatari, ci sono Sead che lavora e fa il rappresentante sindacale a Rovigo, Ivana che sta per finire Scienze della Formazione all’Università di Torino, Dolores di Melfi che sta conseguendo la seconda laurea… Chiedono di raccontare la realtà nella sua complessità, quella di un Paese dove i rom e sinti sono pochi (lo 0,23%), la metà italiani, tutti non più nomadi, più della metà ragazzini (il 40% in età scolare) e dove solo 40mila su 200mila vivono in situazioni di disagio abitativo, che siano baracche, container, centri d’accoglienza o edifici fatiscenti occupati. La maggior parte, invece, non vive nei campi, ma nelle case, affrontando i problemi quotidiani come tutti.

Solo nella “sua” Lucca, Fiorello cita il ragazzo rom che sta laureandosi come infermiere, il sinto che ha aperto una paninoteca, quello che sta finendo di pagare il mutuo… Nella lettera, hanno spiegato di aver paura. Non per sé, ma per l’Italia. «La paura – scrivono – è che tante persone per bene gradualmente assimilino l’odio, a causa dei messaggi negativi diffusi dai media. Anche noi, mettendoci nei panni di chi non sa niente del nostro antichissimo popolo, inizieremmo a crederci e a non voler più rom e sinti nella nostra Italia. E se fossimo bambini, che cosa impareremmo? Sicuramente, con un germoglio di odio nel cuore così potente e annaffiato bene tutti i giorni, da grandi non solo li odieremmo, ma saremo pronti a ucciderli, non per cattiveria, ma per difenderci e per difendere la “Nostra” Italia dai cattivi e sporchi rom e sinti».


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la sinistra che disprezza i poveri

 

 

 

 

“cara sinistra, basta disprezzare i poveri”

un intellettuale francese scrive un saggio durissimo contro i partiti che si sono dimenticati il popolo

 a Parigi è diventato un caso, ma potrebbe essere molto utile anche nel dibattito politico italiano

di Alessandro Gilioli

 Jack Dion, intellettuale e giornalista francese  ha da poco mandato in libreria il suo ultimo saggio , “Le mépris du Peuple” (il disprezzo del popolo; sottotitolo: “come l’oligarchia ha preso la società in ostaggio”):
Cara sinistra, basta disprezzare i poveri

Nel 1974 il cancelliere tedesco Helmut Schmidt, socialista, diceva che i profitti di oggi avrebbero costituito gli investimenti di domani e i posti di lavoro di dopodomani. Forse all’epoca poteva essere vero. Nel 2015 invece i profitti di oggi costituiscono solo i dividendi di domani e la disoccupazione di dopodomani.

Peccato che la sinistra, in Europa, non se ne sia accorta. E, non essendosene accorta, crede ancora in questo mercato, pensando che sia uguale a quello di quarant’anni fa come strumento di emancipazione dalla povertà e dalla subalternità sociale. Quando invece è diventato mezzo di concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi. Un fenomeno più evidente nel paese in cui è iniziato, cioè gli Stati Uniti: dove da sei anni il 95 per cento della crescita viene confiscato dall’uno per cento di popolazione più ricca. Ma la stessa dinamica è presente ovunque, in Occidente: compresi gli Stati che avevano storicamente strumenti di welfare e di redistribuzione, gradualmente smantellati con le varie leggi sulla “flessibilità” e le privatizzazioni.

Le accuse qui sopra sono di Jack Dion, intellettuale e giornalista francese che ha da poco mandato in libreria il suo ultimo saggio , “Le mépris du Peuple” (il disprezzo del popolo; sottotitolo: “come l’oligarchia ha preso la società in ostaggio”) che per una decina di euro si può comprare anche su Amazon in versione digitale.

È un libro che in Francia sta facendo parecchio discutere – specie dopo il recente crollo dei socialisti – e che anche in Italia potrebbe costituire utilissima lettura specie a chi parla di sinistra, ma non solo. Anzi: pur proveniente senza dubbio dalla tradizione della sinistra francese, Dion mette metaforicamente mano alla pistola quando sente questa parola, ormai diventata la foglia di fico (anche lì) per nascondere le più mercatiste e liberiste delle politiche e – soprattutto – per celare appunto il disprezzo per il popolo, verso le persone che stanno in basso nella società.

«Quando i partiti che si succedono al potere si trasformano in strumenti di difesa dell’ordine stabilito, il popolo diventa un nemico, simboleggia un pericolo potenziale», dice Dion. Che conia il termine prolofobia, per descriverli, questi socialisti alla Hollande o alla Strauss-Kahn. Prolofobia: paura e alterigia verso i proletari di oggi, divisi in mille lavori (o non lavori) diversi, intellettualmente incapaci di costituire un blocco sociale e progettuale, politicamente alla deriva tra l’astensione e (in Francia) il partito di LePen.

Ecco, LePen e il Fronte Nazionale. A cui nella propria prolofobia i partiti lasciano le masse degli esclusi e degli arrabbiati, ignorando i problemi concreti dei ceti impoveriti e limitandosi a reagire istericamente a ogni successo dell’estrema destra con la più scontata delle accuse, quella di populismo: centrodestra e  centrosinistra «difendono gli stessi precetti, quelli del neoliberismo», e per occultare questa verità descrivono tutto ciò che sta fuori di loro come populismo.

Il “j’accuse” sull’uso dell’epiteto in questione come arma mediatica dell’establishment per delegittimare il popolo – cioè i cittadini, le persone – rimanda in buona parte alle riflessioni di un filosofo che in Italia ha scarsa cittadinanza nel dibattito pubblico e culturale, Ernesto Laclau , di cui invece molto si parla altrove; ma questo è un altro discorso. Ciò su cui Dion insiste invece è l’utilizzo truffaldino del termine pupulismo per indurre nell’immaginario la convinzione che non esista alcuna alternativa possibile al liberismo, per sancire il dogma secondo cui ogni possibile scarto rispetto ai binari dell’ortodossia neocapitalista sia pericoloso e “anti democratico”, quando invece ad aver annegato la democrazia sottomettendola all’élite economica sono stati proprio loro, e in un’Europa in cui ormai il primo partito vero è quasi ovunque l’astensione.

Dice Dion che «questa democrazia malata ha messo il popolo in quarantena e la rappresentanza in ibernazione» e intanto si impadronisce del linguaggio chiamando «riforme» quelle che sono invece controriforme regressive per concentrare le ricchezze nelle mani di pochi; ma anche diffondendo a piene mani una narrazione basata su competitività, flessibilità, liberalizzazioni e costo del lavoro – e mai nessuno che spenda una parola sul costo, invece, di questo estremismo del capitale.

Eppure, un altro vocabolario è possibile, dice Dion. Altre parole per ribaltare l’egemonia culturale durata almeno tre decenni: come oligarchia – ad esempio – il vero tratto caratterizzante di quest’epoca, trasversale alla politica e al mondo del lavoro; oppure sovranità, sottratta sempre di più dalle mani dei cittadini e riservata alle élite che la esercitano (e di qui l’illusione-inganno lepenista secondo cui basterebbe tornare allo stato-nazione per restituirla ai cittadini, quando invece il suo recupero può avvenire ormai solo sul campo di battaglia europeo e globale, passando per ogni luogo di vita comune). E, anche attraverso un altro vocabolario, si può e si deve tendere verso un altro ordine delle cose: ordine politico, economico, ecologico, sociale, ideologico, morale, civico.

Dion alla fine è ottimista e chiude il suo libro citando la presa della Bastiglia, «un’esplosione di collera su cui è stato costruito un nuovo edificio: e ogni epoca, ogni collera, ha il suo nuovo edificio». Può darsi che sia una previsione un po’ eccessiva – o magari poco più di un auspicio. Ma il libro va comunque letto, perché come a volte capita ai pensatori francesi – ricordate “Indignatevi!”, di Stéphane Hessel ? – dice le cose che abbiamo sotto gli occhi con la forza della semplicità e senza il timore un po’ snob di non essere giudicato abbastanza “accademico”.

Ai politici e agli intellettuali della nostra sinistra, invece, il libro di Dion non dovrebbe essere semplicemente consigliato, ma proprio reso obbligatorio.

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