whatsapp e la nostra psiche

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devo personalmente un grazie alla dottoressa M. Cikada (sito: ‘pollicinoeraungrande’) per le appropriate riflessioni espresse in questo suo bell’articolo che faccio mio non solo idealmente ma anche concretamente inserendolo volentieri nel mio sito sentendomi in sintonia con lei sia nell’approccio tardivo (non certo da ‘nativo digitale’) a questa tecnologia con relativa meraviglia, sia nella presentazione della problematica che questa nuova tecnologia promuove e suscita in senso positivo ma anche di perplessità e rischio se non accortamente utilizzata:

Psiche e WhatsApp, come ti cambio la comunicazione e il setting

La scarsa privacy di WhatsApp mette a rischio i rapporti

Il Web non si limita a collegare macchine, connette delle persone.
Tim Berners-Lee

E’ successo. Dopo mesi a tergiversare, mi sono arresa alla modernità.

E per ragioni di lavoro, sebbene appaia come la solita burla, l’ho finita per cambiare telefono. Ora sono moderna, anche io sono smart. Cosa significa per una psicologa accettare la modernità? In primis, accettare che cambino i modi di comunicare, i tempi e le parole. Sembra facile? Non del tutto. Anzi, bisogna arrivarci almeno un po’ preparati.

Facciamo il punto sul comunicare in genere nel mondo dei Social.

Che la comunicazione cambi continuamente grazie ai nuovi mezzi, social, app etc è ormai chiaro a tutti e non possiamo non tenerne conto. Specie i giovani sembrano avere familiarità con mezzi come sms, skype, twitter e via discorrendo ma anche tra gli adulti, il modo di comunicare per status, like e pochi tweet sembra prendere sempre più piede. A volte anzi, i “grandi” sono più vulnerabili a certe ferite che arrivano facilmente online per personali fragilità.

Le relazioni, cambiano insieme con il come si comunica che diventa il come approcciamo l’altro. Nelle coppie, come tra gli amici, la connessione costante è quasi la regola. Preoccupazione alle stelle quando l’altro non risponde o non si connette per qualche ora. Litigi perchè si è stati localizzati, è possibile anche questo, nel posto dove non si doveva, perchè non si è detto il “like” giusto alla cosa giusta, perchè si è scritto uno status che ha dato da pensare, insomma, la tecnologia rende necessario interpretare tutta una serie di sfumature che non sempre aiutano la relazione. Il controllo  prende piede, non lasciando spazio alla fiducia di crescere con i suoi tempi, molte relazioni giovani si basano su quello che si dice e si “fa” online con conseguenti facili rotture e sofferenze. Facebook entra  nella vita reale portando con se un bel carico di divorzi e cause. Nel 2012, in Inghilterra, si scriveva che era stato il motivo di un terzo delle separazioni dell’anno precedente. Cosa ci dice questo? Che la comunicazione sui social avviene in modo diverso, impedisce sfumature, sguardi, non ha rughe di espressione e va educata  da una parte e accettata e usata con consapevolezza delle proprie paure.

E come la mettiamo con WhatsApp? Si tratta, per i pochi che non lo sapessero, di “una app di messaggistica mobile multi-piattaforma”, insomma, un modo di comunicare veloce, aperto, per foto e brevi frasi a cui si accede scaricando la piccola App sul telefono, gratis. Pochi secondi e tutti i tuoi contatti sanno che ora sei nel magico mondo di WhatsApp. Sapranno quando ti sei collegato alla App l’ultima volta, potranno comunicare velocemente con te in qualunque momento. Per la stessa natura, la privacy viene a diventare difficile da proteggere. La cosa interessante è che questa App elimina l’imbarazzo verso l’altro in maniera ancora più netta di quanto non faccia già lo schermo di un pc quando si naviga nei social. Guardare nel mondo dell’altro diventa talmente facile che si sente spinti a farlo.

Andiamo per ordine. Questo piccolo programmino per parlare con i propri contatti, sta scalando velocemente la vetta del miglior “creatore di litigi”, quasi peggio di Facebook.

L’immediatezza, che ne fa un apprezzato strumento nell’epoca del “perchè pensarci prima”, spinge gli utilizzatori ad essere molto diretti. Inoltre, il fatto che sia possibile capire se il messaggio è stato letto, con conseguente domanda del caso “perchè non mi ha risposto?” rende il tutto un passo più vicino al cataclisma e inoltre, la dipendenza è dietro l’angolo. Sappiamo quando l’altro ha effettuato l’ultimo accesso, sappiamo che ha letto il nostro messaggio, sappiamo che non ha risposto. Gli ingredienti della crisi ci sono tutti. E infatti le discussioni/litigate su WA sono all’ordine del giorno, perchè vanno a nutrire le debolezze di ognuno di dubbi, informazioni parziali, pensieri quasi magici su quello che l’altro prova e sulle cause degli eventi.

Scomodando Zygmunt Bauman, il filosofo e sociologo che tanto ha scritto sulla società, l’amore, la paura e le relazioni liquide  (uno per tutti : Modernità liquida, Ed. Laterza, Roma-Bari 2002), i social e quindi anche WA hanno reso le relazioni e il tempo di queste diverso, o almeno lo percepiamo diverso. La velocità, l’istantaneità con cui si comunica ha preso il posto della durata anche nelle esperienze, tutto è talmente immediato che si finisce con il perdere aderenza al presente. Tutto, anche come si creiamo la nostra identità, è veloce e frammentato e segnato da ossessioni (comprare, chattare, relazionarsi, essere online) che nascondono la paura di non esistere, di essere diverso. In questo, app e affini, da una parte offrono una finestra sul mondo sempre aperta, utilizzabile quando ci si annoia, quando si ha bisogno di qualcuno, quando ci si sente soli, dall’altra danno a tutto un colore di urgenza e di ansia qualora il nostro messaggio non venga subito recepito come noi desidereremmo. La frustrazione non trova posto in questa comunicazione. L’attesa si carica di domande che non accettano lo spazio dell’altro. Le conclusioni a cui si arriva sono sempre definitive: “Non ha risposto, non ha più interesse per me.” Un silenzio come risposta ad una qualunque frase su WA abbassa l’autostima, peggiora l’ansia, rinforza la sensazione di fragilità. Se questa poi si trasforma in controllo dell’altro, le conseguenze possono esser ancora più dolorose, “con chi parla se non con me?” è la domanda terribile a cui molti cercano risposte, da soli, diventando controllori di ogni movimento dell’altro, misurando il tempo online, i contatti, il tempo di risposta fino all’orlo dell’ossessione. Esasperazione che può portare alla violenza, in alcuni casi.

La pubblicità di una nota bevanda che propone una sorta di collare elisabettiano per tornare a guardare il mondo e non solo attraverso lo schermo di un cellulare, tablet, mac o pc fa pensare che forse dovremmo fermarci un attimo, come si era già scritto anche in questa sede ( post: Se ci sei batti un click!)  la tecnologia è utile ma gli abusi sono sempre da evitare.

Da dove eravamo partiti? Dal mio nuovo telefono e dalle domande che nascono spontanee sul come gestirlo. Viste le conseguenze del possesso della possibilità di comunicare “moderno”. Perchè se si parla sempre di persone, tra queste persone, immerse nel flusso infinito di comunicazioni, di sono molti professionisti.

Cosa pensano gli psicoterapeuti dell’utilizzo di WhatsApp?

Ci sono due aspetti. Uno riguarda l’utenza, chi si rivolge ad un professionista del benessere psichico tramite WhatsApp, l’altro riguarda più direttamente il professionista stesso, il terapeuta che si trova ad educarsi a nuovi linguaggi e nuove regole. Rispetto al primo aspetto, la speranza è sempre che, la facilità di utilizzo del mezzo, non sia uno specchietto per le allodole che attiri persone troppo fragili ed inesperte nella rete di sedicenti non professionisti.

Quindi, quando noto, cercando online, che sono molti quelli che promuovono e propongono la consulenza tramite questa App, non posso non ricordare a potenziali utilizzatori di scegliere con attenzione a chi affidarsi. E’ bene ricordare che le prestazioni online e a distanza sono possibili e molti seri professionisti sanno lavorare bene con questi mezzi. Però, è doveroso che seguano un codice  e delle linee guida ( presentate nel 2004) e le raccomandazioni in merito alle stesse pubblicate  nel 2013 dal Consiglio Nazionale degli Psicologi. Anche se, in entrambi i documenti, non si accenna alla consulenza fornita con questa App.

E il terapeuta con il suo WA installato e attivo?

Chiaramente, il professionista che si butta nel mare magno della comunicazione online, anche senza arrivare alla consulenza, deve sapere che non stiamo parlando della comunicazione che avviene in studio o nelle telefonate. Nel momento in cui si utilizza uno strumento diverso, telefono, sms, email e ora whatsapp, bisogna fare attenzione alla cornice che questi creano intorno alle parole. Non significa rifuggire ma muoversi con scrupolo.

Parliamo di distanze, quelle giuste per il lavoro comune e l’alleanza terapeutica che non possono essere  troppo ravvicinate, mentre immediatezza e vicinanza sono le caratteristiche di WA.

Cosa fare? Se già i messaggi creavano motivo di riflessione, come comportarsi quando un cliente sceglie di comunicare sul canale, diciamo più intimo e prosaico, di WA? L’efficacia va sempre pensata, le parole soppesate, attenzione alle insidie che si nascondono dietro certi piccoli attacchi al setting che arrivano online, devono essere fonte di riflessione per il professionista. Per non parlare del controllo che questo strumento permette di esercitare, “Ieri alle 3.00 era ancora sveglio, come mai?” potrebbe far notare qualcuno in seduta. Chiaramente è possibile lavorare sulle impostazioni per rendere il tutto il meno aperto possibile, ma ricordiamoci che WA è stato pensato proprio per essere aperto. Quindi? Scappare a gambe levate? Non necessariamente. Ma avvicinarsi con consapevolezza delle regole del gioco, anche giocandoci su se necessario con leggerezza, se possibile. Sempre ricordando dove sono i limiti, sempre con in testa il nostro codice e la finalità di ogni scambio comunicativo, quello di diventare elemento di riflessione che renda possibile lavorare poi insieme nel setting terapeutico. Insomma, non è possibile fare a meno della tecnologia ma bisogna imparare ad usarla e non farsi trovare impreparati. Buona rete a tutti.

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il doppio papa può generare dualismo pericoloso

i due papi

 “Perché c’è il rischio di un dualismo? Perché si tratta di personaggi entrambi autorevoli, pur molto diversi tra loro. Perché a molti viene spontaneo metterli a confronto, anche solo per cogliere le diverse stagioni della Chiesa e come soffia lo spirito nel corso della storia. Inoltre, perché da qualche tempo Ratzinger sembra aver difficoltà a starsene chiuso nel suo eremo di elezione … “

così Franco Garelli nell’articolo che qui sotto riproduco: con tatto e delicatezza si evidenzia il pericolo concreto che, a  lungo andare, la vicinanza delle due bianche figure rischi di cristallizzare l’idea che convivano a Roma, sotto la sacra volta del Vaticano, due diversi riferimenti per la cattolicità, come due papi per due anime della chiesa separate e inconciliabili:

Il doppio papa per le due anime della Chiesa

 

di Franco Garelli

 in “La Stampa” del 2 marzo 2014

 

Sta succedendo a Roma, sull’altra sponda del Tevere, ciò che alcuni osservatori lungimiranti temevano? Che il «Papa nascosto» diventi, col passare dei mesi, una presenza ingombrante anche per un Papa carismatico come Francesco? Che Ratzinger da Papa emerito susciti più attenzione, curiosità e tenerezza che da Papa regnante? Negli ultimi tempi la convivenza dei due Papi nella sede di Pietro è al centro di riflessioni e di dibattito, sia nell’insieme della cattolicità, sia nel mondo intero. Ha un bel dire Papa Bergoglio di non temere la presenza ravvicinata del suo predecessore, che dopo la grande rinuncia ha scelto di accompagnare la Chiesa soltanto con la sua preghiera. Ha un bel dire che lo vive come un «nonno a casa», che è come avere accanto «il nonno saggio, venerato, amato, esempio di prudenza». Ma il fatto stesso che Ratzinger abbia scelto di vivere a Roma, che mantenga alcune insegne dell’alto ruolo esercitato (la veste bianca, il nome di Benedetto XVI, lo stemma da pontefice), che si presenti e venga percepito a tutti gli effetti come il Papa emerito, sembra produrre una situazione spuria per la Chiesa e il mondo cattolico. A lungo andare, la vicinanza delle due bianche figure rischia di cristallizzare l’idea che convivano a Roma, sotto la sacra volta del Vaticano, due diversi riferimenti per la cattolicità. Insomma, che in questa stagione la Chiesa abbia due teste, due alte figure al comando. Una con tutti i crismi in vista e ricca di fede e di umanità latino-americana; l’altra più sullo sfondo, ma curiosamente resa forte da una vita più silente e appartata e dalle molte qualità che le vengono riconosciute. Perché c’è il rischio di un dualismo? Perché si tratta di personaggi entrambi autorevoli, pur molto diversi tra loro. Perché a molti viene spontaneo metterli a confronto, anche solo per cogliere le diverse stagioni della Chiesa e come soffia lo spirito nel corso della storia. Inoltre, perché da qualche tempo Ratzinger sembra aver difficoltà a starsene chiuso nel suo eremo di elezione, per cui di tanto in tanto fa capolino sulla scena pubblica, o dialogando con qualche intellettuale, o rispondendo ai quesiti di alcuni giornalisti (vedi la missiva inviata qualche giorno fa ad Andrea Tornielli e pubblicata su La Stampa); o perché invitato dallo stesso pontefice regnante a prendere parte a eventi clou della Chiesa. E’ successo una settimana fa nella cerimonia del Concistoro; e lo stesso avverrà alla fine di aprile, quando Ratzinger su invito di Francesco concelebrerà la messa a S. Pietro per la canonizzazione congiunta di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II. Ciò che per Bergoglio è un gesto di condivisione verso il suo predecessore, può favorire l’emergere di un alter ego nell’immaginario  cattolico? Francesco ha certamente spalle troppo larghe per lasciarsi impensierire dalla presenza di Ratzinger el suo intorno immediato. E del resto, occorre riconoscerlo, l’ex pontefice ha più volte ribadito la validità della sua storica rinuncia, la ferma volontà di non essere un Papa ombra, il suo impegno (dedicandosi alla preghiera e alla meditazione) a sostenere del tutto l’azione e gli indirizzi del nuovo Pietro. Tuttavia il confronto è nell’ordine delle cose e la situazione presenta – sul versante umano ed ecclesiale – non poche ambivalenze. Le qualità di Francesco sono ormai note a tutti, tipiche di un Papa che – in linea con lo spirito del Concilio Vaticano II – interpreta il bisogno di una Chiesa più misericordiosa e aperta, meno fredda nelle sue convinzioni religiose ed etiche, meno esclusiva nella sua tensione alla verità; più collegiale nel governo e più dialogica anche col mondo. Tuttavia, l’universo cattolico è al suo interno così variegato e differenziato, così plurimo, da evidenziare non poche resistenze nei confronti di un forte indirizzo di rinnovamento della Chiesa. Inoltre, anche chi condivide la svolta epocale di Francesco, può a lungo andare interrogarsi sulle effettive possibilità che essa venga realizzata, sulle «risorse» di cui il Papa dispone per smuovere gli antichi equilibri. Le riserve nei confronti del nuovo indirizzo della Chiesa di Roma non vengono soltanto da quell’area del tradizionalismo cattolico che risulta assai più vicino alla concezione di Chiesa di Benedetto XVI che a quella di Francesco, anche se quando Ratzinger era regnante non ha mancato di creargli dei grattacapi. Anche alcune Chiese nazionali o quote di fedeli o qualche intellettuale cattolico possono nutrire dubbi sullo stile e sui programmi di un pontificato – quello attuale – che  a sì rotto gli schemi del passato, ma che appare loro fragile nel produrre il cambiamento. Qual è la prospettiva o la consistenza teologica dietro lo sbriciolamento del vangelo di cui Papa Francesco  offre un esempio ogni giorno? La sua prossimità alla gente, i continui bagni di folla, l’annullamento della distanza, la semplificazione dei riti e la riduzione dei simboli, non rischiano a lungo andare di depotenziare il sacro, di desacralizzare la Chiesa e di stemperare il senso del mistero? Proprio qui entra in gioco il Papa emerito, di cui sono stati evidenti i limiti nella capacità di governo e la sua distanza dalla modernità avanzata, ma che è ancor oggi assai apprezzato per la statura teologica e la profondità culturale. Ratzinger, dunque, – con la sua presenza a Roma e nel centro della cattolicità – continua a essere un punto di riferimento per le Chiese che in lui più si sono identificate. Alcune certamente mosse dalla voglia di conservazione, ma altre semplicemente nostalgiche di un pontificato che fa leva su un alto pensiero, spinge la Chiesa a non mescolarsi col mondo e offre grandi certezze.

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frei Betto: vivere la speranza come atteggiamento critico

In forza della speranza

frei Betto

                     

In forza della speranza (Frei Betto)
fa sempre bene e riempie il cuore di speranza rinnovata rileggere (anche se un po’ datate) pagine come queste di frei Betto, da noi sconosciuto ma notissimo invece nell’America latina che nei decenni passati ha vissuto la ‘fatica spirituale’ – nel contesto della ‘teologia della liberazione’ – di coniugare la propria fede cristiana coll’impegno liberante in regimi politici di violenza strutturale: anche la virtù della speranza ha vissuto questo approfondimento e riscatto verso ogni possibile ‘spiritualizzazione’ e idealizzante onirica fuga dalla realtà:
“con il progredire della modernità e nella misura in cui l’essere umano si è sentito padrone della tecnica e della scienza, si è imposta l’idea che si possa non solo migliorare la convivenza sociale, ma anche prefigurare un modello ideale di vita verso cui tendere”
“un’utopia che si radica nelle promesse di Dio non teme le negatività, le ombre e i fallimenti. Sa di essere una speranza “crocifissa”, ma non sconfitta, perché aperta alla prospettiva della risurrezione” :
 

Un cristiano vive questa virtù come atteggiamento critico. Nessuna realizzazione umana lo può soddisfare pienamente e tenderà sempre verso qualcosa d’altro, da conquistare e da ricevere in dono.

  

La speranza, una delle tre virtù teologali, ha molto in comune con la fede. In brasiliano le due parole fanno rima (esperança = confiança); in altre lingue hanno stretti legami di parentela. Si spera ciò in cui si crede e si crede in ciò che si spera.

Per Gesù, la speranza è un atteggiamento virtuoso da giocarsi “qui” e “ora”, nel contesto del Regno di Dio che avanza come anticipazione della pienezza della storia, non in un “altrove” e “domani”, come vorrebbero coloro che negano o rifiutano la realtà di questo mondo.

Oggi l’espressione “Regno di Dio” ha una connotazione vaga, quasi metaforica. Ben diversa l’eco che queste parole dovettero avere al tempo dell’impero romano. Annunciare un regno che non fosse di Cesare aveva gravi ricadute anche politiche. Per questo Gesù fu messo a morte.

Oggi “speranza” ha una connotazione molto laica, al punto da preferirle la parola “utopia”. Con la desacralizzazione del mondo e la morte degli dèi (frutti del Rinascimento), si è fatta impellente la necessità di ipotizzare un mondo futuro. Con il progredire della modernità e nella misura in cui l’essere umano si è sentito padrone della tecnica e della scienza, si è imposta l’idea che si possa non solo migliorare la convivenza sociale, ma anche prefigurare un modello ideale di vita verso cui tendere. L’uomo moderno si concepisce come uno scultore che, davanti a un pezzo di marmo grezzo, ha già in mente il capolavoro che vuole creare e ha fiducia di poterlo realizzare. Nella sua opera monumentale, Il principio speranza, il filosofo marxista Ernest Bloch scrive che «la speranza è sostegno indispensabile della ragione umana».

Il marxismo è stata la prima grande religione laica in grado di tradurre la speranza in un ideale sociale. Grazie a questa visione del mondo, è entrata nella cultura occidentale la percezione del tempo come processo storico: l’uomo prefigura la propria esistenza come un divenire e una continua lotta contro ogni ostacolo che impedisce la realizzazione di ciò che spera di realizzare.

Per il cristiano, la speranza del Regno supera ogni altra utopia laica (sia essa politica, tecnologica o scientifica). Tale speranza porta il credente a credere che le promesse di Dio si realizzeranno in questo mondo (hic et nunc), fino a trasfigurare radicalmente tutta la realtà. Forte di queste promesse, magnificamente espresse nella Sacra Scrittura, il cristiano mantiene una costante posizione critica nei confronti di ogni loro parziale attuazione: non esiste un modello di sviluppo umano che lo possa accontentare del tutto.

La nuova persona e il nuovo modello di mondo “sperati” dal cristiano sono, al contempo, frutto dello sforzo umano e dono di Dio: sforzo che non termina mai e dono che non cessa di sorprendere. Esiste sempre un domani migliore dell’oggi. Chi spera in Cristo non assolutizzerà mai una data situazione acquisita o un modello da conseguire: ogni progresso fatto è relativo e, quindi, suscettibile di ulteriore perfezionamento. Il divenire (questo svolgersi della salvezza che Dio dona e che l’uomo realizza dentro la Storia) avrà fine soltanto quando l’universo tornerà nelle mani del suo Creatore.

La speranza ha bisogno della memoria. Chi spera, ricorda e commemora. Yahvé non è uno dei tanti dèi dell’Olimpo. È un Dio che ha una storia e che ricorda: egli è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Anche noi, che speriamo nella realizzazione del Regno, ricordiamo le grandi opere da lui compiute. Questa memoria alimenta la coscienza critica, cioè la consapevolezza della disparità tra l’oggi raggiunto e il domani da ricevere in dono e da costruire, della inadeguatezza del “già” e dell’infinitezza del “non ancora”.

Un’utopia che si radica nelle promesse di Dio non teme le negatività, le ombre e i fallimenti. Sa di essere una speranza “crocifissa”, ma non sconfitta, perché aperta alla prospettiva della risurrezione. Dice bene san Paolo: «Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Romani 8,24-25). Anche la Lettera agli Ebrei ci ricorda che «la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (11,1). Charles Péguy, scrittore, poeta e politico francese, scriveva: «La Fede vede ciò che è. / Nel Tempo e nell’Eternità. / La Speranza vede ciò che sarà. / Nel Tempo e per l’Eternità».

Sperare è camminare nella fede verso ciò che si spera e si crede. La fede ci dà la certezza che Gesù ha vinto la morte e la speranza ci dona la forza di superare ogni segno di morte (ingiustizie, oppressioni, preconcetti…). Il nostro cammino è punteggiato di dubbi e di sofferenze, di conquiste e di gioie. È vero che siamo prigionieri della finitezza. Ma fede e speranza riempiono il nostro cuore di infinito. E se camminiamo lungo i sentieri dell’amore, sappiamo di avere Dio come guida.

Frei Betto

(da Nigrizia, maggio 2009)

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razzismo ordinario!

Verona, sfogo razzista alla biglietteria in stazione: “Voglio una bianca, non una nera”

ha rischiato 30 giorni di arresto e ora dovrà pagare 7500 euro di multa il 59enne veronese che aveva dato in escandescenze a Porta Nuova, mentre era in fila: “Assumiamo anche le nere ora? Tra poco saranno i padroni del mondo

“Voglio una bianca, non una nera”. Lo hanno sentito quelli che erano in fila davanti e dietro di lui, e sicuramente l’ha sentito bene la ragazza di 25 anni, di origini africane ma con nazionalità italiana e nata a Palermo, impiegata alla biglietterie della stazione dei treni di Porta Nuova. “Razzismo” per il giudice, che l’ha giudicato colpevole e destinatario di una multa da 7500 euro. La sentenza è arrivata a seguito del patteggiamento dell’uomo, Mario Brusco, veronese di 59 anni. Lo “sfogo” razzista in pubblico risale al 31 luglio 2013, come spiegano i quotidiani locali

“Assumiamo anche le nere? Voglio un’impiegata bianca, non voglio una nera. Tra poco saranno loro i padroni del mondo. Qui non ho mai visto un’impiegata

Se lui la riteneva una “battuta” allo stesso modo non l’hanno pensata i testimoni a pochi centimetri di distanza. Una giornata storta, forse. Sta di fatto che mentre in coda alla biglietteria si era subito spazientito e aveva cominciato a borbottare e poi ad urlare. Era persino arrivato a sbattere i pugni sul bancone: gesto che gli aveva fruttato un colloquio con la polizia ferroviaria. Poi è arrivata la denuncia per ingiurie aggravate dalla discriminazione razziale ed etnica. Giovedì il 59enne si è presentato davanti al giudice per le udienze preliminari che non ha accolto la richiesta del pm di patteggiamento a pena pecuniaria. E’ finita invece con 30 giorni di arresto convertiti in 7500 euro di multa.

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p.Maggi e p. Pagola commentano il vangelo della domanica

p. Maggi

NON PREOCCUPATEVI DEL DOMANI

commento al vangelo dell’ottava domenica del tempo ordinario  (2 marzo 2014)  di p. Alberto Maggi

Mt 6,24-34

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?
E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?
Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.
Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».

In questo brano del vangelo di Matteo Gesù conferma quanto annunziato nelle beatitudini. Chi si prende del bene dell’altro e del benessere del proprio fratello, permetterà al Padre di prendersi cura di lui. Per questo il brano comincia dal capitolo 6, versetto 24 di Matteo, con l’avvertimento di Gesù “Non potete servire Dio e la ricchezza”.
Per ‘ricchezza’ adopera l’espressione aramaica Mamona, che indica il patrimonio, il capitale, cioè quello in cui l’uomo mette la propria fiducia. Mammona viene da una radice che è la stessa dalla quale viene poi fuori la parola Amen, cioè quello che è vero, quello che è sicuro. Ebbene l’uomo mette la sicurezza nei beni che ha accumulato.
Gesù invita a mettere la propria sicurezza non in quello che uno ha e trattiene per sé, ma in quello che uno dà e condivide con gli altri. Quindi Gesù invita a fare questa scelta. E, conferma Gesù, che se c’è questa scelta il Padre si prende cura dei suoi figli. Infatti, dice Gesù, “«Non preoccupatevi»”, e questo invito a non preoccuparsi verrà ripetuto per ben tre volte, e, secondo la tecnica letteraria degli evangelisti, significa qualcosa di completo, di definitivo, di sicuro.
Quindi Gesù invita a non preoccuparsi degli elementi essenziali della vita, quali sono il mangiare, il bere o il vestire, e porta degli esempi. Dice: “«Guardate gli uccelli del cielo»”. Perché fa proprio questo esempio degli uccelli del cielo? Perché erano ritenuti animali inutili e nocivi, animali per i quali il Signore non veniva benedetto. Addirittura nel vangelo di Luca si parla di corvi, che erano considerati animali impuri. Quindi gli elementi più inutili e insignificanti della creazione.
Ebbene, dice Gesù “«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre»”. Questo di Gesù non è l’invito a un fatalismo in cui si attende che la provvidenza faccia tutto. No! Gesù dice “Se Dio nutre gli uccelli del cielo che non seminano, non mietono, né raccolgono, quanto più voi che seminate, mietete e raccogliete. Quindi non è un invito a non far nulla, ma ad impegnarsi attivamente senza preoccupazione.
E poi Gesù fa l’esempio che nessuno può allungare la propria vita oppure il vestito e poi dice: “«Osservate i fiori di campo»”. I fiori più comuni, quelli la cui durata era appena di un giorno. E Gesù assicura che “«neanche Salomone, con tutta la sua gloria»”, cioè la sua vanità, “«era vestito come uno di loro»”. Allora l’insegnamento di Gesù: “«Se Dio veste l’erba del campo, che dura appena un giorno, oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi …»”, e qui c’è il rimprovero di Gesù, “«.. gente di poca fede?»”
Poca fede non significa che si crede poco, ma mancanza di fiducia. Quindi Gesù invita alla piena fiducia. Se voi vi impegnate per il bene degli altri, il Padre si prenderà cura di voi, a tutto vantaggio degli uomini! Allora Gesù per la seconda volta dice: “Non preoccupatevi dunque dicendo: ‘Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?’»” e fa un paragone molto forte.
“«Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani»”, quelli che non credono nel Padre. Quindi se voi vi preoccupate per la vita, di quello che avete, ecc, siete come persone che non conoscono il Padre. E, assicura Gesù: “«Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno»”. L’assicurazione di Gesù è che al Padre non bisogna chiedere perché il Padre precede le richieste degli uomini, lui conosce i bisogni degli uomini, quindi l’azione del Padre precede sempre la richiesta del figlio.
Ed ecco l’invito finale. “«Cercate …»”, cioè adoperatevi, datevi da fare, “«… invece, anzitutto, il regno di Dio»”, cioè questa nuova comunità alternativa alla società, dove al posto dell’avere ci sia il condividere, al posto del comandare ci sia il servire, “«e la sua giustizia»”. Per giustizia si intende la fedeltà. Quindi Gesù invita alla fedeltà a quanto annunziato nelle beatitudini per creare una società alternativa. “«E tutte queste cose»”, quindi il mangiare, il bere e il vestire, “«vi saranno date»”, non nella misura in cui ne necessitate, ma “«in aggiunta»”. Dio non si lascia vincere in generosità e regala vita a chi comunica vita agli altri.
Ed ecco l’ultimo invito a non preoccuparsi, per la terza volta. “«Non preoccupatevi dunque del domani»”. E qui una vecchia traduzione faceva sorgere addirittura la preoccupazione; la vecchia traduzione era “perché il domani avrà le sue inquietudini”, cioè non  preoccupatevi per il domani perché ci sono già tanti guai oggi, chissà quelli di domani. Nulla di tutto questo. La traduzione, che è stata riportata esatta nell’ultima edizione è: “«Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso»”.
E’ la piena fiducia, la piena serenità. Come oggi avete sperimentato l’azione provvidenziale del Padre che si è preso cura di voi, anche domani questo accadrà. E conclude Gesù: “«A ciascun giorno basta la sua pena»”, cioè il problema, l’affanno, la preoccupazione, non devono essere proiettati nel futuro, ma ogni giorno il Signore risponde ai bisogni dei suoi figli.

croce

NO ALL’IDOLATRIA DEL DENARO

commento di p. Pagola

Il denaro, convertito in idolo assoluto, è per Gesù il maggiore nemico di un mondo più degno, giusto e solidale che egli vuole.
Già venti secoli fà il Profeta di Galilea denunciò in maniera rotonda che il culto al Denaro sarà sempre il maggiore ostacolo che troverà l’Umanità per progredire verso una convivenza più umana.   La logica di Gesù è schiacciante: “Non pote…te servire a Dio e al Denaro”. Dio non può regnare nel mondo ed essere Padre di tutti, senza reclamare giustizia per coloro  che  sono esclusi da una vita degna. Per questo motivo, non possono lavorare più per questo mondo umano tanto caro a Dio quelli che, dominati per l’ansia di accumulare ricchezza, promuovono un’economia che esclude i più deboli e li abbandona nella fame e nella miseria.   È sorprendente quello che sta succedendo col Papa Francesco. Mentre i mezzi di comunicazione e le reti sociali che circolano per internet c’informano, con ogni tipo di dettagli, dei gesti più piccoli della sua personalità ammirabile, si nasconde in  modo vergognoso il suo grido più urgente diretto a tutta l’Umanità: “No ad un’economia dell’esclusione e dell’iniquità. Questa economia ammazza.” Tuttavia, Francesco non ha bisogno di lunghe argomentazioni né profonde analisi per esporre il suo pensiero. Sa riassumere la sua indignazione in parole chiare ed espressive che potrebbero aprire il notiziario di qualunque telegiornale, o essere un titolo per la  stampa in qualunque paese. Solo alcuni esempi. Non può essere che non sia notizia che muore di freddo un anziano  sulla strada e che invece lo sia la caduta di due punti della borsa. Questo è esclusione. Non può tollerarsi che si getti cibo quando c’è gente che soffre la fame. Questo è iniquità.”   Viviamo “nella dittatura di un’economia senza volto e senza un obiettivo davvero umano”. Come conseguenza, “mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si allontanano sempre più da quel  benessere di quella minoranza felice.”
“La cultura del benessere ci anestetizza, e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che ancora non abbiamo comprato, mentre tutte quelle vite mozze per mancanza di possibilità ci sembrano uno spettacolo che in nessun modo ci toccano.”   Come  il papa ha detto: “questo messaggio non è marxismo, ma è  Vangelo puro”. Un messaggio che deve avere eco permanente nelle nostre comunità cristiane. Il contrario potrebbe essere un segno di quello che dice Bergoglio: “Stiamo diventando incapaci di compatirci tra di noi, non piangiamo più oramai davanti al dramma degli altri.”   Diffondi il Vangelo di Gesù.
José Antonio Pagola
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