frei Betto: vivere la speranza come atteggiamento critico

In forza della speranza

frei Betto

                     

In forza della speranza (Frei Betto)
fa sempre bene e riempie il cuore di speranza rinnovata rileggere (anche se un po’ datate) pagine come queste di frei Betto, da noi sconosciuto ma notissimo invece nell’America latina che nei decenni passati ha vissuto la ‘fatica spirituale’ – nel contesto della ‘teologia della liberazione’ – di coniugare la propria fede cristiana coll’impegno liberante in regimi politici di violenza strutturale: anche la virtù della speranza ha vissuto questo approfondimento e riscatto verso ogni possibile ‘spiritualizzazione’ e idealizzante onirica fuga dalla realtà:
“con il progredire della modernità e nella misura in cui l’essere umano si è sentito padrone della tecnica e della scienza, si è imposta l’idea che si possa non solo migliorare la convivenza sociale, ma anche prefigurare un modello ideale di vita verso cui tendere”
“un’utopia che si radica nelle promesse di Dio non teme le negatività, le ombre e i fallimenti. Sa di essere una speranza “crocifissa”, ma non sconfitta, perché aperta alla prospettiva della risurrezione” :
 

Un cristiano vive questa virtù come atteggiamento critico. Nessuna realizzazione umana lo può soddisfare pienamente e tenderà sempre verso qualcosa d’altro, da conquistare e da ricevere in dono.

  

La speranza, una delle tre virtù teologali, ha molto in comune con la fede. In brasiliano le due parole fanno rima (esperança = confiança); in altre lingue hanno stretti legami di parentela. Si spera ciò in cui si crede e si crede in ciò che si spera.

Per Gesù, la speranza è un atteggiamento virtuoso da giocarsi “qui” e “ora”, nel contesto del Regno di Dio che avanza come anticipazione della pienezza della storia, non in un “altrove” e “domani”, come vorrebbero coloro che negano o rifiutano la realtà di questo mondo.

Oggi l’espressione “Regno di Dio” ha una connotazione vaga, quasi metaforica. Ben diversa l’eco che queste parole dovettero avere al tempo dell’impero romano. Annunciare un regno che non fosse di Cesare aveva gravi ricadute anche politiche. Per questo Gesù fu messo a morte.

Oggi “speranza” ha una connotazione molto laica, al punto da preferirle la parola “utopia”. Con la desacralizzazione del mondo e la morte degli dèi (frutti del Rinascimento), si è fatta impellente la necessità di ipotizzare un mondo futuro. Con il progredire della modernità e nella misura in cui l’essere umano si è sentito padrone della tecnica e della scienza, si è imposta l’idea che si possa non solo migliorare la convivenza sociale, ma anche prefigurare un modello ideale di vita verso cui tendere. L’uomo moderno si concepisce come uno scultore che, davanti a un pezzo di marmo grezzo, ha già in mente il capolavoro che vuole creare e ha fiducia di poterlo realizzare. Nella sua opera monumentale, Il principio speranza, il filosofo marxista Ernest Bloch scrive che «la speranza è sostegno indispensabile della ragione umana».

Il marxismo è stata la prima grande religione laica in grado di tradurre la speranza in un ideale sociale. Grazie a questa visione del mondo, è entrata nella cultura occidentale la percezione del tempo come processo storico: l’uomo prefigura la propria esistenza come un divenire e una continua lotta contro ogni ostacolo che impedisce la realizzazione di ciò che spera di realizzare.

Per il cristiano, la speranza del Regno supera ogni altra utopia laica (sia essa politica, tecnologica o scientifica). Tale speranza porta il credente a credere che le promesse di Dio si realizzeranno in questo mondo (hic et nunc), fino a trasfigurare radicalmente tutta la realtà. Forte di queste promesse, magnificamente espresse nella Sacra Scrittura, il cristiano mantiene una costante posizione critica nei confronti di ogni loro parziale attuazione: non esiste un modello di sviluppo umano che lo possa accontentare del tutto.

La nuova persona e il nuovo modello di mondo “sperati” dal cristiano sono, al contempo, frutto dello sforzo umano e dono di Dio: sforzo che non termina mai e dono che non cessa di sorprendere. Esiste sempre un domani migliore dell’oggi. Chi spera in Cristo non assolutizzerà mai una data situazione acquisita o un modello da conseguire: ogni progresso fatto è relativo e, quindi, suscettibile di ulteriore perfezionamento. Il divenire (questo svolgersi della salvezza che Dio dona e che l’uomo realizza dentro la Storia) avrà fine soltanto quando l’universo tornerà nelle mani del suo Creatore.

La speranza ha bisogno della memoria. Chi spera, ricorda e commemora. Yahvé non è uno dei tanti dèi dell’Olimpo. È un Dio che ha una storia e che ricorda: egli è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Anche noi, che speriamo nella realizzazione del Regno, ricordiamo le grandi opere da lui compiute. Questa memoria alimenta la coscienza critica, cioè la consapevolezza della disparità tra l’oggi raggiunto e il domani da ricevere in dono e da costruire, della inadeguatezza del “già” e dell’infinitezza del “non ancora”.

Un’utopia che si radica nelle promesse di Dio non teme le negatività, le ombre e i fallimenti. Sa di essere una speranza “crocifissa”, ma non sconfitta, perché aperta alla prospettiva della risurrezione. Dice bene san Paolo: «Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Romani 8,24-25). Anche la Lettera agli Ebrei ci ricorda che «la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (11,1). Charles Péguy, scrittore, poeta e politico francese, scriveva: «La Fede vede ciò che è. / Nel Tempo e nell’Eternità. / La Speranza vede ciò che sarà. / Nel Tempo e per l’Eternità».

Sperare è camminare nella fede verso ciò che si spera e si crede. La fede ci dà la certezza che Gesù ha vinto la morte e la speranza ci dona la forza di superare ogni segno di morte (ingiustizie, oppressioni, preconcetti…). Il nostro cammino è punteggiato di dubbi e di sofferenze, di conquiste e di gioie. È vero che siamo prigionieri della finitezza. Ma fede e speranza riempiono il nostro cuore di infinito. E se camminiamo lungo i sentieri dell’amore, sappiamo di avere Dio come guida.

Frei Betto

(da Nigrizia, maggio 2009)

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razzismo ordinario!

Verona, sfogo razzista alla biglietteria in stazione: “Voglio una bianca, non una nera”

ha rischiato 30 giorni di arresto e ora dovrà pagare 7500 euro di multa il 59enne veronese che aveva dato in escandescenze a Porta Nuova, mentre era in fila: “Assumiamo anche le nere ora? Tra poco saranno i padroni del mondo

“Voglio una bianca, non una nera”. Lo hanno sentito quelli che erano in fila davanti e dietro di lui, e sicuramente l’ha sentito bene la ragazza di 25 anni, di origini africane ma con nazionalità italiana e nata a Palermo, impiegata alla biglietterie della stazione dei treni di Porta Nuova. “Razzismo” per il giudice, che l’ha giudicato colpevole e destinatario di una multa da 7500 euro. La sentenza è arrivata a seguito del patteggiamento dell’uomo, Mario Brusco, veronese di 59 anni. Lo “sfogo” razzista in pubblico risale al 31 luglio 2013, come spiegano i quotidiani locali

“Assumiamo anche le nere? Voglio un’impiegata bianca, non voglio una nera. Tra poco saranno loro i padroni del mondo. Qui non ho mai visto un’impiegata

Se lui la riteneva una “battuta” allo stesso modo non l’hanno pensata i testimoni a pochi centimetri di distanza. Una giornata storta, forse. Sta di fatto che mentre in coda alla biglietteria si era subito spazientito e aveva cominciato a borbottare e poi ad urlare. Era persino arrivato a sbattere i pugni sul bancone: gesto che gli aveva fruttato un colloquio con la polizia ferroviaria. Poi è arrivata la denuncia per ingiurie aggravate dalla discriminazione razziale ed etnica. Giovedì il 59enne si è presentato davanti al giudice per le udienze preliminari che non ha accolto la richiesta del pm di patteggiamento a pena pecuniaria. E’ finita invece con 30 giorni di arresto convertiti in 7500 euro di multa.

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p.Maggi e p. Pagola commentano il vangelo della domanica

p. Maggi

NON PREOCCUPATEVI DEL DOMANI

commento al vangelo dell’ottava domenica del tempo ordinario  (2 marzo 2014)  di p. Alberto Maggi

Mt 6,24-34

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?
E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?
Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.
Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».

In questo brano del vangelo di Matteo Gesù conferma quanto annunziato nelle beatitudini. Chi si prende del bene dell’altro e del benessere del proprio fratello, permetterà al Padre di prendersi cura di lui. Per questo il brano comincia dal capitolo 6, versetto 24 di Matteo, con l’avvertimento di Gesù “Non potete servire Dio e la ricchezza”.
Per ‘ricchezza’ adopera l’espressione aramaica Mamona, che indica il patrimonio, il capitale, cioè quello in cui l’uomo mette la propria fiducia. Mammona viene da una radice che è la stessa dalla quale viene poi fuori la parola Amen, cioè quello che è vero, quello che è sicuro. Ebbene l’uomo mette la sicurezza nei beni che ha accumulato.
Gesù invita a mettere la propria sicurezza non in quello che uno ha e trattiene per sé, ma in quello che uno dà e condivide con gli altri. Quindi Gesù invita a fare questa scelta. E, conferma Gesù, che se c’è questa scelta il Padre si prende cura dei suoi figli. Infatti, dice Gesù, “«Non preoccupatevi»”, e questo invito a non preoccuparsi verrà ripetuto per ben tre volte, e, secondo la tecnica letteraria degli evangelisti, significa qualcosa di completo, di definitivo, di sicuro.
Quindi Gesù invita a non preoccuparsi degli elementi essenziali della vita, quali sono il mangiare, il bere o il vestire, e porta degli esempi. Dice: “«Guardate gli uccelli del cielo»”. Perché fa proprio questo esempio degli uccelli del cielo? Perché erano ritenuti animali inutili e nocivi, animali per i quali il Signore non veniva benedetto. Addirittura nel vangelo di Luca si parla di corvi, che erano considerati animali impuri. Quindi gli elementi più inutili e insignificanti della creazione.
Ebbene, dice Gesù “«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre»”. Questo di Gesù non è l’invito a un fatalismo in cui si attende che la provvidenza faccia tutto. No! Gesù dice “Se Dio nutre gli uccelli del cielo che non seminano, non mietono, né raccolgono, quanto più voi che seminate, mietete e raccogliete. Quindi non è un invito a non far nulla, ma ad impegnarsi attivamente senza preoccupazione.
E poi Gesù fa l’esempio che nessuno può allungare la propria vita oppure il vestito e poi dice: “«Osservate i fiori di campo»”. I fiori più comuni, quelli la cui durata era appena di un giorno. E Gesù assicura che “«neanche Salomone, con tutta la sua gloria»”, cioè la sua vanità, “«era vestito come uno di loro»”. Allora l’insegnamento di Gesù: “«Se Dio veste l’erba del campo, che dura appena un giorno, oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi …»”, e qui c’è il rimprovero di Gesù, “«.. gente di poca fede?»”
Poca fede non significa che si crede poco, ma mancanza di fiducia. Quindi Gesù invita alla piena fiducia. Se voi vi impegnate per il bene degli altri, il Padre si prenderà cura di voi, a tutto vantaggio degli uomini! Allora Gesù per la seconda volta dice: “Non preoccupatevi dunque dicendo: ‘Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?’»” e fa un paragone molto forte.
“«Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani»”, quelli che non credono nel Padre. Quindi se voi vi preoccupate per la vita, di quello che avete, ecc, siete come persone che non conoscono il Padre. E, assicura Gesù: “«Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno»”. L’assicurazione di Gesù è che al Padre non bisogna chiedere perché il Padre precede le richieste degli uomini, lui conosce i bisogni degli uomini, quindi l’azione del Padre precede sempre la richiesta del figlio.
Ed ecco l’invito finale. “«Cercate …»”, cioè adoperatevi, datevi da fare, “«… invece, anzitutto, il regno di Dio»”, cioè questa nuova comunità alternativa alla società, dove al posto dell’avere ci sia il condividere, al posto del comandare ci sia il servire, “«e la sua giustizia»”. Per giustizia si intende la fedeltà. Quindi Gesù invita alla fedeltà a quanto annunziato nelle beatitudini per creare una società alternativa. “«E tutte queste cose»”, quindi il mangiare, il bere e il vestire, “«vi saranno date»”, non nella misura in cui ne necessitate, ma “«in aggiunta»”. Dio non si lascia vincere in generosità e regala vita a chi comunica vita agli altri.
Ed ecco l’ultimo invito a non preoccuparsi, per la terza volta. “«Non preoccupatevi dunque del domani»”. E qui una vecchia traduzione faceva sorgere addirittura la preoccupazione; la vecchia traduzione era “perché il domani avrà le sue inquietudini”, cioè non  preoccupatevi per il domani perché ci sono già tanti guai oggi, chissà quelli di domani. Nulla di tutto questo. La traduzione, che è stata riportata esatta nell’ultima edizione è: “«Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso»”.
E’ la piena fiducia, la piena serenità. Come oggi avete sperimentato l’azione provvidenziale del Padre che si è preso cura di voi, anche domani questo accadrà. E conclude Gesù: “«A ciascun giorno basta la sua pena»”, cioè il problema, l’affanno, la preoccupazione, non devono essere proiettati nel futuro, ma ogni giorno il Signore risponde ai bisogni dei suoi figli.

croce

NO ALL’IDOLATRIA DEL DENARO

commento di p. Pagola

Il denaro, convertito in idolo assoluto, è per Gesù il maggiore nemico di un mondo più degno, giusto e solidale che egli vuole.
Già venti secoli fà il Profeta di Galilea denunciò in maniera rotonda che il culto al Denaro sarà sempre il maggiore ostacolo che troverà l’Umanità per progredire verso una convivenza più umana.   La logica di Gesù è schiacciante: “Non pote…te servire a Dio e al Denaro”. Dio non può regnare nel mondo ed essere Padre di tutti, senza reclamare giustizia per coloro  che  sono esclusi da una vita degna. Per questo motivo, non possono lavorare più per questo mondo umano tanto caro a Dio quelli che, dominati per l’ansia di accumulare ricchezza, promuovono un’economia che esclude i più deboli e li abbandona nella fame e nella miseria.   È sorprendente quello che sta succedendo col Papa Francesco. Mentre i mezzi di comunicazione e le reti sociali che circolano per internet c’informano, con ogni tipo di dettagli, dei gesti più piccoli della sua personalità ammirabile, si nasconde in  modo vergognoso il suo grido più urgente diretto a tutta l’Umanità: “No ad un’economia dell’esclusione e dell’iniquità. Questa economia ammazza.” Tuttavia, Francesco non ha bisogno di lunghe argomentazioni né profonde analisi per esporre il suo pensiero. Sa riassumere la sua indignazione in parole chiare ed espressive che potrebbero aprire il notiziario di qualunque telegiornale, o essere un titolo per la  stampa in qualunque paese. Solo alcuni esempi. Non può essere che non sia notizia che muore di freddo un anziano  sulla strada e che invece lo sia la caduta di due punti della borsa. Questo è esclusione. Non può tollerarsi che si getti cibo quando c’è gente che soffre la fame. Questo è iniquità.”   Viviamo “nella dittatura di un’economia senza volto e senza un obiettivo davvero umano”. Come conseguenza, “mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si allontanano sempre più da quel  benessere di quella minoranza felice.”
“La cultura del benessere ci anestetizza, e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che ancora non abbiamo comprato, mentre tutte quelle vite mozze per mancanza di possibilità ci sembrano uno spettacolo che in nessun modo ci toccano.”   Come  il papa ha detto: “questo messaggio non è marxismo, ma è  Vangelo puro”. Un messaggio che deve avere eco permanente nelle nostre comunità cristiane. Il contrario potrebbe essere un segno di quello che dice Bergoglio: “Stiamo diventando incapaci di compatirci tra di noi, non piangiamo più oramai davanti al dramma degli altri.”   Diffondi il Vangelo di Gesù.
José Antonio Pagola
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