celibato dei preti: ritorna la discussione

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Celibato dei preti: una “discussione” in vista in Vaticano?

di Stéphanie Le Bars

 Una breve frase sul celibato dei preti, pronunciata dal nuovo numero due del Vaticano, Pietro Parolin, attualmente nunzio apostolico in Venezuela, annuncia forse un cambiamento importante nella “tradizione” della Chiesa cattolica? Difficile per ora dare un giudizio. In un’intervista pubblicato dal quotidiano venezuelano El Universal l’8 settembre, il segretario di Stato, che entrerà in carica il 15 ottobre, ricorda che il celibato dei preti “non è un dogma” e che questa “tradizione ecclesiastica può essere discussa”. Questo tema è già stato affrontato da questa angolazione da diversi cardinali in questi ultimi anni, in particolare come una risposta possibile alla crisi delle vocazioni nei paesi occidentali, ma i vertici vaticani avevano immediatamente chiuso la porta, cosa che il papa attuale non ha, per il momento, ancora fatto. Mai questo argomento era stato affrontato a un così alto livello nel governo del Vaticano, ma Mons. Parolin tende a sminuire l’importanza della cosa, affermando: “Bisogna tener presente lo sforzo che ha fatto la Chiesa per instaurare il celibato dei preti. Non si può dire semplicemente che appartiene al passato. È una grande sfida per il papa, che è a capo del magistero dell’unità, e tutte le decisioni devono essere prese con l’obiettivo di unire la Chiesa, non di dividerla”, ha proseguito Mons. Parolin. “Possiamo anche parlare, riflettere e approfondire questi temi e pensare a delle modifiche, ma sempre tenendo conto dell’unità, della volontà di Dio (…) o dell’apertura ai segni dei tempi”. L’idea originale di Jorge Bergoglio nel 2010 Dopo che il Concilio di Trento, tenutosi alla metà del XVI secolo, ha “rafforzato” questa misura, applicata progressivamente nella Chiesa “nel corso del primo millennio”, tutti i papi hanno riaffermato questa regola. Jorge Bergoglio non ha mai affrontato l’argomento come papa, ma nel 2010, quando era arcivescovo di Buenos Aires, si era dichiarata favorevole “al mantenimento per il momento del celibato con i suo vantaggi e i suoi svantaggi”. Se un cambiamento dovrà esserci, aggiungeva, “sarà per ragioni culturali, in un luogo preciso e non in maniera universale”. Un approccio originale che sarebbe difficilmente mantenibile con l’esigenza “di unità della Chiesa” che Mons. Parolin ha ricordato nell’intervista. A parte questa uscita sul celibato, Mons. Parolin inserisce chiaramente il nuovo pontificato nella continuità. “La Chiesa ha una costituzione, una struttura, un contenuto che sono quelli della fede, e nessuno può cambiarli”.

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Mancuso sulla lettera del papa a Scalfari

 

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merita di essere letto attentamente l’articolo odierno di Vito Mancuso su ‘la Repubblica’ in riferimento alla lettera di papa Francesco a Scalfari: è un buon contributo alla riflessione.
Il papa, i non credenti e la risposta di Agostino

di Vito Mancuso

Qual è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”. Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un’apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti). Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di “discorso sul metodo” su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l’Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno. Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per citare l’espressione di Hegel che gli costò l’amicizia di Schelling, conduce cioè all’estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti. È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: “Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”. “Scimmia pensante… bestia da cui proveniamo”: queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una “bestia” e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l’evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia,Amore. La differenza peculiare quindi non è tanto l’accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito “adottato” da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4). Peraltro il dialogo con l’ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l’umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l’unicità e la trascendenza di Dio. Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall’accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come “comunità di fede”: nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio. Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura
dell’uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e ambigua, chiamata da Scalfari “bestia”. Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: “Quid autem amo, cum te amo?”, “Ma che cosa amo quando amo te?” (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quantomai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è umano, procede dall’esperienza dei sensi. Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell’amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico. Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell’amore per Dio è “la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall’alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell’ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo. Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull’uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d’ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva. Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano “sta nell’obbedire alla propria coscienza”, un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti. Se non veniamo da un’origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell’assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le proprie, che può prendere corpo quell’invito a “fare un tratto di strada insieme” rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.

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bisogno di teologia della liberazione?

 

Boff
Perché ritorna la teologia della liberazione?

di Aldo Maria Valli

  Papa Francesco che riceve a Santa Marta Gustavo Gutiérrez, il padre della teologia della liberazione, è una notizia. Una visita in qualche modo anticipata dall’Osservatore romano che aveva parlato diffusamente del sacerdote peruviano. È vero che il domenicano, a differenza di altri esponenti di quel filone teologico, non è mai stato condannato da Roma, ed è altrettanto vero che l’attuale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, è addirittura un allievo di Gutiérrez nonché suo intimo amico. Ma lo spazio che il giornale della Santa Sede ha recentemente dedicato al libro scritto da Gutierrez e Müller (Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della Chiesa, Edizioni Messaggero – Emi) segna comunque una svolta ed è indice di un clima cambiato. L’edizione italiana del libro scritto da Gutiérrez e Müller (uscito in Germania nel 2004) è stata presentata nei giorni scorsi a Mantova alla presenza dei due autori e anche a questo incontro l’Osservatore romano ha dato spazio grazie a una bella intervista di padre Ugo Sartorio al teologo peruviano. Nel libro il teologo Müller mette nero su bianco: «Il movimento ecclesiale e teologico dell’America Latina, noto come teologia della liberazione e che dopo il Vaticano II ha trovato un’eco mondiale, è da annoverare, a mio giudizio, tra le correnti più significative della teologia cattolica del XX secolo». E ancora: «Solo per mezzo della teologia della liberazione la teologia cattolica ha potuto emanciparsi dal dilemma dualistico di aldiquà e aldilà, di felicità terrena e salvezza ultraterrena». Papa Francesco è su questa stessa linea. Il che non autorizza certamente a sostenere che il pontefice argentino sia diventato un supporter della teologia della liberazione. Lui, semmai, è legato alla cosiddetta teologia del pueblo, che ha in Lucio Gera (immigrato italiano arrivato in Argentina da bambino) il fondatore e che recupera la religiosità popolare e accoglie l’opzione preferenziale per i poveri rifiutando però la dottrina marxista della lotta di classe e il rischio di ridurre la Chiesa a una sorta di agenzia sociale. Tuttavia è indubbio che in altri tempi il giornale della Santa Sede non avrebbe dedicato tanta attenzione a Gutierrez. Papa Francesco sa bene che il confronto con la cultura atea, terreno privilegiato da Joseph Ratzinger e in generale dalla teologia europea, non può essere l’unico sul quale impegnarsi. Certo, resta un terreno importante (come dimostra la lettera inviata dal papa a Eugenio Scalfari), ma accanto ad esso occorre recuperare quell’altra grande sfida rappresentata dalle vecchie e nuove povertà. Una sfida che la Chiesa può raccogliere in modo credibile e fruttuoso soltanto se a sua volta vive la povertà. In questo senso l’esperienza del teologo Müller è significativa. L’attuale prefetto dell’ex Sant’Uffizio conobbe Gutierrez e la teologia della liberazione negli anni Ottanta, durante un soggiorno in Perù. Vissero due settimane con i contadini delle Ande e con i poveri delle baraccopoli e solo dopo tennero una settimana di riflessione e di studio. Fu così che Müller capì che la teologia della liberazione non nasceva da una disputa teorica ma aveva concretamente a che fare con la vita dura e con la sofferenza dei poveri e con le cause che provocano la povertà. Papa Bergoglio è passato da un’esperienza analoga. Anche lui, in Argentina, ha toccato con mano la povertà ed è andato dai poveri, e anche lui, come Müller, ritiene che se il marxismo è stato il grande problema del XX secolo, il neoliberismo selvaggio è il grande scandalo del secolo XXI. Ecco perché Francesco, pur condannando un certo “progressismo adolescenziale” che ancora fa breccia nei cuori di alcuni cattolici, non esita a recuperare quanto, dal suo punto di vista, ci può essere di buono e di valido nella teologia della liberazione. Ed ecco perché, come spiega padre Sartorio sull’Osservatore, «con una papa latinoamericano, la teologia della liberazione non poteva rimanere a lungo nel cono d’ombra nel quale è stata relegata da alcuni anni, almeno in Europa».

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Paoli
Fratel Arturo Paoli

dialogo sull’uomo e su Dio

a Palazzo Ducale, Lucca
Giovedì, 12 Settembre 2013 

La riflessione sull’uomo e il suo viaggio interiore verso se stesso e verso Dio è stato il tema dell’incontro che si è svolto oggi (12 settembre), a Palazzo Ducale, organizzato da Provincia, Comune di Lucca e Scuola per la Pace. A introdurre l’incontro il presidente della Provincia Stefano Baccelli e il sindaco di Lucca Alessandro Tambellini. Dopo la proiezione del video dedicato al Volto Santo realizzato dalla giovane autrice Silvia Bellia, gli interventi dell’arcivescovo Italo Castellani e di fratel Arturo Paoli, moderati da Ilaria Vietina, vice-sindaco del Comune di Lucca, nonché coordinatrice della Scuola per la Pace.

 

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il berlusconismo agli occhi di un poeta

 

 

mix floreale

Valerio Magrelli

Il berlusconismo, malattia senile/servile del comunismo: un acrostico (vedi le iniziali maiuscole dei versi)

Politica vuol dire, innanzitutto, non tradire il mandato
Dei propri elettori (specie se quel mandato è molto chiaro).

Politica, inoltre, significa combattere il devastatore
Delle istituzioni, e non certo allearcisi.

Politica, punto tre, sta nel capire la forza senza eguali
Del policida, senza stringere patti con chi nel patteggiare non ha eguali.

Possibile che siate giunti a tanto?
Deputati a punire l’eversore,
Lo avete tratto in salvo: Larghe Offese!

Pensare, poi, di toccare il Santo Graal della Costituzione,
Delegando un’impresa da giganti a uno stuolo di nani,
Lede non l’onestà, ma la decenza, squallida impresa violante.

San Giorgio non uccide più il Biscione, ma lo rimette in vita:
Incredibile scempio, sottomissione e smarrimento!
Liberatevi dalla sindrome di Hardcore,
Vergognatevi per la vostra defezione,
Ignobile o lucrosa, abietta resa,
O nulla potrà più sottrarvi alla penosa gogna della Storia.

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il potere di sperare

 

 

 

vito-mancuso
Il potere di sperare dell’uomo autentico

Traggo queste riflessioni da “La Vita Autentica” di Vito Mancuso che potrebbero portare ad una lunga e stimolante discussione sull’uomo che l’autore chiama “autentico”:

“La speranza ha a che fare con una dimensione dell’essere umano, dove l’intelletto e la volontà si uniscono dando origine a qualcosa di superiore che da’ il sapore complessivo alla personalità. Un vero uomo è tale non in base a ciò che ha, non in base a ciò che sa, neppure in base a ciò che fa, ma in base a ciò che è; ma ciò che un uomo è, in quanto essere individuale irripetibile, è sì il suo corpo fisico, è sì la sua professione, ma è ancor di più la speranza, cioè la tensione complessiva della sua vita e il sapore di fondo che ne deriva all’intera personalità, la musica che fuoriesce quando lui si presenta e che gli altri percepiscono, che lo si voglia oppure no. Se infatti la speranza non si può misurare con l’intelligenza mediante test, e neppure come si misura la volontà per la quale pure vi sono metodi appositi (alcuni dei quali molto singolari come camminare sui carboni ardenti o rimanere chiusi per ore in una bara con solo una minuscola fessura per l’aria), ciò che un uomo interiormente è si può tuttavia percepire lo stesso, forse si può dire che lo si vede con il terzo genere di conoscenza di cui parla Spinoza verso la fine della sua Etica. Nessuno sa se ci sarà davvero una pesatura delle anime alla fine del mondo, ma la bilancia della psicostasi esiste dentro ciascuno di noi, perché ciascuno è in grado di capire quanto pesa la propria e l’altrui personalità e di sentire se chi abbiamo di fronte è in vendita, e per quanto, oppure no. La speranza per cui un uomo vive è che costituisce il suo tesoro ideale definisce la sua più peculiare personalità, da’ forma e sostanza alla sua anima. Ed è questo che intendo col dire che il vero uomo ha trovato. Non ha trovato nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. Purtroppo (o per fortuna) la vita è fatta in modo tale da non lasciar sussistere nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. La speranza è destinata a rimanere speranza, a non trasformarsi mai in sapere. L’uomo che definisco vero ha trovato una speranza, (non una dottrina né un’ideologia) per la quale vivere, come specie di luce lontana verso cui camminare. Questa speranza non è un possesso che si può materializzare (né come dottrina né come ideologia …. Sostengo quindi che l’uomo compie la sua vita, rendendola oggettivamente autentica è uscendo dalle trappole dell’Io, quando vive per una speranza più grande di lui, in base alla quale egli, a poco a poco, giunge a dare forma a tutto quello che fa e che dice. m ritorna la domanda di Kant: che cosa, dal punto di vista del contenuto, è lecito sperare? La risposta è semplice e insieme stupefacente: è lecito sperare che l’ultimo orizzonte dell’essere sia non l’assurdo ma il senso, non il male ma il bene, non il nulla ma l’essere, non la morte ma la vita. Questo a un uomo ragionevole è lecito sperarlo. Saperlo no, ma sperarlo in modo ragionevole sì. … Vivere per qualcosa di più grande di sé come il bene e la giustizia, cioè vivere l’esistenza all’insegna della più pura prospettiva etica, apre la speranza della mente al fatto che qualcosa di più grande di sé esiste veramente, che esiste una dimensione dell’essere più grande di quella di questo piccolo Io destinato a finire, una dimensione che i popoli di tutti i tempi hanno intuito e chiamato divino, assegnandovi poi il nome particolare di cui erano capaci, tutti comunque inadeguati. Sperare in senso complessivo dell’essere che si dice come vita e come bene significa aver fede in Dio. Un uomo può essere abitato da questa speranza sul senso complessivo della vita, e un altro no, e perché questo avvenga nessuno lo sa. Ma per una vita autentica è necessario credere in Dio? Sono convinto di no. Ritengo, però che senza credere nel bene e nella giustizia, e che se un uomo crede nel bene e nella giustizia deve poi giustificare a se stesso perché lo fa e provare a pensare quale sia la concezione dell’essere più ragionevole che giustifica tale suo affidamento esistenziale al bene e la giustizia. Se la logica del mondo non è indirizzata al bene ed alla giustizia, perché costruirvi sopra la vita? Ma se vi è indirizzata, facendo sì che valga la pena impostarvi la vita, come chiamare questa direzione verso cui la logica del mondo conduce, direzione che è dentro il mondo ma che è più grande del mondo? Io sono convinto che la dimensione etica, in quanto anelito al bene e alla giustizia sia il fondamento autentico del pensiero del divino nella coscienza umana di tutti i tempi. Per questo, anche a prescindere da qualunque defe religiosa, “beati quelli che hanno fame e sete di giustizia”. Infatti, se la speranza per cui uno vive è complessivamente orientata al bene e alla giustizia (intesi anche solo come forma delle relazioni umane e non come senso complessivo dell’essere), essa produce in chi vive la luce particolare, la luce calma e benevola dell’uomo buono. Dell’uomo giusto. La dedizione della libertà a questa luce interiore rende la vita soggettivamente e oggettivamente autentica. Da qui la terza tesi: “L’uomo autentico è l’uomo che vive per la giustizia, il bene, la verità”.

In un ‘epoca dove la disperazione dilaga e mortifica l’uomo, consiglio la lettura di questo libro capace di stimolare profonde riflessioni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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