la ‘parresia’ del card. Maradiaga, elogiata da Mancuso, criticata da ‘il Foglio’

mutare la dottrina, si può e si deve, dice Mancuso alle orecchie scandalizzate de ‘il Foglio’, quando tale dottrina non è più capace di parlare e annunciare il vangelo all’uomo contemporaneo:  qualcuno potrebbe parlare di “tattica del camaleonte, ma sbaglierebbe. Perché è solo un modo per dire che l’insegnamento di Gesù è sempre attuale”. “Se la chiesa non muta – aggiunge Mancuso – non vive. Vogliamo qualcosa di immutabile? Bene, prendiamo una pietra. Se la chiesa vuole vivere, deve mutare”

questa la ricostruzione delle dichiarazioni di Mancuso a ‘il Foglio’ fatta da M. Matzuzzi:

Nelle parole del teologo novatore Mancuso, ecco la posta in gioco

“Se non entrerà in gioco il concetto di famiglia, non so a cosa possa servire il Sinodo. La questione di fondo è proprio questa, l’ha detto anche Maradiaga nella recente intervista concessa al quotidiano tedesco Kölner Stadt-Anzeiger”. Il teologo Vito Mancuso è rimasto impressionato dalle parole del porporato honduregno, “mi ha colpito la libertà della mente che il suo incedere aveva, e di questo c’è molto bisogno, soprattutto nella chiesa”, dice al Foglio. “Serve parresìa, franchezza nel dire le cose, pur avendo sempre rispetto verso la persona verso cui le si dice. C’è necessità di dire le cose in maniera netta, franca. Cosa che oggi non si vede più troppo spesso”. Maradiaga parla di nuova èra, si richiama al Vaticano II, “quasi ci fosse bisogno di riprendere quella musica dopo l’ouverture interrotta. E’ penetrante quell’immagine dell’aria fresca”, aggiunge Mancuso. Il cuore della faccenda è che “il genere di famiglia descritto dalla Familiaris Consortio, l’esortazione giovanpaolina del 1983, non esiste quasi più. Ci sono altre situazioni, oggi, che ambiscono ad avere la qualifica di famiglia, e ciò sarebbe opportuno e giusto”. Maradiaga, nell’intervista, parla di genitori separati, famiglie allargate, genitori single. Cita il fenomeno della maternità surrogata, i matrimoni senza figli, le unioni tra persone dello stesso sesso. “Più queste forme di unione vengono stabilizzate, più gli individui interessati ne trarranno del bene. Ricordiamo che il compito ultimo della chiesa è proprio quello, il bene. Ecco perché – aggiunge il teologo – il concetto di famiglia deve entrare nel dibattito sinodale. E questo senza paura di aprirsi troppo né di mostrarsi sempre necessariamente accondiscendenti verso la realtà”.

Quanto al confronto sul riaccostamento dei divorziati risposati ai sacramenti, con il custode dell’ortodossia cattolica, Gerhard Müller che dalle pagine dell’Osservatore Romano invita a non banalizzare la misericordia divina e Maradiaga che ricorda come le parole di Cristo possano essere interpretate, Mancuso non ha dubbi: “Le parole di Cristo si sono sempre interpretate. Se non si vuole cadere nel fondamentalismo delle sette, è inevitabile esporsi al rischio (che è anche fascino) dell’interpretazione. Si è sempre fatto così. Basti pensare che le parole di Cristo già sono consegnate a noi come interpretazione, le ipsissima verba Iesu quasi non esistono, Gesù parla in modo molto diverso nei vari vangeli. Direi quindi che l’interpretazione non è certo un pericolo ma è specifico dell’identità cristiana”. Nel mondo della vita spirituale, aggiunge il nostro interlocutore, “nulla si fa senza il rischio di interpretazione”. E’ inevitabile, poi, che – come dice Maradiaga – si pensi più alla pastorale che alla dottrina: “Nel discorso d’apertura del Concilio, Giovanni XXIII distinse tra la dottrina certa e immutabile e il modo per renderla comunicabile all’altezza delle esigenze contemporanee. La pastorale è proprio questo, è il tentativo di rendere comunicabile la dottrina all’uomo contemporaneo”, spiega Mancuso. Certo, “ho dei dubbi che questo possa avvenire senza toccare la dottrina, anche se i vescovi non ammetteranno mai un mutamento dottrinale, diranno che si tratta semmai di normale evoluzione”, aggiunge. “Ma è inevitabile che ci debba essere un cambiamento di prospettiva, anche clamoroso. Se si è fedeli all’esigenza dei tempi, questo è inevitabile”. Niente di totalmente inedito però: “Anche in passato si è fatto così. E’ già successo – spiega il teologo –, solo che la chiesa ha negato che si trattava di rottura, parlando di naturale evoluzione”. Un esempio? “La questione della libertà religiosa. Aveva ragione Marcel Lefebvre nel dire che c’è stato un effettivo disconoscimento del Sillabo e della Mirari Vos di Gregorio XVI e, più in generale, di tutto un magistero secolare della chiesa. Non ci sono dubbi che la Dignitatis Humanae ha compiuto una svolta mettendo l’accento sulla libertà di coscienza del singolo e non sulla verità oggettiva”. Qualcuno potrebbe parlare di “tattica del camaleonte, ma sbaglierebbe. Perché è solo un modo per dire che l’insegnamento di Gesù è sempre attuale”. “Se la chiesa non muta – aggiunge Mancuso – non vive. Vogliamo qualcosa di immutabile? Bene, prendiamo una pietra. Se la chiesa vuole vivere, deve mutare”.

Quanto alle frasi del prefetto Müller sulla misericordia che deve andare sempre di pari passo con la giustizia – “al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia”, scriveva sull’Osservatore Romano – Vito Mancuso dice che “la misericordia vera sa, conosce le ferite delle persone”. La strada, aggiunge, “è quella che porta al primato della misericordia. O vogliamo dire che chi ha un matrimonio fallito ha commesso un peccato? Semmai è un errore, ma non ci sono i presupposti per parlare di peccato”. A ogni modo, sottolinea il nostro interlocutore, “ciò non significa che si debba avere un’idea troppo sbarazzina della misericordia. Questa non va contrapposta alla giustizia, ma non può esserci giustizia senza misericordia. Altrimenti si cade nel giustizialismo, nel terrore, nel giacobinismo freddo e spietato. Troppo spesso, oggi, appare solo la parte fredda e oggettiva”. Ma qualcosa, dice, sta cambiando. Con l’ascesa al Soglio pontificio di Francesco, sta venendo meno l’idea di una dottrina “troppo canonistica e legalistica.  L’idea di un’etica cristiana che si traduceva in una serie di no”. Il prossimo passo sarà quello di far entrare il principio della libertà anche nella lettura del corpo, “come è già avvenuto a livello di ideologia morale e sociale, generando una dottrina capace di parlare all’uomo contemporaneo”. In assenza di questo passaggio, la dottrina morale prodotta rimane incomprensibile.

 

la sperimentazione animale e il rischio fanatismo

Caterina Simonsen, studentessa 25enne nata a Padova e iscritta a

riflessioni di V. Mancuso a proposito della sperimentazione animale a partire dagli insulti che una studentessa di veterinaria affetta da una malattia rara per aver usufruito della sperimentazione animale per sopravvivere

a seguire le brevi ma forti e appropriate riflessioni si A. Serra contro un fanatismo ecologico che si veste di disumanità e violenza:

 

QUEL GIUSTO EQUILIBRIO FRA IL CUORE E LA MENTE

Vito Mancuso

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Caterina Simonsen, studentessa di veterinaria all’Università di Bologna da tempo seriamente malata, qualche giorno fa su Facebook ha scritto così a favore della sperimentazione animale in ambito medico: «Ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale, senza la ricerca sarei morta a 9 anni». Ha aggiunto di studiare veterinaria «per salvare gli animali», di essere vegetariana, e nel suo profilo mostra una foto che la ritrae mentre bacia il suo criceto di nome Illy.

Nel giro di qualche ora ha ricevuto centinaia di messaggi offensivi, tra cui una trentina di questo tipo: «Era meglio se morivi a 9 anni brutta imbecille, io sperimenterei su persone come te»; oppure: «Se per darti un anno di vita sono morti anche solo 3 topi, per me potevi morire pure a 2 anni». Penso sia lecito chiedersi dove siamo finiti e che ne sia ormai della solidarietà umana.

Come Caterina Simonsen, anch’io ho scelto di non mangiare più carne, è una scelta che mi fa sentire solidale con la vita, che reputo sacra in ogni sua manifestazione, umana e animale. Anzi, penso che la vita sia sacra già a livello vegetale e che di per sé non si dovrebbero mangiare neppure le patate e le cipolle che sono tuberi e possono generare vita, e infatti i monaci giainisti non le mangiano cibandosi solo di frutti. Ma non basta, occorrerebbe chiedersi se un albero voglia darci i suoi frutti, che non ha certo prodotto per noi, e se raccoglierli non implichi una forma di violenza, per lo meno di quella legata al furto. Non a caso Gandhi scriveva che «il consumo dei vegetali implica violenza», aggiungendo però subito dopo: «Ma trovo che non posso rinunciarvi ». Da qui il profeta della non-violenza concludeva che «la violenza è una necessità connaturata alla vita corporea ». La nostra vita, in altri termini, per esistere si deve nutrire di altra vita che deve necessariamente sopprimere. Per questo nessuno è innocente e nessuno è in grado di stabilire con certezza dove si debba attestare il rispetto per la vita.

Tale conclusione sull’alimentazione vale anche per la cura medica: anche qui c’è un’inevitabile dose di violenza, come mostra già il nostro sistema immunitario del tutto simile a un esercito di professionisti senza scrupoli. Si potrebbe obiettare che i batteri eliminati dai globuli bianchi e le cavie su cui viene condotta la sperimentazione nei laboratori non sono la stessa cosa perché i primi sono aggressori e gli altri no, ma io penso che anche i batteri che entrano nel nostro corpo siano innocenti perché fanno solo il loro mestiere senza nessuna intenzione di aggredirci. In realtà la violenza è intrinseca in ogni sistema di difesa: se vuole continuare a vivere, nessun vivente può uscire indenne dalla catena di violenza di cui è impastata la vita, e per questo nessuno ha il diritto di tirare la prima pietra condannando chi mangia carne o chi sostiene la ricerca mediante sperimentazione animale.

Tuttavia dalla catena di violenza di cui è intrisa la vita alcuni esseri umani desiderano emanciparsi, e questo è un nobile ideale che a mio avviso va sostenuto. Nessun altro essere vivente può concepire tale emancipazione, solamente l’uomo lo può, mostrando in questo di essere ben al di là della vita animale. Sto dicendo che gli animalisti, con il loro sostenere un comportamento del tutto privo di violenza verso gli animali e con il loro volere per gli animali gli stessi diritti dell’uomo, mettono in atto un comportamento che li distanzia al massimo dal mondo animale. Nessun animale carnivoro infatti cesserà mai di mangiare carne, nessun animale erbivoro deciderà mai di astenersi dai bulbi e dai tuberi, nessuna specie animale estenderà mai alle altre specie i diritti di supremazia che la natura lungo la sequenza della selezione naturale le ha concesso.

A parte quella umana, nessuna specie cesserà mai di seguire l’istinto sotto cui è nata. L’uomo al contrario ha imparato a poco a poco a estendere gli ideali di giustizia a tutti gli esseri umani, compresi quelli dalla pelle diversa, e oggi alcune avanguardie stanno lottando per allargare tali ideali ad altri esseri viventi. Tutto ciò, esattamente al contrario del naturalismo professato da alcuni animalisti, mostra in modo lampante lo iato esistente tra Homo sapiens e gli altri viventi. Se gli esseri umani lottano per estendere agli animali gli stessi diritti dell’uomo non è quindi perché non c’è differenza tra vita umana e vita animale, ma esattamente al contrario perché tra le due vi è una differenza qualitativamente infinita.

Ponendosi in tale prospettiva di estensione degli ideali di non-violenza anche al mondo animale, Gandhi scriveva: «Aborrisco la vivisezione con tutta la mia anima. Detesto l’imperdonabile macello di vita innocente nel nome della scienza e della cosiddetta umanità, e considero del tutto prive di valore le scoperte scientifiche macchiate di sangue innocente». Per questo, al di là delle ignobili offese a Caterina Simonsen che meritano solo l’oblio, io ritengo che nella campagna animalista contro la sperimentazione sugli animali vi sia qualcosa di importante. Si tratta dell’appello a estendere a tutti i viventi l’imperativo categorico della vita etica, formulato da Kant alla fine del Settecento solo in prospettiva antropocentrica: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai solo come mezzo». Oggi si tratta di giungere a trattare «sempre come fine e mai solo come mezzo» non solo l’umanità, ma, per quanto è possibile, tutto ciò che vive: gli animali, le piante, i mari, le montagne, il pianeta, il cosmo… tutto dovrebbe essere visto in una prospettiva non utilitaristica ma vorrei dire contemplativa, in cui si contempla la natura delle cose rispettandole per quello che sono e cessando di calcolare solo l’utile che ne viene a noi, per una filosofia ecologica di cui il nostro tempo e il nostro spazio hanno urgente bisogno.

Attenzione però alla saggezza del grande filosofo: dicendo «mai solo come mezzo», Kant ricordava che un elemento di strumentalità è sempre connaturato al vivere, nel senso che ognuno di noi in alcune circostanze è anche un mezzo per la vita degli altri. Ciò ci dovrebbe portare a quel saggio equilibrio del cuore e della mente che mette al riparo da ogni radicalismo fanatico e che porta ad appoggiare la liceità etica della sperimentazione animale laddove davvero non vi sia altra possibilità per sconfiggere le malattie degli uomini e degli stessi animali.

A. Serra e la sua solidarietà a Caterina:

Solidarietà e affetto per Caterina, la studentessa di Bologna (facoltà di Veterinaria, e non è un dettaglio) massacrata di insulti e minacce di morte da sedicenti “animalisti” per avere osato dire che senza la sperimentazione sugli animali non sarebbe sopravvissuta alla sua grave immunodeficienza. Mi domando spesso perché, tra i fanatici incapaci di affrontare qualunque discussione, i sedicenti animalisti occupino un posto così rilevante. Chi ama la natura, la frequenta, la ammira, ci vive in mezzo, cerca di sentirsene parte, sa che la natura è complessa; non è schematica, la natura, non è ideologica.
Quando sento parlare i portavoce più fanatici e sprovveduti del sedicente animalismo mi viene da pensare che gli umani, dopo avere soggiogato e manipolato la natura con goffa avidità, oggi tendono a farne un nuovo tabù. Ma tutti i tabù sono retrogradi e irrazionali; e tutti i tabù nascono dal senso di colpa, che è sempre un pessimo consigliere. Il rispetto per gli animali (boicottando, per esempio, gli allevamenti intensivi) è una manifestazione di pensiero evoluto. L’animalismo isterico una devoluzione patologica della cultura umana

anche O. Beha ha riflettuto sull’atteggiamento degli animalisti i reazione al ‘caso di Caterina Simonsen’, esprimendosi in questo modo:

Test sugli animali e barbarie di fine anno

Caterina Simonsen

Ci si affaccia sul 2014 in piena barbarie regressiva. Di segnali ce ne sarebbero tanti, guardandosi intorno e ovviamente anche oltre i confini nazionali, ma scelgo il caso di Caterina Simonsen, la studentessa padovana di veterinaria in cura in ospedale che ha diffuso un messaggio per il quale è stata poi aggredita. Il messaggio suonava così succintamente: “Sarei morta se non ci fossero i test sperimentali sugli animali perché soffro di malattie rare”.

Sul web si sono scatenati gli animalisti contro di lei, arrivando ad augurarle la morte tout court. Quindi un seguito di attestati di solidarietà alla ragazza e polemiche di non grande spessore. Ebbene, il primo, immediato livello di barbarie è quello di chi augura la morte a Caterina e di chi senza farlo si associa idealmente a tale augurio. Pensate a un figlio da curare, per il quale fareste tutto, e meditate, barbari. Il secondo livello è quello di continuare a opporre ricerca scientifica e sperimentazione animale come toccasana a vivisezione e altre pratiche barbare o semibarbare. Qui siamo alla contrapposizione tra il figlio da curare e il tuo cane da far secco per sperimentare, una specie di “tifo” tra un umano e un animale che è esso stesso barbarie.

Il terzo livello è quello della comunicazione. Perché mai o troppo raramente si è parlato e si parla con chiarezza dei vari aspetti della questione? Perché gli italiani che secondo qualunque ricerca si informano soprattutto grazie alla tv (o per colpa della) non hanno mai potuto approfittare di trasmissioni serie che rendessero pubblici i risultati di scienza e tecnica nel mondo, ormai oltre una sperimentazione animale considerata per esempio negli Usa perlomeno impropria e arretrata nel confronto tra specie diverse? Stesso discorso riguardo a etica e normative sul pianeta. Perché? Perché siamo barbari, e come scriveva Shakespeare a proposito di Polonio nell’Amleto, “c’è del metodo in quella follia”, e mi riferisco a chi da tutto ciò ricava montagne di denaro. Buon Anno, a Caterina e a tutti coloro che se lo meritano, possibilmente oltre queste secche.

(Oliviero Beha)

A. Paoli visto da V. Mancuso

paoli

 

Vito Mancuso riflette sul nuovo libro di Arturo Paoli: ‘cent’anni di fraternità’ presentando tutta la sua vita come una vita da teologo della libertà

Arturo Paoli, una vita da teologo della libertà
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 2 dicembre 2013
Escono i ricordi del “profeta” del cristianesimo senza potere che ha compiuto 101 anni.
‘Cent’annidi fraternità’

Cent’anni di fraternità è il nuovo bellissimo libro di Arturo Paoli, un titolo che suona come una
metafora dell’esistenza in contrapposizione ai Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez, ma che
certifica anche una vita individuale che il 30 novembre scorso ha compiuto 101 anni. Nato a Lucca
nel 1912, sacerdote, medaglia d’oro al valor civile e giusto tra le nazioni per aver salvato molti
ebrei, Paoli risulta presto sgradito alla chiesa di Pio XII e viene allontanato dall’Italia. Va in
Argentina dove trascorre 13 anni e finisce tra le liste dei condannati a morte del regime, si salva
andando in Venezuela dove rimane 12 anni, poi in Brasile dove passa vent’anni, torna in Italia nel
2005.
Maestro spirituale, profeta mite e severo, autore di numerosi libri che mostrano vasta cultura e uno
stile letterario affascinante, la sua opera è un’anticipazione profetica e una coerente applicazione
della Teologia della liberazione. In gioco vi sono due liberazioni, la prima riguarda i poveri e gli
sfruttati del pianeta perché «tutto il Vangelo è una denuncia contro coloro che stanno sopra», perché
«Dio si trasforma in un’immagine tirannica se l’uomo non lo raggiunge per il cammino della
relazione con gli altri», perché se è vero che esiste una dimensione della vita più profonda della
sfera economica è ancora più vero che «rinunziare a guardare in faccia l’economico è come
svuotare la croce di Cristo». Il segno più chiaro dell’identificazione con Cristo ha molto a che fare
con l’economia, il Vangelo la chiama fame e sete di giustizia.
La seconda liberazione promossa da Arturo Paoli riguarda lo stesso cristianesimo, spesso ridotto a
ideologia che difende i privilegi dei potenti e che va riscattato da tale alienazione. Questo
cristianesimo ecclesiastico nemico della liberazione degli uomini si manifesta nelle idee «che hanno
portato i vescovi dell’Argentina ad aderire con un tacito assenso alla furia diabolica dei militari…
con la complicità della Nunziatura apostolica, dunque del Vaticano». Nessuno può ignorare infatti
che «i generali argentini si dichiaravano cattolici», «paladini della civiltà occidentale cristiana», né
può essere un caso che lungo la storia dell’umanità «le nazioni cristiane sono quelle che hanno
creato più guerre».
Parole durissime, di un uomo sempre pacifico e sorridente ma che non fa sconti quando c’è di
mezzo la giustizia, raro profeta all’interno di un cattolicesimo italiano così schiacciato sui calcoli
politici e sempre generosamente ossequioso verso il potere. Arturo Paoli al contrario è sempre stato
amico dei poveri, mai dei potenti, lo dimostrano le pagine di critica esplicita verso Karol Woytjla e
Joseph Ratzinger per l’opera di demolizione della Teologia della liberazione e delle comunità
ecclesiali di base. Temevano la contaminazione marxista, «però quelli che parlano di questi pericoli,
non sono forse nel pericolo di far convivere tranquillamente la fede cristiana con l’ingiustizia e
l’oppressione?».
Oggi l’anziano profeta scrive che «con papa Francesco sembra inaugurarsi uno stile nuovo di vita»
e si dichiara «felice di ricevere dalla Chiesa l’elogio della Teologia della liberazione di cui sono
stato fedele seguace». Attenzione però, niente mezze misure, perché occorre «rifondare un
cristianesimo nuovo» e al riguardo Arturo Paoli non teme di affrontare il nesso strutturale del
cristianesimo ecclesiastico, cioè la dottrina peccato originale-redenzione. Egli denuncia che Gesù è
troppo schiacciato sul ruolo espiatorio del peccato, mentre «la sua vera missione è quella di
amorizer le monde, non quella di pagare il prezzo di espiazione dei nostri peccati». Gesù è il
maestro dell’amare, non la vittima immolata per la nostra redenzione al fine di rimediare ai danni di
un inesistente peccato originale.
Ma c’è un’ulteriore liberazione per cui lavora il cuore instancabile di Arturo Paoli: si tratta del nostro tempo imprigionato dalla tecnica, in particolare dell’anima dei giovani. Dichiarando di voler
aiutare i giovani «a uscire da questa incredulità generale», confessa: «Devo essere lieto in un mondo
sempre più triste». Egli sa bene infatti che è solo la gioia a poter veramente educare, e per questo
suggella il libro con parole di grande spiritualità: «Più viviamo nella meravigliosa profondità della
vita interiore, più scopriamo che lì si trovano i veri beni dell’essere umano: la sua libertà, la sua
pace, la sua gioia».
Conosco da tempo Arturo Paoli, l’ultima volta l’ho incontrato un mese fa, mi ha detto sorridendo
che non rimpiange nulla della sua vita e che rifarebbe tutto, e io penso che questa sia la più grande
beatitudine. Se il papa argentino si ricordasse di questo padre della Chiesa povera, farebbe il regalo
più bello ai suoi cent’anni di fraternità.

la chiesa di papa Francesco: illusoria o realisticamente evangelica?

papa Franc

sembra ai più ispirato dal e al vangelo, papa Francesco, nel suo parlare e nel suo agire cercano così di modulare e declinare una chiesa secondo criteri evangelici

ma ad alcuni non va proprio giù, specie ad alcuni cattolici tradizionalisti, di solito schierati ‘senza se e senza ma’ in difesa del papa e del papato (quasi a prescindere!), ma non di questo papa

questo papa sembra, ad esempio a V. Messori, propugnatore astratto di un “mito sempre antico e sempre ricorrente” di un ritorno astorico “alla chiesa primitiva, tutta povertà, fraternità, semplicità, assenza di strutture gerarchiche, di leggi canoniche”, una chiesa più da sogno che realistica, non riproponibile oggi in altro contesto culturale e storico

V. Mancuso risponde con puntualità a questa critica evidenziando nella ‘chiesa di papa Francesco’ tratti non onirici e astorici ma realisticamente evangelici

qui sotto i due articoli a confronto:

L’illusione di un ritorno alla chiesa primitiva

di Vittorio Messori
in “Corriere della Sera” del 10 novembre 2013

Alcune delle molte cose dette da papa Francesco e alcune sue scelte inedite — a cominciare dal rifiuto del palazzo vaticano e della villa di Castelgandolfo — stanno risvegliando un mito antico e sempre ricorrente tra i cattolici. Il sogno, cioè, di un ritorno alla Chiesa primitiva, tutta povertà, fraternità, semplicità, assenza di strutture gerarchiche, di leggi canoniche. Uno snello, democratico «movimento», insomma, non una pesante Chiesa, soffocatrice dello Spirito. Si smantelli l’istituzione clericale, basta con il Vaticano, la sua Curia, le sue banche, i suoi diplomatici, si torni finalmente alla comunità di Gerusalemme dopo la Pentecoste, In verità, il mito delle origini è smentito già dagli stessi Atti degli Apostoli: due tra i primissimi convertiti, i coniugi Anania e Saffira, fanno i furbetti sul prezzo del campo che dicono di avere venduto per la comunità e Pietro assiste addirittura alla loro morte immediata. Le lettere di Paolo sono roventi verso i comportamenti riprovevoli delle comunità da lui fondate o, in ogni caso, sorte da pochissimo. Chi conosce la storia della Chiesa primitiva sa che è anche una storia di lotte tra correnti, di mutue accuse di eresia, di scismi, talvolta di violenze interne, di martiri ma pure di disertori in tal numero che divenne centrale la disputa se e come riammettere nella comunità la folla dei lapsi, quelli che rinnegavano la fede per paura. Sin dall’inizio, secondo l’avvertimento di Gesù stesso, il buon grano si mescolò con l’infestante zizzania. Ma la nostalgia ricorrente, e che oggi sembra rilanciata, per una Chiesa delle origini, egualitaria, povera, dove la fede sia libera da sovrastrutture — a cominciare dalla Curia vaticana — non va solo contro la testimonianza della storia. Va anche contro una legge implacabile che i sociologi ben conoscono. La legge per la quale le grandi realtà sociali nascono come « movimenti», di solito ad opera di una persona carismatica, ma si dissolvono sempre e presto se, raffreddati gli entusiasmi iniziali, non accettano di trasformarsi in istituzioni gerarchiche, in strutture solide e ordinate. Solo queste assicurano la durata e la possibilità di incidere sulla società. La politica fornisce continue conferme di quanto siano illusori i bollori di chi si scaglia contro la istituzione-partito, bollata come gerarchica, burocratica, dogmatica, costosa. Occorre liberarsi da capi, tessere, cassieri, disciplina interna! Di quelle chimere abbiamo proprio ora l’esempio vistoso nello showman passato alla politica, Beppe Grillo. Costui ha predicato, e predica, come novità dirompente (mentre è vecchia e logora come il mondo) la possibilità di opporre ai malefici partiti un «movimento», nato e guidato dal basso, avendo oggi, tra l’altro, a disposizione la Grande Rete, dove tutti possono illudersi di essere eguali. Grillo, però, è stato subito vittima del peggior infortunio per un tribunus plebis : un successo elettorale inaspettato ed eccessivo. Finché si trattava di appellarsi alle viscere delle folle nelle piazze, tra urla e insulti, sembrava — almeno ai semplici — che il «movimentismo» fosse la soluzione. Ma si può essere gratificati dagli applausi solo quando si è al riparo in una nicchia, quando si grida no a tutto e si sta ai margini. Quando, non avendo responsabilità di governo, ci si può permettere di non fare i conti con la realtà. E, invece, allo sfortunato Grillo proprio questo è capitato: una fastidiosa responsabilità, che ha subito mostrato che il «movimento» non funziona, non può funzionare e che due sole sono le prospettive. O l’inazione e poi la dissoluzione coll’esodo dei delusi e coll’anarchia di sètte l’un contro l’altra armata; oppure, rassegnarsi e trasformarsi in uno di quei partiti già coperti di insulti. Tutte le ideologie politiche che hanno devastato il secolo scorso (comunismo, fascismo, nazionalsocialismo), tutte si presentarono, agli inizi, come «movimenti», contro la perfida casta partitica. E tutte divennero assai presto partiti unici, crearono regimi oppressivi, totalitari, come mai si era visto. In nome degli entusiasmi «movimentisti», crearono nomenklature privilegiate e gerarchie intoccabili come mai si erano viste. Ma allora, per tornare alla Chiesa: nella prospettiva di fede, nella logica dell’incarnazione, Dio ha voluto avere bisogno degli uomini, ha affidato loro la Parola e i Sacramenti della salvezza perché li annunciassero e li gestissero con una comunità. Comunità che — sempre per la dialettica del Deus incarnatus — nella sua struttura visibile, esterna, non è esentata dalle dinamiche che reggono ogni altra realtà umana. Dunque, all’inizio fu il «Movimento del Cristo», fu il «Gruppo del Nazareno», animato direttamente dagli apostoli, tra grandi entusiasmi. Ma, terminato lo «stato nascente», si passò rapidamente e necessariamente alla istituzione, alla struttura con una comunità gerarchica e, via via, organizzata con leggi interne ed esterne, e con proprietà mobili e immobili. Così come, in politica, il movimento iniziale — se vuol durare e contare — diventa necessariamente partito, qui si passò alla Chiesa come struttura stabile, organizzata, docente con autorità. Non fu, come pretendono gli utopisti, una deviazione, una deformazione, un tradimento del Cristo servo e povero, fu una evoluzione inevitabile, anzi doverosa per la realtà umane. E la Chiesa cattolica è una di esse, anche se qui — caso ovviamente unico — la struttura istituzionale non è che un contenitore, esiste solo per servire il Mistero di un Dio che insegna e redime. Insomma, è una illusione quella dei cristiani che, oggi più che mai numerosi, auspicano il ritorno alla semplicità degli inizi . Indietro non si può tornare. Dunque, non vi è posto per certa animosità pregiudiziale verso la Curia vaticana, verso coloro che, giorno dopo giorno, gestiscono la struttura ecclesiale. Non ha senso il manicheismo di chi volesse distinguere tra un «Pontefice buono» e una «Curia cattiva». Papa Francesco, gesuita, viene dal più compatto ordine ecclesiale ed è il primo a rifiutare una simile contrapposizione: anzi, ha più volte ringraziato i suoi collaboratori, verso i quali si dice pienamente solidale. Certo, Ecclesia semper reformanda, almeno nella sua struttura umana: la «macchina vaticana» va di continuo adattata ai tempi, semplificata nei metodi, migliorata (se possibile) nel suo personale, dal cardinale sino al minutante. Non dimenticando però che, senza la trasformazione in solida istituzione, del «Movimento di Cristo» sarebbe rimasto solo un cenno in qualche testo di storia antica dell’ebraismo.

margheritissime

 

Quei nemici devoti di papa Bergoglio

di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 11 novembre 2013

Fin dalla sua elezione papa Francesco sta producendo una serie di benefici per l’azione della Chiesa che non accennano a diminuire, come è dato riscontrare dall’aumento dei fedeli alle udienze e agli angelus domenicali. E, soprattutto, dalle molte persone che nel mondo intero grazie al Papa tornano al desiderio di una vita spirituale e riprendono a frequentare le chiese e ad accostarsi ai sacramenti. “Il mondo è innamorato di papa Francesco — ha scritto il cardinale di New York — e se io avessi avuto un dollaro per ogni newyorkese, cattolico e non, che mi ha detto quanto ama l’attuale Santo Padre, avrei pagato il conto salato dei restauri della cattedrale di St. Patrick! Lungo i nostri 2000 anni di storia abbiamo avuto ben pochi papi così degni dell’alto officio”. Ci sarebbe quindi da essere molto felici di papa Francesco, ma per non pochi cattolici cosiddetti “doc” e per qualche “ateo devoto” in passato solerte difensore di Ratzinger, le cose non stanno affatto così: anzi hanno iniziato a dar vita ad un’esplicita contestazione, punta dell’iceberg di una campagna conservatrice che vede in Bergoglio il simbolo da colpire. Proprio ciò che per il mondo risulta affascinante, per tali cattolici è causa di scandalo, e giungono a descrivere il Papa come il più dozzinale dei populisti. Il primato della coscienza personale, l’apertura alla cultura moderna, la scelta di non insistere su valori cosiddetti non negoziabili di vita-scuola-famiglia, il non volere ingerenze nella vita dei singoli (come quando disse “chi sono io per giudicare?” a proposito dei gay), l’istituzione di una consultazione popolare in tutto il mondo sui temi spinosi della morale familiare, la preferenza verso i poveri e il conseguente riaccredito della teologia della liberazione condannata da Wojtyla e Ratzinger, il parlare della Chiesa come di “un ospedale da campo”, lo stile conciliare permanente auspicato dal cardinal Martini, l’attacco al clericalismo e alla cortigianeria della curia, la condanna di ogni forma di proselitismo, la simpatia verso i media fino a concedere un’intervista al fondatore di questo giornale, lo stile di vita austero che lo porta a rifiutare l’appartamento papale e la villa di Castelgandolfo e a camminare sulle sue scarpe nere portandosi da sé la borsa di lavoro, la preferenza per le piccole autovetture, il chinarsi a lavare i piedi a una donna e per di più musulmana… ecco alcuni elementi che affascinano molti contemporanei e che invece risultano fonte di disappunto per quei cattolici di solito impegnati nella fedeltà “senza se e senza ma” al papa e al papato. Ma non in questo caso. Tra essi uno dei più moderati è Vittorio Messori che ieri sul Corriere criticava quanto definiva “un mito antico e sempre ricorrente”, cioè il sogno suscitato in molti dall’azione di papa Francesco “di un ritorno alla Chiesa primitiva, tutta povertà, fraternità, semplicità, assenza di strutture gerarchiche, di leggi canoniche”, un sogno che per Messori non è altro che un mito privo di fondamento biblico e storico. La posta in gioco nell’azione di papa Francesco però è, a mio avviso, molto più semplice di tale mito e consiste nel diritto di tutti i battezzati di avere una Chiesa semplicemente normale, di cui ci si possa fidare, una Chiesa dove i vescovi non abbiano residenze lussuosissime e costose auto blu, dove la banca vaticana sia per lo meno al livello etico di un’ordinaria banca italiana, dove il carrierismo e la sporcizia (termini utilizzati da Benedetto XVI) non siano così plateali da condizionare il governo papale, dove le nomine dei vescovi avvengano per effettive qualità umane e pastorali e non per servilismi che promuovono incolori yes-men, dove gli scandali di pedofilia non siano insabbiati e i colpevoli protetti, dove nella curia non volino corvi fino alla scrivania papale a testimonianza di velenose lotte intestine al cui confronto un qualsiasi condominio con tutte le sue beghe diviene un’immagine della concordia paradisiaca, una Chiesa dove gli ordini religiosi non siano guidati da personaggi colpevoli di pedofilia come nei Legionari di Cristo oppure di sequestro di persona e truffa come nei Camilliani, eccetera, eccetera. Questa è la posta in gioco dell’azione papale: non il mito della Chiesa primitiva, ma la realtà della Chiesa attuale, perché possa tornare a essere una Chiesa normale, pulita, affidabile, degna della
fiducia dei genitori di mandare all’oratorio i loro figli e di tutti i credenti di affidare le loro risorse per soccorrere i bisognosi. Ne viene che il Papa che oggi governa la Chiesa è, come dice il Vangelo, “un segno di contraddizione”, nel senso che è destinato a manifestare la vera natura di chi si dice credente, se cioè è tale per amore della Chiesa oppure per amore del mondo. Nel primo caso la religione è una delle tante ideologie tese alla conquista del potere, nel secondo è il segnale di un modo nuovo e rivoluzionario di stare al mondo e trasmette l’aria fresca del Vangelo.

 

Mancuso e le domande di Scalfari a papa Franceco

 

bei fiori

una interessante riflessione di V. Mancuso in riferimento alle domande e risposte nel contesto del dialogo fra Scalfari e papa Francesco
la chiesa sta imboccando una vera svolta, ma il pensiero laico è pronto a ripensare certe proprie rigidità o radici culturali inadeguate ad affrontare le grandi problematiche attuali?

Il bene del mondo e la Chiesa
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 4 ottobre2013

Inizierà davvero una nuova epoca per la Chiesa, e quindi inevitabilmente anche per la società, come prefigurava Scalfari a conclusione dell’intervista a papa Francesco? Ciò che sorprende nelle risposte del Papa è il punto di vista assunto, un inedito sguardo extra moenia o “fuori le mura” che non pensa il mondo a partire dalla fortezza-Chiesa, ma, esattamente all’opposto, pensa la Chiesa a partire dal mondo. Nei suoi ragionamenti non c’è traccia della consueta prospettiva ecclesiastica centrata sul bene della Chiesa e la difesa a priori della sua dottrina, della sua storia, dei suoi privilegi e dei suoi beni così spesso oggetto di cura gelosa da parte degli ecclesiastici di ogni tempo (un monumento del pensiero cattolico quale il Dictionnaire de Théologie Catholique dedica 9 pagine alla voce “Bene” e 18 alla voce “Beni ecclesiastici”!). C’è al contrario un pensiero che ha di mira unicamente il bene del mondo e per questo il Papa può dire che il problema più urgente della Chiesa è la disoccupazione dei giovani e la solitudine dei vecchi. Non le chiese, i conventi e i seminari semivuoti; non il relativismo culturale; non il sentire morale del nostro tempo così difforme dalla morale cattolica; non la minaccia alla vita e al modello tradizionale di famiglia. No, la disoccupazione dei giovani e la solitudine degli anziani. L’aver assunto il bene del mondo quale punto di vista privilegiato ha condotto il Papa alle seguenti due affermazioni capitali: 1) la Chiesa non è preparata al primato della dimensione sociale, anzi c’è in essa una prospettiva vaticanocentrica che produce una nociva dimensione cortigiana («la corte è la lebbra del papato»); 2) storicamente essa non è quasi mai stata libera dalle commistioni con la politica – e a questo proposito la Chiesa italiana di Ruini e Bagnasco dovrebbe recitare non pochi mea culpa per non aver denunciato l’immoralità pubblica e privata di chi per anni governava l’Italia, di cui al contrario si è giunti persino a contestualizzare benignamente le pubbliche bestemmie. Ma l’azione del papa e la nuova epoca per la Chiesa che prefigura può non avere effetti anche sul mondo laico? Dei mali della Chiesa e delle riforme di cui necessita si è detto, ma penso sia saggio domandarsi se non esista anche qualcosa nella mente laica che occorre riformare. È solo la Chiesa che deve cambiare, oppure il cambiamento e la riforma interessano anche chi si dichiara laico e non credente? Naturalmente sotto queste insegne si ritrovano gli ideali più vari, dall’estrema destra all’estrema sinistra, e io qui mi limito a discutere il pensiero laico progressista rappresentato da Scalfari. Alla domanda del Papa sull’oggetto del suo credere, Scalfari ha risposto dicendo «io credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti», e poco dopo ha precisato che «l’Essere è un tessuto di energia, energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità», attribuendo a combinazioni casuali l’emergere delle forme tra cui l’uomo, «il solo animale dotato di pensiero, animato da istinti e desideri», ma che contiene dentro di sé anche «una vocazione di caos». Insomma Scalfari si è professato, come già nei suoi libri, discepolo di Nietzsche. Ma cosa manca a questa visione del mondo? Trattandosi di un’eredità di colui che volle andare “al di là del bene e del male”, manca ovviamente la possibilità di fondare l’etica in quanto primato incondizionato del bene e della giustizia. Per Nietzsche infatti l’Essere è un “mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea”, il mondo “è la volontà di potenza e nient’altro”. Ma se il mondo è questo, ne consegue che il liberismo, in quanto volontà di potenza che vuole solo incrementare se stessa, ne è la più logica conseguenza. Perché mai quindi si dovrebbe lottare nel nome della giustizia, della solidarietà, dell’uguaglianza? Come non dare ragione a Nietzsche che considerava questi ideali solo un trucco vigliacco dei deboli, incapaci di lottare ad armi pari coi forti? Se l’essere è solo caos e forza, l’azione che ricerca la pace e la giustizia è destinata inevitabilmente a rimanere senza fondamento. Da tempo vado pensando che la cultura progressista viva la grande aporia dell’incapacità di fondare teoreticamente la propria stessa idea-madre, cioè la giustizia. Darwin ha sostituito Marx, e
Nietzsche (attento lettore di Darwin) è diventato il punto di riferimento per molti. Il risultato è Darwin + Nietzsche, ovvero “l’eterno ritorno della forza”, cioè una cupa e maschilista visione del mondo secondo cui la forza e la lotta sono la logica fondamentale della vita. Se è giunto il tempo di una Chiesa che dia più spazio al femminile, è altresì tempo di un pensiero laico altrettanto capace di ospitare il femminile, intendendo con ciò una visione del mondo e della natura che fa dell’armonia e della relazionalità il punto di vista privilegiato. Da Aristotele a Spinoza a Nietzsche, la sostanza è sempre stata pensata come prioritaria rispetto alla relazione: prima gli enti e poi le relazioni tra essi. Oggi la scienza ci insegna (questo è il senso filosofico della scoperta del bosone di Higgs) che è vero il contrario, che prima c’è la relazione e poi la sostanza, nel senso che tutti gli enti sono il risultato di un intreccio di relazioni e tanto più consistono quanto più si nutrono di feconde relazioni. Questo è il pensiero femminile, un pensiero del primato della relazione, di contro al pensiero maschile basato sul primato della sostanza, e va da sé che pensiero femminile non significa necessariamente pensiero delle donne, perché ogni essere umano contiene la dimensione femminile e vi sono donne che pensano e agiscono al maschile (si consideri per esempio Margaret Thatcher, per tacere di alcune politiche italiane), mentre vi sono uomini che pensano e agiscono al femminile (si pensi per esempio a Gandhi e prima ancora al Buddha o a Gesù). Io penso che il nostro tempo abbia veramente bisogno di un nuovo paradigma della mente, di una ecologia della mente nel senso etimologico di riscoperta del logos che informa oikos,il termine greco per “casa” da cui viene la radice “eco” e che rimanda alla natura. Scalfari nel suo credo insiste sul caos e non sbaglia, perché il caos è una dimensione costitutiva della natura; non è la sola però, c’è anche il logos, alla cui azione organizzatrice si deve l’emersione dalla polvere cosmica primordiale degli enti e della loro meraviglia, tra cui la mente e il cuore dell’uomo. I grandi sapienti dell’umanità l’hanno sempre compreso, chiamando il logos anche dharma, tao, hokmà ecc. a seconda della loro tradizione. Cito volutamente un pensatore non cristiano, il pagano Plotino: «Più di una volta mi è capitato di riavermi, uscendo dal sonno del corpo, e di estraniarmi da tutto, nel profondo del mio io; in quelle occasioni godevo della visione di una bellezza tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di fare parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio» (Enneadi IV, 8, 1). L’unione di logos + caos è la dinamica dentro cui il mondo si muove ed evolve. Essa ci fa comprendere che la verità non è un’esattezza, una formula, un’equazione, un dogma o una dottrina, insomma qualcosa di statico; la verità è la logica della vita in quanto tesa all’armonia, quindi è un processo, una dinamica, un flusso, un’energia, un metodo, una via. La verità è il bene in quanto armonia delle relazioni. In questo senso Gesù diceva “io sono la via, la verità e la vita”, non intendendo certo con ciò innalzare il suo ego in un supremo narcisismo cosmico, ma prefigurando il suo stile di vita basato sull’amore come ciò che al meglio serve l’Essere. Ne viene una visione del mondo nella quale l’ontologia cede il primato all’etica, nella quale cioè il vero non si può attingere se non passando attraverso i sentieri del bene, e l’amore diviene la suprema forma del pensare. Amor ipse intellectus,insegnava il mistico medievale Guglielmo di Saint-Thierry. I credenti sono chiamati a rinnovarsi e penso che con umiltà sotto la guida di questo papa straordinario in molti stiano iniziando a farlo; anche i non credenti però sono chiamati a rinnovare la loro mente alla luce dell’Essere non solo caos ma anche logos, cioè relazionalità originaria a livello fisico che fonda il bene a livello etico. Forse così l’ideale della giustizia e dell’uguaglianza al centro del pensiero progressista mondiale sarà distolto dalle nebbie del buonismo dei singoli e radicato su una più armoniosa visione del mondo.

Mancuso sulla lettera del papa a Scalfari

 

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merita di essere letto attentamente l’articolo odierno di Vito Mancuso su ‘la Repubblica’ in riferimento alla lettera di papa Francesco a Scalfari: è un buon contributo alla riflessione.
Il papa, i non credenti e la risposta di Agostino

di Vito Mancuso

Qual è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”. Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un’apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti). Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di “discorso sul metodo” su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l’Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno. Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per citare l’espressione di Hegel che gli costò l’amicizia di Schelling, conduce cioè all’estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti. È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: “Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”. “Scimmia pensante… bestia da cui proveniamo”: queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una “bestia” e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l’evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia,Amore. La differenza peculiare quindi non è tanto l’accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito “adottato” da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4). Peraltro il dialogo con l’ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l’umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l’unicità e la trascendenza di Dio. Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall’accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come “comunità di fede”: nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio. Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura
dell’uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e ambigua, chiamata da Scalfari “bestia”. Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: “Quid autem amo, cum te amo?”, “Ma che cosa amo quando amo te?” (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quantomai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è umano, procede dall’esperienza dei sensi. Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell’amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico. Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell’amore per Dio è “la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall’alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell’ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo. Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull’uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d’ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva. Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano “sta nell’obbedire alla propria coscienza”, un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti. Se non veniamo da un’origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell’assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le proprie, che può prendere corpo quell’invito a “fare un tratto di strada insieme” rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.

il potere di sperare

 

 

 

vito-mancuso
Il potere di sperare dell’uomo autentico

Traggo queste riflessioni da “La Vita Autentica” di Vito Mancuso che potrebbero portare ad una lunga e stimolante discussione sull’uomo che l’autore chiama “autentico”:

“La speranza ha a che fare con una dimensione dell’essere umano, dove l’intelletto e la volontà si uniscono dando origine a qualcosa di superiore che da’ il sapore complessivo alla personalità. Un vero uomo è tale non in base a ciò che ha, non in base a ciò che sa, neppure in base a ciò che fa, ma in base a ciò che è; ma ciò che un uomo è, in quanto essere individuale irripetibile, è sì il suo corpo fisico, è sì la sua professione, ma è ancor di più la speranza, cioè la tensione complessiva della sua vita e il sapore di fondo che ne deriva all’intera personalità, la musica che fuoriesce quando lui si presenta e che gli altri percepiscono, che lo si voglia oppure no. Se infatti la speranza non si può misurare con l’intelligenza mediante test, e neppure come si misura la volontà per la quale pure vi sono metodi appositi (alcuni dei quali molto singolari come camminare sui carboni ardenti o rimanere chiusi per ore in una bara con solo una minuscola fessura per l’aria), ciò che un uomo interiormente è si può tuttavia percepire lo stesso, forse si può dire che lo si vede con il terzo genere di conoscenza di cui parla Spinoza verso la fine della sua Etica. Nessuno sa se ci sarà davvero una pesatura delle anime alla fine del mondo, ma la bilancia della psicostasi esiste dentro ciascuno di noi, perché ciascuno è in grado di capire quanto pesa la propria e l’altrui personalità e di sentire se chi abbiamo di fronte è in vendita, e per quanto, oppure no. La speranza per cui un uomo vive è che costituisce il suo tesoro ideale definisce la sua più peculiare personalità, da’ forma e sostanza alla sua anima. Ed è questo che intendo col dire che il vero uomo ha trovato. Non ha trovato nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. Purtroppo (o per fortuna) la vita è fatta in modo tale da non lasciar sussistere nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. La speranza è destinata a rimanere speranza, a non trasformarsi mai in sapere. L’uomo che definisco vero ha trovato una speranza, (non una dottrina né un’ideologia) per la quale vivere, come specie di luce lontana verso cui camminare. Questa speranza non è un possesso che si può materializzare (né come dottrina né come ideologia …. Sostengo quindi che l’uomo compie la sua vita, rendendola oggettivamente autentica è uscendo dalle trappole dell’Io, quando vive per una speranza più grande di lui, in base alla quale egli, a poco a poco, giunge a dare forma a tutto quello che fa e che dice. m ritorna la domanda di Kant: che cosa, dal punto di vista del contenuto, è lecito sperare? La risposta è semplice e insieme stupefacente: è lecito sperare che l’ultimo orizzonte dell’essere sia non l’assurdo ma il senso, non il male ma il bene, non il nulla ma l’essere, non la morte ma la vita. Questo a un uomo ragionevole è lecito sperarlo. Saperlo no, ma sperarlo in modo ragionevole sì. … Vivere per qualcosa di più grande di sé come il bene e la giustizia, cioè vivere l’esistenza all’insegna della più pura prospettiva etica, apre la speranza della mente al fatto che qualcosa di più grande di sé esiste veramente, che esiste una dimensione dell’essere più grande di quella di questo piccolo Io destinato a finire, una dimensione che i popoli di tutti i tempi hanno intuito e chiamato divino, assegnandovi poi il nome particolare di cui erano capaci, tutti comunque inadeguati. Sperare in senso complessivo dell’essere che si dice come vita e come bene significa aver fede in Dio. Un uomo può essere abitato da questa speranza sul senso complessivo della vita, e un altro no, e perché questo avvenga nessuno lo sa. Ma per una vita autentica è necessario credere in Dio? Sono convinto di no. Ritengo, però che senza credere nel bene e nella giustizia, e che se un uomo crede nel bene e nella giustizia deve poi giustificare a se stesso perché lo fa e provare a pensare quale sia la concezione dell’essere più ragionevole che giustifica tale suo affidamento esistenziale al bene e la giustizia. Se la logica del mondo non è indirizzata al bene ed alla giustizia, perché costruirvi sopra la vita? Ma se vi è indirizzata, facendo sì che valga la pena impostarvi la vita, come chiamare questa direzione verso cui la logica del mondo conduce, direzione che è dentro il mondo ma che è più grande del mondo? Io sono convinto che la dimensione etica, in quanto anelito al bene e alla giustizia sia il fondamento autentico del pensiero del divino nella coscienza umana di tutti i tempi. Per questo, anche a prescindere da qualunque defe religiosa, “beati quelli che hanno fame e sete di giustizia”. Infatti, se la speranza per cui uno vive è complessivamente orientata al bene e alla giustizia (intesi anche solo come forma delle relazioni umane e non come senso complessivo dell’essere), essa produce in chi vive la luce particolare, la luce calma e benevola dell’uomo buono. Dell’uomo giusto. La dedizione della libertà a questa luce interiore rende la vita soggettivamente e oggettivamente autentica. Da qui la terza tesi: “L’uomo autentico è l’uomo che vive per la giustizia, il bene, la verità”.

In un ‘epoca dove la disperazione dilaga e mortifica l’uomo, consiglio la lettura di questo libro capace di stimolare profonde riflessioni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

la chiesa dell’ ‘empatia’

 

 

empatia

ogni giorno di più, ad ogni esprimersi del papa, si delinea un’idea nuova di chiesa

si avverte nelle parole di papa Francesco un senso di novità e di innovazione nonostante le sue parole nei contenuti non modificano in nulla la tradizionale impostazione etico-dogmatica cattolica

anche ieri si è espresso con tono nuovo nei confronti della donna nella chiesa, dei divorziati e dei gay

la novità sta nel vivere i problemi della gente con ‘patos’, con ‘empatia’, quasi rappresentando la ‘passione di Dio per il mondo’

così V. Mancuso in un bell’articolo su La Repubblica odierna:

 

E’ molto probabile che i commenti alle dichiarazioni del Papa sulle persone omosessuali si dividano in due correnti tra loro contrapposte. Da un lato coloro che desiderano una decisa riforma delle posizioni della Chiesa cattolica intenderanno le parole del Papa come rivoluzionarie, diverse, foriere di cambiamenti. Dall’altro lato coloro che intendono conservare lo status quo leggeranno le stesse parole del Papa come del tutto coerenti con le posizioni di sempre, quelle ribadite più volte da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E occorre dire in verità che, in assenza di atti effettivi di governo da parte di papa Francesco volti a modificare la legislazione canonica vigente, entrambe le posizioni hanno una loro legittimità. Il Papa infatti non ha detto nulla che anche Benedetto XVI non avrebbe sottoscritto, dicendo che: 1) le persone omosessuali in quanto tali vanno accolte e per nulla discriminate, mentre gli atti sessuali delle stesse non possono trovare accoglienza all’interno dell’etica cattolica; 2) per i divorziati risposati il primato deve essere assegnato alla misericordia; 3) la donna deve avere più spazio nel governo della Chiesa, anche se la Chiesa non potrà giungere a concederle l’ammissione al sacerdozio, alle donne cattoliche definitivamente precluso.

Perché allora da parte di tutti nel mondo si avverte nelle parole del Papa un senso di novità e di speranza, di innovazioni? Perché questo entusiasmo per parole che nei contenuti non modificano in nulla la tradizionale impostazione etica e dogmatica cattolica? Io penso che sia per il clima di empatia che circonda la persona del Pontefice e per il bisogno di cambiamento e di riforma che i cattolici di tutto il mondo avvertono. Ma soprattutto per la frase, questa sì del tutto innovativa per un Papa, “chi sono io per giudicare?”. Una frase che, a mio avviso, né Benedetto XVI né Giovanni Paolo II avrebbero mai potuto o voluto pronunciare.

Queste parole collocano il Papa non più tra i capi di Stato e i potenti di questo mondo che per definizione giudicano, ma tra i discepoli di Gesù attenti a mettere in pratica le parole del maestro: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati, perdonate e sarete perdonati” (Luca 6,37). Da tutto questo però deve scaturire una conseguente azione di governo finalmente all’insegna della novità evangelica (così come lo sono i gesti straordinariamente semplici e potentissimi di questo Papa).

Ho parlato prima di empatia e vorrei sottolineare che l’empatia è molto importante, non solo, com’è ovvio, a livello psicologico, ma anche a livello teologico. Il termine infatti rimanda alla parola greca pathos,che significa passione, e che costituisce uno dei concetti centrali del cristianesimo, a partire dalla passione di Cristo e dall’amore che definisce l’essenza di Dio, amore che a sua volta è passione e genera passione. Il fatto che papa Francesco sia circondato da un abbraccio di empatia a livello mondiale non si spiega solo a livello umano per la sua carica personale e per la spontaneità e la semplicità dei suoi gesti; si spiega anche a livello teologico e spirituale per il suo essere in grado di rappresentare la passione di Dio per il mondo. Quindi l’empatia che circonda il Papa (e che porta a vedere in ogni sua parola qualcosa di nuovo anche quando di per sé non c’è nessuna novità) è estremamente preziosa, è un segno dello Spirito si direbbe nel linguaggio teologico. E il Papa non la deve deludere, deve esserne all’altezza fino in fondo, venendo incontro al bisogno di cambiamento che la gran parte dei cattolici nel mondo avverte riguardo alla Chiesa.

È infatti insostenibile la posizione cattolica tradizionale riguardo sia alle persone omosessuali, sia alle persone divorziate, sia al ruolo attualmente ricoperto dalle donne all’interno del governo della Chiesa. E occorre coerenza: non si può proclamare a parole il rispetto per le persone omosessuali e la pari loro dignità di figli di Dio e poi giudicare la loro condizione come condannata dalla legge naturale e dalla Bibbia; al contrario, se veramente si vuole mostrare in modo concreto il rispetto di cui si parla nei loro confronti, occorre mettere in atto ermeneutiche conseguenti sia della legge naturale (da intendersi in senso formale come armonia delle relazioni e non come definizioni di ruoli e di comportamenti) sia delle pagine bibliche che condannano le persone omosessuali relegando tali pagine accanto a quelle che favoriscono la guerra o l’inimicizia verso le altre religioni (e che non meritano di essere più prese in considerazione).

Occorre cioè giungere all’evangelico “non giudicare” e “non condannare”. Allo stesso modo se veramente si vuole che sia la misericordia ad avere il primato per i divorziati risposati occorre mettere in atto una disciplina canonica dei sacramenti che conceda loro di accostarvisi senza nessuna discriminazione (segnalo al riguardo il recente libro di Oliviero Arzuffi,Caro papa Francesco. Lettera di un divorziato,Oltre edizioni). Allo stesso modo, infine, se veramente si vuole che la donna abbia maggiore potere all’interno della Chiesa si deve procedere di conseguenza e, anche senza giungere all’ordinazione sacerdotale, si deve permettere che le donne diventino cardinali e ministri con pieni poteri del governo della Chiesa (oggi per accedere al cardinalato occorre essere diaconi o sacerdoti, e le donne possono accedere al diaconato, lo testimonia il Nuovo Testamento, basta leggerlo e applicarlo).

“Chi sono io per giudicare?”, ha detto il Papa e in questo si è fatto discepolo di Gesù. Ma Jorge Mario Bergoglio in quanto pontefice regnante può far sì che questa mentalità non giudicante diventi la prassi corrente della Chiesa in ordine alle persone omosessuali e ai divorziati risposati. Di fronte a lui sta il compito di non deludere l’empatia che lo circonda e le speranze di rinnovamento evangelico di molti credenti e “uomini di buona volontà”.

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