basta limitarsi a contare i morti!

A COLLOQUIO CON L’ARCIVESCOVO DI AGRIGENTO, IL CARD. FRANCESCO MONTENEGRO

“Non posso continuare a contare i morti”

Giovanni Ruggeri

 

foto premio migranti

Un ordine mondiale ingiusto ha saputo produrre oltre 200 milioni di esseri umani in fuga. I poveri si sono stancati di essere poveri. Quanto all’immigrazione, è il perdurare di una mentalità colonialista che sta alla base delle inadempienze dell’Europa. L’isola di Lampedusa e i suoi abitanti sono un pezzo di un mondo nuovo. Una Chiesa che guarda avanti.

Tra il gravoso assillo dell’emergenza e l’inderogabile necessità di governare un fenomeno strutturale, il tema dell’immigrazione si va imponendo agli organi di governo nazionali e internazionali con un’urgenza prima d’ora sconosciuta. Fronti di impatto locale e implicazioni di portata sovranazionale premono su un’Unione Europea finora latitante, urgendo più adeguate soluzioni tra laltro nella gestione dei richiedenti asilo provenienti da paesi extraeuropei: obiettivo è la modifica delle disposizioni previste dal regolamento Dublino III, al fine di estendere oltre il paese d’arrivo il riconoscimento dello statuto di rifugiato e ridistribuire sull’intero territorio europeo quanti sbarcano sulle coste italiane (o arrivano per altre vie in Germania e Svezia, i tre paesi con la maggior concentrazione di rifugiati). Solo ultimamente, grazie all’impegno del presidente della Commissione europea J.C. Juncker e dell’Alto rappresentante della politica estera europea Federica Mogherini, si è arrivati ad approvare l’Agenda Immigrazione 2015-2020, che introduce la distribuzione obbligatoria dei profughi fra gli stati membri dell’UE, anche se taluni si mostrano riluttanti. Così, un peso e una responsabilità che finora sono stati quasi esclusivamente italiani, dovrebbero diventare europei.

Sui nodi di fondo e sulle prospettive più urgenti di questi temi si concentra l’intervista con il card. Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento diocesi cui appartiene Lampedusa , presidente della Commissione CEI per le migrazioni e membro del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti.

Eminenza, il fenomeno migratorio sta urlando quel che si è sempre saputo: il 20% del pianeta vive con l’80% delle risorse, lasciando il residuo 20% ad un 80% sempre più affamato. Nessun facile moralismo è però consentito, poiché l’intero sistema economico mondiale si regge su tale discrepanza, secondo alcuni tecnicamente non riformabile. Dobbiamo aspettarci una conflagrazione mondiale entro dieci-venti anni o è invece ipotizzabile una riforma globale?

Il fatto stesso che alcuni popoli si stiano spostando ci dice che il mondo sta cambiando: i poveri si sono stancati di essere poveri, di essere trattati da poveri e che si voglia che rimangano poveri. Vogliono riscattarsi, e questo tanto più se si considera che molte delle nazioni dalle quali partono sono quelle che ci assicurano tutte quelle materie prime (sopra o sotto terra) grazie alle quali esiste per noi il progresso ma per loro che ne sono esclusi il regresso. Io non ritengo possibile la fine di questo esodo: pare che nel mondo ci siano 230-250 milioni di emigranti, da qualcuno denominati «il sesto continente».

Le migrazioni non sono il male, bensì il segnale di un male più profondo: noi ci stiamo spaventando per il loro accadere, eppure avremmo dovuto esservi preparati, perché già dagli anni 50 si prevedeva un esodo di proporzioni bibliche, cui nessuno ha però voluto prestare attenzione.

Quale futuro ci si prospetta? Non possiamo affidarlo al destino: il futuro lo costruiamo noi, ma, se continuiamo a fare come lo struzzo, fingendo di non vedere, di sicuro andiamo verso il peggio. Se, invece, prendiamo coscienza delle grandi ingiustizie esistenti, se ci rendiamo conto che la nostra è solo una civiltà tra le altre e che l’incontro tra i popoli è una necessità, allora possiamo tentare di governare insieme a questi popoli un tale esodo, senza esserne travolti.

Al netto di ogni lodevole proposito, lei si rende conto che immaginare una riforma globale, specie del Nord del mondo, implica una rivoluzione sul piano dei sistemi di produzione, delle strutture economiche, del governo delle società e degli stili di vita?

Certo! Dovremmo abbandonare la mentalità da colonizzatori e smetterla di sfruttare questa gente! Una certa rivoluzione noi l’abbiamo già iniziata, ma ci rendiamo conto che non sta portando buoni risultati: parliamo di globalizzazione e del mondo come di un unico grande villaggio, però poi cadiamo in contraddizione perché, dopo aver messo il profitto al primo posto, stabiliamo che merci e denaro possiamo spostarli, in quanto rendono, mentre le persone debbono assolutamente rimanere a casa loro. Se il risultato di ciò sono 230 milioni di persone che si spostano, è evidente che tale rivoluzione non sta riuscendo.

Rivoluzione per rivoluzione, tentiamone un’altra: papa Benedetto XVI ha avuto il coraggio, nell’enciclica sociale Caritas in veritate, di inserire la parola gratuità. Per noi l’economia è sommare o sottrarre, non c’è posto per la gratuità: il papa, invece, la inserisce e questo indica che il sistema deve cambiare. È una rivoluzione, ci costerà, ma quel che avviene oggi non ci sta costando caro? È ormai evidente a tutti che l’egoismo è ciò che regna nella nostra Europa, dove la vera preoccupazione non concerne la solidarietà ma il profitto: l’altro è sempre sotto di me, io sempre nella posizione di chi deve guadagnare.

Questo giochetto lo si voglia osservare come credenti o come uomini di buona volontà non può durare, perché, fin quando ci sarà un uomo piegato dalla prepotenza, mutilato della sua dignità (un tempo c’erano i faraoni, oggi abbiamo le multinazionali; un tempo c’erano gli schiavi e oggi abbiamo scoperto che ci sono ancora, poiché gli uomini sono una buona fonte di guadagno), nessuno può avere garanzia di un futuro migliore.

Abbiamo bisogno di rileggere la storia e le nostre scelte. Si obietterà che, in questo modo, bisogna mettere tutto sottosopra: di fatto, ci troviamo già in un sottosopra che non riusciamo a governare.

Gli organismi di governo sovranazionali e nazionali sono consapevoli, attrezzati e disponibili in ordine a questo cambiamento radicale?

Attrezzati non credo, altrimenti avrebbero tirato fuori gli attrezzi; consapevoli, mi pare strano che possano non esserlo, visto quanto sta accadendo; disponibili, solo se la si smette di calcolare quanto ci si mette in tasca. Qualche tempo fa, il Fondo monetario internazionale ha detto che, nel mondo, ci sono un miliardo e 300 milioni di esuberi, quasi a lasciar intendere che, se tanta gente morisse, ci farebbe un favore. E, mentre l’ONU ha atteso tanto tempo prima di far sentire la sua voce, l’Europa che si vanta di essere unita è solo la somma di tanti egoismi messi insieme.

Sono andato sia a Strasburgo che a Bruxelles e mi è stato detto: se si parla di denaro, in qualche modo possiamo intenderci; ma se parliamo di uomini, allora dovremmo pensare in 27 alla stessa maniera, e lei comprende quanto tempo ci vorrà! Per ora stiamo solo contando i morti: ci emozioniamo davanti ai cadaveri, ma continuiamo la nostra storia passando su di loro. Che civiltà è quella in cui conta il più forte?

Dove sta sbagliando l’Europa e cosa è urgente fare?

L’Europa guarda ai poveri che migrano come se fosse un’altra storia, senza voler invece riconoscere che, alle radici di tale storia, ci siamo noi con le nostre colonizzazioni. Molti governi europei sostengono governi di paesi di partenza che non sono né legali né trasparenti: si interviene solo quando c’è qualcosa da guadagnarci (petrolio, diamanti…). L’Europa deve rendersi conto di essere immersa fino al collo nella storia passata e recente di questi popoli, anziché continuare a stare sugli spalti come duemila anni fa al Colosseo, con in campo uomini che combattono per sopravvivere. Occorre chiedersi quale futuro si vuole e che cosa significhino convivenza e solidarietà, perché dichiarazioni e fatti dei nostri giorni stanno causando solo una maggiore frantumazione di quella finta solidità che certe nazioni avevano.

Io non sono un tecnico e non sono in grado di indicare le soluzioni: i tecnici ci sono, hanno le competenze necessarie, che studino! Mio compito è ricordare una realtà che i tecnici non vogliono ma devono guardare, perché io non posso continuare a contare morti!

«Lampedusa è il simbolo della fallimentare politica in tema di immigrazione portata avanti nel nostro paese», ha dichiarato lei tempo fa. Come tradurre questa denuncia in una proposta ai dirigenti politici italiani?

Cerchiamo di comprendere cosa voglia dire accoglienza: ti salvo dal mare, ti metto sulla terraferma, e poi? Passata l’emergenza, viene il momento di riflettere sul “poi”. Certamente l’Italia non può gestire da sola questo flusso: se i confini europei sono unici, bisogna intervenire unitariamente. Ma ci sono errori grossolani che non si possono commettere, come invece ancora accade, ad esempio, con le lungaggini per il riconoscimento dello status di profugo: è ovvio che tutti quei giovani che stanno per mesi e mesi alloggiati in case e alberghi a far nulla, prima o poi si incattiviscono vogliamo forse creare ad arte la sindrome della paura? E che dire dei ricongiungimenti, del problema dei minori e dei tanti che scompaiono?

«Caritas sine modo: amore senza limiti» è il motto che lei scelse all’inizio del suo episcopato. Dopo tanti anni di lavoro con poveri e migranti, come sente oggi quelle parole?

Ho tratto quel motto da un libro di mons. Tonino Bello cui sono molto legato, andai in pellegrinaggio alla sua tomba quando venni fatto vescovo , il quale racconta che, una volta, entrando in una chiesa, vide un crocifisso accanto al quale erano scritte quelle parole. Per quanto mi riguarda, devo dire che ciò che sto vivendo è per così dire colpa di mia madre, la quale da piccolo mi ha sempre portato dai poveri, insegnandomi che andavano amati. Mamma era dama di carità e non si è mai fatta scrupolo di farmi entrare nelle baracche, nei luoghi peggiori, rispondendo con santa ingenuità a coloro che la rimproveravano di portare un bambino in simili posti che, facendolo per il Signore, non mi sarebbe accaduto nulla di male.

Sin dai primi anni di sacerdozio, mi sono dovuto interessare di una casa di disabili e, da allora, mi sono sempre ritrovato perché così mi è stato chiesto in servizio per i poveri, prima alla Caritas e poi ai migranti. Anche recentemente, quando sono stato fatto cardinale, la chiesa che mi è stata consegnata a Roma si trova dove ci sono suore di madre Teresa e monaci: carità e preghiera.

I poveri hanno dato un colpo d’ala al mio sacerdozio e la mia missione di vescovo ho sempre cercato di viverla come un servizio. Quando sono stato fatto cardinale, il papa al telefono mi ha detto: «Ti raccomando: il cardinalato è un servizio e va fatto in povertà». Ecco i miei binari: se volessi uscirne, non saprei proprio cosa fare.

A proposito del papa, la sua visita a Lampedusa, la prima del pontificato, è stata definita giornalisticamente la prima enciclica. Qual è stata l’emozione dominante di quel giorno e che cosa prova lei nel vedere quello che la sua gente fa per i tanti che sbarcano sull’isola?

Del papa mi ha colpito il modo in cui si è avvicinato a Lampedusa: ha detto di essere venuto a piangere i morti, il suo è stato un pellegrinaggio nel santuario dell’uomo, voleva essere dove l’uomo soffre. Io l’ho seguito con gli occhi e le parole che tante volte ha ripetuto quella mattinata erano: «Quanta sofferenza!». A volte sembrava estraniarsi da ciò che c’era attorno, come se fosse su un piano più alto. Mi ha colpito molto il suo sguardo su quella sterminata sofferenza: il papa si è voluto fermare a piangere e a interrogarsi in mezzo a quel mare diventato tomba liquida. Non ho dubbi che quel viaggio ci abbia dato le chiavi del suo pontificato.

Circa la mia gente, Francesco ha detto che a Lampedusa povertà e accoglienza si sono incontrate. Io ho sempre sostenuto che Lampedusa è un pezzo di mondo nuovo, una terra dove c’è gente povera che sa guardare in faccia l’altro povero. In alcuni momenti i lampedusani hanno avuto paura: l’avrei avuta anch’io se in un paese di 5 mila abitanti ti ritrovi 10 mila immigrati (tra l’altro, mi chiedo ancora perché siano stati lasciati sull’isola per così tanto tempo, così come non comprendo perché i mezzi di comunicazione abbiano voluto gonfiare un clima di terrore annunciando sbarchi sull’isola di dimensioni bibliche, che in realtà non ci sono stati).

Qualche volta, parlando con dei biblisti, suggerisco loro di fare una sinossi tra le prime pagine della Bibbia e quanto sta avvenendo a Lampedusa: troveremmo la stessa storia, completata con la venuta di “Mosè” papa Francesco , che ci ha indicato la strada. Se leggiamo quanto sta accadendo con gli occhi della Bibbia, non possiamo non darci da fare, perché noi credenti vi siamo profondamente implicati; leggerla invece come cronaca, fa produrre soltanto statistiche, ma le persone non sono materia per statistiche.

Linguaggio, scelte, orizzonti: papa Francesco sta portando aria nuova nella Chiesa e le persone comuni, anche quelle lontane dalla pratica, lo capiscono e lo apprezzano. Che strade sta segnando per la Chiesa?

La nostra è una fede facile, che non ci costa niente, una specie di contabilità aperta con Dio vengo a messa, faccio un po di elemosina, dico qualche preghiera per sentirci a posto. Papa Francesco ci sta dicendo che occorre una fede diversa, vissuta per intero, dallinizio alla fine del Vangelo, senza gli sconti che abitualmente cerchiamo.

Papa Francesco non sta facendo niente di straordinario: ci sta rileggendo il Vangelo, sottolineando alcuni aspetti di cui c’eravamo dimenticati, tanto che ci meravigliamo di quel che ci sta dicendo, mentre avremmo dovuto trovarci nella condizione di dirgli: «Guarda che questo lo stiamo già facendo, dicci altro». Se rimaniamo a bocca aperta davanti alle sue parole, è perché abbiamo letto male il Vangelo. Noi cerchiamo un Dio che conforta, mentre il Signore ha detto che la sua parola è come spada: il nostro Dio ci mette sempre sottosopra.

Papa Francesco sta rimettendo in campo una Chiesa rimasta troppo chiusa: le nostre comunità sono spesso rifugi e talvolta ripostigli, mentre il papa ci dice di metterci per strada. Nella nostra Chiesa, che è una Chiesa di poveri, di fatto i poveri non trovano ancora posto. Le parole del papa valgono per tutti: fedeli, vescovi, cardinali, perché il Vangelo si rivolge a tutti.

Amore di sincerità ci obbliga a riconoscere che, al di là di reverenziali ossequi di facciata, vi sono ambienti ecclesiali dove lo “stile Francesco” è accolto con scarsa simpatia, e anche ad alto livello non mancano serie resistenze. Quali sono a suo parere le radici culturali e spirituali di tali divergenze?

Il papa ci sta proponendo il Vangelo e il Vangelo è una proposta di rischio. Fino ad oggi, noi ci siamo preoccupati di conservare quello che avevamo e ora troviamo le nostre chiese chiuse: abbiamo contato le nostre comunità a partire dai praticanti anziché dai credenti.

C’è, però, un modo diverso di vivere Chiesa e Vangelo: se la mia preoccupazione è salvare il passato senza guardare avanti, finirò per sbattere contro i pali che si trovano per strada, poiché così accade a chi guida guardando indietro.

Noi abbiamo paura di correre il rischio di lasciare la pecorella rimasta nell’ovile e cercare le novantanove che ne sono uscite, mentre il papa ci dice di guardare avanti, ci chiede di accelerare. La vita del mondo corre veloce, mentre noi procediamo ancora con il freno a mano tirato. Il Vangelo è parola che inquieta e provoca al cambiamento.

intervista ai ‘teologo del grido dei poveri’

Jon Sobrino

teologo del grido dei poveri

Sobrino

intervista a Jon Sobrino, a cura di Nicolas Senèze in “La Croix” del 21 marzo 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)

trentacinque anni fa, il 24 marzo 1980, veniva assassinato mons. Oscar Romero. Collaboratore e amico di colui che sarà beatificato il 23 maggio, il gesuita spagnolo Jon Sobrino è anche l’autore di un’opera teologica nel filone della teologia della liberazione, di cui le edizioni du Cerf  hanno appena tradotto la parte cristologica più controversa.

Padre Jon Sobrino lo riconosce subito: “Io non sono povero. Per ragioni di salute, non mi hanno mai autorizzato ad abitare con i poveri: di fatto, ho conosciuto pochi poveri”. Un paradosso per uno dei capofila della teologia della liberazione, che vuole essere appunto una teologia di indignazione e di impegno dalla parte dei più poveri! “Ma cerco di esprimere la voce dei poveri: di coloro che sono perseguitati, o che hanno dovuto lasciare il proprio paese, che sono oppressi dalla fatica. Lascio che questa sofferenza mi coinvolga per fare il mio lavoro teologico”, riassume. La sua opera cristologica è appena stata tradotta in francese, circa venticinque anni dopo la sua prima pubblicazione in spagnolo (1).

Fu al ritorno in Salvador, dopo gli studi negli Stati Uniti e in Germania, che il giovane gesuita spagnolo scoprì i poveri. “Avevo studiato teologia in Europa senza accorgermi di quello che stava succedendo in America Latina con Gesù Cristo”, confida, di passaggio in Francia. Otto anni dopo l’assemblea del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) di Medellin (Colombia, 1968), il continente è in piena ebollizione teologica. “Il documento di Medellin cominciava con queste parole: ‘La miseria come fatto collettivo è un’ingiustizia che grida al cielo’”, ricorda padre Sobrino. È stato sentito il clamore dei poveri. In quell’irruzione dei poveri, molti credenti hanno percepito l’irruzione di Dio. Un Gesù reale aveva fatto irruzione con contorni propri e con la capacità di plasmare non solo la teologia e la devozione, ma la realtà dei credenti, delle comunità”. Jon Sobrino si mette allora al seguito dei grandi nomi della teologia della liberazione, come Gustavo Gutierrez Merino, Leonardo Boff o il gesuita Ignacio Ellacuria, più anziano, basco come lui e anch’egli professore all’Università centro-americana di San Salvador (UCA).

“Molti vescovi, preti e fedeli si rendevano anche conto che, in questo mondo, essere umani, essere cristiani, essere membri della Chiesa, significava cercare la giustizia e vivere la povertà”, ricorda il gesuita per il quale gli anni 80-90 furono anche “un’epoca di martiri”: mons. Gerardi in Guatemala, mons. Angelelli in Argentina e, naturalmente, mons. Romero.

Nel 1977 padre Ellacuria lo mette in relazione con Oscar Romero che è appena stato nominato arcivescovo di San Salvador e che, inizialmente conservatore, evolve a poco a poco di fronte alla realtà della repressione. Divenuto il collaboratore e l’amico di colui che sarà beatificato il 23 maggio, Jon Sobrino lavorerà accanto a lui fino al suo assassinio, il 24 marzo 1980. Ma anche lui è un sopravvissuto. Il 16 novembre 1989, infatti, sei suoi confratelli gesuiti dell’UCA, con la loro domestica e la di lei figlia sedicenne, cadono sotto le pallottole dei militari. Jon Sobrino verrà a conoscenza del massacro in Tailandia dove faceva delle conferenze. “La mia famiglia, i miei amici”, riassume semplicemente, un quarto di secolo dopo, non potendo sentire i loro nomi senza togliersi gli occhiali per asciugarsi discretamente le lacrime. Un breve momento di commozione, prima di passare a elencare le altre vittime della repressione militare.

“Dal 1977 in Salvador, 17 preti e 5 religiose sono stati uccisi, come centinaia di cristiani e cristiane, ricorda. Hanno dato la loro vita per difendere i poveri e gli oppressi. Nelle loro vite e nelle loro morti, quei cristiani e quelle cristiane sono stati simili a Gesù. Noi li chiamiamo i “martiri ‘gesuizzati’. Molti altri, decine di migliaia, sono stati uccisi, vittime innocenti e indifese. Noi li chiamiamo ‘il popolo crocifisso’”. Di questo popolo crocifisso, Jon Sobrino ha fatto la base della sua teologia della liberazione divenuta una vera teologia del martirio.

“È stata condotta una guerra ostinata a questa teologia, riconosce Jon Sobrino. Fin dai miei primi

articoli su Gesù Cristo e sul Regno di Dio, ho avuto dei problemi con Roma: parlare di Gesù di Nazareth non era apprezzato dalla Congregazione per la dottrina della fede”. Nel 1983, quando il colombiano Alfonso Lopez Trujillo diventa cardinale (sarà il futuro presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia), annuncia chiaramente di voler “farla finita” con dei teologi come Gutierrez, Boff o Sobrino. “Quello che veniva attaccato non era né Boff, né Gutierrez, né Sobrino, ma Gesù di Nazareth, Dio che è uscito con i poveri e che ha ascoltato il loro grido”.

Nel 2006, la Congregazione per la dottrina della fede emetterà un avvertimento, sottolineando che “certe proposte” dei suoi due libri cristologici “non sono conformi con la dottrina della Chiesa”. “Ma non sono mai stato condannato. Niente nel documento romano dice che sono eretico o che non ho più diritto di insegnare”, insiste Jon Sobrino che non ha mai accettato di firmare il testo romano. Il coro di proteste del mondo teologico di fronte alla notifica romana sarà tale che l’autorità stessa della congregazione è oggi rimessa in discussione, il che permette del resto alle Éditions du Cerf di realizzarne oggi la traduzione francese senza reali problemi…

Ma, venticinque anni dopo la pubblicazione del primo volume, quei libri hanno ancora una pertinenza? “Credo che il messaggio di quei libri sia quello di coloro che gridano, che sperano e che non scrivono”, spiega Jon Sobrino. L’America Latina però è cambiata. “La guerra civile è terminata, ma ci sono sempre tanti morti e tanta violenza. Quattordici morti violente al giorno in Salvador, ricorda. La gente non ha lavoro, è sottoposta alla violenza delle bande, è costretta ad emigrare”. Dopo la scrittura dei suoi libri, pentecostali ed evangelicali sono entrati in forze nel paesaggio religioso.

“Un vero problema per me, riconosce. Abbiamo visto sorgere tra noi dei dirigenti di tutti i tipi: predicatori, pastori, cantanti, guaritori, ma, per dire le cose con rispetto, danno spesso l’impressione di avanzare come greggi senza pastore. Mancano dei Romero, dei Gerardi”. Deplora che la Chiesa cattolica, in questi ultimi anni, abbia spinto i fedeli “in una religiosità più di devozione che di impegno”. “Capitemi bene, spiega. Si avrà un bel conservare un Dio, un Cristo e uno Spirito, conservare la preghiera, la mistica e la gratuità – tutto questo rivalorizzato a giusto titolo, almeno teoricamente -, ma senza Gesù di Nazareth si vede scomparire ciò che c’è di centrale nel cristianesimo”.

Per  lui, se la Chiesa “va male”, è proprio perché ha diluito le intuizioni di Medellin. “Attorno a Medellin, credo di poter dire che la Chiesa, dalla gerarchia fino ai contadini ‘si è comportata bene’ con Gesù di Nazareth, o almeno ha cercato di farlo con serietà”, propone. Dopo “ha prodotto altre forme di Chiesa che davano meno fastidio”, riconosce. È questo che spiega, a suo avviso, il motivo del ritardo della beatificazione di Mons. Romero: “La si giudicava inopportuna perché era un modello di vescovo che dava fastidio ad altri vescovi”. Quindi la Chiesa deve tornare a questa centralità dei poveri avviata a Medellin. “’Andar male’ significa tirarsi indietro, e ‘andar bene’, significa, fondamentalmente, tornare a Medellin, riassume. Il  che significa sicuramente ‘tornare a Gesù di Nazareth’. ‘Non tornare’ a Gesù è impoverirsi, e non voler tornare a lui sarebbe peccare”. “La Chiesa non deve preoccuparsi di ciò che può fare, ma di ciò che deve fare: è un problema di morale, non di analisi”, afferma colui che ritorna continuamente alla figura di Romero. “Molto tempo fa, un contadino raccontava: ‘Mons. Romero diceva la verità, ci difendeva, noi poveri, e per questo lo hanno ucciso’. Ecco quello che deve fare la Chiesa. Dire la verità, dire che quello che succede oggi è un disastro. Difendere i poveri, cioè non solo aiutarli, ma essere al loro fianco contro gli oppressori, chiunque essi siano”. Quanto al martirio, è per lui l’orizzonte di chi si conforma a Gesù di Nazareth: “Gesù non è morto, è stato ucciso, ricorda. Senza la croce, la resurrezione non sarebbe che la riviviscenza di un cadavere. Gesù si è mostrato misericordioso. Non ha solo aiutato e dato sollievo, ma ha preso le difese delle vittime. La misericordia che arriva alla croce aggiunge due caratteristiche a quella del buon Samaritano: è conflittuale ed è coerente fino alla croce”. Trentacinque anni dopo l’assassinio, il teologo interpella ancora la Chiesa: “È pronta oggi a correre questo rischio di Gesù che è stato ucciso?”

(1) Jésus-Christ libérateur. Lecture historico-théologique de Jésus de Nazareth, e La foi en Jésus-Christ, Éditions du Cerf.

papa Francesco interpellato dalla bodonville

 

 

 

 

 il Papa venuto «quasi dalla fine del mondo», a due anni dall’elezione, ha concesso una intervista ai ragazzi della rivista La Cárcova news: scelta significativa, perché La Cárcova è una delle villas miserias nei sobborghi della Grande Buenos Aires 

 

La rivista di una bidonville argentina intervista il Papa. E Francesco risponde

Ecco lo straordinario dialogo

carcova
a cura di Alver Metalli

Lei parla molto di periferia. Questa parola gliel’abbiamo sentita usare tante volte. A che cosa e a chi pensa quando parla di periferie? A noi gente delle villas?
Quando parlo di periferia parlo di confini. Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso scopriamo più cose, e quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa.
Una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato. Un esempio: l’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa.
La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro. Compresa la realtà di una persona, la periferia esistenziale, o la realtà del suo pensiero; tu puoi avere un pensiero molto strutturato ma quando ti confronti con qualcuno che non la pensa come te, in qualche modo devi cercare ragioni per sostenere questo tuo pensiero; incomicia il dibattito, e la periferia del pensiero dell’altro ti arrichisce.

I nostri problemi li conosce. La droga avanza e non si arresta, entra nelle villas e attacca i nostri giovani. Chi ci deve difendere? E noi come possiamo difenderci?
E’ vero, la droga avanza e non si ferma. Ci sono paesi che ormai sono schiavi della droga. Quello che mi preoccupa di più è il trionfalismo dei trafficanti. Questa gente canta vittoria, sente che ha vinto, che ha trionfato. E questa è una realtà. Ci sono paesi, o zone, in cui tutto è sottomesso alla droga.
Riguardo all’Argentina posso dire questo: fino a 25 anni fa era ancora un paese di passaggio, oggi è un paese di consumo. E, non lo so con certezza, ma credo che si produca anche.

Qual è la cosa più importante che dobbiamo dare ai nostri figli?
L’appartenenza. L’appartenenza a un focolare. L’appartenenza si dà con l’amore, con l’affetto, con il tempo, prendendoli per mano, accompagnandoli, giocando con loro, dandogli quello di cui hanno bisogno in ogni momento per la loro crescita. Soprattutto dandogli spazi in cui possano esprimersi. Se non giochi con i tuoi figli li stai privando della dimensione della gratuità. Se non gli permetti di dire quello che sentono in modo che possano anche discutere con te e sentirsi liberi, non li stai lasciando crescere.
Ma la cosa ancora più importante è la fede. Mi addolora molto incontrare un bambino che non sa fare il segno della croce. Vuol dire che al piccolo non è stata data la cosa più importante che un padre e una madre possono dargli: la fede.

Lei vede sempre una possibilità di cambiamento, sia in storie difficili, di persone che sono provate dalla vita, sia in situazioni sociali o internazionali che sono causa di grandi sofferenze per le popolazioni. Cosa le dà questo ottimismo, anche quando ci sarebbe da disperarsi?
Tutte le persone possono cambiare. Anche le persone molto provate, tutti. Ne conosco alcune che si erano lasciate andare, che stavano buttando la loro vita e oggi si sono sposate, hanno una loro famiglia. Questo non è ottimismo. E’ certezza in due cose: primo nell’uomo, nella persona. La persona è immagine di Dio e Dio non disprezza la propria immagine, in qualche modo la riscatta, trova sempre il modo di recuperarla quando è offuscata; e, secondo, è la forza dello stesso Spirito Santo che va cambiando la coscienza.
Non è ottimismo, è fede nella persona, che è figlia di Dio, e Dio non abbandona i suoi figli.
Mi piace ripetere che noi figli di Dio ne combiniamo di tutti i colori, sbagliamo ad ogni piè sospinto, pecchiamo, ma quando chiediamo perdono Lui sempre ci perdona. Non si stanca di perdonare; siamo noi che, quando crediamo di saperla lunga, ci stanchiamo di chiedere perdono.

Come si può arrivare ad essere sicuri e costanti nella fede? Noi attraversiamo alti e bassi, in certi momenti siamo coscienti della presenza di Dio, che Dio è un compagno di cammino, in altri ce ne dimentichiamo. Si può aspirare ad una stabilità in una materia come quella della fede?
Sì, è vero, ci sono alti e bassi. In alcuni momenti siamo coscienti della presenza di Dio, altre volte ce ne dimentichiamo. La Bibbia dice che la vita dell’uomo sulla terra è un combattimento, una lotta; vuol dire che tu devi essere in pace e lottare. Preparato per non venir meno, per non abbassare la guardia, e allo stesso tempo godendo delle cose belle che Dio ti dà nella vita. Bisogna stare in guardia, senza essere né disfattisti né pessimisti.
Come essere costanti nella fede? Se non ti rifiuti di sentirla, la troverai molto vicina, dentro al tuo cuore. Poi, un giorno potrà capitare che tu non senta un bel niente. Eppure la fede c’è, è lì, no? Occorre abituarsi al fatto che la fede non è un sentimento. A volte il Signore ci dà la grazia di sentirla, ma la fede è qualcosa di più. La fede è il mio rapporto con Gesù Cristo, io credo che Lui mi ha salvato. Questa è la vera questione riguardo alla fede. Mettiti a cercare tu quei momenti della tua vita dove sei stato male, dove eri perso, dove non ne azzecavi una, e osserva come Cristo ti ha salvato. Afferrati a questo, questa è la radice della tua fede. Quando ti dimentichi, quando non senti niente, afferrati a questo, perché è questa la base della tua fede. E sempre con il Vangelo in mano. Portati sempre in tasca un piccolo Vangelo. Tienilo in casa tua. Quella è la Parola di Dio. E’ da lì che la fede prende il suo nutrimento. Dopotutto la fede è un regalo, non è un atteggiamento psicologico. Se ti fanno un regalo ti tocca riceverlo, no? Allora, ricevi il regalo del Vangelo, e leggilo. Leggilo e ascolta la Parola di Dio.

La sua vita è stata intensa, ricca. Anche noi vogliamo vivere una vita piena, intensa. Como si fa a non vivere inutilmente? E come fa uno a sapere che non vive inutilmente?
Beh, io ho vissuto molto tempo inutilmente, eh? In quei momenti la vita non è stata tanto intensa e tanto ricca. Io sono un peccatore come qualunque altro. Solamente che il Signore mi fa fare cose che si vedono; ma quante volte c’è gente che fa il bene, tanto bene, e non si vede. L’intensità non è direttamente proporzionale a quello che vede la gente. L’intensità si vive dentro. E si vive alimentando la stessa fede. Come? Facendo opere feconde, opere d’amore per il bene della gente. Forse il peggiore dei peccati contro l’amore è quello di disconoscere una persona. C’è una persona che ti ama e tu la rinneghi, la tratti come se non la conoscessi. Lei ti sta amando e tu la respingi. Chi ci ama più di tutti è Dio. Rinnegare Dio è uno dei peggiori peccati che ci siano. San Pietro commise proprio questo peccato, rinnegò Gesù Cristo… e lo fecero Papa! Allora io cosa posso dire?! Niente! Per cui, avanti!

Lei ha attorno a sè persone che non sono d’accordo con quello che fa e che dice?
Si, certo.

Come si comporta con loro?
Ascoltare le persone, a me, non ha mai fatto male. Ogni volta che le ho ascoltate, mi è sempre andata bene. Le volte che non le ho ascoltate mi è andata male. Perché anche se non sei d’accordo con loro, sempre – sempre! – ti danno qualcosa o ti mettono in una situazione che ti spinge a ripensare le tue posizioni. E questo ti arricchisce. E’ il modo di comportarsi con quelli con cui non siamo d’accordo. Ora, se io non sono d’accordo con qualcuno, smetto di salutarlo, gli chiudo la porta in faccia, non lo lascio parlare, e non gli domando le ragioni del disaccordo, evidentemente mi impoverisco da solo. Dialogando, ascoltando, ci si arricchisce.

La moda di oggi spinge i ragazzi verso rapporti virtuali. Anche nella villa è così. Come fare perché escano dal loro mondo di fantasia? Come aiutarli a vivere la realtà e i rapporti veri?
Io distinguerei il mondo della fantasia dalle relazioni virtuali. A volte i rapporti virtuali non sono di fantasia, sono concreti, sono di cose reali e molto concrete. Ma evidentemente la cosa desiderabile è il rapporto non virtuale, cioè il rapporto fisico, affettivo, il rapporto nel tempo e nel contatto con le persone. Io credo che il pericolo che corriamo ai nostri giorni è dato dal fatto che disponiamo di una capacità molto grande di riunire informazioni, dal fatto insomma di poterci muovere in una serie di cose virtualmente, ed esse ci possono trasformare in “giovani-museo”.
Un “giovane-museo” è molto ben informato, ma cosa se ne fa di tutto quello che sa? La fecondità, nella vita, non passa per l’accumulazione di informazioni o solamente per la strada della comunicazione virtuale, ma nel cambiare la concretezza dell’esistenza. Ultimamente vuol dire amare.
Tu puoi amare una persona, ma se non le stringi la mano, o non le dai un abbraccio, non è amore; se ami qualcuno al punto di volerlo sposare, vale a dire, se vuoi consegnarti completamente, e non lo abbracci, non gli dai un bacio, non è vero amore. L’amore virtuale non esiste. Esiste la dichiarazione di amore virtuale, ma il vero amore prevede il contatto fisico, concreto. Andiamo all’essenziale della vita, e l’essenziale è questo.
Dunque, non “giovani-museo” informati solo virtualmente delle cose, ma giovani che sentano e che con le mani – e qui sta il concreto – portino avanti le cose della loro vita…
Mi piace parlare dei tre linguaggi: il linguaggio della testa, il linguaggio del cuore e il linguaggio delle mani. Ci deve essere armonia tra i tre. In modo tale che tu pensi quello che senti e quello che fai, senti quello che pensi e quello che fai, e fai quello che senti e quello che pensi. Questo è il concreto. Restare solamente nel piano virtuale è come vivere in una testa senza corpo.

C’è qualcosa che vuol suggerire ai governanti argentini in un anno di elezioni?
Primo, che propongano una piattaforma elettorale chiara. Che ognuno dica: noi, se andremo al governo, faremo questo e quest’altro. Molto concreto! La piattaforma elettorale è qualcosa di molto sano; aiuta la gente a vedere quello che ognuno pensa. C’è un aneddoto raccontato da dei giornalisti furbetti che si riferisce ad una delle elezioni di molti anni fa. Più o meno alla stessa ora questi giornalisti si sono incontrati con tre candidati. Non ricordo bene se erano candidati a deputati o a sindaci. E chiesero a ognuno di loro: lei cosa pensa riguardo a questa cosa? Ciascuno ha detto quello che pensava e ad uno di loro un giornalista disse: “ma quello che lei pensa non è la stessa cosa che pensa il partito che lei rappresenta! Guardi la piattaforma elettorale del suo partito”. Per dire che a volte gli stessi candidati non conoscono la piattaforma elettorale del proprio raggruppamento.
Un candidato deve presentarsi alla società con una piattaforma elettorale chiara, ben pensata. Dicendo “Se io verrò eletto deputato, sindaco, governatore, farò “questo”, perché penso che “questo” è quello che deve essere fatto”.
Secondo, onestà nella presentazione della propria posizione.
Terzo – è una delle cose che dobbiamo raggiungere, speriamo che ci si riesca – una campagna elettorale di tipo gratuito, non finanziata. Perché nel finanziamento della campagna elettorale entrano in gioco molti interessi che poi ti chiedono il conto. Quindi essere indipendenti da chiunque mi possa finanziare la campagna elettorale. Evidentemente è un ideale, perché sempre c’è bisogno di soldi per i manifesti, per la televisione… In ogni caso che il finanziamento sia pubblico. Io, come cittadino, so che finanzio questo candidato con questa precisa somma di denaro. Che tutto sia trasparente e pulito.

Quando verrà in Argentina?
In linea di massima, nel 2016, ma non c’è ancora niente di sicuro perché bisogna trovare l’incastro con altri viaggi in altri paesi.

Per televisione sentiamo notizie che ci preoccupano e ci addolorano; che ci sono fanatici che la vogliono uccidere. Non ha paura? E noi che le vogliamo bene che cosa possiamo fare?
Guarda, la vita è nelle mani di Dio. Io ho detto al Signore: Tu prenditi cura di me. Ma se la tua volontà è che io muoia o che mi facciano qualcosa, ti chiedo un solo favore: che non mi faccia male. Perché io sono molto fifone per il dolore fisico.

Traduzione dallo spagnolo di Mariana Gabriela Janún

QUI L’ORIGINALE

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

Francesco intervistato dal giornale delle favelas

Le domande dei fedeli raccolte con i bigliettini
di Gian Guido Vecchi
in “Corriere della Sera” del 11 marzo 2015
La prospettiva di Magellano. «Una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato. Un esempio: l’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa. La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro». Il Papa venuto «quasi dalla fine del mondo», a due anni dall’elezione, ha concesso una intervista ai ragazzi della rivista La Cárcova news: scelta significativa, perché La Cárcova è una delle villas miserias nei sobborghi della Grande Buenos Aires, una bidonville nata cinquant’anni fa intorno all’ultima stazione della ferrovia. È stato José María Di Paola, «padre Pepe», discepolo di Bergoglio che fu minacciato di morte da narcotrafficanti, a portare il mese scorso a Francesco le domande raccolte tra la gente della baraccopoli e a registrarne le risposte. Un’idea nata a gennaio alla fine di una processione religiosa, durante la festa popolare. «C’è di mezzo anche qualche bicchiere di vino, a volerla dire tutta, che nella giusta misura stimola le idee ardite», racconta su terredamerica.com il giornalista Alver Metalli, ispiratore del «giornale di strada». A gennaio la parrocchia organizza i campeggi estivi, bambini e adulti scrivono e raccolgono le domande, «di bigliettini ne sono arrivati un buon numero». Questioni che guardano alle urgenze del quotidiano. Come quando, in piena campagna elettorale, chiedono al Papa suggerimenti per i governanti: «Primo, che propongano una piattaforma elettorale chiara. Che ognuno dica: noi, se andremo al governo, faremo questo e quest’altro. Molto concreto!», spiega Francesco. Ci vuole «onestà nella presentazione della propria posizione». E soprattutto «una campagna elettorale di tipo gratuito, non finanziata», aggiunge: «Nel finanziamento della campagna entrano in gioco molti interessi che poi ti chiedono il conto. Quindi essere indipendenti da chiunque mi possa finanziare la campagna elettorale. Evidentemente è un ideale, perché sempre c’è bisogno di soldi per i manifesti, la televisione… In ogni caso che il finanziamento sia pubblico. Io, come cittadino, so che finanzio questo candidato con questa precisa somma di denaro. Che tutto sia trasparente e pulito». Bergoglio parla anche di droga: «Ci sono Paesi che ormai ne sono schiavi. Quello che mi preoccupa di più è il trionfalismo dei trafficanti». La cosa più importante da dare ai figli? «L’appartenenza a un focolare. L’appartenenza si dà con l’amore, l’affetto, il tempo, prendendoli per mano, giocando…». Poi ripete: «Mi addolora molto incontrare un bimbo che non sa fare il segno della croce. Vuol dire che non gli è stata data la cosa più importante: la fede». Bergoglio andrà in Argentina «in linea di massima nel 2016» anche se «non c’è ancora niente di sicuro». Alla fine gli domandano se non tema che dei fanatici lo uccidano. «Guarda, la vita è nelle mani di Dio», dice. «Io ho detto al Signore: Tu prenditi cura di me. Ma se la tua volontà è che io muoia o che mi facciano qualcosa, ti chiedo un solo favore: che non mi faccia male. Perché io sono molto fifone per il dolore fisico».

intervista a tutto campo del card. Marx su papa Francesco e le problematiche più vive

 

il Cardinal Marx su Francesco, sinodo, donne nella Chiesa e relazioni omosessuali

intervista  a cura di Luke Hansen
in “americamagazine.org” del 22 gennaio 2015 (traduzione: www.finesettimana.org):

 

Marx
Il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, è presidente della Conferenza episcopale tedesca, membro del Consiglio dei cardinali consiglieri di papa Francesco sul governo della Chiesa, coordinatore del Consiglio Vaticano per l’economia e autore di Das Kapital: Ein Plädoyer für den Menschen (in italiano per l’editore Rizzoli: Il capitale. Una critica cristiana alle ragioni del mercato, 2009). Il cardinal Marx ha tenuto l’annuale Roger W. Heynes Lecture il 15 gennaio alla Stanford University in California.

Questa intervista, che è stata rivista per la chiarezza e approvata dal cardinale, si è tenuta il 18 gennaio alla Memorial Church alla Stanford University.

La sua esperienza nel Consiglio dei Cardinali le ha offerto un prospettiva diversa sulla Chiesa?

Ho una nuova responsabilità. Quando vengo intervistato – come oggi – e mi viene chiesto: “Che cosa fate al Consiglio?” e “Che cosa significa lavorare con il papa?”, sento una responsabilità ancora maggiore. Non vedo la Chiesa in modo nuovo, però. Sono vescovo da 18 anni, cardinale da cinque, e ho preso parte a dei sinodi. Riconosco la mia nuova responsabilità e le nuove opportunità, e anche il momento storico per fare un passo avanti nella Chiesa e partecipare alla storia della Chiesa.

Quali sono le nuove opportunità?

Questo pontificato ha aperto nuove strade. Lo si può sentire. Qui negli Stati Uniti tutti parlano di Francesco, anche persone che non fanno parte della Chiesa cattolica. Devo dire che il papa non è la Chiesa. La Chiesa è più del papa. Ma c’è una nuova atmosfera. Un rabbino mi ha detto: “Dica al papa che ci sta aiutando, perché rafforza tutta la religione, non solo la Chiesa cattolica”. Quindi, c’è un nuovo movimento. Nel Consiglio dei cardinali abbiamo un compito speciale, creare una nuova costituzione per la curia romana, riformare la banca vaticana e discuter molte altre cose con il papa. Ma non possiamo essere presenti ogni giorno a Roma. Dobbiamo considerare questo pontificato, questo cammino, come un nuovo e grande passo. La mia impressione è che siamo su una nuova strada. Non stiamo creando una nuova Chiesa – è sempre la Chiesa cattolica – ma c’è aria fresca, un nuovo passo in avanti.

Quale sfida accompagna questa nuova era nella Chiesa?

La cosa migliore è leggere Evangelii Gaudium. A chi dice: “Non sappiamo che cosa voglia esattamente il papa”, io rispondo: “Leggete il testo”. Non dà risposte magiche a problemi complessi, piuttosto comunica la via dello Spirito, la strada dell’evangelizzazione, essere vicini alla gente, vicini ai poveri, vicini a coloro che hanno fallito, vicino ai peccatori, non una Chiesa narcisistica, non una Chiesa impaurita. C’è un impulso nuovo, essere liberi e uscire. Alcuni si preoccupano per quello che accadrà. Francesco usa un’immagine forte: “Preferisco una Chiesa incidentata, ferita e sporca per essere uscita nelle strade” piuttosto che una Chiesa che è molto pulita, e ha la verità e ogni cosa necessaria. Quest’ultima Chiesa non aiuta le persone. Il Vangelo non è nuovo, ma Francesco lo esprime in un modo nuovo e ispira molta gente, in tutto il mondo, che ora dice: “Sì, questa è la Chiesa”. È una grande dono per noi. È molto importante. Vedremo che cosa farà. È papa solo da due anni, non è molto.

Che cosa può dirci su papa Francesco, sulla sua persona, per il fatto di lavorare vicino a lui?

È molto autentico. È rilassato, calmo. Alla sua età non ha bisogno di realizzare chissà che o provare di essere qualcuno. È molto chiaro e aperto e assolutamente non orgoglioso. È forte. Non è una persona debole, ma forte. Non penso che sia così importante analizzare il carattere del papa, ma capisco che possa interessare. Ciò che è interessante è come, insieme a lui, potremo sviluppare il cammino in avanti della Chiesa.
Per esempio, in Evangelii Gaudium il papa esprime le sue idee sulle relazioni tra il centro a Roma e le conferenze episcopali, e anche sul lavoro pastorale nelle parrocchie, nelle Chiese locali e sul carattere dei sinodi. Queste cose sono molto importanti per il futuro della Chiesa. È anche importante avere un papa. Ora chiunque nel mondo parla della Chiesa cattolica, non sempre positivamente, ma nella maggior parte dei casi sì. Così Cristo ha fatto molto bene a creare il ruolo di San Pietro. Lo vediamo. Ma questo non vuol dire centralismo. Ho detto al papa: “Un’istituzione centralizzata non è un’istituzione forte. È un’istituzione debole”. Il Concilio Vaticano II ha iniziato a bilanciare tra il centro e la Chiesa locale, perché hanno visto, 50 anni fa, l’inizio della Chiesa universale. Ma questa trasformazione non è compiuta. Dobbiamo far sì che si realizzi per la prima volta. Ora 50 anni dopo, ci rendiamo conto di ciò che può essere la Chiesa in un mondo globalizzato, una Chiesa universale, globalizzata. Non l’abbiamo ancora organizzata in maniera sufficiente. Questo è un grande compito per questo secolo. La tentazione è quella di centralizzare, ma non funzionerà.

L’altra sfida è trovare un modo per spiegare la fede nelle diverse parti del mondo. Cosa possono fare i sinodi e le Chiese locali insieme a Roma? Come possiamo realizzare bene questa cooperazione? Due problemi nel sinodo attuale riguardano i cattolici divorziati e risposati e i cattolici omosessuali, specialmente le relazioni omosessuali. Ha avuto occasione di ascoltare direttamente questi cattolici nel suo attuale ministero?

Sono prete da 35 anni. Questo problema non è nuovo. Ho l’impressione che abbiamo molto lavoro da svolgere in campo teologico, non solo in relazione al problema del divorzio, ma anche alla teologia del matrimonio. Sono stupito che alcuni possano dire: “È tutto chiaro” su questo argomento. Le cose non sono chiare. Non è che i tempi moderni debbano determinare la dottrina della Chiesa. È una questione di aggiornamento, per dirla con parole che la gente può capire, e di adattare sempre la nostra dottrina al Vangelo, alla teologia, per trovare in modo nuovo il senso di ciò che Gesù ha detto, il significato della tradizione della Chiesa e della teologia, ecc. C’è molto da fare. Parlo con molti esperti – canonisti e teologi – che riconoscono molti problemi relativi alla sacramentalità e alla validità dei matrimoni. Un problema è: che cosa possiamo fare quando una persone si sposa, divorzia e poi trova un nuovo partner? Ci sono posizioni diverse. Alcuni vescovi al sinodi dicevano: “Vivono nel peccato”. Ma altri dicevano: “Non si può dire che qualcuno è nel peccato ogni giorno, questo non è possibile”. Vede, ci sono problemi su cui dobbiamo parlare. Abbiamo aperto una discussione su questo argomento nella conferenza episcopale tedesca. Ora il testo è pubblicato. Penso che sia un ottimo testo e che costituisca un buon contributo per la discussione del sinodo. È molto importante che il sinodo non abbia lo spirito del “o tutto o niente”. Non sarebbe un buon metodo. Il sinodo non può avere vincitori e perdenti. Non è questo lo spirito del sinodo. Lo spirito del sinodo è cercare una strada insieme, non dire: “Come posso trovare un modo per portare avanti la mia posizione?”. Invece: “Come posso comprendere la posizione dell’altro, e come possiamo trovare insieme una nuova posizione?” Questo è lo spirito del sinodo. Per questo è molto importante che lavoriamo su questi problemi. Spero che il papa ispiri il sinodo. Il sinodo non può decidere; solo un concilio o il papa possono decidere. Questi problemi devono quindi essere compresi in un contesto più ampio. Il compito è aiutare le persone a vivere. Come si dice in Evangelii Gaudium, non è come difendere la verità. È come aiutare le persone a trovare la verità. Questo è importante. L’eucaristia e la riconciliazione sono necessari per le persone. Diciamo ad alcune persone: “Lei non potrà essere riconciliato fino alla morte”. È impossibile crederci, quando si vedono le situazioni. Posso farle degli esempi. Nello spirito di Evangelii Gaudium, dobbiamo vedere come l’eucaristia è una medicina per le persone, per aiutare le persone. Dobbiamo cercare i modi per cui le persone possano ricevere l’eucaristia. Non cerchiamo modi per tenerle lontano! Dobbiamo trovare modi per accoglierle. Dobbiamo usare la nostra immaginazione chiedendoci: “Possiamo fare qualcosa?”. Forse in alcune situazioni non è possibile. Ma il problema non è questo. Il punto centrale deve essere come accogliere le persone.
Al sinodo lei ha riferito il caso di due omosessuali che hanno vissuto insieme per 35 anni e si sono presi cura l’uno dell’altro, anche nelle ultime fasi della loro vita, e chiedeva come avrebbe potuto dire che questa cosa non aveva valore. Che cosa ha imparato da queste relazioni,  tutto questo può avere influenza sull’etica sessuale oggi? Parlando di etica sessuale, forse non dobbiamo cominciare dal parlare di dormire insieme, ma dall’amore, dalla fedeltà e dalla ricerca di una relazione di tutta una vita. Sono sorpreso scoprendo che la maggior parte dei nostri giovani, anche omosessuali cattolici praticanti, desiderano una relazione che duri per sempre. La dottrina della Chiesa non è così strana per la gente. È vero. Dobbiamo cominciare con i punti importanti della dottrina per vedere il sogno: il sogno è che le persone, un uomo e una donna, possano dire: “Tu per sempre”. E noi come Chiesa diciamo: “Questo è assolutamente OK. La vostra visione è giusta!” Così troviamo la strada. Poi magari c’è un fallimento. Trovano la persona, e non è un successo. Ma la fedeltà per tutta la vita è giusta e buona. La Chiesa dice che una relazione omosessuale non è allo stesso livello di una relazione tra un uomo e una donna. Questo è chiaro. Ma quando sono dei fedeli credenti, quando sono impegnati a favore dei poveri, quando lavorano, non è possibile dire: “Qualsiasi cosa tu faccia, dato che sei omosessuale, è negativa”. Una cosa che deve essere detta, e su cui non ho sentito alcuna critica, è che non è possibile vedere una persona solo da un punto di vista, senza considerare tutta la situazione di una persona. Questo è molto importante per l’etica sessuale. La stessa cosa vale per le persone che convivono, ma si sposano in seguito, o quando vivono fedelmente insieme, ma solo con il matrimonio civile. Non si può dire che la relazione era tutta negativa se la coppia vive fedelmente insieme, e aspettano, o pianificano la loro vita, e dieci anni dopo trovano il modo di accostarsi al sacramento. Quando è possibile, dobbiamo aiutare la coppia a trovare il compimento nel sacramento del matrimonio. Abbiamo discusso di questo problema al sinodo, e molti padri sinodali condividono questa opinione. Non ero solo io ad avere questa opinione. Proprio il mese scorso, il vescovo Johan Bonny di Anversa, in Belgio, ha detto che la Chiesa dovrebbe riconoscere una “diversità di forme” e potrebbe benedire delle relazioni gay basate su questi valori di amore, fedeltà e impegno. È importante per la Chiesa discutere di queste possibilità? Al sinodo ho detto che Paolo VI ha avuto una grande visione nella Humanae Vitae. La relazione tra un uomo e una donna è molto importante. La relazione sessuale in una relazione fedele è fondata sul legame con la procreazione, dando amore, sessualità e apertura alla vita. Paolo VI credeva che questo legame avrebbe potuto andare distrutto. Aveva ragione, pensiamo a tutti i problemi relativi alla medicina riproduttiva, ecc. Non possiamo escludere questo grande modello di sessualità e dire: “Noi abbiamo una diversità”, oppure “Ognuno ha il diritto di…”. Il grande significato della sessualità è la relazione tra un uomo e una donna e l’apertura a dare la vita. E prima ho anche accennato al problema di accompagnare le persone, nel senso di vedere cosa le persone stanno facendo delle loro vite nella loro situazione personale.

Come vivranno la Chiesa cattolica e la Chiesa protestante il 500° anniversario della Riforma nel 2017? Quali sono le possibilità per una maggiore cooperazione tra le nostre Chiese?

Siamo sulla buona strada in Germania e a livello della Santa Sede, con la Federazione Mondiale Luterana, per vivere insieme la nostra memoria di quel tempo. Noi come Chiesa cattolica non possiamo “celebrare” questo anniversario, dato che non è una cosa buona che la Chiesa sia stata divisa durante questi secoli. Ma dobbiamo sanare le nostre memorie – il che è un punto importante e un buon passo avanti nelle nostre relazioni. In Germania, sono molto contento che i capi della Chiesa protestante siano molto chiari, non vogliono celebrare l’anniversario senza i cattolici. Cento anni fa, o anche solo 50 anni fa, un vescovo protestante non avrebbe detto: “Voglio celebrare solo se sono presenti i cattolici”. Così stiamo organizzando gli eventi. “Risanamento delle memorie” sarà una celebrazione insieme. In Germania, i capi della Chiesa protestante e della Chiesa cattolica faranno anche un pellegrinaggio in Terra Santa, per tornare alle nostre radici. Faremo una grande celebrazione, non di Martin Lutero, ma di Cristo, “la festa di Cristo”, per guardare avanti: qual è la nostra testimonianza  adesso, che cosa possiamo fare, qual è il futuro delle fede cristiana e che cosa possiamo fare insieme. Questi sono i nostri programmi per vivere il 500° anniversario.

Papa Francesco ha chiesto che il ruolo delle donne sia accresciuto nella Chiesa. Che cosa pensa sia possibile? Che cosa aiuterebbe meglio la Chiesa a compiere la sua missione?

La declericalizzazione del potere è molto importante nella curia romana e nelle amministrazioni delle diocesi. Dobbiamo prendere in considerazione il diritto canonico e riflettere teologicamente, per vedere quali ruoli richiedono necessariamente dei preti; e poi tutti gli altri ruoli, nel senso più ampio possibile, devono essere aperti ai laici, uomini e donne, ma specialmente donne. Nell’amministrazione vaticana non è necessario che alla guida di tutte le congregazioni, consigli, dipartimenti, ci sia qualcuno del clero. È un peccato che non ci siano donne tra i laici nel Consiglio dell’Economia. Gli specialisti sono stati scelti prima che io diventassi coordinatore, ma cercherò delle donne che possano svolgere quel ruolo. Per la prima volta in Vaticano il nostro consiglio ha dei laici con le stesse responsabilità e gli stessi diritti dei cardinali. Non sembra una gran cosa, ma le cose grandi cominciano con piccoli passi, non è vero? Lo dico e lo ripeto anche nella mia diocesi: vi prego che vedere che cosa potete fare per portare dei laici, specialmente donne, a posizioni di responsabilità nell’amministrazione diocesana. Abbiamo fatto un piano per la Chiesa cattolica in Germania per avere più posti direttivi nell’amministrazione che siano coperti da donne. Tra tre anni vedremo che cosa è stato fatto. Su questo, dobbiamo fare un grande sforzo per il futuro, non solo per essere moderni o per imitare il mondo, ma nel renderci conto che l’esclusione delle donne non è nello spirito del Vangelo. Talvolta lo sviluppo del mondo ci dà un’indicazione – vox temporis vox Dei (voce del tempo, voce di Dio). Lo sviluppo del mondo ci invia dei segni, i segni dei tempi. Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II hanno detto che dobbiamo interpretare i segni del tempo alla luce del Vangelo. Uno di questi segni riguarda i diritti delle donne, l’emancipazione delle donne. Giovanni XXIII lo ha detto più di 50 anni fa. Stiamo ancora cercando di realizzarlo. Non è che si vedano progressi. Talvolta le cose cono peggiorate. Quali ostacoli occorre superare? La mentalità! La mentalità! La mentalità! E le decisioni delle persone responsabili. È chiaro che sono i vescovi che devono decidere. I vescovi e il Santo Padre devono cominciare a cambiare. È stato ripetuto spesso in seminari e corsi per leader, ed è sempre stato chiaro: le scale si puliscono dall’alto, non dal basso. Così, i leader devono cominciare, i capi devono cominciare. La mentalità deve cambiare. La Chiesa non è un’azienda, ma i metodi non sono molto diversi. Dobbiamo lavorare di più in gruppi, per progetti. La domanda è: chi ha le risorse per portare avanti queste idee? E non: chi è clericale? Dio ci dà tutte queste persone, e noi diciamo: “No, non è un prete, non può fare questo lavoro, oppure: la sua idea non è importante”. No, questo non è accettabile. No, no, no.

Papa Francesco farà la sua prima visita negli Stati Uniti in settembre. Qual è la sua speranza per questa visita?

Sono sempre sorpreso per la capacità del papa di riunire la gente e di ispirarla. Spero che la gente negli Stati Uniti possa fare anch’essa questa esperienza. Uno dei compiti e delle sfide principali per un vescovo, e per il papa, è unire le persone, e unificare il mondo. La Chiesa è instrumentum unitatis, uno strumento e sacramento di unità tra le persone, e tra Dio e le persone. Spero che quando il papa visiterà gli Stati Uniti, la Chiesa possa mostrare al mondo di voler essere uno strumento non per se stessa ma per l’unità della nazione e del mondo.

intervista ad H. Kung

 

Trasmissione Raitre Che tempo che fa

Il discusso teologo Hans Küng: “Non mi aggrappo alla vita”

 

intervista a Hans Küng, a cura di Markus Grill

 

in “www.spiegel.de/international” del 12 dicembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

Hans Küng ha lottato per tutta la vita per le riforme che oggi vengono prese in considerazione dal

 

Vaticano. In un’intervista a Spiegel, l’anziano teologo svizzero parla delle chance di papa

 

Francesco di rivoluzionare la Chiesa, dei motivi per cui Giovanni Paolo II non dovrebbe essere

 

canonizzato e di che cosa spera di venire a sapere in paradiso.

 

Il teologo svizzero Hans Küng è stato una voce che per decenni si è levata a chiedere riforme nella

Chiesa cattolica riguardanti l’infallibilità del papa, il celibato dei preti e l’eutanasia. La difesa delle

proprie posizioni gli è costata l’autorizzazione ad insegnare teologia cattolica e ha spinto molti ad

etichettarlo come eretico. Da ottantacinquenne malato di Parkinson e di altri malanni, osserva la

Chiesa sotto papa Francesco che sta prendendo in considerazione molte delle riforme da lui a lungo

sostenute. Ha recentemente accettato di parlare a Spiegel in una lunga e varia conversazione sulla

sua vita e sulle sue speranze per il futuro della Chiesa.

 

Professor Küng, Lei andrà in paradiso?

 

Certo lo spero.

 

Alcuni diranno che Lei andrà all’inferno perché agli occhi della Chiesa Lei è un eretico.

 

Non sono un eretico, ma un teologo critico e desideroso di riforme. A differenza di molti miei

critici, io uso il vangelo come punto di riferimento, e non teologia, liturgia e diritto canonico

medioevali.

 

Ma l’inferno esiste poi?

 

Alludere all’inferno è un ammonimento che indica che una persona può mancare totalmente

l’obiettivo della sua vita. Non credo in un inferno eterno.

 

Se inferno significa mancare l’obiettivo della propria vita, sembrerebbe una nozione

 

abbastanza secolare.

 

Sartre dice che l’inferno sono gli altri. La gente crea il proprio inferno. Ad esempio, in guerre come

quella in Siria, ad esempio, oppure come in un capitalismo senza regole.

 

In un suo saggio sulla religione, Thomas Mann ammise di pensare alla morte quasi ogni

 

giorno della sua vita. Anche Lei lo fa?

 

In realtà, mi aspettavo di morire prima, perché pensavo che, dato il mio modo di vivere, non sarei

arrivato al mio 50° compleanno. Ora sono sorpreso di aver compiuto 85 anni e di essere ancora

vivo.

 

Lei è andato a sciare per l’ultima volta nel 2008. Come ci si sente quando si sa che si sta

 

facendo una cosa per l’ultima volta?

 

Certamente mi fa venire un po’ di malinconia pensare a quell’ultima volta, quando stavo lassù a

Lech, sulle montagne dell’Arlberg. Mi piace molto l’aria limpida e fredda delle Alpi. Andavo lì

quando volevo liberare la mia mente oppressa. Ma accetto il mio destino. In realtà sono felice di

essere stato in grado di andare a sciare ad ottant’anni.

 

Lei è un uomo vecchio e malato. Ha una forte perdita dell’udito, osteoartrite e degenerazione

 

maculare, che distruggerà la sua capacità di lettura…

 

Sarebbe la cosa peggiore, non essere più in grado di leggere.

 

Le è stato diagnosticato il morbo di Parkinson un anno fa.

 

Eppure lavoro ancora molto ogni giorno. Tuttavia interpreto tutte queste cose come avvertimenti

della mia morte incombente. La mia grafia sta diventando sempre più piccola e spesso illeggibile,

come se stesse scomparendo. Le mie dita non trattengono più. È un dato di fatto che le mie

condizioni generali si sono deteriorate, e tuttavia combatto anche contro tutto ciò.

 

Come?

 

Ogni giorno nuoto un quarto d’ora qui nell’edificio, e faccio esercizi di fisioterapia sul pavimento, e

anche esercizi con la voce, e mi concentro su nuove attività. Inoltre, prendo diverse pillole al

giorno.

 

Lei ha scritto più di 60 libri, è sempre stato un uomo che ha prodotto molto e a cui è sempre

 

piaciuto andare a fondo negli argomenti. Nelle sue memorie, riflette sulla possibilità di

 

diventare presto null’altro che l’ombra di se stesso.

 

Naturalmente le diagnosi e le prognosi dei medici sono imprecise. La mia vista, ad esempio, si sta

deteriorando più lentamente di quanto predetto. Due anni fa il medico mi disse che sarei stato in

grado di leggere solo per altri due anni. Ed ora, riesco ancora a leggere! Ma vivo pensando di aver

poco tempo davanti a me e sono preparato a dire addio in ogni momento.

 

Il suo Parkinson progredirà.

 

Muammad Ali (Cassius Clay), anche lui malato di Parkinson, è apparso alla cerimonia di apertura

delle Olimpiadi di Londra l’anno scorso. È stato fatto sfilare davanti a tutti, assente e muto. È stato

terribile. Penso che sia stata un’idea orribile.

 

Il suo amico, lo scrittore ed intellettuale Walter Jens, è entrato in uno stato di demenza con

 

rapido peggioramento nove anni fa. È morto quest’anno.

 

Sono stato a trovarlo diverse volte, anche poco prima che morisse. Fino a pochi anni fa, il suo volto

si illuminava quando arrivavo da lui. Ma, negli ultimi anni, non ricordava neppure se ero andato a

trovarlo il giorno prima o a distanza di un mese. Alla fine, non mi riconosceva più. Era deprimente

pensare che Jens, uno degli intellettuali più importanti del dopoguerra, era tornato in una specie di

infantilismo.

 

La demenza era un peso anche per Jens o solo per i parenti e gli amici?

 

All’inizio della sua malattia, quando gli si chiedeva come stava, rispondeva quasi sempre

“terribilmente” o “male”. Allo stesso tempo, apprezzava piccole cose, come bambini, animali e

dolciumi. Gli portavo del cioccolato. All’inizio, lo mangiava da solo, ma più tardi dovevo

metterglielo io in bocca. Non riusciamo a sapere che cosa provasse Jens alla fine. Ma non ci si può

aspettare che io accetti di essere in una condizione come quella.

 

Nel 1995, Lei e Jens avete scritto insieme il libro “Morire con dignità”. Come cristiano, lei è

 

autorizzato a por fine alla sua vita?

 

Sento che la vita è un dono di Dio. Ma Dio mi ha reso responsabile di questo dono. La stessa cosa

vale anche per l’ultima fase della vita: morire. Il Dio della Bibbia è un Dio di compassione e non un

despota crudele che vuole vedere le persone passare il massimo tempo possibile in un inferno nel

proprio dolore. In altre parole, il suicidio assistito può essere la forma ultima, finale, di aiuto nella

vita.

 

La Chiesa cattolica considera un peccato l’eutanasia, uno sconfinamento nella sovranità del

 

Creatore.

 

Non ho apprezzato quando il portavoce del vescovo di Rottenburg ha prontamente dichiarato che

ciò che avevo scritto rappresentava l’insegnamento del Signor Küng e non l’insegnamento della

Chiesa. Una gerarchia ecclesiastica che ha avuto idee così sbagliate sul controllo delle nascite, sulla

pillola e sull’inseminazione artificiale, non dovrebbe fare gli stessi errori ora su problemi relativi

alla fine della vita. Dopo tutto, la nostra situazione è fondamentalmente cambiata nel XXI secolo.

L’aspettativa media di età cento anni fa era di 45 anni, e molte persone morivano giovani. Ora ho 85

anni, ma è un’estensione artificiale del mio tempo di vita – grazie a quelle 10 pillole che prendo

ogni giorno e grazie ai progressi dell’igiene e della medicina.

 

La spaventa una lunga e persistente malattia?

 

Beh, ho scritto una direttiva anticipata attentamente formulata, e recentemente mi sono iscritto ad

un’organizzazione per il suicidio assistito. Questo non significa che il mio scopo sia commettere

suicidio. Ma, nel caso che la mia malattia peggiorasse, voglio avere una garanzia di poter morire in

maniera dignitosa. Da nessuna parte nella Bibbia viene detto che una persona debba sopportare fino

in fondo una fine decretata. Nessuno ci dice cosa significa “decretata”.

 

Deve andare in un altro paese per avere accesso al suicidio assistito.

 

Sono un cittadino svizzero.

 

Come funziona esattamente? Lei telefona e dice: “Sto arrivando”?

 

intervista di papa Francesco a ‘la Stampa’

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

 

“Mai avere paura della tenerezza”

intervista a papa Francesco

a cura di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 15 dicembre 2013

dopo l’intervista a : E. Scalfari su ‘la Repubblica’, ora l’intervista ad A. Tornielli su ‘la Stampa’ da parte di papa Francesco che conferma così una modalità di evangelizzazione molto immediata, informale e attenta all’uso dei mass media:

«Il Natale per me è speranza e tenerezza…». Francesco racconta a «La Stampa» il suo primo Natale
da vescovo di Roma. Casa Santa Marta, martedì 10 dicembre, ore 12.50. Il Papa ci accoglie in una
sala accanto al refettorio. L’incontro durerà un’ora e mezzo. Per due volte, durante il colloquio, dal
volto di Francesco sparisce la serenità che tutto il mondo ha imparato a conoscere, quando accenna
alla sofferenza innocente dei bambini e alla tragedia della fame nel mondo. Nell’intervista il Papa
parla anche dei rapporti con le altre confessioni cristiane e dell’«ecumenismo del sangue» che le
unisce nella persecuzione, accenna alle questioni su matrimonio e famiglia che saranno trattate dal
prossimo Sinodo, risponde a chi lo ha criticato dagli Usa definendolo «un marxista» e parla
del rapporto tra Chiesa e politica.
Che cosa significa per lei il Natale?
«È l’incontro con Gesù. Dio ha sempre cercato il suo popolo, lo ha condotto, lo ha custodito, ha
promesso di essergli sempre vicino. Nel Libro del Deuteronomio leggiamo che Dio cammina con
noi, ci conduce per mano come un papà fa con il figlio. Questo è bello. Il Natale è l’incontro di Dio
con il suo popolo. Ed è anche una consolazione, un mistero di consolazione. Tante volte, dopo la
messa di mezzanotte, ho passato qualche ora solo, in cappella, prima di celebrare la messa
dell’aurora. Con questo sentimento di profonda consolazione e pace. Ricordo una volta qui a Roma,
credo fosse il Natale del 1974, una notte di preghiera dopo la messa nella residenza del Centro
Astalli. Per me il Natale è sempre stato questo: contemplare la visita di Dio al suo popolo».
Che cosa dice il Natale all’uomo di oggi?
«Ci parla della tenerezza e della speranza. Dio incontrandoci ci dice due cose. La prima è: abbiate
speranza. Dio apre sempre le porte, mai le chiude. È il papà che ci apre le porte. Secondo: non
abbiate paura della tenerezza. Quando i cristiani si dimenticano della speranza e della tenerezza,
diventano una Chiesa fredda, che non sa dove andare e si imbriglia nelle ideologie, negli
atteggiamenti mondani. Mentre la semplicità di Dio ti dice: vai avanti, io sono un Padre che ti
accarezza. Ho paura quando i cristiani perdono la speranza e la capacità di abbracciare e
accarezzare. Forse per questo, guardando al futuro, parlo spesso dei bambini e degli anziani, cioè
dei più indifesi. Nella mia vita di prete, andando in parrocchia, ho sempre cercato di trasmettere
questa tenerezza soprattutto ai bambini e agli anziani. Mi fa bene, e mi fa pensare alla tenerezza che
Dio ha per noi».
Come si può credere che Dio, considerato dalle religioni infinito e onnipotente, si faccia così
piccolo?
«I Padri greci la chiamavano “synkatabasis”, condiscendenza divina. Dio che scende e sta con noi.
È uno dei misteri di Dio. A Betlemme, nel 2000, Giovanni Paolo II disse che Dio è diventato un
bambino totalmente dipendente dalle cure di un papà e di una mamma. Per questo il Natale ci dà
tanta gioia. Non ci sentiamo più soli, Dio è sceso per stare con noi. Gesù si è fatto uno di noi e per
noi ha patito sulla croce la fine più brutta, quella di un criminale».
Il Natale viene spesso presentato come fiaba zuccherosa. Ma Dio nasce in un mondo dove c’è
anche tanta sofferenza e miseria.
«Quello che leggiamo nei Vangeli è un annuncio di gioia. Gli evangelisti hanno descritto una gioia.
Non si fanno considerazioni sul mondo ingiusto, su come faccia Dio a nascere in un mondo così.
Tutto questo è il frutto di una nostra contemplazione: i poveri, il bambino che deve nascere nella
precarietà. Il Natale non è stata la denuncia dell’ingiustizia sociale, della povertà, ma è stato un
annuncio di gioia. Tutto il resto sono conseguenze che noi traiamo. Alcune giuste, altre meno giuste,
altre ancora ideologizzate. Il Natale è gioia, gioia religiosa, gioia di Dio, interiore, di luce, di pace.
Quando non si ha la capacità o si è in una situazione umana che non ti permette di comprendere questa gioia, si vive la festa con l’allegria mondana. Ma fra la gioia profonda e l’allegria mondana
c’è differenza».
È il suo primo Natale, in un mondo dove non mancano conflitti e guerre…
«Dio mai dà un dono a chi non è capace di riceverlo. Se ci offre il dono del Natale è perché tutti
abbiamo la capacità di comprenderlo e riceverlo. Tutti, dal più santo al più peccatore, dal più pulito
al più corrotto. Anche il corrotto ha questa capacità: poverino, ce l’ha magari un po’ arrugginita, ma
ce l’ha. Il Natale in questo tempo di conflitti è una chiamata di Dio, che ci dà questo dono.
Vogliamo riceverlo o preferiamo altri regali? Questo Natale in un mondo travagliato dalle guerre, a
me fa pensare alla pazienza di Dio. La principale virtù di Dio esplicitata nella Bibbia è che Lui è
amore. Lui ci aspetta, mai si stanca di aspettarci. Lui dà il dono e poi ci aspetta. Questo accade
anche nella vita di ciascuno di noi. C’è chi lo ignora. Ma Dio è paziente e la pace, la serenità della
notte di Natale è un riflesso della pazienza di Dio con noi».
In gennaio saranno cinquant’anni dallo storico viaggio di Paolo VI in Terra Santa. Lei ci
andrà?
«Natale sempre ci fa pensare a Betlemme, e Betlemme è in un punto preciso, nella Terra Santa dove
è vissuto Gesù. Nella notte di Natale penso soprattutto ai cristiani che vivono lì, a quelli che hanno
difficoltà, ai tanti di loro che hanno dovuto lasciare quella terra per vari problemi. Ma Betlemme
continua a essere Betlemme. Dio è venuto in un punto determinato, in una terra determinata, è
apparsa lì la tenerezza di Dio, la grazia di Dio. Non possiamo pensare al Natale senza pensare alla
Terra Santa. Cinquant’anni fa Paolo VI ha avuto il coraggio di uscire per andare là, e così è
cominciata l’epoca dei viaggi papali. Anch’io desidero andarci, per incontrare il mio fratello
Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, e con lui commemorare questo cinquantenario rinnovando
l’abbraccio tra Papa Montini e Atenagora avvenuto a Gerusalemme nel 1964. Ci stiamo
preparando».
Lei ha incontrato più volte i bambini gravemente ammalati. Che cosa può dire davanti a
questa sofferenza innocente?
«Un maestro di vita per me è stato Dostoevskij, e quella sua domanda, esplicita e implicita, ha
sempre girato nel mio cuore: perché soffrono i bambini? Non c’è spiegazione. Mi viene questa
immagine: a un certo punto della sua vita il bambino si “sveglia”, non capisce molte cose, si sente
minacciato, comincia a fare domande al papà o alla mamma. È l’età dei “perché”. Ma quando il
figlio domanda, poi non ascolta tutto ciò che hai da dire, ti incalza subito con nuovi “perché?”.
Quello che cerca, più della spiegazione, è lo sguardo del papà che dà sicurezza. Davanti a un
bambino sofferente, l’unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché. Signore perché? Lui
non mi spiega niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu
non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo».
Parlando della sofferenza dei bambini non si può dimenticare la tragedia di chi soffre la fame.
«Con il cibo che avanziamo e buttiamo potremmo dar da mangiare a tantissimi. Se riuscissimo a
non sprecare, a riciclare il cibo, la fame nel mondo diminuirebbe di molto. Mi ha impressionato
leggere una statistica che parla di 10 mila bambini morti di fame ogni giorno nel mondo. Ci sono
tanti bambini che piangono perché hanno fame. L’altro giorno all’udienza del mercoledì, dietro una
transenna, c’era una giovane mamma col suo bambino di pochi mesi. Quando sono passato, il
bambino piangeva tanto. La madre lo accarezzava. Le ho detto: signora, credo che il piccolo abbia
fame. Lei ha risposto: sì sarebbe l’ora… Ho replicato: ma gli dia da mangiare, per favore! Lei aveva
pudore, non voleva allattarlo in pubblico, mentre passava il Papa. Ecco, vorrei dire lo stesso
all’umanità: date da mangiare! Quella donna aveva il latte per il suo bambino, nel mondo abbiamo
sufficiente cibo per sfamare tutti. Se lavoriamo con le organizzazioni umanitarie e riusciamo a
essere tutti d’accordo nel non sprecare il cibo, facendolo arrivare a chi ne ha bisogno, daremo un
grande contributo per risolvere la tragedia della fame nel mondo. Vorrei ripetere all’umanità ciò che
ho detto a quella mamma: date da mangiare a chi ha fame! La speranza e la tenerezza del Natale del
Signore ci scuotano dall’indifferenza».
Alcuni brani dell’«Evangelii Gaudium» le hanno attirato le accuse degli ultra-conservatori
americani. Che effetto fa a un Papa sentirsi definire «marxista»?«L’ideologia marxista è sbagliata. Ma nella mia vita ho conosciuto tanti marxisti buoni come
persone, e per questo non mi sento offeso».
Le parole che hanno colpito di più sono quelle sull’economia che «uccide»…
«Nell’esortazione non c’è nulla che non si ritrovi nella Dottrina sociale della Chiesa. Non ho parlato
da un punto di vista tecnico, ho cercato di presentare una fotografia di quanto accade. L’unica
citazione specifica è stata per le teorie della “ricaduta favorevole”, secondo le quali ogni crescita
economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione
sociale nel mondo. C’era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe trasbordato
e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che quando è colmo, il bicchiere magicamente
s’ingrandisce, e così non esce mai niente per i poveri. Questo è stato l’unico riferimento a una teoria
specifica. Ripeto, non ho parlato da tecnico, ma secondo la dottrina sociale della Chiesa. E questo
non significa essere marxista».
Lei ha annunciato una «conversione del papato». Gli incontri con i patriarchi ortodossi le
hanno suggerito qualche via concreta?
«Giovanni Paolo II aveva parlato in modo ancora più esplicito di una forma di esercizio del primato
che si apra ad una situazione nuova. Ma non solo dal punto di vista dei rapporti ecumenici, anche
nei rapporti con la Curia e con le Chiese locali. In questi primi nove mesi ho accolto la visita di tanti
fratelli ortodossi, Bartolomeo, Hilarion, il teologo Zizioulas, il copto Tawadros: quest’ultimo è un
mistico, entrava in cappella, si toglieva le scarpe e andava a pregare. Mi sono sentito loro fratello.
Hanno la successione apostolica, li ho ricevuti come fratelli vescovi. È un dolore non poter ancora
celebrare l’eucaristia insieme, ma l’amicizia c’è. Credo che la strada sia questa: amicizia, lavoro
comune, e pregare per l’unità. Ci siamo benedetti l’un l’altro, un fratello benedice l’altro, un fratello
si chiama Pietro e l’altro si chiama Andrea, Marco, Tommaso…».
L’unità dei cristiani è una priorità per lei?
«Sì, per me l’ecumenismo è prioritario. Oggi esiste l’ecumenismo del sangue. In alcuni paesi
ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una Bibbia, e prima di ammazzarli non gli
domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o ortodossi. Il sangue è mischiato. Per coloro che
uccidono, siamo cristiani. Uniti nel sangue, anche se tra noi non riusciamo ancora a fare i passi
necessari verso l’unità e forse non è ancora arrivato il tempo. L’unità è una grazia, che si deve
chiedere. Conoscevo ad Amburgo un parroco che seguiva la causa di beatificazione di un prete
cattolico ghigliottinato dai nazisti perché insegnava il catechismo ai bambini. Dopo di lui, nella fila
dei condannati, c’era un pastore luterano, ucciso per lo stesso motivo. Il loro sangue si è mescolato.
Quel parroco mi raccontava di essere andato dal vescovo e di avergli detto: “Continuo a seguire la
causa, ma di tutti e due, non solo del cattolico”. Questo è l’ecumenismo del sangue. Esiste anche
oggi, basta leggere i giornali. Quelli che ammazzano i cristiani non ti chiedono la carta d’identità
per sapere in quale Chiesa tu sia stato battezzato. Dobbiamo prendere in considerazione questa
realtà».
Nell’esortazione lei ha invitato a scelte pastorali prudenti e audaci per quanto riguarda i
sacramenti. A che cosa si riferiva?
«Quando parlo di prudenza non penso a un atteggiamento paralizzante, ma a una virtù di chi
governa. La prudenza è una virtù di governo. Anche l’audacia lo è. Si deve governare con audacia e
con prudenza. Ho parlato del battesimo, e della comunione come cibo spirituale per andare avanti,
da considerare un rimedio e non un premio. Alcuni hanno subito pensato ai sacramenti per i
divorziati risposati, ma io non sono sceso in casi particolari: volevo solo indicare un principio.
Dobbiamo cercare di facilitare la fede delle persone più che controllarla. L’anno scorso in Argentina
avevo denunciato l’atteggiamento di alcuni preti che non battezzavano i figli delle ragazze madri. È
una mentalità ammalata».
E quanto ai divorziati risposati?
«L’esclusione della comunione per i divorziati che vivono una seconda unione non è una sanzione.
È bene ricordarlo. Ma non ho parlato di questo nell’esortazione».
Ne tratterà il prossimo Sinodo dei vescovi?
«La sinodalità nella Chiesa è importante: del matrimonio nel suo complesso parleremo nelle riunioni del concistoro in febbraio. Poi il tema sarà affrontato al Sinodo straordinario dell’ottobre
2014 e ancora durante il Sinodo ordinario dell’anno successivo. In queste sedi tante cose si
approfondiranno e si chiariranno».
Come procede il lavoro dei suoi otto «consiglieri» per la riforma della Curia?
«Il lavoro è lungo. Chi voleva avanzare proposte o inviare idee lo ha fatto. Il cardinale Bertello ha
raccolto i pareri di tutti i dicasteri vaticani. Abbiamo ricevuto suggerimenti dai vescovi di tutto il
mondo. Nell’ultima riunione gli otto cardinali hanno detto che siamo arrivati al momento di
avanzare proposte concrete, e nel prossimo incontro, in febbraio, mi consegneranno i loro primi
suggerimenti. Io sono sempre presente agli incontri, eccetto la mattina del mercoledì per via
dell’udienza. Ma non parlo, ascolto soltanto, e questo mi fa bene. Un cardinale anziano alcuni mesi
fa mi ha detto: “La riforma della Curia lei l’ha già cominciata con la messa quotidiana a Santa
Marta”. Questo mi ha fatto pensare: la riforma inizia sempre con iniziative spirituali e pastorali
prima che con cambiamenti strutturali».
Qual è il giusto rapporto fra la Chiesa e la politica?
«Il rapporto deve essere allo stesso tempo parallelo e convergente. Parallelo, perché ognuno ha la
sua strada e i suoi diversi compiti. Convergente, soltanto nell’aiutare il popolo. Quando i rapporti
convergono prima, senza il popolo, o infischiandosene del popolo, inizia quel connubio con il
potere politico che finisce per imputridire la Chiesa: gli affari, i compromessi… Bisogna procedere
paralleli, ognuno con il proprio metodo, i propri compiti, la propria vocazione. Convergenti solo nel
bene comune. La politica è nobile, è una delle forme più alte di carità, come diceva Paolo VI. La
sporchiamo quando la usiamo per gli affari. Anche la relazione fra Chiesa e potere politico può
essere corrotta, se non converge soltanto nel bene comune».
Posso chiederle se avremo donne cardinale?
«È una battuta uscita non so da dove. Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non
“clericalizzate”. Chi pensa alle donne cardinale soffre un po’ di clericalismo».
Come procede il lavoro di pulizia allo Ior?
«Le commissioni referenti stanno lavorando bene. Moneyval ci ha dato un report buono, siamo sulla
strada giusta. Sul futuro dello Ior si vedrà. Per esempio, la “banca centrale” del Vaticano sarebbe
l’Apsa. Lo Ior è stato istituito per aiutare le opere di religione, missioni, le Chiese povere. Poi è
diventato come è adesso».
Un anno fa poteva immaginare che il Natale 2013 lo avrebbe celebrato in San Pietro?
«Assolutamente no».
Si aspettava di essere eletto?
«Non me l’aspettavo. Non ho perso la pace mentre crescevano i voti. Sono rimasto tranquillo. E
quella pace c’è ancora adesso, la considero un dono del Signore. Finito l’ultimo scrutinio, mi hanno
portato al centro della Sistina e mi è stato chiesto se accettavo. Ho risposto di sì, ho detto che mi
sarei chiamato Francesco. Soltanto allora mi sono allontanato. Mi hanno portato nella stanza
adiacente per cambiarmi l’abito. Poi, poco prima di affacciarmi, mi sono inginocchiato a pregare
per qualche minuto insieme ai cardinali Vallini e Hummes nella cappella Paolina».

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