il filosofo amico di Ratzinger stronca impietosamente l’enciclica di papa Francesco

Spaemann

“È il caos eretto a principio con un tratto di penna”

spaemann

Il professor Robert Spaemann, 89 anni, coetaneo e amico di Joseph Ratzinger, è professore emerito di filosofia presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera. È uno dei maggiori filosofi e teologi cattolici tedeschi. Vive a Stoccarda. Il suo ultimo libro uscito in Italia è: “Dio e il mondo. Un’autobiografia in forma di dialogo”, edito da Cantagalli nel 2014.

Questa che segue è la traduzione dell’intervista sulla “Amoris lætitia” che egli ha dato in esclusiva ad Anian Christoph Wimmer per l’edizione tedesca di Catholic News Agency del 28 aprile:

 “Ein Bruch mit der Lehrtradition” – Robert Spaemann über “Amoris lætitia”

D. – Professor Spaemann, lei ha accompagnato con la sua filosofia i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Molti fedeli oggi si chiedono se l’esortazione postsinodale “Amoris lætitia” di papa Francesco possa essere letta in continuità con l’insegnamento della Chiesa e di questi papi.

R. – Per la maggior parte  del testo ciò è possibile, anche se la sua linea lascia spazio a delle conclusioni che non possono essere rese compatibili con l’insegnamento della Chiesa. In ogni caso l’articolo 305, insieme con la nota 351, in cui si afferma che i fedeli “entro una situazione oggettiva di peccato” possono essere ammessi ai sacramenti “a causa dei fattori attenuanti”, contraddice direttamente l’articolo 84 della “Familiaris consortio” di Giovanni Paolo II.

D. – Che cosa stava a cuore a Giovanni Paolo II?

R. – Giovanni Paolo II dichiara la sessualità umana “simbolo reale della donazione di tutta la persona” e, più precisamente, “un’unione non temporanea o ad esperimento”. Nell’articolo 84 afferma, dunque, in tutta chiarezza che i divorziati risposati, se desiderano accedere alla comunione,  devono rinunciare agli atti sessuali. Un cambiamento nella prassi dell’amministrazione dei sacramenti non sarebbe quindi “uno sviluppo” della “Familiaris consortio”, come ritiene il cardinal Kasper, ma una rottura con il suo insegnamento essenziale, sul piano antropologico e teologico, riguardo al matrimonio e alla sessualità umana.

La Chiesa non ha il potere, senza che vi sia una conversione antecedente, di valutare positivamente delle relazioni sessuali, mediante l’amministrazione dei sacramenti, disponendo in anticipo della misericordia di Dio. E questo rimane vero a prescindere da quale sia il giudizio su queste situazioni sia sul piano morale che su quello umano. In questo caso, come per il sacerdozio femminile, la porta qui è chiusa.

D. – Non si potrebbe obiettare che le considerazioni antropologiche e teologiche da lei citate siano magari anche vere, ma che la misericordia di Dio non è legata a tali limiti, ma si collega alla situazione concreta di ogni singola persona?

R. – La misericordia di Dio riguarda il cuore della fede cristiana nell’incarnazione e nella redenzione. Certamente lo sguardo di Dio investe ogni singola persona nella sua situazione concreta. Egli  conosce ogni singola persona meglio di quanto essa conosca se stessa.  La vita cristiana, però, non è un allestimento pedagogico in cui ci si muove verso il matrimonio come verso un ideale, così come pare presentata in molti passi della “Amoris lætitia”. L’intero ambito delle relazioni, particolarmente quelle di carattere sessuale, ha a che fare con la dignità della persona umana, con la sua personalità e libertà. Ha a che fare con il corpo come “tempio di Dio” (1 Cor 6, 19). Ogni violazione di questo ambito, per quanto possa essere divenuta frequente, è quindi una violazione della relazione con Dio, a cui i cristiani si sanno chiamati; è un peccato contro la sua santità, e ha sempre e continuamente bisogno di purificazione e conversione.

La misericordia di Dio consiste proprio nel fatto che questa conversione è resa continuamente e di nuovo possibile. Essa, certamente, non è legata a determinati limiti, ma la Chiesa, per parte sua, è obbligata a predicare la conversione e non ha il potere di superare i limiti esistenti mediante l’amministrazione dei sacramenti, facendo, in tal modo, violenza alla misericordia di Dio. Questa sarebbe orgogliosa protervia.

Pertanto, i chierici che si attengono all’ordine esistente non condannano nessuno, ma tengono in considerazione e annunciano questo limite verso la santità di Dio. È un annuncio salutare. Accusarli ingiustamente, per questo, di “nascondersi dietro gli insegnamenti della Chiesa” e di “sedere sulla cattedra di Mosè… per gettare pietre contro la vita delle persone” (art. 305), è qualcosa che nemmeno voglio commentare.  Si noti, solo per inciso, che qui ci si serve, giocando su un fraintendimento intenzionale, del passo evangelico citato. Gesù dice, infatti, sì, che i farisei e gli scribi siedono sulla cattedra di Mosè, ma sottolinea espressamente che i discepoli devono praticare e osservare tutto quello che essi dicono, ma non devono vivere come loro (Mt 23, 2).

D. – Il papa vuole che non ci si concentri su delle singole frasi della sua esortazione, ma che si tenga conto di tutta l’opera nel suo insieme.

R. – Dal mio punto di vista, concentrarsi sui passi citati è del tutto giustificato.  Davanti a un testo del magistero papale non ci si può attendere che la gente si rallegri per un bel testo e faccia finta di niente davanti a frasi decisive, che cambiano in maniera sostanziale l’insegnamento della Chiesa. In questo caso c’è solo una chiara decisione tra il sì e il no. Dare o non dare la comunione: non c’è una via media.

D. – Papa Francesco nel suo scritto ripete che nessuno può essere condannato per sempre.

R. – Mi risulta difficile capire che cosa intenda. Che alla Chiesa non sia lecito condannare personalmente nessuno, men che meno eternamente – cosa che, grazie a Dio, nemmeno può fare – è qualcosa di chiaro. Ma, se si tratta di relazioni sessuali che contraddicono oggettivamente l’ordinamento di vita cristiano, allora vorrei davvero sapere dal papa dopo quanto tempo e in quali circostanze una condotta oggettivamente peccaminosa si muta in una condotta gradita a Dio.

D. – Qui, dunque, si tratta davvero di una rottura con la tradizione dell’insegnamento della Chiesa?

R. – Che si tratti di una rottura è qualcosa che risulta evidente a qualunque persona capace di pensare che legga i testi in questione.

D. – Come si è potuti giungere a questa rottura?

R. – Che Francesco si ponga in una distanza critica rispetto al suo predecessore Giovanni Paolo II lo si era già visto quando lo ha canonizzato insieme con Giovanni XXIII, nel momento in cui ha ritenuto superfluo per quest’ultimo il secondo miracolo che, invece, è canonicamente richiesto. Molti a ragione hanno percepito questa scelta come manipolativa. Sembrava che il papa volesse relativizzare l’importanza di Giovanni Paolo II.

Il vero problema, però, è un’influente corrente di teologia morale, già presente tra i gesuiti nel secolo XVII, che sostiene una mera etica situazionale. Le citazioni di Tommaso d’Aquino prodotte dal papa nella “Amoris lætitia” sembrano sostenere questo indirizzo di pensiero. Qui, però, si trascura il fatto che Tommaso d’Aquino conosce atti oggettivamente peccaminosi, per i quali non ammette alcuna eccezione legata alle situazioni. Tra queste rientrano anche le condotte sessuali disordinate. Come già aveva fatto negli anni Cinquanta con il gesuita Karl Rahner, in un suo intervento che contiene tutti gli argomenti essenziali, ancor oggi validi, Giovanni Paolo II ha ricusato l’etica della situazione e l’ha condannata nella sua enciclica “Veritatis splendor”.

“Amoris Laetitia” rompe anche con questo documento magisteriale.  A questo proposito, poi, non si dimentichi che fu Giovanni Paolo II a mettere a tema del proprio pontificato la misericordia divina, a dedicarle la sua seconda enciclica, a scoprire  a Cracovia il diario di suor Faustina e, in seguito, a canonizzare quest’ultima. È lui il suo interprete autentico.

D. – Che conseguenze vede per la Chiesa?

R. – Le conseguenze si possono vedere già adesso. Crescono incertezza, insicurezza e confusione: dalle conferenze episcopali fino all’ultimo parroco nella giungla. Proprio pochi giorni fa un sacerdote dal Congo mi ha espresso tutto il suo sconforto davanti a questo testo e alla mancanza di indicazioni chiare. Stando ai passaggi corrispondenti di “Amoris lætitia”, in presenza di non meglio definite “circostanze attenuanti”, possono essere ammessi alla assoluzione dei peccati e alla comunione non solo i divorziati risposati, ma tutti coloro che vivono in qualsivoglia “situazione irregolare”, senza che debbano sforzarsi di abbandonare la loro condotta sessuale, e, dunque, senza piena confessione e senza conversione.

Ogni sacerdote che si attenga all’ordinamento sacramentale sinora in vigore potrebbe subire forme di mobbing dai propri fedeli ed essere messo sotto pressione dal proprio vescovo. Roma può ora imporre la direttiva per cui saranno nominati solo vescovi “misericordiosi”, che sono disposti ad ammorbidire l’ordine esistente. Il caos è stato eretto a principio con un tratto di penna. Il papa avrebbe dovuto sapere che con un tale passo spacca la Chiesa e la porta verso uno scisma. Questo scisma non risiederebbe alla periferia, ma nel cuore stesso della Chiesa. Che Dio ce ne scampi.

Una cosa, però, mi sembra sicura: quel che sembrava essere l’aspirazione di questo pontificato – che la Chiesa superi la propria autoreferenzialità, per andare incontro con cuore libero alle persone – con questo documento papale è stato annichilito per un tempo imprevedibile. Ci si deve aspettare una spinta secolarizzatrice e un ulteriore regresso del numero dei sacerdoti in ampie parti del mondo. Si può facilmente verificare, da parecchio tempo, che i vescovi e le diocesi con un atteggiamento non equivoco in materia di fede e di morale hanno il numero maggiore di vocazioni sacerdotali. Si deve qui rammentare quel che scrive san Paolo nella lettera ai Corinti: “Se la tromba emette un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia?” (1 Cor 14, 8).

D. – Che cosa succederà ora?

R. – Ogni singolo cardinale, ma anche ogni vescovo e sacerdote è chiamato a difendere nel proprio ambito di competenza l’ordinamento sacramentale cattolico e a professarlo pubblicamente. Se il papa non è disposto a introdurre delle correzioni, toccherà al pontificato successivo rimettere le cose a posto ufficialmente.

contro una politica che sa solo condannare a morte!

Lesbo: i gesti simbolici che salvano. E le politiche che condannano. Intervista a don Pierluigi Di Piazza

Lesbo: i gesti simbolici che salvano e le politiche che condannano

intervista a don Pierluigi Di Piazza

 
da: Adista Notizie n° 16 del 30/04/2016

 «L’opinione mondiale non può ignorare la colossale crisi umanitaria che ha avuto origine a causa della diffusione della violenza e del conflitto armato, della persecuzione e del dislocamento di minoranze religiose ed etniche, e dallo sradicamento di famiglie dalle proprie case, in violazione della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo». «Da Lesbo facciamo appello alla comunità internazionale perché risponda con coraggio, affrontando questa enorme crisi umanitaria e le cause ad essa soggiacenti, mediante iniziative diplomatiche, politiche e caritative e attraverso sforzi congiunti, sia in Medio Oriente sia in Europa».

Ecco scolpiti in due soli periodi la tragedia più grande dopo l’ultimo evento bellico mondiale e l’appello alla comunità internazionale per farvi fronte. Sono tratti dalla Dichiarazione congiunta di papa Francesco, del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e dell’arcivescovo di Atene Hieronymos, firmata a Lesbo il 15 aprile scorso, dove le tre autorità hanno visitato il campo profughi di Moria e, come ha detto il pontefice parlando ai giornalisti, «un cimitero: il mare». «Siamo venuti – ha detto ai rifugiati – per richiamare l’attenzione del mondo su questa grave crisi umanitaria e per implorarne la risoluzione. Come uomini di fede, desideriamo unire le nostre voci per parlare apertamente a nome vostro. Speriamo che il mondo si faccia attento a queste situazioni di bisogno tragico e veramente disperato, e risponda in modo degno della nostra comune umanità».Auspicio, quello del papa all’accoglienza insieme all’appello del 17 giugno («Chiedete tutti perdono per le istituzioni e le persone che chiudono le loro porte a gente che cerca aiuto e cerca di essere custodita»), che in qualche caso è caduto nel vuoto e respinto. In Italia, al leader del Carroccio Matteo Salvini – che su Facebook ha scritto: «Il papa vuole invitare altre migliaia di immigrati in Italia? Un conto è accogliere i pochi che scappano dalla guerra, altro conto è incentivare e finanziare un’invasione senza precedenti. Caro Santo Padre, la catastrofe è a due passi dal Vaticano, è in Italia!» – ha risposto dal telegiornale di Tv2000 (18/4) il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, ricordando che quella del papa è «politica evangelica»: «Chi ha un minimo d’intelligenza, cioè è in grado di leggere la storia e gli eventi», ha rimarcato, «capisce che i veri motivi che spingono le persone ad uscire dalle proprie nazioni sono altri. Non è l’accoglienza, ma la guerra e le condizioni economiche disastrose. Chi incentiva e continua ancora a provocare l’immigrazione sono tutte quelle realtà; e l’Europa e gli Usa non sono assolutamente senza colpa, che hanno provocato le guerre e impoverito queste nazioni. La povertà e la guerra mettono in moto queste persone».Resta da vedere da vedere – come ha commentato il quotidiano cattolico francese La Croix (18/4) – se il gesto spettacolare di Francesco di recarsi a Lesbo e di tornarne conducendo con sé 12 migranti, peraltro tutti musulmani (tre famiglie accolte dalla Comunità di Sant’Egidio, economicamente supportata dal Vaticano), «produrrà opinione per stimolare una risposta all’altezza della crisi», come dire dalla profezia alla politica.Ne abbiamo parlato con don Pierluigi Di Piazza, del Centro di accoglienza “Ernesto Balducci” di Zugliano (Ud), la cui principale attività è l’accoglienza concreta delle persone immigrate e rifugiate. Di seguito il colloquio che abbiamo avuto con lui.

Papa Francesco insiste nel fare gesti simbolici per manifestare lo scandalo sulle stragi dei migranti, per richiamare l’attenzione sulla dignità di ogni vita umana, per scuotere le coscienze dei politici della comunità internazionale che erigono barriere e prosperano sul commercio delle armi e su interessi geopolitici spesso inconfessabili, alimentando guerre e povertà estreme che generano la migrazione di tanti esseri umani verso porti più sicuri. Il viaggio a Lampedusa, nel 2013, non ha generato nessun sussulto verso un atteggiamento di accoglienza. Lesbo riuscirà dove Lampedusa sembra aver fallito?

A mio sentire, la presenza di papa Francesco a Lampedusa nel luglio 2013 è stato un segno molto importante, profetico: l’atteggiamento penitenziale; l’incontro con le persone, la celebrazione dell’Eucarestia sulla mensa costituita da una barca, con il calice di legno; l’interrogativo drammatico rivolto a tutti di dove sono i nostri fratelli e sorelle, qual è la cura o il disinteresse nei loro confronti; il monito a non lasciarci irretire nella globalizzazione dell’indifferenza; la provocazione a riflettere se noi siamo ancora capaci di piangere o se invece diventiamo indifferenti al dramma dei tanti che muoiono in mare: sono tutte questioni che ad esempio personalmente qui nel centro Balducci di Zugliano e in tanti incontri pubblici ho ripreso diverse volte commentando come fosse importante sottoscriverle ogni giorno data la loro attualità. Ritengo che come me tante altre persone vi abbiano fatto riferimento.

Non vi hanno certo fatto riferimento i politici europei.

Se l’esito di quella presenza si constata nella posizione dell’Europa e in quella di tanti nostri territori è indubbiamente desolante. L’incapacità e la non volontà dell’Europa sono vergognose; la successione di tanti incontri inconcludenti e mortificante; l’emergere di nazionalismi, populismi; la realizzazione di muri, di fili spinati; i gas lacrimogeni, le pallottole di gomma contro i migranti, anche i bambini, costituiscono una evidente violazione dei diritti umani e della Convenzione di Ginevra sui richiedenti asilo. La situazione di Idomeni al confine fra Grecia e Macedonia, con 14mila persone di cui 4mila bambini nelle tende appoggiate sul fango costituiscono una vergogna per l’Europa e per tutta l’umanità. L’accordo con la Turchia ha realizzato la mercificazione dell’umanità di coloro che sono in fuga e vengono ricacciati; avrebbe dovuto suscitare lo sdegno di tante persone e comunità, non reazioni limitate e tiepide, com’è avvenuto, o del tutto assenti.A Lesbo papa Francesco si è recato non solo per visitare ma soprattutto per vedere e ascoltare con gli occhi e gli orecchi del cuore, coinvolgendosi con i loro sguardi. Ha concordato insieme a lui la presenza del patriarca Bartolomeo e dell’arcivescovo Hieronymus; era presente anche il presidente Alexis Tsipras. E poi in modo sorprendente per tutti ha dato la concreta possibilità a 3 famiglie, 12 persone, fra cui 6 bambini, tutti i musulmani, di andare con lui a Roma per essere accolti. Che siano tutti musulmani, ha detto, non costituisce problema perché tutti siamo figli di Dio, tutti apparteniamo alla stessa famiglia umana.

Un gesto in un certo senso caduto nel vuoto, per lo meno sinora.

A mio sentire, i commenti dei politici in genere sono stati tiepidi, dovuti, senza coinvolgimento, quelli di qualcuno poi non sono neanche oggettivabili perché anche dire squallidi è poco. Le parole e i gesti concreti di Papa Francesco intendono abbattere i muri, tagliare i fili spinati, fermare lacrimogeni e proiettili di gomma. Ma la sua provocazione può essere colta da chi è in qualche modo e per qualche aspetto già disponibile a recepirla anche se inizialmente in modo tenue ed embrionale. Se anche le ripetute stragi in mare, le migliaia di morti, centinaia di bambini, non feriscono il cuore, non scuotono le coscienze, purtroppo per tanti le parole e i gesti di papa Francesco sono considerati da lui dovuti: in ultima analisi è pur sempre il papa; anche se diverso e coraggioso a lui spettano queste posizioni e scelte, ma poi si pensa che la realtà è un’altra, il realismo anche, la politica anche.

E se il papa passasse a gesti più concreti, tipo richiamare i nunzi dai Paesi più sordi ad un trattamento umanitario dei migranti?

Papa Francesco orienta con la profezia dell’accoglienza; spetterebbe alle Chiese locali, alle diocesi e alle parrocchie riproporla nei diversi territori d’Italia e d’Europa; ugualmente anche i responsabili con le comunità di altre fedi religiose comprese certamente quelle di fede musulmana, dato anche che in grande percentuale i profughi vivono questa fede, pensando magari all’incontro, al dialogo, alla collaborazione operativa fra comunità di fede religiosa diversa. A mio avviso per chi si riferisce al Vangelo di Gesù la questione che si apre è dirimente: è possibile, e come, dichiararsi cristiani e respingere i profughi, diffondere mentalità, parole, atteggiamenti di indifferenza, di diffidenza, di razzismo? Non è possibile, è contrario al Vangelo in cui Gesù afferma: “Ero forestiero e mi avete accolto”. Nelle diocesi, nelle diverse comunità questa affermazione dovrebbe risuonare con molta forza, in tante neanche si nomina. Le strumentalità al riguardo in questi anni e ancora maggiormente oggi sono state e sono evidenti e vergognose.

Potrebbe non sorprendere, da parte di Francesco, il ricorso ad altre iniziative. Per esempio quella suggerita al papa da quattro sacerdoti (don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione “Libera”, don Gino Rigoldi, cappellano dell’istituto penale per minori “Beccaria”, don Virginio Colmegna, presidente della “Casa della carità”, e il missionario comboniano p. Alex Zanotelli) dalle pagine de L’Espresso di un anno fa (30/4/15): i cosiddetti “visti del papa”, permessi rilasciati dalla Santa Sede, nelle sue rappresentanze diplomatiche nei vari Paesi, un “corridoio umanitario” per salvare migliaia di bambini, donne e uomini, anche se non certo per risolvere il problema che è ormai strutturale. Il Vaticano li potrebbe accogliere in proprie strutture ed in altre ecclesiali per poi consentire loro di raggiungere con altri visti il Paese dove vogliono recarsi. Sarebbe un esempio che altri Paesi possono seguire. È pensabile questo passo in più?

Personalmente non ho la presunzione di esprimere suggerimenti, tantomeno indicazioni. Vivo da anni in questo Centro Balducci che sento come un laboratorio di convivenza fra le diversità, con 50 persone immigrate e profughe. Avverto che questo fenomeno mondiale è attualmente il criterio dirimente della lettura del mondo e di questa nostra società, e nello stesso tempo che solo una minoranza condivide questa considerazione fondamentale. Di fronte alla realtà così spesso drammatica c’è l’esigenza di scelte inedite e coraggiose che aprono nuove possibilità. Se si riuscisse ad aprire nuove strade come quelle indicate che altri possano poi seguire questo risulterebbe molto importante per le istituzioni e la politica perché farebbe emergere la vergogna della non volontà e incapacità di agire. La Chiesa del Vangelo è coinvolta nella fedeltà al Vangelo, alle storie delle persone, alla propria coscienza.

Nell’estate scorsa, il papa ha anche sollecitato diocesi e parrocchie ad ospitare, nelle possibilità di ognuno, gruppi e famiglie di migranti. Secondo lei, la risposta è stata soddisfacente?

Non sono in grado di rispondere con dati certi. Mi pare che, in Italia, molte esperienze di accoglienza si aprono nelle diocesi e nelle parrocchie; ma anche che, nello stesso tempo, una parte consistente di coloro che si dicono cristiani sono indifferenti ed esprimono contrarietà e avversione. C’è insieme un uso politico strumentale del riferimento alle radici cristiane alla cultura cattolica per fortificare identità chiuse, di per sé difensive e aggressive, che di fatto smentiscono in modo clamoroso il Vangelo a cui pretendono di riferirsi.* Campo profughi di Idomeni.

eni.

intervista a Sarah un cardinale dalle idee troppo pericolosamente e disumanamente chiare!

“non possiamo lasciare l’Uomo senza una strada sicura”

intervista al cardinale Sarah

una perla fra le altre del suo integralismo:

“L’uomo è fatto per la donna. La donna è fatta per l’uomo. Nel mio libro lo dico chiaramente, perché in fondo è un concetto molto chiaro di per sé: l’uomo è niente senza la donna, e viceversa. Ma soprattutto, tutti e due non sono niente senza un terzo elemento che è il frutto che nasce dal loro amore: una nuova vita, un bambino.  Il cosiddetto “matrimonio omosessuale” è egoismo puro. Nessun frutto. Un amore che non fa nascere niente non può che distrugge la vera felicità, la vera complementarietà. Un uomo non può completare un altro uomo; per quanto può provarci, non ci riuscirà mai. È la natura. Anche gli uccelli lo sanno”
che differenza e disumanità rispetto a questa considerazione di E. Bianchi, priore di Bose:
“a tutti va riconosciuta la libertà di amare: chi vieta agli altri la libertà di amare è più tiranno di chi vieta la libertà di parola”
cardinale sarah intervista.PNG

“’Sono la Via, la Verità, e la Vita’. È questo che è stabile. È questo che io cerco di testimoniare”. L’Occidentale ospita una intervista al Cardinale Robert Sarah, uomo dalla fede ardente, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, e autore del libro “Dio o niente”.

Il Cardinale Burke, tempo fa ha detto: “Se per fondamentalista si intende qualcuno che insiste sulle cose fondamentali, sono un fondamentalista.” Rispondeva ad una provocazione data la sua nota e ripetuta opposizione a ogni mutamento della prassi pastorale in discussione al Sinodo. Si sente di sposare questo stesso sentire?

Papa Benedetto XVI ha sottolineato senza sosta il problema della dittatura del relativismo. Oggi tutto è possibile. Non abbiamo più radici. Niente di stabile. Eppure noi una Dottrina stabile l’abbiamo, abbiamo una Rivelazione.  Far sì che la gente torni alle radici delle cose, della Rivelazione è un dovere per noi Vescovi. Non possiamo lasciare la gente senza una strada sicura. Senza una roccia su cui appoggiarsi. Nella parrocchia la roccia su cui appoggiarsi è il parroco, nella diocesi è il Vescovo, nella Chiesa universale, è il Papa. E noi cerchiamo di aiutare il Santo Padre ad assicurare la gente che una stabilità esiste. Che c’è una strada. E la strada è Gesù Cristo. Lo ha detto chiaramente: “Sono la Via, la Verità, e la Vita”. È questo che è stabile. È questo che io cerco di testimoniare. Abbiamo davvero una roccia, abbiamo una strada, abbiamo una Verità che ci salva. È inutile spostarsi da lì.

Quindi è anche lei un “fondamentalista”, nel senso che ha attribuito Burke al termine?

Sì, sicuramente. (Sorride di gusto)

La parola ‘fondamentalismo’ è ormai associata all’islam. Tema che ha invaso le nostre conversazioni quotidiane. L’islam identifica il mondo politico e quello religioso, convinto che solo il potere politico possa moralizzare l’umanità. Qui si rende manifesta tutta la differenza e la novità del cristianesimo, il cui Dio non è il Re di un banale regno temporale. In quest’ottica, non è forse vero, quanto diceva, quando era ancora Cardinale, il Papa Emerito? “Nella pratica politica il relativismo è il benvenuto perché ci vaccina della tentazione utopistica”. La Chiesa Cattolica del 2016 ha conservato questo stesso atteggiamento nei confronti della politica, oppure è convinta che in fondo, il Paradiso in terra si possa sempre realizzare?

Penso che dall’inizio noi dobbiamo dividere l’uomo. Separare cioè la sua identità propria e il suo lavoro, la sua politica. Non dobbiamo mischiare la religione con la politica. Però, allo stesso tempo, l’uomo è uno. Non puoi essere un cristiano in chiesa, e fuori un’altra persona. E come dunque radicare il Vangelo nel mio operare, nella politica, nell’economia? Questo è il problema fondamentale. Perché se divido, cosa succede? Sono un cristiano in chiesa, ma un passo fuori dalla chiesa e il mio comportamento è da pagano, da uomo che non crede a niente. Un uomo che crede solo nel suo avere, nel potere. Ma la vera fede opera nella carità.  La vera fede si manifesta nella carità, cioè nella concretezza delle azioni. E dunque penso che il problema stia tutto nell’essere ‘cristiani veramente veri’ nell’attualità, nell’economia nella politica, nell’arte, nella cultura, nella vita familiare. È impossibile dire sono cristiano e poi non mi sposo in chiesa, per esempio. (Sorride). È difficile dire sono un cristiano però non vado a messa. L’esser cristiano deve riflettersi per forza nella vita pratica. E ognuno di noi è immerso nella società. Dobbiamo vedere nella nostra vita il Vangelo. C’è una trasparenza che deve vedersi nella vita quotidiana, e questo è la vera cristianità.

Nel suo libro lei ha ampiamente affrontato l’argomento “teologia della liberazione”. Quella teologia che ha trasformato, e continua a farlo, il Vangelo in ricetta politica, con l’assolutizzazione di una posizione per cui solo questa sarebbe la ricetta per liberare e dare progresso. Convinti, in questo modo, che lo stato sia l’ultimo potere. Crede che il pensiero marxista stia tornando in svariate altre forme nel nostro tempo?

Quando si concepisce la cristianità in modo orizzontale, come se solo nell’azione umanitaria, sociale, politica ci sia quel che conta, è lì che sbagliamo. E si sbaglia perché prima di fare, devo attingere dall’alto per trovare il giusto modo di agire. Cioè devo essere ispirato da Dio. La “teologia della liberazione” voleva solo fare una ‘teologia dell’azione’ che non ispira al Vangelo e che, soprattutto, non si ispira dal Vangelo. E dunque penso che anche oggi siamo tentati di vedere la nostra opera cristiana come un’opera sociale. Non critico nessuno, non dico che è male fare … Ma, per esempio. Insistiamo tanto nell’accogliere i rifugiati, bene. Non dovremmo farlo soltanto per dare loro cibo, lavoro, una casa. Loro hanno un bisogno più alto, cioè Dio. Pensiamo a questo? O è soltanto un discorso ‘orizzontale’ il nostro? Questo è il problema. La “teologia della liberazione” sta rientrando di nuovo nella pratica della vita sociale della Chiesa. Non dico che non dobbiamo occuparci materialmente della gente povera. Però l’ingiustizia più grave è di dare soltanto cibo ai poveri, loro hanno bisogno del Vangelo. Hanno bisogno di Dio. Lo dice anche Papa Francesco.

In effetti, pare che la povertà sia diventata il centro di tutto l’apostolato nel cattolicesimo. Almeno è quello che percepiscono i fedeli. Una volta Benedetto XVI ha detto: “La povertà puramente materiale non salva, […] il cuore della persone che non posseggono niente può essere indurito, avvelenato, malvagio – colmo all’interno di avidità di possesso, dimentico di Dio e bramoso solo di beni materiali.” Lei ha raccontato l’episodio della rimozione del baldacchino dalla Cattedrale di Conakry. In un’ottica malsana e ipocrita, le chiese, oggi, si preferisce ‘spogliarle’ piuttosto che ‘vestirle’. Perché?

Perché abbiamo perso la maestà, la dignità, la Grandezza di Dio. Dio ora è niente. (Sorride con ironia. Gioca da solo con il titolo del suo libro). E siccome è niente dobbiamo spogliare la sua casa. Il che è mera ingiustizia. È davvero ingiusto! Ognuno di noi desidera abitare in una casa bella. Perché ci permettiamo di privare Dio della bellezza? Abbiamo perso il senso della sacralità, della bellezza. Dio che è Bello, che ha il Bello, merita una casa bella. Non è povertà spogliare la chiesa. (Sorride ancora. ‘Spogliare la Chiesa’ gli suona ridicolo) È solo segno di desacralizzazione, di disprezzo di Dio. Proprio per questa ragione, per questo rischio latente, che Benedetto XVI ha prestato tanta cura nella Liturgia. A partire dal “vestimento” del sacerdote, fino alla bellezza dell’altare e della chiesa tutta. Questo è segno della religiosità, della sacralità. Pensiamo a come era bello il tempio di Gerusalemme, eppure erano poverissimi a quel tempo. Oppure pensiamo a quando in Campania avete costruito queste meravigliose chiese, la gente non era povera, era poverissima. Eppure hanno voluto dare tutto per Dio. Perché niente è troppo ricco per Dio.

Il cattolico fervente del ventunesimo secolo è tacciato continuamente di essere un retrogrado e nemico della libertà. Della libertà arbitraria ed individualista.  La Chiesa si lascerà percuotere dal mito condito della libertà d’amore? Tutto sarà sottomesso al principio di maggioranza perché si cancellerà la differenza tra bene e male?

Io spero che la Chiesa rimanga sempre la Luce. La Luce e la Verità. Cristo ha detto la Verità ci libererà. La vera libertà è la Verità. Cioè, una libertà che mi permette di fare tutto ciò che mi piace, non è vera libertà. È solo schiavitù.  La vera libertà è quella che impegna a cercare il Vero, il Bello, la Giustizia, ciò che è in grado di far progredire ognuno di noi. Essere liberi è possibile solo in Cristo. Solo Lui ci libera.
Non ha niente a che fare con ciò che mi piace. E la Chiesa deve mantenere questa strada. La più autentica libertà è fuggire ciò che ci tiene in schiavitù. Siamo schiavi del danaro, del potere, di un’infinità di cose che non sono il nostro bene. Chi può illuminare l’uomo a cercare la vera libertà? Penso solo il Vangelo. La Libertà viene dal Figlio di Dio. E la Verità purtroppo non è più considerata. Ciascuno ha la sua verità e quindi la sua libertà. Oggi verità è ‘ciò che mi conviene’. Ma la libertà è una cosa oggettiva. E mi lega a volere la libertà che è Dio. Senza amore non c’è libertà. L’amore è rispettare l’altro. Dio è libertà, è amore. L’amore è incapace di imporre e Dio è l’origine della libertà perché è incapace di imporre. E Dio è l’origine della libertà perché è incapace di imporre una sua visione, ma ci lascia scegliere per amore. Questo è amore.

Un po’ di tempo fa lei ha detto l’Africa in materia di omosessualità, potrebbe diventare la punta di lancia della Chiesa nella sua opposizione alla decadenza occidentale; continua ad essere dello stesso avviso?

Il futuro è nelle mani di Dio. Però l’Africa lotterà in modo energico per non accettare questa deviazione. Perché è contro natura. Nessun pagano può pensare e credere davvero ciò che vediamo qui in occidente. Nessuno. L’uomo è fatto per la donna. La donna è fatta per l’uomo. Nel mio libro lo dico chiaramente, perché in fondo è un concetto molto chiaro di per sé: l’uomo è niente senza la donna, e viceversa. Ma soprattutto, tutti e due non sono niente senza un terzo elemento che è il frutto che nasce dal loro amore: una nuova vita, un bambino.  Il cosiddetto “matrimonio omosessuale” è egoismo puro. Nessun frutto. Un amore che non fa nascere niente non può che distrugge la vera felicità, la vera complementarietà. Un uomo non può completare un altro uomo; per quanto può provarci, non ci riuscirà mai. È la natura. Anche gli uccelli lo sanno.

Un’ultima domanda. Se potesse fare lei un’intervista ad un personaggio del passato, con chi si siederebbe a parlare?

Sceglierei forse, Sant’Agostino. Agostino è l’uomo che ha vissuto una vita difficile da ragazzo. Forse oggi tutti noi viviamo la stessa esperienza. Proprio lui ci saprebbe dare una lezione, a partire dalle sue vicende esistenziali. Come l’uomo possa cambiare la rotta della propria esistenza, uscire dall’errore e convertirsi, solo Sant’Agostino, per me, può indicarlo alla perfezione. Ma la conversione, dirà lui, non avviene senza la preghiera. La sua mamma ha pregato tanto, ed è riuscita a cambiare la sua vita. Agostino è per me un modello dell’uomo moderno. 
 

spreco di soldi e di bombe che non salvano …

«l’Europa spende per bombardare, non per salvare vite»

intervista a Gian Carlo Perego

a cura di Massimo Solani 
in “l’Unità” del 10 dicembre 2015

Perego

«Il rischio è che queste morti vengano lasciate in secondo piano, dimenticate in un clima di guerra come quello che si è creato nel contesto dell’Unione Europea dopo i terribili attentati di Parigi. Come se questi morti non meritassero lo stesso trattamento e la medesima attenzione»

monsignor Gian Carlo Perego è direttore della Fondazione Migrantes e i suoi numeri sulla strage silenziosa nelle acque del Mediterraneo hanno per un giorno riacceso i riflettori sulle tragedie dell’immigrazione che l’Europa sembra aver dimenticato, travolta dall’esigenza di sicurezza e contrasto al terrorismo

«Purtroppo – dice – l’esigenza della lotta al terrorismo genera una situazione di emergenza in cui rischiamo di dimenticare queste vittime e di mettere da parte il dibattito sul diritto di asilo». 

Le cifre del 2015 ci dicono chiaramente che nel Mediterraneo è in corso un’ecatombe. E l’Europa cosa fa dopo tanto discutere?

«Il primo segnale negativo è stato l’abbandono delle missione Mare Nostrum e il passaggio a Triton che ha causato il doppio delle morti nel Mediterraneo. L’Europa non si è preoccupata di spendere 588 milioni di euro in una solo settimana per bombardare la Libia ma ha ritenuto eccessivo spendere appena un quinto di quella cifra per salvare invece delle vite in mare. Parimenti, adesso, non ci si pone il problema di spendere altri soldi per bombardare la Siria senza tuttavia preoccuparsi di investire soldi per mettere in atto sistemi realmente efficaci di soccorso in mare che permettano di evitare altre tragedie come quelle a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni. Purtroppo, ancora una volta prevale la logica di guerra sul diritto umanitario e la solidarietà internazionale. Il secondo segnale preoccupante, invece, è quello a cui assistiamo in queste settimane di lotta al terrore con la creazione di altri muri in Europa e altre divisioni. Sta tornando a prevalere il concetto per cui le frontiere non sono più luoghi di passaggio fra Stato e Stato, ma barriere fisiche viste come argine alle migrazioni e agli spostamenti di popoli in cerca di aiuto. Eppure sia Papa Francesco che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella hanno più volte segnalato che occorre evitare questo rischio»

bambino affogato1

. Ma in questo clima non può essere un caso la crescita di formazioni politiche marcatamente xenofobe come il Front National di Marine Le Pen.

«La cultura del terrore e la paura crescono e si rafforzano nei momenti di grande incertezza e proprio in condizioni come quelle attuale generano quello che Piero Calamandrei definiva “il sonno della ragione”. In quasi tutta Europa stiamo assistendo al progressivo rafforzamento di formazioni politiche che teorizzano il rifiuto dell’altro e che minano il necessario percorso di dialogo, convivenza e inclusione sociale. Si tratta di un pericolo grave che va sconfitto attraverso l’educazione: bisogna tornare a far prevalere la ragionevolezza perché la paura e la diffidenza generano soltanto nuovi scontri e radicalizzano ulteriormente le tensioni. Il dialogo, dobbiamo ricordarlo, rappresenta l’unica strada per la convivenza pacifica in Europa. La tragedia dei Balcani a cui abbiamo assistito soltanto pochi anni fa deve essere un monito: non possiamo restare inermi di fronte al crescere di nuovi focolai di tensione e scontro in quei Paesi che, ad est, stanno costruendo la nuova Europa».

bambino affogato 2

Dopo l’emergenza umanitaria dell’estate e il cordoglio unanime per i lutti come quello del piccolo Aylan, l’Europa è tornata a voltare la testa dall’altra parte? Cosa è rimasto di quella mobilitazione?

«L’Europa si è resa conto che la costruzione di questa realtà politica manca ancora di pezzi importanti che riguardano la solidarietà e la tutela del diritto d’asilo. Dopo aver firmato l’accordo di Dublino sul diritto d’asilo europeo ci siamo accorti che di fatto solo 5 paesi su 28 accoglievano e avevano un piano di accoglienza dei richiedenti asilo. Ci siamo accorti che non tutti concepiscono le frontiere come luoghi di passaggio delle persone ma come luoghi di chiusura totale. Questo mondo di richiedenti asilo e rifugiati ci ha ricordato che un diritto fondamentale espresso nella costituzione  europea e nelle costituzioni di tutti i Paesi europei di fatto non è salvaguardato e ha messo in luce la latitanza di tutti gli Stati sul piano della cooperazione internazionale di aiuto dei paesi più poveri. Un’urgenza che già Paolo VI, negli anni 60, aveva affermato con la sua “Populorum progressio”. Questa consapevolezza chiede un nuovo cammino insieme nella solidarietà in un momento in cui la solidarietà non sembra essere affatto premiale sul piano politico. E prova ne sono i risultati delle ultime elezioni regionali in Francia».

intervista a p. A. Maggi: “come sconfiggere la paura e la morte”

Alberto Maggi "Siamo tutti schiavi del più grande tabù"

SCONFIGGERE LA MORTE
“Siamo tutti schiavi
del più grande tabù”

la malattia, le cure, la guarigione quando sembrava non ci fosse speranza

il teologo “eretico” smonta attraverso l’esperienza personale la paura che l’uomo ha esorcizzato

p.Alberto Maggi ha visto la morte da vicino. Ma poiché, oltre che frate, raffinato teologo e religioso spesso accusato di “eresia”, è un uomo spiritoso, il titolo del libro che dà conto di quell’esperienza, uscito da poco per Garzanti, suona
                                                                          “chi non muore si rivede”
“Avevo appena ultimato un saggio sull’ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita, ma sentivo che mancava qualcosa. Poi sono stato ricoverato d’urgenza per una dissezione dell’aorta: tre interventi devastanti, settantacinque giorni con un piede di qua e uno di là. È stato allora che ho capito cosa mi mancava: l’esperienza diretta e positiva del morire. E ho anche capito perché San Francesco la chiami sorella morte: perché la morte non è una nemica che ti toglie la vita, ma una sorella che ti introduce a quella nuova e definitiva.
Nei giorni in cui ero ricoverato nel reparto di terapia intensiva, con stupore mi sono accorto che le andavo incontro con curiosità, senza paura, con il sorriso sulle labbra. Oltretutto percepivo con nettezza la presenza fisica dei miei morti, di coloro che mi avevano preceduto e ora venivano a visitarmi… Chissà perché quando qualcuno muore gli si augura l’eterno riposo, come se si trattasse di una condanna all’ergastolo. Io penso invece che chi muore continua a essere parte attiva dell’azione creatrice del Padre”.

Fatto sta che oggi si persegue tutt’altro sogno, quello di una tendenziale immortalità garantita dalle biotecnologie.
“È una novità che mette in difficoltà anche la Chiesa, chiamata ad approfondire il senso del sacro. Perché se è sacra la vita dell’uomo, anche quando si riduce alla sopravvivenza di una pura massa biologica, allora è giusto procrastinare quella vita all’infinito, utilizzando tutti gli strumenti della scienza medica. Se invece ad essere sacro è l’uomo, bisognerà garantirgli una fine dignitosa… Io non capisco questa smania di accanirsi su un vecchio, portarlo in ospedale, intervenire a tutti i costi, anche in prossimità del capolinea. Si potrà prolungare la sua esistenza ancora per un po’, ma in compenso lo si sottrae alla condivisione familiare di quel passaggio decisivo rappresentato dalla morte.

Quante volte mi capita di venire chiamato in ospedale per l’estremo saluto e assistere alla seguente commedia. I parenti mi implorano: la prego, non gli dica niente. Crede di avere soltanto un’ulcera. E il morente, perfettamente consapevole del suo stato, a sua volta mi chiede di rassicurare i familiari perché non sono pronti alla sua dipartita. Quando io ero piccolo, il vero tabù era rappresentato dal sesso. Ora invece è la morte il tabù. È scomparsa qualunque dimestichezza con la pratica mortuaria, delegata alle pompe funebri, e gli annunci funebri escogitano ogni escamotage pur di non affrontare il punto: il tal dei tali si è spento, ci ha lasciati, è tornato alla casa del padre. Mai una volta che si scriva semplicemente: è morto”.

Per un credente questo passaggio dovrebbe essere reso più facile dalla credenza nella resurrezione dei morti.
“Io veramente credo alla resurrezione dei vivi. La resurrezione dei morti è un concetto giudaico. Ma già con i primi cristiani cambia tutto, come mostra San Paolo nelle sue lettere: “Noi che siamo già resuscitati”, “noi che sediamo nei cieli”. Gesù ci offre una vita capace di superare anche la morte. Ecco perché i primi evangelisti usano il termine greco zoe. Mentrebiosindica la vita biologica, che ha un inizio, uno sviluppo e, per quanto ci dispiaccia, un disfacimento finale, la vita interiore (zoe) ringiovaniscedi giorno in giorno. Da qui le parole folli e meravigliose del Cristo: chi crede in me, non morirà mai”.

E allora l’Apocalisse, il giudizio universale, la fine dei giorni?
“Gesù, polemizzando con i Sadducei, afferma che Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. E non resuscita i morti, ma comunica ai vivi una qualità di vita che scavalca la morte stessa. Questa è la buona novella. Quando qualcuno muore e il prete dice ai parenti: un giorno il vostro caro risorgerà, questa parola non suona affatto come consolatoria, ma incrementa la disperazione. Quando risorgerà?, si chiedono. Tra un mese, un anno, un secolo? Ma alla sorella di Lazzaro, Gesù dice: io sono la resurrezione, non io sarò. E aggiunge: chi ha vissuto credendo in me, anche se muore continua a vivere. Gesù non ci ha liberati dalla paura della morte, ma dalla morte stessa”.

Non è una visione del cristianesimo un po’ troppo gioiosa, consolatoria?
“Tutta questa gioia però passa attraverso la croce, non ti viene regalata dall’alto. Quando stavo male, le persone pie  –  che sono sempre le più pericolose  –  mi dicevano: offri le tue sofferenze al Signore. Io non ho offerto a lui nessuna sofferenza, semmai era lui che mi diceva: accoglimi nella tua malattia. Era lui che scendeva verso di me per aiutami a superare i miei momenti di disperazione”.

Torniamo al nostro tema. Per un lunghissimo periodo il freno principale all’effrazione del limite era rappresentato proprio dal terrore di incorrere nel peccato di superbia, di credersi onnipotenti come Dio.
“Questo secondo l’immagine tradizionale della religione, che presuppone un Dio che punisce e castiga. Per scribi e farisei è sacra la Legge, per Gesù invece è sacro l’uomo. Per i primi il peccato era una trasgressione della Legge e un’offesa a Dio, per Gesù il peccato è ciò che offende l’uomo “.

Ecco che salta fuori Maggi l’eretico, che vede nella religione un ostacolo che si frappone alla vera fede.
“La religione ha inventato la paura di Dio per meglio dominare le persone e mantenere posizioni di potere acquisite. Per religione si intende tutto ciò che l’uomo fa per Dio, per fede tutto ciò che Dio fa per l’uomo. Con Gesù invece Dio è all’inizio e il traguardo finale è l’uomo. Per questo ogni volta che Gesù si trova in conflitto tra l’osservanza della legge divina e il bene dell’uomo, sceglie sempre la seconda. Al contrario dei sacerdoti. Facendo il bene dell’uomo, si è certi di fare il bene di Dio, mentre quante volte invece, pensando di fare il bene di Dio, si è fatto del male all’uomo”.

Se non è più il terrore di commettere peccato a fare da freno alla nostra hybris, cos’altro spinge un cristiano a riconoscere la bontà del limite?
“Il tuo bene è il mio limite. La mia libertà è infinita; nessuno può limitarla, neppure il Cristo, perché quella libertà è racchiusa nello scrigno della mia coscienza. Sono io a circoscriverla. Per il tuo bene, per la tua felicità. È così che l’apparente perdita diventa guadagno. Lo dicono bene i Vangeli: si possiede soltanto quello che si dà”.

Mi sbaglierò, ma è proprio la parola limite che non si attaglia al suo vocabolario.
“Preferisco il termine pienezza. La parola limite ha una connotazione claustrofobica. La pienezza mi invita a respirare. Ogni mattina che mi sveglio, io mi trovo di fronte all’immensità dell’amore di Dio e cerco di coglierne un frammento, per poi restituirlo al prossimo. A partire, certo, dal mio limite. San Paolo usa a riguardo una bellissima espressione: abbiamo a disposizione un tesoro inestimabile e lo conserviamo in vasi da quattro soldi. Questa è la nostra condizione: una ricchezza immensa, a fronte della nostra umana fragilità e debolezza. Che però non necessariamente è negativa. Perché sarà il mio limite a farmi comprendere anche il tuo. E di nuovo ecco la rivoluzione di Gesù. Nell’Antico Testamento il Signore dice: siate santi come io sono santo. Gesù invece non invita alla santità, dice: siate compassionevoli come il Padre è compassionevole. La santità allontana dagli uomini comuni, la compassione invece ci unisce”.

la ‘parrhesia’ di p. E. Bianchi

‘parrhesia’ di un monaco

colloquio con Enzo Bianchi

Bianchi

a cura di Luigi Guglielmoni
in “Settimana” n. 36 del 18 ottobre 2015

Enzo Bianchi, 72 anni, laico, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, è noto per le sue conferenze, i suoi articoli e i suoi libri. Prima papa Benedetto e ora papa Francesco lo hanno convocato in importanti eventi e organismi di Chiesa. Gli abbiamo sottoposto alcune domande:

Caro priore, lei è stato invitato da papa Benedetto XVI a ben due sinodi mondiali dei vescovi, sulla parola di Dio e sulla nuova evangelizzazione. Cosa le è rimasto di quella esperienza? E cosa è passato di quelle proposte nel popolo di Dio? Non le pare che la scadenza biennale sia troppo ravvicinata e rischi l’inconcludenza pastorale?

Papa Benedetto XVI, che mi aveva conosciuto, quando era ancora cardinale, in occasione di seminari sul concilio Vaticano II, per due volte mi ha voluto come “esperto” ai sinodi mondiali dei vescovi, su due temi molto correlati tra loro. Ho seguito i lavori con convinzione e dando il mio contributo non solo nella discussione all’interno dei circoli linguistici (avevo scelto il gruppo francese), ma anche preparando tracce per gli interventi di alcuni padri sinodali che volevano prendere la parola pubblicamente nel dibattito. È stata per me un’esperienza molto importante: ho potuto ascoltare le diverse voci delle Chiese locali e mi sono persuaso che, sempre di più, le regioni culturali e linguistiche mostreranno nella Chiesa la loro diversità e ricchezza. Ricordo, inoltre, che gli interventi puntuali di Benedetto XVI, espressi al mattino in forma di lectio divina, erano vere “perle” per un rinnovamento della teologia della Parola e della sua “corsa nel mondo” (cf. 2Ts 3,1). Misurare quanto questi sinodi abbiano inciso sulla vita delle Chiese locali non è facile, e in ogni caso richiede una risposta diversificata. Sono testimone, per fare solo un esempio, che, nella Chiesa francese, essi hanno avuto notevoli ricadute: in diverse diocesi si è presa la decisione di formare alla lectio divina i cattolici “quotidiani”, quelli coinvolti nella sequela nella vita ordinaria, e si è aperta una profonda ricerca su forme e stili possibili in vista di una nuova evangelizzazione. In Italia mi sembra che non vi sia stato un particolare impegno in una recezione dei sinodi che rinnovasse la pratica di fede e raggiungesse i cattolici ordinari, quelli che frequentano la chiesa la domenica, e neanche sempre. Certamente occorrerebbe valutare la frequenza dei sinodi, soprattutto se i temi sono molto diversi e non direttamente coniugabili tra loro. Si ha l’impressione che l’anno della vita consacrata sia stato “contratto” dal sinodo sulla famiglia, dall’annuncio del giubileo sulla misericordia, dall’ostensione della sacra sindone, dai programmi pastorali delle singole Chiese locali… Va riconosciuto che, negli ultimi decenni, la Chiesa sembra temere l’ordinarietà della vita cristiana, e per questo si decidono iniziative diverse e frequenti, si vogliono “eventi” sempre nuovi. Si assiste ad una sorta di bulimia di “assemblee al lavoro”, che certamente sono anche necessarie, ma a condizione di essere “assimilabili” dal popolo di Dio. Questa tendenza va in parallelo a quella che si manifesta nella vita liturgica: inventare giornate o domeniche (della misericordia, del ringraziamento, della pace ecc.), come se si avesse timore della vita ordinaria. A me, monaco, viene da pensare ai padri del deserto che, a volte, vivevano la sequela di Cristo, addirittura per lunghi periodi, senza vita sacramentale, come è avvenuto per sant’Antonio e san Benedetto: sorriderebbero al vedere l’attuale moltiplicazione di iniziative, alle quali i cristiani non riescono neppure a stare dietro… L’anno della vita consacrata ha fatto le spese di questa situazione. È ormai alla fine, e pochi se ne sono accorti, anche tra i religiosi: vi è stato qualche incontro specifico, e nemmeno in tutte le diocesi, ma nessuna meditazione sul fatto che la vita religiosa sta scomparendo, con un conseguente mutamento profondo della vita della Chiesa cattolica. Ormai le suore sono una presenza rarissima, con un’età media molto alta che non consente loro di incidere in modo significativo sulla vita ecclesiale, e le vocazioni religiose sono quasi scomparse per certe forme di vita. Eppure, nessuno sembra preoccuparsene, come se questa fosse la volontà di Dio di fronte alla quale c’è solo la nostra impotenza.

L’enfasi retorica e l’apologetica sono tutte dedicate  alla famiglia, ma quale messaggio la Chiesa dà oggi a quanti sono chiamati a lasciare la famiglia in vista del regno di Dio (cf. Mc 10,29- 30 e par.)?

Confesso che, a volte, piango nel pensare a questa diminutio della vita religiosa e a questa quasi scomparsa dei monaci. Ho creduto e credo in questa forma di sequela, non migliore della sequela ordinaria, ma necessaria come segno escatologico, come memoria evangelica nella storia. Ma vedendo che oggi la Chiesa non presta attenzione ad essa, confesso che me ne vado da questo mondo nella sofferenza… L’invecchiamento del clero e la scarsità di vocazioni nei seminari, la crescente presenza di clero di altri paesi e l’avvio delle unità pastorali, i cambiamenti sociali e culturali… ripropongono la centralità della preparazione spirituale-culturale-pastorale dei futuri presbiteri e della formazione permanente degli attuali pastori. Sì, mancano i preti, e le vocazioni, almeno nelle regioni del nord e del centro Italia (come nel mio Piemonte), sono crollate e ormai rarissime: ci sono diocesi che non ordinano più nemmeno un presbitero all’anno! Vi è poi un problema di qualità dei candidati, non solo dal punto di vista culturale e intellettuale ma soprattutto di umanità. A causa dell’angoscia pastorale dettata dalla mancanza di presbiteri, si ordinano troppo facilmente candidati che non hanno una postura di saldezza, una capacità di discernimento, una maturità umana, a volte neppure una capacità di parola, tutti doni essenziali per essere pastori nel popolo di Dio. È vero che l’attuale società mostra molte fragilità, ma si faccia attenzione: i candidati sono presi dalla società, ma poi occorre farli crescere, prepararli e, alla fine, compiere un discernimento assolutamente necessario. In caso contrario, avremo una Chiesa con un numero considerevole di pastori senza qualità umana per stare in medio populi Dei, pastori funzionari con indole impiegatizia, e a volte pastori affetti da un pericoloso narcisismo clericale. Qui occorre una svolta. Ripeto, innanzitutto in termini di discernimento dei candidati, poi nella loro preparazione integrale, umana e cristiana. Occorre, inoltre, fortemente incoraggiare e dare forma a vite comuni di presbiteri, non forgiate sul modello monastico ma compatibili con una vita pastorale, in mezzo al gregge. Troppi presbiteri sono soli e ciò li induce spesso a compensazioni affettive che li pongono in gravi e patologiche contraddizioni con la vocazione e gli impegni assunti davanti alla Chiesa. Si arrivi poi alla convinzione dell’importanza di una formazione continua, lungo tutta la vita, perché occorre non smettere mai di cercare, studiare e pensare in un lavoro non solipsistico ma fatto “insieme”, in una situazione sinodale, con il vescovo, gli altri presbiteri e l’intera comunità cristiana. La vita del presbitero, pur nella necessità di portare la croce dietro al Signore Gesù, deve essere una vita umanamente bella, una vita buona, segnata dal bene, e una vita che conosca la beatitudine, dunque beata.

Papa Francesco viene sempre più percepito come il “parroco del mondo”. In alcune interviste e articoli, lei pare preoccupato della notevole popolarità del papa. Ce ne può spiegare il motivo?

Papa Francesco è un grande dono del Signore alla Chiesa cattolica e alle altre Chiese, perché si è fatto semplicemente voce del Vangelo con parrhesía, convinzione, simpatia verso l’umanità. In realtà, la sua parola si mostra, ogni giorno di più, dotata di una teologia vera, profonda, per nulla debole, anche se semplice nella formulazione, in modo che tutti possano ascoltarla e comprenderla. Ogni giorno incontro gente che mi dice con semplicità: “Siamo contenti che ci sia papa Francesco!”. Si tratta di donne e uomini cattolici, ma anche di cristiani non cattolici e sovente di persone che si definiscono non religiose. Devo riconoscere che ascolto critiche al papa più negli ambienti clericali che tra i non praticanti… La sua notorietà lo ha reso un leader mondiale, soprattutto dopo il suo viaggio a Cuba e negli Stati Uniti. Sembra che tutti possano fare riferimento a lui. Ma io mi sento di dire che, anche se questa approvazione è buona, non si deve essere sicuri che ciò possa continuare. La folla, come ci ricorda anche il Vangelo, muta repentinamente il suo atteggiamento! Oggi ci sono molti adulatori del papa, che millantano rapporti con lui, lo esaltano in pubblico e lo denigrano in privato. E poi molti, pur di conservare la posizione e il posto che avevano nella Chiesa prima di Francesco, con ipocrisia si proclamano fedeli a un papa che dice esattamente il contrario di quello che essi dicevano e imponevano agli altri, a costo di censurare  voci diverse dalla loro. È uno degli spettacoli più tristi: mancanza di libertà nel cristiano, mancanza di parrhesía, di franchezza e di coerenza, mancanza di una postura che obbedisca in primo luogo alla parola di Dio, e quindi alla coscienza dove essa si rivela. Io vado dicendo che, se il papa continua per questa strada, in cui dà il primato al Vangelo, si troverà presto di fronte a un’opposizione, perché le potenze demoniache si scatenano con più forza quando nella vita di un cristiano appare la croce di Cristo. Non può essere diversamente perché – come ha affermato Gesù – «non c’è discepolo che sia più del maestro» (Mt 10,24; Lc 6,40), non c’è vero cristiano che non segua Gesù fino al rigetto, all’opposizione, alla persecuzione. Ad alcuni il tema della carità pare preponderante oggi nella vita della Chiesa, forse a discapito dell’identità di fede, dell’appartenenza ecclesiale e dell’evangelizzazione. Qual è la sua valutazione? No, il tema della carità non può essere mai ritenuto negativamente preponderante nella vita della Chiesa, a meno che la carità non sia un “fare nostro agitato”, perché la carità è il fine della vita cristiana. La carità è un lasciare che l’amore di Cristo effuso nei nostri cuori diventi amore reale, concreto, pratico nella vita. Papa Francesco ha detto recentemente che «è amando gli altri che si impara ad amare Dio» (veglia di preghiera per la famiglia in preparazione al sinodo, 3 ottobre 2015), e io ho sempre detto e scritto che solo chi ha fede nell’umanità, nei fratelli e nelle sorelle che vede, può ricevere il dono della fede in Dio e che «solo chi ama il fratello che vede può amare Dio che non vede» (cf. 1Gv 4,20). Amare Dio, infatti, significa innanzitutto fare la sua volontà (cf. Gv 14,15; 1Gv 5,3), cioè osservare “il comandamento nuovo” (cf. Gv 13,34; 15,12), che non chiede neppure di amare Cristo, ma di amarci gli uni gli altri del suo stesso amore.

Lei collabora da trent’anni con il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, di cui è anche consultore e membro del Consiglio del comitato cattolico per la collaborazione culturale con le Chiese ortodosse e orientali. Quali strade si stanno percorrendo oggi?

Collaboro da decenni con il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e l’anno scorso ne sono stato nominato consultore da papa Francesco. È un organismo in cui si lavora bene, con un desiderio di percorrere vie di comunione con le altre Chiese e comunità cristiane; è un luogo privilegiato per conoscere la vita reale e i problemi delle altre confessioni cristiane. Oggi per il Consiglio è determinante l’impulso ecumenico dato da papa Francesco, il quale ha messo in pratica l’ecumenismo anche verso comunità cristiane così lontane dalla forma della Chiesa cattolica che sovente non erano tenute sufficientemente in considerazione. Il Consiglio lavora per i dialoghi bilaterali tra le Chiese, soprattutto per il dialogo tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, e per la preparazione dell’anniversario dei cinquecento anni della Riforma (2017), affinché sia per cattolici e riformati un’occasione per interrogarsi sul primato del Vangelo nella vita delle Chiese e per vivere gesti di riconciliazione in vista dell’unità. Certo, l’ecumenismo si è fatto complesso, perché molti non lavorano più per una comunione reale e visibile tra le Chiese, ma solo perché le Chiese riconoscano le diversità attuali: ma questo sarebbe vivere in una separazione resa “indifferente”, dal punto di vista teologico e sacramentale!

Cosa si aspetta dal giubileo sulla misericordia, tema non facile nella pratica cristiana quotidiana e nella cultura odierna?

Sono intervenuto più volte sul tema della misericordia, nelle diverse diocesi italiane dove i vescovi mi hanno chiamato in occasione di assemblee diocesane o di incontri in preparazione al giubileo. D’altronde, credo di essere stato il primo a scrivere lo scorso anno sull’Osservatore romano, prima ancora dell’annuncio dell’anno santo straordinario, un articolo sul primato della misericordia che intravedevo come continuità tra il papato di Francesco e quello di Giovanni XXIII. Sì, la misericordia vissuta dalla Chiesa è decisiva per sradicare dalle nostre menti e dai nostri cuori l’immagine di un Dio perverso e ridargli la sua vera immagine, quella da lui rivelata a Mosè con la proclamazione del suo Nome santo (cf. Es 34,6-7) e quella che di lui ci ha rivelato definitivamente Gesù Cristo (cf. Gv 1,18). Gesù Cristo è l’immagine visibile dell’invisibile misericordia divina: egli ha sempre fatto misericordia, non ha mai giudicato, castigato, e a tutti quelli che andavano da lui ha concesso la remissione dei peccati. In questo la Chiesa deve conformarsi a lui, imitarlo, perché tutti  vedano il volto di Dio, un Padre con il cuore di Madre. Il vero problema è che la misericordia scandalizza, e scandalizza innanzitutto noi cristiani. Quante volte, leggendo nei vangeli gli incontri di Gesù e l’annuncio della sua misericordia, io stesso sono stato tentato di dire: «Così è troppo!». Davvero, noi siamo scandalizzati dalla misericordia di Gesù, mostrata senza se e senza ma, e ci dimentichiamo che egli è morto non perché si opponeva alla Legge di Mosè, non perché aveva commesso crimini, né perché si era opposto al potere imperiale romano, ma è stato condannato per la sua misericordia verso i peccatori pubblici, verso le prostitute, gente di scarto.

Come inserire nel vissuto quotidiano delle comunità cristiane il convegno ecclesiale nazionale di Firenze? Cosa si attende?

Quanto al convegno ecclesiale nazionale di Firenze, mi sento di dire che non ho visto molta convinzione nella sua preparazione, almeno nelle Chiese del nord Italia. I più non sanno che cosa in esso si farà, ma ne sono a conoscenza solo pochi degli addetti ai lavori e gli invitati possibili o reali. Difficile dire che cosa mi attendo. Mi pare che assomigli tanto agli ultimi due convegni nazionali (Palermo 1995, Verona 2006), dai quali mi chiedo cosa sia uscito per la Chiesa in Italia. Anche papa Francesco ne ha criticato la formula, dicendo che sono sempre le stesse persone a intervenire e che non c’è quel confronto, quel dialogo che oggi si richiede in ogni istituzione che voglia essere sinodale. Vorrei appunto che la Chiesa italiana entrasse in uno stato sinodale, che magari celebrasse un sinodo anche solo per interrogarsi sul primato del Vangelo nelle vite delle nostre Chiese e delle nostre comunità. Non abbiamo bisogno di nuovi documenti, di una relazione di un teologo accompagnata da quella di un sociologo, che saranno dimenticate subito dopo… Abbiamo bisogno di poco: di chiederci che cos’è il Vangelo per noi, per le nostre comunità, di interrogarci su quale Vangelo narriamo agli altri con la nostra vita. In ogni caso io e la mia comunità preghiamo perché ogni assemblea cristiana sia attenta allo Spirito Santo che, secondo la promessa, aleggia ed è presente dove i cristiani sono riuniti nello stesso luogo (cf. Lc 24,49; At 1,8; 2,1-11): è responsabilità dei cristiani ascoltarlo e lasciare che trasformi la loro mente, oppure farlo aleggiare inutilmente sopra le loro teste.

il futuro? cambiare o morire – intervista a L. Boff

La Chiesa e il mondo al bivio: o si cambia o si muore. Intervista a Leonardo Boff

la chiesa e il mondo al bivio: o si cambia o si muore

intervista a Leonardo Boff

una vita intera al servizio della causa della liberazione: quella dei poveri e quella del “grande povero” che è il nostro pianeta devastato e ferito. È il loro duplice -– e congiunto – grido, infatti, a occupare il centro della riflessione di Leonardo Boff, tra i padri fondatori della Teologia della Liberazione e massimo esponente del nuovo paradigma ecoteologico, di quel percorso, cioè, che si sviluppa nell’ascolto del nuovo racconto sacro trasmesso dalla scienza, con la sua rivelazione della natura profondamente olistica e relazionale del cosmo (un cammino di ricerca di cui i libri Grido della Terra, grido dei poveri e Il Tao della Liberazione rappresentano indiscutibilmente le espressioni più alte, ma che è possibile seguire anche in molti suoi interventi settimanali, disponibili ogni venerdì nel portale Servicios Koinonia: http://www.servicioskoinonia.org/boff/).

Una riflessione, quella di Boff, che, nell’attento ascolto della profezia contenuta nella stessa voce dell’universo, prende enormemente sul serio le tante minacce di distruzione lanciate contro Gaia, il pianeta vivente che è la nostra casa comune, ma nello stesso tempo è attraversata da un potente soffio di speranza: la speranza che l’evoluzione sia plasmata in modo tale da convergere verso livelli di complessità e di autocoscienza sempre maggiori e che dunque il caos attuale sia generatore di nuove possibilità, l’annuncio di un livello più elevato nella storia dell’essere umano e del pianeta, di quell’unica entità indivisibile Terra-umanità che gli astronauti per primi hanno colto, con emozione e reverenza, guardando il nostro pianeta azzurro e bianco dallo spazio esterno. Cosicché lo scenario attuale, pur così drammatico, non sarebbe una tragedia, ma una crisi, una crisi che mette alla prova, purifica e spinge al cambiamento, annunciando un nuovo inizio per l’avventura umana.

Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Leonardo Boff, in visita in Italia per un ciclo di incontri, a partire dalle prospettive della Chiesa sotto il pontificato di Francesco, su cui il teologo brasiliano, tra i più duramente perseguitati dal Vaticano, ha scommesso fin dalla sua nomina (v. Adista Documenti, n. 18/13), considerandolo l’espressione di un nuovo progetto di mondo e di un nuovo progetto di Chiesa. Di seguito l’intervista.

Una buona novella per i nuovi tempi

intervista a Leonardo Boff

Qual è la tua lettura dell’attuale fase della Chiesa?

Penso che papa Francesco rappresenti un progetto di mondo e un progetto di Chiesa. Rappresenta un progetto di mondo che è antitetico rispetto alla parola d’ordine imperiale “un solo mondo, un solo impero”, a cui l’enciclica Laudato si’ risponde con la sua proposta di “un solo mondo e un solo progetto collettivo”, esprimendo la possibilità di dialogo, di incontro tra i popoli, di rinuncia all’uso della violenza come strumento per la risoluzione dei conflitti (perché non basta essere a favore della pace, bisogna essere anche contro la guerra). E rappresenta un progetto di Chiesa che è riconducibile a Francesco d’Assisi, caratterizzato dalla rivoluzione della tenerezza, dalla misericordia, dalla vicinanza agli esseri umani. Un progetto le cui opzioni di base non sono date, fondamentalmente, dalla dottrina, ma dall’incontro personale, sia con Cristo che con le persone. Si tratta di una visione di Chiesa assolutamente diversa da quella di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i quali concepivano la Chiesa come una fortezza assediata dai nemici, contro i quali era necessario difendersi: è la visione di una Chiesa come casa aperta, ospedale da campo, impegnata ad accogliere tutti, indipendentemente dalle loro connotazioni morali, con misericordia e con comprensione, riscattando con ciò la tradizione di Gesù che è anteriore ai vangeli e che è fatta di amore incondizionato. Penso che questo rappresenti una novità nella Chiesa, una rottura. Roma non ama questa parola. Ma è una realtà: papa Francesco ha de-paganizzato la figura del papa, considerato finora un faraone (è significativo che abbia rinunciato alla mozzetta, il simbolo del potere assoluto dell’imperatore). E ha affermato di voler guidare la Chiesa nell’amore e non nel potere. Con il potere, l’amore svanisce. Quando c’è l’amore, c’è vicinanza, comprensione, misericordia. Questa, per me, è la grande rottura operata da questo papa.

E intorno al papa cosa si sta muovendo?

Papa Francesco si trova dinanzi a due tipi di opposizione. Il primo è quello della vecchia cristianità di cultura europea, con tutti i simboli del potere sacro. Il papa si è spogliato dei simboli del potere, se ne è andato ad abitare a S. Marta, si mette in fila per mangiare (così, come ha detto scherzando a un’amica comune, Clelia Luro, è più difficile avvelenarlo!). Il secondo tipo è dato dall’opposizione laica di chi, specialmente negli Stati Uniti, non vuole saperne niente di dialogo o di ecologia, sposando la prospettiva della dominazione occidentale, quella dell’attuale globalizzazione, che in realtà è l’occidentalizzazione del mondo secondo lo stile di vita nordamericano, una sorta di hamburgerizzazione di tutte le culture.

Il papa inaugura un altro modello di cristiano. Io credo che la sua visione sia centrata sulla consapevolezza che Gesù non è venuto per creare una nuova religione, ma è venuto per insegnare a vivere. A vivere nell’amore e nella misericordia. Il nucleo del messaggio di Gesù, la sua intenzione originaria, è l’unione del “Padre nostro” e del “pane nostro”. Il Padre nostro, Abbà, è un volo verso l’alto, l’insopprimibile fame di trascendenza, e il pane nostro esprime la fame reale di milioni di persone, quella che occorre saziare perché abbia senso parlare di Padre nostro e di Regno di Dio. È a questo messaggio che si oppongono quanti vogliono un cristianesimo dottrinario, dogmatico, sistematizzato, tutto disciplina e ordine e potere.

La rottura di cui parli si esprime soprattutto su un piano simbolico. Sul terreno della dottrina, però, non si vedono né si prevedono molte novità…

Io penso che anche su questo terreno il papa abbia operato una rottura. Prima, ad esempio, i temi legati alla morale familiare erano tabù: nessuno poteva parlarne, né i vescovi, né i teologi. E uno dei criteri per le nomine episcopali era dato proprio dall’assenza di una qualsiasi critica relativa al celibato o alla dottrina morale. La novità è che Francesco ha aperto il dibattito su questi temi: non era mai successo che un papa consultasse le basi. Inoltre, sta dando molto valore alla collegialità. Nella sua enciclica, per esempio, egli cita diversi episcopati, anche privi di una grande tradizione teologica, come quelli del Paraguay o della Patagonia. Ed è un fatto estremamente singolare e rivoluzionario che egli abbia invitato a Roma i rappresentanti dei movimenti popolari di tutto il mondo – riunendosi poi nuovamente con loro a Santa Cruz, in Bolivia – per analizzare le cause delle attuali sofferenze: non ha chiamato sociologi, politologi, scienziati, ma quanti sentono il dolore sulla propria pelle. E ha evidenziato due aspetti essenziali: la centralità della terra, del lavoro e della casa e il fatto che non bisogna aspettare che i cambiamenti vengano dall’alto, perché, ha spiegato il papa, la salvezza viene dal basso: sono i poveri organizzati i veri profeti del cambiamento. Tutto ciò era inimmaginabile a Roma prima di papa Francesco.

Non c’è il rischio che tutto questo finisca con il prossimo pontificato?

Il rischio esiste. Ma la mia tesi è che, dal momento che in Europa vive solo il 25% dei cattolici e che la parte restante si trova nel Terzo Mondo, questo papa inaugurerà una genealogia di papi del Sud del mondo, dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, provenienti, cioè, da altri ambienti culturali ed ecclesiali, più liberi dal peso delle tradizioni e più legati alle esperienze popolari di lotta per i diritti umani, per la terra, per la dignità. Io penso che si sia chiuso il ciclo della Chiesa europea e occidentale e che sia cominciato quello di una Chiesa planetaria. E ora la Chiesa è chiamata a de-occidentalizzarsi, a de-patriarcalizzarsi, a decentrarsi. Poiché il mondo è uno solo, io sostengo che i ministeri dovrebbero essere collocati in diverse regioni del pianeta: quello per i diritti umani in America Latina, quello per l’inculturazione in Africa, quello per il dialogo interreligioso in Asia. E che qui debba restare solo un piccolo gruppo incaricato dell’amministrazione generale, lasciando che tutto si svolga attraverso skype, per teleconferenza. Perché la Chiesa deve adeguarsi alla nuova fase dell’umanità. Questa esigenza di decentramento è uno dei due punti che ho evidenziato in una lettera che ho scritto al papa. L’altro punto è la richiesta di convocazione di un’assemblea delle religioni con l’obiettivo di comprendere quale debba essere il contributo delle diverse tradizioni spirituali per la salvezza della vita sul pianeta e della civiltà umana. Ma, per prima cosa, occorre realizzare una riforma interna della Chiesa.

Su questo terreno, tuttavia, non si registrano molti passi avanti…

Penso che il papa non abbia voluto adottare un approccio frontale. A questo proposito, credo che sia stato un errore scegliere per il Sinodo un tema controverso come quello della morale familiare. Perché è un tema che divide. Sono cause universali come l’ecologia, la pace, la lotta alla fame e alla devastazione della biodiversità che possono unire la Chiesa. Questo tema, invece, sembra fatto apposta per mettere il papa alle corde. Quello che Francesco sta facendo è conservare la dottrina tradizionale, ma aprendo il dibattito e lanciando segnali rispetto alla possibilità che questa dottrina cambi. E io, nella lettera che gli ho scritto, gli chiedo di usare a favore dei diritti e della giustizia quella «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa» che gli riconosce il Codice di Diritto Canonico.

Ma come può conciliarsi questo con una dimensione di collegialità?

L’obiettivo è il cambiamento della Chiesa. Non bastano le riforme, ci vuole una vera rivoluzione. La collegialità è un ottimo strumento per governare la Chiesa, ma non per cambiarla. La funzione del papa è quella di essere il grande protagonista del cambiamento: dispone degli strumenti necessari, se vuole può usarli. E sarà forse obbligato a farlo, per far capire ai cardinali ribelli che lo stanno sfidando che la Chiesa sarà diversa, perché è chiamata a fare i conti con la nuova fase della Terra e dell’umanità. Il tempo delle nazioni è giunto al termine. Inizia il tempo dell’umanità “planetizzata”, della casa comune. E per questo tempo la Chiesa non è preparata. Perché è eccessivamente occidentale, eccessivamente clericale, eccessivamente dottrinaria, eccessivamente centrata su un paradigma ellenistico. Quello che serve è il modello di una Chiesa veramente globalizzata, un’immensa rete di comunità che si incarnano in molte culture e assumono molti volti e in cui il ruolo del papa è quello del pellegrino che anima le Chiese alla fede e alla speranza, strumento di comunione e non di governo, il quale dovrà essere invece affidato alle Conferenze episcopali nazionali e continentali.

Cosa è possibile attendersi dal Sinodo sulla famiglia?

Penso che il Sinodo sarà un fallimento e aumenterà la polarizzazione tra le diverse posizioni. Probabilmente il papa lascerà aperta la discussione, perché, se la chiudesse, dividerebbe la Chiesa. Penso che sia necessario includere le persone che sono più toccate da questi temi, cioè i laici, uomini e donne. Perché il Sinodo è fatto appena da una frazione clericale e celibataria della Chiesa: finché non saranno coinvolte le persone direttamente interessate, non potrà esserci convergenza. E una delle riforme che il papa ha annunciato, ma che fino ad ora non ha realizzato, è proprio l’inclusione delle donne nei centri decisionali. Non si tratta di incrementarne la partecipazione: questa c’è sempre. Si tratta del fatto che siano loro a decidere. Le donne nella Chiesa non contano. E ciò malgrado vi siano a loro favore tre aspetti che sono più forti degli argomenti episcopali: non hanno mai tradito Gesù (gli uomini lo hanno fatto); sono state le prime testimoni dell’evento più grande della fede, che è la resurrezione; e senza una donna non ci sarebbe stata l’incarnazione. E se la Chiesa non ha mai preso sul serio questa centralità, le donne devono lottare per ottenerla e noi teologi dobbiamo dare il nostro aiuto.

Una delle più avanzate frontiere teologiche è quella impegnata nel compito di riformulare la fede cristiana in un linguaggio che sia più accessibile agli uomini e alle donne contemporanei e più compatibile con tutte le recenti acquisizioni scientifiche. Non credi che tra ciò che accettiamo come verità scientifica e ciò che afferma la dottrina tradizionale della Chiesa si sia aperto un fossato che rischia di essere incolmabile?

Io penso che sia necessario tradurre la fede in un nuovo paradigma, perché la Bibbia e l’intera teologia sono state elaborate all’interno di un paradigma occidentale che oggi non è più adeguato alle esigenze planetarie. E il paradigma che oggi sta guadagnando più terreno è quello della nuova cosmologia. Ho tentato di portare avanti questo compito nel mio libro Cristianismo. O mínimo do mínimo (apparso in italiano con il titolo Al cuore del Cristianesimo, Emi, 2013; ndr), pensando il cristianesimo all’interno del processo evolutivo e riformulando il messaggio cristiano in un linguaggio che dovrebbe divenire coscienza collettiva, il linguaggio quotidiano del nuovo paradigma. È questo il grande compito che la Chiesa intera è chiamata a svolgere, coscientemente e collegialmente. Un grande lavoro collettivo di traduzione della fede nel nuovo paradigma che viene dalla fisica quantistica, dalle scienze della vita e della Terra. È la sfida che ho cercato di cogliere scrivendo insieme al cosmologo Mark Hathaway il libro The Tao of Liberation: Exploring the Ecology of Transformation (tradotto in italiano con il titolo Il Tao della Liberazione, Fazi Editore, 2014; ndr): un libro che ha richiesto 13 anni di ricerca e di riflessione e che è il tentativo di utilizzare questa base scientifica per ripensare il concetto di Dio, i concetti di Spirito, di Grazia, di Resurrezione.

Qual è il principale messaggio di speranza che ci trasmette la nuova cosmologia?

Che tutto ha a che vedere con tutto, in tutti i momenti e in tutte le circostanze: tutto è in relazione, come ha riconosciuto lo stesso papa nell’enciclica. La materia non esiste, è solo energia altamente condensata, e tutti abbiamo lo stesso cammino e lo stesso destino. E malgrado tutte le crisi, tutte le traversie, tutte le devastazioni, l’universo va sempre auto-organizzandosi e autocreandosi in direzione di una sempre maggiore complessità. Teilhard de Chardin è stato profetico: esistono tante contraddizioni, si passa attraverso tanta devastazione e a volte sembra che il male prevalga, eppure la vita non è mai stata distrutta. Come ha evidenziato Edward Wilson, la vita non è né materiale, né spirituale: la vita è eterna ed è immersa nel processo dell’evoluzione. Ed è quello che afferma il cristianesimo: che tutto è relazionato e che esiste un fine buono per l’umanità e per l’universo. In altre parole, non andremo incontro alla morte termica, ma a forme sempre più complesse e più alte.

Eppure la teoria della morte termica dell’universo, lo scenario in cui l’espansione accelerata provocherebbe un universo troppo freddo per sostenere la vita, è sostenuta da molti fisici e cosmologi…

Io penso che questa tesi sia stata superata da Ilya Prigogine, il quale ha vinto il Premio Nobel per la chimica per le sue scoperte sulle strutture dissipative, mostrando come l’evoluzione si realizzi nello sforzo di creare ordine nel disordine e a partire dal disordine, cioè come il caos si riveli altamente generativo, trasformandosi in un fattore di costruzione di forme sempre più alte di complessità e di ordine. In contraddizione con la visione lineare propria della fisica classica, ci si muove qui sul terreno della fisica quantistica, con il suo procedere per salti, per accumulazioni di energia. Oggi, pertanto, disponiamo delle basi scientifiche per elaborare una visione che è più adeguata al messaggio di speranza del cristianesimo, quella di un universo come corpo della divinità, un universo che non terminerà con una grande catastrofe, ma con un nuovo cielo e una nuova terra, un salto immenso nella linea di Theilard de Chardin, un’implosione ed esplosione all’interno di Dio. Non un’altra terra, ma questa stessa terra trasfigurata. È come la morte umana, che non è la fine della vita, bensì un luogo alchemico in cui la vita si trasforma e passa a un altro livello, fuori dallo spazio-tempo, ma restando vita.

Al tentativo di articolare Teologia della Liberazione ed ecologia hai dedicato trent’anni di lavoro: un lavoro condotto per tanto, troppo tempo in pressoché totale solitudine, davvero vox clamans in deserto, finché la gravità della crisi ambientale non ha costretto anche la teologia latinoamericana ad assumere la questione tra le proprie priorità. Com’è ti appare ora la situazione?

Negli anni ’80, ho preso consapevolezza della questione ecologica nei seguenti termini: il marchio registrato della TdL è l’opzione per i poveri, contro la povertà e a favore della liberazione e della giustizia sociale. E chi è, oggi, il grande povero? È la Terra! Pertanto, all’interno dell’opzione per i poveri, occorre collocare la Terra, devastata e aggredita. Ma bisogna pensare la Terra non secondo il vecchio paradigma, come una cosa inerte e inanimata, bensì all’interno della nuova cosmologia, come un superorganismo vivo, come Gaia, secondo la teoria di James Lovelock, come la Madre Terra, secondo quanto hanno riconosciuto le stesse Nazioni Unite, che hanno proclamato il 22 aprile come Giornata internazionale della Madre Terra. Mi sono allora dedicato, per alcuni anni, allo studio della cosmologia e ne è nato il libro Ecología: grito de la Tierra, grito de los pobres (tradotto in italiano con il titolo Grido della terra grido dei poveri. Per una ecologia cosmica, Cittadella, 1996). Un’opera che all’epoca non ha praticamente suscitato alcuna reazione tra i teologi, anche se, più tardi, alcuni l’hanno considerata ancor più importante del libro Teologia della liberazione di Gustavo Gutierrez, l’opera che ha segnato l’inizio della TdL, ma che è ancora legata al vecchio paradigma. Io penso che la grande maggioranza dei teologi della liberazione si muovi ancora all’interno del vecchio paradigma. Le difficoltà, è vero, sono molte, perché bisogna studiare le scienze della vita, la fisica quantistica, la nuova antropologia, ma in questo modo si può fare una teologia molto migliore dell’altra, e comprendere assai più in profondità il messaggio cristiano. Io penso che questo sia un compito che va anche oltre la nostra generazione: è il cammino che il cristianesimo è chiamato a percorrere per essere una buona novella per i nuovi tempi. Vino nuovo, otri nuove. Musica nuova, orecchie nuove.

Come ti spieghi che in Brasile molti movimenti popolari, pur facendo propria la lotta contro il riscaldamento globale, difendano progetti ecologicamente devastanti come il pre-sal, l’enorme giacimento di petrolio e gas al largo delle coste brasiliane?

È una contraddizione legata ai Paesi in via di sviluppo. I Paesi del Nord del mondo, infatti, potrebbero mirare alla prosperità rinunciando alla crescita e approfondendo maggiormente dimensioni come quella della spiritualità, dell’arte, ecc. I nostri Paesi, invece, hanno ancora bisogno di crescita, perché il livello di vita dei nostri popoli è molto basso: manca l’acqua, la casa, l’elettricità; occorre investire nella salute e nell’educazione. Così, in Brasile, c’è molta attenzione per questi temi, mentre si trascura la problematica ecologica. Esistono solo piccoli gruppi di ecologisti. Eppure il Brasile potrebbe prescindere totalmente dal petrolio sfruttando l’immensa energia prodotta dal sole. E invece si punta a un progetto come il pre-sal che avrà un impatto devastante sull’oceano, in termini di contaminazione delle acque e di distruzione della biodiversità. Ho discusso varie volte con Lula di tutto questo, ma a suo giudizio è sufficiente che piova due giorni di seguito perché tutto rifiorisca nuovamente. In realtà, però, è il sistema globale che è in crisi e che rischia il collasso. Forse la nostra coscienza si risveglierà quando sentiremo sulla nostra pelle le conseguenze della catastrofe. Come diceva Hegel, l’essere umano non apprende niente dalla storia, ma impara tutto dalla sofferenza. Anche se preferisco Sant’Agostino, il quale riteneva che fossero due le scuole: la sofferenza, che ci offre severe lezioni, e l’amore, che produce gioia e trasformazione. Io penso che trarremo insegnamento dall’amore e dalla sofferenza. Di fronte a noi ci sono solo due strade: o cambiamo o moriremo. Quella che stiamo attraversando è una grande crisi, ma la crisi purifica, obbliga a cambiare strada, prepara forse il terreno per l’avvento di una nuova civiltà centrata sulla vita umana e sulla vita della Terra, una biociviltà, la Terra della buona speranza.

Ma sarà necessario passare per quella che è stata già definita come la sesta estinzione di massa…

Siamo nel pieno dell’Antropocene, l’era in cui l’essere umano – e non un meteorite, né un qualche cataclisma naturale di dimensioni colossali – è diventato la più grande minaccia contro la vita. Edward Wilson ha calcolato che stiamo perdendo ogni anno da 20mila a 100mila specie viventi. È davvero la sesta estinzione di massa e potrebbe anche colpire una buona porzione dell’umanità, soprattutto quella povera e sofferente. In questo caso, spetterà ai sopravvissuti riorganizzare il pianeta su nuove basi. Mikhail Gorbacev, il coordinatore delle attività della Carta della Terra, paragona la situazione della Terra e dell’Umanità a quella di un aereo sulla pista di decollo: arriva un momento critico in cui l’aereo deve decollare, se non vuole schiantarsi in fondo alla pista. E, a suo giudizio, abbiamo già oltrepassato il punto critico e non ci siamo alzati in volo. Ma gli esseri umani sono sorprendenti e capaci di cambiamento. L’evoluzione non è lineare, procede per salti, ed è possibile che l’umanità acquisti consapevolezza e operi il salto necessario, abbracciando una nuova visione che abbia al centro l’intera comunità di vita, anche le piante e gli animali che sono nostri compagni nella casa comune. Dopotutto, l’essere umano ha in sé energie divine, di quel Dio che è sovrano e amante della vita e che non permetterà che la vita scompaia.

Come interpreti l’attuale situazione del Brasile? Ritieni che il governo di Dilma avrà la forza di superare la crisi?

È una situazione molto critica. Strappando alla povertà 40 milioni di brasiliani, il Pt ha commesso l’errore di trasformarli appena in 40 milioni di consumatori, trascurando quel lavoro di coscientizzazione necessario per restituire loro il senso di cittadinanza. Il consumatore, si sa, mira a consumare sempre di più. E se non è possibile si genera un grande malessere collettivo. E questo è un errore che viene sfruttato dall’opposizione. La nostra disgrazia è che non esiste un’alternativa. Nessuno tra le fila dell’opposizione possiede autorità morale e un progetto diverso dal neoliberismo e dall’allineamento agli Stati Uniti. E purtroppo il governo Dilma, venendo meno alle promesse della campagna elettorale, sta scaricando sugli operai e sui pensionati i costi della crisi, risparmiando le grandi imprese e le banche. Occorre tener presente che il Brasile, in virtù dei suoi immensi spazi geografici e delle sue grandi ricchezze naturali, è uno dei luoghi del pianeta che fa più gola al capitale. Siamo in un vicolo cieco. Non esiste in questo momento alcuna soluzione ragionevole. L’unica speranza viene dalla nascita di una grande articolazione dei movimenti di base, i quali si sono recentemente incontrati con Dilma con l’obiettivo di creare una base non parlamentare, ma popolare, per far fronte all’offensiva dell’opposizione, in maniera che su tale base Dilma possa portare avanti progetti sociali in una prospettiva realmente educativa, creando una nuova coscienza di cittadinanza. Ciò permetterebbe al governo di andare avanti, in attesa forse di una nuova candidatura di Lula nel 2018. Anche se per il Pt sarebbe meglio restare un po’ di tempo fuori dal potere, per fare autocritica e riformulare un progetto di Paese.

È difficile pensare che Lula possa rappresentare il futuro del Brasile…

Lula immagina il Brasile come un’immensa fabbrica da sud a nord in cui tutti lavorano, consumano, comprano casa e macchina. Ma si tratta di un progetto più adatto al XIX secolo che al XXI. Lula è un grande leader, ma la storia ha oggi bisogno di un’altra forma di leadership. E purtroppo non c’è alcuna figura che esprima questa coscienza nuova. A mio giudizio, il Brasile è sia espressione della tragedia dell’umanità – basti pensare all’assassinio sistematico dei giovani neri (ne vengono assassinati 60 al giorno) e alla devastazione della natura – sia laboratorio di speranza, promessa di un’altra forma di abitare il pianeta, secondo una prospettiva bioregionalista – la vera alternativa ecologica alla globalizzazione omogeneizzante – che integra e valorizza i beni e i servizi di ogni ecosistema insieme alla sua popolazione e alla sua cultura.

* immagine di Valter Campanato

L. Boff sulle coppie gay: omosessualità o omoaffettività?

“sì alle coppie gay ma Monsignor Charamsa ha sbagliato” 

 

‘Oggi’ ha intervistato in esclusiva il teologo brasiliano della Liberazione, che dice la sua anche sull’omosessualità: più che di omosessualità bisognerebbe parlare di “omoaffettività: che comprende l’affetto, l’amore, la simpatia, la sessualità come relazione profonda di tenerezza, di auto-aiuto. Quando c’è amore, anche tra due uomini o due donne, lì c’è Dio. E dinanzi all’amore bisogna avere rispetto”

Leonardo Boff, il teologo brasiliano della Liberazione, è in Italia per presentare i suoi ultimi libri (pubblicati da Emi). Nel 1984 fu processato dal cardinale Ratzinger per la sua critica alle gerarchie e le sue posizioni teologiche non proprio in linea col cattolicesimo romano, e nel ‘92, sotto Giovanni Paolo II, lasciò l’ordine dei francescani. Ora a Oggi confida: «Spero di incontrare papa Francesco. La sua enciclica Laudato si’ è dirompente».

L’enciclica è rivoluzionaria?
«Sì, è un appello urgente a tutti gli uomini. Li avverte che la Madre Terra non è mai stata tanto maltrattata come negli ultimi due secoli. Se non cambiamo rotta, finiremo nel baratro».

 

Laudato si’ parla del «grido della Terra, grido dei poveri». Riabilita la Teologia della Liberazione?
«Il Papa viene dalla Teologia della Liberazione ma nella sua versione argentina, che non usava le analisi di classe perché la repressione militare era troppo forte. Era una “teologia del popolo oppresso”. Da giovane, Bergoglio prese l’impegno di vivere radicalmente la povertà e ogni settimana andava in una favela».

Però il Papa ha chiarito che non è un comunista.
«Ma lui riconosce di essere un comunista nel senso del Vangelo e degli Atti degli apostoli, che mettevano tutto in comune. L’ha detto più volte».

Se lei potesse intervenire al Sinodo, che cosa direbbe?
«Direi che il papa ha uno sguardo nuovo sui problemi delle famiglie ferite. È per una pastorale di misericordia e perdono.  Non vuole trattare questi casi per condannarli ma perché si prendano le loro responsabilità davanti a Dio. È una rivoluzione, perché dove impera il potere non c’è amore né misericordia. E l’incontro a Roma tra conservatori e progressisti è l’incontro tra potere e amore. Nel Vangelo, è centrale l’amore».

I divorziati risposati dovrebbero poter fare la comunione?
«Il papa dice che i sacramenti sono per i malati e i vulnerabili, non per i santi».

A proposito degli omosessuali, molti vescovi dicono: accogliamoli purché vivano castamente…
«È una visione molto riduttiva, perché pensa all’omosessualità come relazione genitale. Invece il nome giusto è omoaffettività: comprende l’affetto, l’amore, la simpatia, la sessualità come relazione profonda di tenerezza, di auto-aiuto. Quando c’è amore, anche tra due uomini o due donne, lì c’è Dio. E dinanzi all’amore bisogna avere rispetto».

Ha fatto bene monsignor Charamsa a fare coming out?
«No. Credo sia una trappola montata dagli ambienti di destra nella Chiesa che si oppongono al papa. Perché non lo ha fatto in modo semplice ma provocatorio, per creare un problema al Sinodo e a Francesco. Ostentare in quel modo la sua scelta, il suo compagno… Non si deve giocare per mettere il papa alle strette».

(l’intervista completa sul numero di Oggi in edicola mercoledì 14)

intervista a mons. Gaillot dopo l’incontro col papa

 “il futuro è aperto!”

intervista a Jacques Gaillot a cura di Agnès Willaume e Jean-Baptiste Willaume
in “temoignagechretien.fr” del 10 settembre 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)

Gaillot

quando, nel 1995, gli strali del Vaticano caddero su Jacques Gaillot, Témoignage chrétien, su iniziativa del suo direttore Georges Montaron, fu in prima linea per sostenere il vescovo di Évreux. Oggi, l’invito fraterno di papa Francesco a colui che è diventato “il vescovo degli esclusi” è un vero riconoscimento per tutto coloro per i quali si è impegnato da vent’anni e una buona notizia per coloro che credono che Cristo è per i poveri. Diciamo grazie a Jacques Gaillot per aver accettato di condividere con noi la sua gioia suscitata da quel bell’incontro
Può raccontarci che cosa è successo martedì 1 settembre?

Tutto è cominciato con un messaggio. Papa Francesco mi aveva telefonato diverse volte, ma ogni volta ero assente. Trovavo sulla mia segreteria telefonica il seguente messaggio: “Sono papa Francesco!”. Voleva incontrarmi. E, poco tempo dopo, ho ricevuto questo biglietto, molto coerente con il suo modo di essere. Mi sono quindi recato martedì scorso alla Casa Santa Marta con il mio amico Daniel Duigou. Quando siamo arrivati, un laico ci ha accompagnati nella sala d’attesa, una stanza molto semplice, senza comfort, e ci ha detto che sarebbero venuti a chiamarci. Meno di due minuti dopo, si è aperta la porta ed era lui, il papa, da solo, senza quei “monsignori” che assistono tradizionalmente ai colloqui pontifici. Entra e si siede accanto a noi, prendendo la prima sedia che trova. Gli suggerisco di prendere la mia, più comoda. Rifiuta gentilmente la mia offerta, ricordandomi che “siamo fratelli”. Allora mi butto: “Ci tengo a ringraziarla di accoglierci qui e a dirle che quelli che sanno che sono venuto qui sono veramente molto felici. Sono sicuramente ancor più felici di me! Trovano che la cosa sia meravigliosa, perché mi dicono che li rappresento. Tutti: i senzatetto, i ‘sans-papiers’, i rifugiati… Io non ho niente da chiederle, ma loro hanno moltissime cose da dirle!”. Il papa ha sorriso. Gli ho parlato di quel ragazzo in un ospedale psichiatrico che si rallegrava tanto: “Quando ti riceverà, sarà come se io fossi riconosciuto!”. “Vede, ricevendomi, lei fa del bene a tanta gente”. Il papa si è mostrato molto interessato all’esperienza di Daniel, parroco di SaintMerry, una parrocchia pilota nell’accoglienza dei migranti. Ha ripetuto con forza un’espressione che per lui è essenziale: “I migranti sono la carne della Chiesa”. Ha ricordato che anche lui è un immigrato. E io ho annuito: Francesco è lontano dal suo paese, lontano dal suo popolo, come loro. Non è facile, ma resiste. Gli ho spiegato che sono vent’anni che sono stato allontanato, escluso… “Ma, escludendomi, la Chiesa mi ha dato un buon passaporto per andare verso gli esclusi!”. Ha riso e ci ha ricordato quell’immagine dell’Apocalisse che aveva usato al conclave prima di essere eletto: “Cristo bussa alla porta della Chiesa, ma bussa dall’interno! Vuole che si spalanchino le porte! Per lasciarlo uscire! Per andare a incontrare il mondo e l’umanità”. Gli ho risposto che, in effetti, non bisognava rinchiudere Colui che è venuto a liberarci. Quando lo abbiamo lasciato e siamo usciti da Santa Marta, Daniel mi ha detto: “Voltati, è ancora lì!”. Ed effettivamente, era in piedi sulla soglia e ci guardava andar via, aspettando, come se non volesse rientrare. Forse non è molto rispettoso, ma gli faccio un piccolo cenno con la mano allontanandomi. Lo abbiamo lasciato come si lascia un amico, un amico che si trova in una situazione un po’ peggiore della nostra: lui è un po’ il prigioniero del Vaticano! Era visibilmente contento del tempo passato con noi. Non lo abbiamo stancato! Gli abbiamo portato la speranza. Un bell’incontro con un uomo molto semplice, autentico, assolutamente libero. È così che dovrebbe essere la Chiesa.

Lei è sempre rimasto fedele e leale verso la Chiesa in tutti questi anni. Come ci è riuscito?

Al primo posto, c’è comunque Cristo, la persona di Gesù! È per lui che ho dato la mia vita. La Chiesa, d’accordo, ma non è un assoluto! L’istituzione non è al primo posto nella mia vita. Ho sempre detto che ciò veniva prima era interessarsi alla storia delle persone, alle trasformazioni della società. Non siamo fatti prima di tutto per la Chiesa, ma per la gente. Un giorno ero nel metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapevo più dove attaccarmi. Mi appoggiavo quindi alle persone, a seconda delle scosse, sballottato a destra e a sinistra. Scendendo, ho detto ad un uomo che rideva della mia situazione precaria: “Vede, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la gente!” Allora, è vero che non sono più stato invitato dalla Chiesa, ma sono stato invitato altrove, da credenti, da non credenti, da musulmani, massoni, detenuti, iraniani, baschi, nelle grandi città e nelle periferie, in piccoli collettivi e in associazioni in lotta. Sempre per incontrare persone ai margini. Quando andavo da qualche parte, era sempre in nome della solidarietà, dei diritti umani, della pace… Ed è evidente che non avrei potuto fare tutti quegli incontri se fossi rimasto un vescovo classico. Sono stato sollevato da tutto ciò che è istituzionale. Ringrazio Roma! Da quando sono vescovo di Partenia, ho imparato a “predicare fuori”. È una cosa diversa, ma è talmente bello. Mi piace andare ad incontrare le famiglie del DAL1 (1) a Place de la République. Le donne mi vogliono bene: mi accolgono come se andassi a dar loro chissà che cosa e applaudono quasi prima che io parli! Oggi, faccio Chiesa con persone come loro, con la gente di Place de la République. In un certo senso, è una benedizione. L’ho detto al papa: “Se lei potesse leggere nel mio cuore, vedrebbe migliaia di persone!”.

Lei pensa che il papa sia in grado di trasformare l’istituzione, di liberare la parola della Chiesa?

Certo ne ha la volontà. Ne ho avuto la certezza appena ho visto che aveva preso il nome di Francesco d’Assisi, riformatore radicale che viveva nella povertà, impregnato di Vangelo! Nessun papa prima di lui aveva osato prenderlo. Il papa vuole davvero andare avanti, ho perfino la sensazione che voglia farlo in fretta. Non si concede periodi di vacanza, lavora fino allo sfinimento. Ci tenevo a fargli coraggio, a dirgli di continuare: “Siamo con lei, siamo un popolo numeroso! Lei ha suscitato ovunque una speranza enorme, non bisogna deluderla! Lei è una delle rare persone, o forse la sola, la cui parola può essere ascoltata su tutto il pianeta, da tutti gli uomini. Credenti o no”. Abbiamo parlato del Sinodo, e del fatto che ci si trova oggi di fronte ad una molteplicità di configurazioni familiari. Gli ho detto che pensavo che occorre raggiungere le persone così come sono e non come si vorrebbe che fossero! Siccome mi piacciono i casi concreti, gli ho raccontato di aver benedetto quest’estate una coppia di divorziati risposati. Era il 15 d’agosto, all’aperto, con attorno un centinaio di persone. Che bel matrimonio! Ero in abiti civili e ho benedetto quegli sposi. Ho anche benedetto, sempre quest’estate, una coppia di omosessuali. Erano insieme da nove anni, si erano sposati civilmente e desideravano, essendo cristiani praticanti, essere benedetti dalla Chiesa. Tutti i preti avevano rifiutato. Allora mi hanno scritto una lettera così bella che non ho potuto fare altro che andare a benedirli. Eravamo all’aperto, c’erano 80 persone, ed era molto bello! Si benedicono le case… perché non le persone? Il papa ha annuito: “La benedizione è esprimere la bontà di Dio a tutti!”. Avrebbe potuto fare delle puntualizzazioni, farmi dei rimproveri. E invece no. Non mette al primo posto le regole, ascolta, si accontenta di dire che la benedizione di Dio è per tutti. Questo fa pensare che è favorevole all’apertura, che vuole liberare le persone, liberare la parola. Dove ci porterà questo? Non lo so!

Per quanto riguarda lei, si può interpretare questo incontro con papa Francesco come una
  DAL: Associazione Droit au logement, cioè: Diritto alla casa.

 
Sì, possiamo dirlo. Personalmente non ci ho pensato troppo, perché il semplice fatto di incontrarlo mi sembrava importante. Non immaginavo che l’annuncio di questo incontro avrebbe avuto tali ripercussioni. Il mio telefono trabocca di chiamate e di messaggi. Ricevo moltissime lettere di persone che si rallegrano per me. Ma molte di loro sono deluse: “Come? Non ti ha detto niente? Non ti ha proposto niente?” Si aspettavano cose concrete! Mi è difficile spiegare loro l’atmosfera di quell’appuntamento con papa Francesco: non ci sono stati annunci particolari, ci si è limitati a parlare in tutta semplicità Eppure, sono molto felice del nostro colloquio. Non cambia la mia vita, ma sono contento di constatare che la Chiesa, al suo massimo livello, accoglie tutto ciò che ho potuto vivere in questi ultimi vent’anni e manifesta che c’è una comunione con il successore di Pietro. È importante e senza dubbio meno per me che per molte persone che mi conoscono.

Ma che cosa l’ha colpita di più in questo incontro?

È bello constatare che, in un’istituzione come la Chiesa, papa Francesco resta un uomo libero. Non è un uomo d’apparato, non è assorbito dalla sua funzione, è semplice, è esattamente come è. È uno che ascolta. Non fa puntualizzazioni, non giudica. Si mette in ascolto della realtà così com’è, in qualsiasi ambito. La notte successiva al nostro incontro, nella mia camera al terzo piano di Monte Mario, nel convento degli Spiritani, ho guardato attraverso la finestrella che dà sulla cupola di San Pietro e ho realizzato che c’era qualcuno accanto a me, che il papa vegliava, come un custode dell’umanità.

Che cosa vorrebbe dire a tutti coloro che l’hanno sostenuta in questi vent’anni, tra cui anche i lettori di Témoignage chrétien?

Vorrei dire loro che il futuro è aperto. Non penso molto al passato. Sembra che neanche il papa lo faccia. È il futuro che ci attende. È il domani che è da costruire, e tocca a noi scrivere il futuro. Ai cristiani che possono perdere la speranza nei confronti della Chiesa francese, dirò che non bisogna gettare la speranza alle ortiche! La speranza è in noi, bisogna andare avanti, perché Cristo ci precede. Forza, andiamo

la paura di fronte ai migranti e le responsabilità della politica

“i migranti risvegliano le nostre paure

 la politica non può rimanere cieca”

 

 intervista a Zygmunt Bauman  

Bauman

a cura di Antonella Guerrera
in “la Repubblica” del 29 agosto 2015

«Un  giorno Lampedusa, un altro Calais, l’altro ancora la Macedonia. Ieri l’Austria, oggi la Libia. Che “notizie” ci attendono domani? Ogni giorno incombe una nuova tragedia di rara insensibilità e cecità morale. Sono tutti segnali: stiamo precipitando, in maniera graduale ma inarrestabile, in una sorta di stanchezza della catastrofe».

Zygmunt Bauman, filosofo polacco trapiantato in Inghilterra, è uno dei più grandi intellettuali viventi. Anche lui è stato un profugo, dopo esser scampato alla ferocia nazista rifugiandosi in Unione Sovietica. Ma Zygmunt Bauman è anche uno dei pochi pensatori che ha deciso di esporsi apertamente di fronte al dramma dei migranti. Mentre l’Europa cerca disperatamente una voce comune che oscuri le parole vacue e quelle infette degli xenofobi. Signor Bauman, duecento morti al largo della Libia. Due giorni fa altri cento cadaveri ritrovati ammassati in un camion in Austria. Il dramma scava sempre più il cuore del Vecchio continente. E noi? Cosa facciamo? «E chissà quanti altri ce ne saranno nelle prossime ore. Oramai sono milioni i profughi che cercano la salvezza da atroci guerre, massacri interreligiosi, fame… La guerra civile in Siria ha innescato un esodo biblico. Scappano gli afgani, gli eritrei. Mentre nel 2014, riporta l’Onu, erano circa 219mila i rifugiati e migranti che hanno attraversato il Mar Mediterraneo, e di questi 3.500 sono morti. Un anno prima questa cifra era molto più bassa: circa 60mila. Qui in Inghilterra ho letto molte reazioni di personaggi pubblici di fronte a una simile emergenza. Tutte a favore di “quote migratorie” più rigide, in ogni caso. Mentre chi come Stephen Hale dell’associazione British Refugee Action invoca una riforma del sistema di asilo basata sugli esseri umani, e non sulle statistiche, è rimasto solo una voce solitaria». Ma l’Europa cosa può fare per risolvere questo disastro umanitario? «L’antropologo Michel Agier ha stimato circa un miliardo di sfollati nei prossimi quarant’anni: “Dopo la globalizzazione di capitali, beni e immagini, ora è arrivato il tempo della globalizzazione dell’umanità”. Ma i profughi non hanno un loro luogo nel mondo comune. Il loro unico posto diventa un “non luogo”, che può essere la stazione di Roma e Milano o i parchi di Belgrado. Ritrovarsi nel proprio quartiere simili “non luoghi”, e non solo guardarli in tv, può rappresentare uno shock. E così oggi la globalizzazione irrompe materialmente nelle nostre strade, con tutti i suoi effetti collaterali. Ma cercare di allontanare una catastrofe globale con una recinzione è come cercare di schivare la bomba atomica in cantina ». Eppure in Europa stanno tornando i muri, figli di uno spettro xenofobo che purtroppo sta dilagando. «Sa chi mi ricordano quelli che li erigono? Il filosofo greco Diogene, che, mentre i suoi vicini si preparavano a combattere contro Alessandro Magno, lui faceva rotolare la botte in cui viveva su e giù per le strade di Sinope dicendo di non voler essere l’unico a non far niente». È vero, tuttavia, che oggi il flusso migratorio verso l’Europa è di dimensioni mai viste. Qualche timore può essere giustificato, non trova? «Ma oramai il nostro mondo è multiculturale, forse irreversibilmente, a causa di un’abnorme migrazione di idee, valori e credenze. E comunque la separazione fisica non assicura quella spirituale, come ha scritto Ulrich Beck. Lo “straniero” è per definizione un soggetto poco “familiare”, colpevole fino a prova contraria e dunque per alcuni può rappresentare una minaccia. Nella nostra società liquida, flagellata dalla paura del fallimento e di perdere il proprio posto nella società, i migranti diventano “ walking dystopias ”, distopie che camminano. Ma in un’era di totale incertezza esistenziale, dove la vita è sempre più precaria, questa non è l’unica ragione delle paure che scatena la vista di ondate di sfollati fuori controllo. Vengono percepiti come “messaggeri di cattive notizie”, come scriveva Bertolt Brecht. Ma ci ricordano, allo stesso tempo, ciò che vorremmo cancellare».
E cioè? «Quelle forze lontane, oscure e distruttive del mondo che possono interferire nelle nostre vite. E le “vittime collaterali” di queste forze, i poveri sfollati in fuga, vengono percepiti dalla nostra società come gli alfieri di tali forze. Questi migranti, non per scelta ma per atroce destino, ci ricordano quanto vulnerabili siano le nostre vite e il nostro benessere. Purtroppo è nell’istinto umano addossare la colpa alle vittime delle sventure del mondo. E così, anche se siamo assolutamente impotenti a imbrigliare queste estreme dinamiche della globalizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra rabbia su quelli che arrivano, per alleviare la nostra umiliante incapacità di resistere alla precarietà della nostra società. E nel frattempo alcuni politici o aspiranti tali, il cui unico pensiero sono i voti che prenderanno alle prossime elezioni, continuano a speculare su queste ansie collettive, nonostante sappiano benissimo che non potranno mai mantenere le loro promesse. E poi alle aziende occidentali il flusso di migranti a bassissimo costo fa sempre comodo. E molti politici sono allo stesso modo tentati di sfruttare l’emergenza migratoria per abbassare ancor più i salari e i diritti dei lavoratori. Ma una cosa è certa: costruire muri al posto di ponti e chiudersi in “stanze insonorizzate” non porterà ad altro che a una terra desolata, di separazione reciproca, che aggraverà soltanto i problemi». E allora come risolvere questa immane tragedia? «Sicuramente non con soluzioni miopi e a breve termine, utili solo a provocare ulteriori tensioni esplosive. I problemi globali si risolvono con soluzioni globali. Scaricare il problema sul vicino non servirà a niente. La vera cura va oltre il singolo paese, per quanto grande e potente che sia. E va oltre anche una folta assemblea di nazioni come l’Unione europea. Bisogna cambiare mentalità: l’unico modo per uscirne è rinnegare con forza le viscide sirene della separazione, smantellare le reti dei campi per i “richiedenti asilo” e far sì che tutte le differenze, le disuguaglianze e questo alienamento autoimposto tra noi e i migranti si avvicinino, si concentrino in un contatto giornaliero e sempre più profondo. Con la speranza che tutto questo provochi una fusione di orizzonti, invece di una fissione sempre più esasperata». Non teme che questa soluzione possa non piacere a una buona parte della popolazione europea? «Lo so, una rivoluzione simile presuppone tanti anni di instabilità e asperità. Anzi, in uno stadio iniziale, potrà scatenare altre paure e tensioni. Ma, sinceramente, credo che non ci siano alternative più facili e meno rischiose, e nemmeno soluzioni più drastiche a questo problema. L’umanità è in crisi. E l’unica via di uscita da questa crisi catastrofica sarà una nuova solidarietà tra gli umani».

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