la Palestina colonizzata e l’uso distorto della religione

 «La colonizzazione della Palestina non ha a che fare con la religione»

intervista a Munther Isaac a cura di Annaflavia Merluzzi
in “il manifesto” del 21 febbraio 2025

Il 19 febbraio si è tenuto alla Fondazione Basso di Roma un incontro con una delegazione di Kairos Palestine, movimento palestinese cristiano non-violento, nato a seguito della pubblicazione dell’Appello Kairos Palestine: A moment of truth (2009). Presenti Rifat Kassis (coautore dell’appello e coordinatore di Global Kairos for Justice), Sahar Francis (avvocata e direttrice dell’associazione Addameer, che fornisce patrocinio legale ai prigionieri politici palestinesi) e Munther Isaac (pastore e teologo, preside del Bethlehem Bible college) che abbiamo intervistato a margine della conferenza.

Lei è prima di tutto un pastore cristiano, in questi 16 mesi quanto sono aumentate le
restrizioni alla libertà di culto?

Le restrizioni sono quelle che tutti in palestinesi vivono: confisca di terre, checkpoint. Impediscono
ai cristiani di Betlemme di andare a pregare a Gerusalemme. Non dovremmo aver bisogno di un
permesso per muoverci nella nostra terra, ma almeno in passato ce lo concedevano durante le
festività. Oggi non possiamo più farlo, è una violazione della nostra libertà di culto nella nostra
stessa terra. Le maggiori violazioni ci riguardano in quanto palestinesi, prima che cristiani.
Sono state distrutte moltissime chiese e moschee, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania.
Le case di culto sono state colpite e distrutte specialmente a Gaza, Israele non ha nessun rispetto per
le istituzioni religiose, la santità dei luoghi – cristiani e musulmani – e la vita umana. La situazione
in Cisgiordania è diversa, lì abbiamo attacchi dai coloni, che fanno scritte d’odio, a Gerusalemme
est attaccano le chiese e le bruciano. Il problema è il governo che li supporta e non gli attribuisce
responsabilità. Se un palestinese attaccasse una sinagoga verrebbe messo in prigione per anni.

Com’è la vita oggi in Cisgiordania, a Betlemme?

Betlemme è una prigione a cielo aperto, una nuova Gaza, Israele ha bloccato e chiuso tutte le strade
che portano alla città con checkpoint, cancelli, blocchi di cemento, e controllano tutto il movimento
fuori e dentro Betlemme. I coloni attaccano i villaggi, le aree rurali, il movimento è molto difficile.
I checkpoint sono quasi sempre chiusi, chi deve passare aspetta finché i soldati decidono di aprirli,
si può aspettare una quantità indefinita di tempo. Spesso chiedono di uscire dalle macchine e
molestano, picchiano, torturano. In Cisgiordania hanno espulso forzatamente 45.000 palestinesi
dalle proprie terre. Il messaggio è che vogliono che ce ne andiamo.

Che rapporto c’è tra le comunità palestinesi cristiane e quelle musulmane, con gli altri leader
vi confrontate?

In Palestina siamo un solo popolo, cristiani e musulmani, non facciamo differenza. Israele ci
opprime allo stesso modo. Abbiamo la stessa cultura, parliamo la stessa lingua, mangiamo lo stesso
cibo, abbiamo la stessa storia. Anche la forma di resistenza è simile, la maggioranza dei palestinesi
sceglie la resistenza non violenta a prescindere dal culto.
Nel Natale 2023 in un discorso ha affermato che «il mondo non ci vede come uguali, forse per
il colore della nostra pelle, forse perché siamo nel lato sbagliato di un’equazione politica».

Com’è composta quest’equazione?

Molti cristiani occidentali preferiscono supportare Israele piuttosto che i palestinesi cristiani: è
perché non siamo bianchi? Perché non serviamo l’interesse degli Stati Uniti? Sono condiscendenti
verso di noi, credono di sapere meglio di noi quale sia la soluzione per il popolo palestinese, e
vorrebbero imporcela. Molti leader di Chiesa ci fanno lezioni sui diritti umani in quanto palestinesi
e mediorientali cristiani, sui diritti delle donne ad esempio, ma quando i palestinesi sono massacrati
stanno in silenzio. Per me l’unico modo per descriverlo è razzismo, double standard. Quando i loro
alleati violano le leggi va bene, il messaggio è che il potente può violare i diritti umani. È l’opposto
del credo cristiano, Gesù stava dalla parte di vulnerabili, oppressi, marginalizzati. Tutto ciò ha a che
fare con la «teologia dell’impero», per cui la religione viene usata per giustificare l’oppressione. La
colonizzazione della Palestina è giustificata come ritorno alla patria degli ebrei. In questo modo
hanno permesso che qualsiasi ebreo in qualsiasi parte del mondo avesse più diritto a vivere in
Palestina dei palestinesi stessi. È colonialismo, non ha a che fare con la religione.
Nel suo discorso ha detto: «Gaza oggi è la bussola morale del mondo, era un inferno prima del
7 ottobre e il mondo stava in silenzio».

Quanto è disorientato il mondo dopo 16 mesi di genocidio?

È molto peggio di quando ho pronunciato queste parole, il genocidio continua, la complicità del
mondo continua. L’umanità è in una vera crisi, i politici israeliani, che acquistano potere dalle
parole di Trump, ci pongono di fronte al rischio di pulizia etnica di 2 milioni di palestinesi. Per me
Gaza rimane la bussola morale del mondo, stanno permettendo che chi commette questi atroci
crimini sfugga alla responsabilità. Il presidente di Israele, Isaac Herzog, è ora a Roma, il messaggio
che ci arriva è che il genocidio e la pulizia etnica sono normalizzati e accettati.

image_pdfimage_print

uso politico sfacciato della religione

I TheoBros nello studio Ovale: l’America attua il volere di Dio

di Luca Celada
in “il manifesto” del 21 febbraio 2025

È una coalizione improbabile e per certi versi paradossale, quella allineata dietro al demagogo
Donald Trump che con la complicità di una corte suprema deviata, un partito succube e di un
elettorato che ha scelto (pur con solo il 49,7% dei voti) di rimettersi nelle sue mani – si è trovato in
un fatidico inverno del 2025, con i mezzi per decostruire la democrazia americana e l’ordine
globale.
Vi sono ovviamente sovrapposizioni fra sovranisti, la destra religiosa e i neoreazionari del tech che
hanno riportato al potere Trump. I suprematisti del neo-apartheid, i teocratici e “broligarchi” hanno
ad esempio una fede comune nella «supremazia morale» dell’occidente, che sostituisce ora la
democrazia come valore assoluto. Ed un’identità decisamente bianca che trova ad esempio
un’affinità naturale con la Russia putiniana.
Ma vi sono anche evidenti discrepanze. Fra il fondamentalismo biblico degli integralisti e le
fantasie eugenetiche e transumaniste dei tecnologi, per dirne una, e fra gli oligarchi tecnomonarchici di Silicon Valley e gli estremisti blue-collar della galassia alt-right, per fare un altro
esempio. Causa, quest’ultima, degli screzi che continuano ad affiorare fra Elon Musk e Steve
Bannon, il quale è da poco tornato ad apostrofare il miliardario sudafricano come «parassitico
immigrato illegale».
È un’anomalia anche che fazioni così fervidamente dottrinarie abbiano trovato un portabandiera in
una figura agnostica rispetto ad ogni ideologia e religione, profondamente opportunista e
squisitamente amorale. Ma il suo successo è propedeutico all’altra principale ambizione comune:
l’annientamento rivoluzionario dello stato liberale e sociale per sostituirlo con un modello radicale
di società.
Una delle figure che più riassume queste idea nella sua triplice accezione (di guerra santa, eversione
politica ed efficienza “aziendale”) è JD Vance, espressione del conservatorismo bianco e religioso
degli Ozarks dell’Ohio e successivamente “iniziato” alla broligarchia della Silicon Valley da Peter
Thiel. Convertito al cattolicesimo tradizionalista, Vance primo vicepresidente millennial veicola per
una nuova generazione una lunga tradizione fondamentalista americana giunta oggi al cuore dello
stato.
La componente religiosa ha ricoperto un ruolo specifico nella parabola nazionale e l’integralismo è
stato componente fondativa sin dall’insediamento delle sette puritane nel nuovo mondo.
Quell’impulso è stato inglobato nella mitopoietica nazionale, in constante tensione con il
razionalismo di matrice illuminista. La religione ha vissuto poi ciclici momenti di prevalenza
culturale (i Great Revivals) nella vita del paese e la deriva fanatica è stata infine strategicamente
cooptata dalla destra politica con l’alleanza di Reagan con gli evangelici. Attualmente la
componente cristo-nazionalista, reazionaria e fondamentalista, spesso apocalittica (raccolta sotto la
dicitura di New Apostolic Reformation) forma la base più solida e compatta del sostegno a Trump e
punta ad un modello “originalista”, fondamentalmente teocratico della società.
In questo ambito, una figura come Vance esprime in maniera assai più articolata di Trump, l’idea di
un’America “originale” a cui fare ritorno come ad una terra promessa. Un concetto che circola
liberamente fra predicatori cosiddetti “TheoBros”, spesso quarantenni, ben vestiti, quasi sempre con
barba ben tosata, eloquenti e attivi online ma che per fanatismo religioso discendono in linea diretta
dal retroterra evangelico carismatico e pentecostale così prevalente specie nella bible belt
americana.
Va da sé, come espresso apertamente da Vance ed altri, che l’Eden ove rifuggire sia riservato agli
Americani “autentici” (leggasi bianchi). L’America non è l’idea spuria di melting pot che ne ha
corrotto gli ideali originali ma una nazione creata dai coloni fondativi che occorre riportare ad uno
stato di purezza politica, etnica e religiosa. È un oltranzismo estremo che oggi viene espresso
apertamente da politici Maga come Mike Johnson, speaker della Camera e Pete Hesgeth, ministro
della Difesa. Le sette a cui appartengono considerano essenziale azzerare oltre allo stato laico e le
sue istituzioni più prestigiose – dal New York Times alle grandi università, coacervi di corrosivo
materialismo, per ripristinare una nazione cristiana «fondata sui dieci comandamenti». Dietro alle
barbe ben tosate che portano molti TheoBros si nasconde una concezione di patriarcato che ricorda
quello distopico del Racconto dell’ancella fino all’ipotesi di abolire il suffragio per le donne.
Si tratta di idee da sempre circolate in congregazioni fondamentaliste che oggi appartengono ai
vertici politici e che questa settimana saranno al centro del Cpac, la convention dei conservatori che
si preannuncia come celebrazione di un trionfo in cui teologia e policy si sovrappongono senza
soluzione di continuità. Ad esempio Vance ha espresso una dottrina cara ai neo teocratici anti
solidale affermando che i Cristiani debbano «amare la propria famiglia, poi il prossimo, poi la
comunità, il concittadino, la patria e solo dopo possono eventualmente pensare al resto del mondo».
Un vangelo dell’egoismo – smentita dal papa stesso – che ha trovato espressione concreta
nell’abrogazione dell’Agenzia per la cooperazione internazionale (Usaid).
Nel mondo di Trump, i TheoBros sono garanti del più intransigente fanatismo e la retorica in cui
l’americanità è indistinguibile dalla cristianità è destinata a dominare certamente anche questo
Cpac, oltre a produrre altre immagini come l’imposizione rituale delle mani sul presidente che gli
integralisti considerano alla stregua di un messia. Quelle che in era pre Trump potevano ancora
passare per colorite bizzarrie, sono ormai pericolosi presagi. Per definizione infatti la dottrina non
ammette pluralismo o alternative alla vittoria, biblica e definitiva.
E se qualcosa insegnano gli eventi di queste settimane, è come nozioni che sembravano
appannaggio di frange estreme, possano trovarsi assai rapidamente stampate su di un prossimo
decreto. E come ha reso ben chiaro proprio JD Vance, non si tratta più di un problema interno
americano – quando gli integralisti controllano lo studio del vicepresidente o il Pentagono, gli
integralismi a stelle e strisce investono il mondo intero

image_pdfimage_print

il cristianesimo senza il Cristo del vangelo di Trump

Trump e il cristianesimo

di: Marcello Neri

trump-cristianesimo1

L’interlocuzione di Trump con il cristianesimo e la sua messa in scena come rappresentazione politica non è una novità. Ministri di culto cristiani raccolti in preghiera ostentata intorno a Trump per benedirlo, la pastora Paula White-Cain messa a dirigere il White House Faith Office, sono immagini che si ricompattano a distanza di otto anni. L’unico scostamento dal copione del primo termine, è l’interpretazione messianica che si è potuta dare a questo suo secondo mandato dopo gli attentati durante la campagna elettorale. Ma anche il messianismo non è nulla di nuovo nell’auto-comprensione della nazione americana.

Che Trump creda davvero al carattere messianico della sua presidenza, o che sia semplicemente uno strumento retorico che egli usa, non cambia molto nei fatti delle cose –se fosse il primo caso, però, il giudizio critico della religiosità americana dovrebbe farsi un po’ più desto, sul lato dei sostenitori, e più efficace, sul lato dei detrattori di Trump.

Discernimento

Le Chiese, e ogni singolo cristiano, hanno il potere di discernere alla luce del Vangelo l’operato di Trump – riconoscendovi o meno un’aderenza effettiva al grande e variegato patrimonio di valori delle tradizioni cristiane. La storia politica degli Stati Uniti è fatta anche dalle sviste o dalle omissioni di questo potere di discernimento che ogni cittadino riceve dalle Scritture. Oggi, come in passato, l’esito di questo discernimento andrà a pesare sulla responsabilità di ogni singolo credente. Nella consapevolezza che, a partire dalla propria fede e dai propri principi morali, non si può né rigettare in toto né appoggiare senza riserve Trump e l’operato della sua amministrazione.

Quello che il discernimento religioso della fede può e deve fare è decidere se e come sostenere le politiche di Trump (o viceversa) – e, soprattutto, dare ragione di perché farlo anche quando i principi della fede cristiana direbbero di fare diversamente.

Non per nulla, in questo momento, stiamo assistendo a una inusuale quaestio disputata teologica legata alla giustificazione o meno di scelte politiche compiute dall’amministrazione Trump. Quaestio aperta dal vicepresidente JD. Vance quando ha chiamato in causa l’ordo amoris di Tommaso per legittimare, come cattolico, la sospensione degli aiuti umanitari internazionali voluta da Trump. L’uso politico di questa categoria teologica diventa così funzionale alla immunizzazione della coscienza cristiana rispetto a quel dovere di discernimento storico che le compete per essere degna di questo nome.

Si può essere totalmente a favore o totalmente contro Trump solo se ci si risparmia questo travaglio che la coscienza cristiana è chiamata ad attraversare. Oppure, lo si può essere per interessi del tutto mondani eventualmente camuffati da un’aura di religiosità cristiana. Ma quando si fa questo, si dà a Cesare un onore che appartiene solo a Dio – su questo il Vangelo è chiaro.

Francesco e gli Stati Uniti

Una fede disposta a pagare il prezzo del discernimento, e ad assumersene la responsabilità pubblica senza cadere nell’estremismo dell’asservimento supino o di una ostinata opposizione, è la lettera che papa Francesco ha scritto ai vescovi cattolici americani per far sentire loro il suo appoggio nella critica che hanno articolato nei confronti dell’amministrazione Trump in materia di deportazione di massa degli immigrati illegali.

«La coscienza rettamente formata non può non compiere un giudizio critico ed esprimere il suo dissenso verso qualsiasi misura che tacitamente o esplicitamente identifica lo status illegale di alcuni migranti con la criminalità. Al tempo stesso, bisogna riconoscere il diritto di una nazione a difendersi e a mantenere le comunità al sicuro da coloro che hanno commesso crimini violenti o gravi durante la permanenza nel Paese o prima del loro arrivo. (…) uno Stato di diritto autentico si dimostra proprio nel trattamento dignitoso che tutte le persone meritano, specialmente quelle più povere ed emarginate. Il vero bene comune viene promosso quando la società e il governo, con creatività e rigoroso rispetto dei diritti di tutti — come ho affermato in numerose occasioni — accolgono, proteggono, promuovono e integrano i più fragili, indifesi, vulnerabili. Ciò non ostacola lo sviluppo di una politica che regolamenti una migrazione ordinata e legale. Tuttavia, tale sviluppo non può avvenire attraverso il privilegio di alcuni e il sacrificio di altri. Ciò che viene costruito sul fondamento della forza e non sulla verità riguardo alla pari dignità di ogni essere umano incomincia male e finirà male».

Sostenendo in questo modo i vescovi cattolici americani, papa Francesco si muove all’interno degli sviluppi della tradizione costituzionale e giuridica degli Stati Uniti – e i cittadini americani dovrebbero apprezzare questa sua capacità di entrare nelle pieghe dell’anima fondante della Nazione, anche se non sono d’accordo con il papa sul piano politico.

Stato di eccezione

L’alternativa a quanto indicato dal papa in materia di immigrazione è l’affermazione tacita di quello che Agamben chiama «stato di eccezione» come forma abituale dell’esercizio del potere esecutivo da parte del presidente americano. Un uso parziale dello stato di eccezione è stato messo in opera molte volte prima di Trump, sia da presidenti democratici che repubblicani. L’estensione della sua applicazione effettiva, e non nella retorica delle parole, è la misura su cui cittadini, Congresso e Corte Suprema dovrebbero vigilare con attenzione – perché una volta che il genio dello stato di eccezione è fuoriuscito dalla lampada magica della democrazia non c’è poi più verso di farlo rientrare in essa.

Lo stato di eccezione, ossia l’assolutizzazione del potere esecutivo che in una democrazia come quella americana rimane costituzionalmente sempre latente, ossia come fondamentalmente possibile in maniera legittima, ha indubbiamente una matrice religiosa. Ed è su questa matrice che le teologie dovrebbero investire il loro discernimento critico, senza perdersi in diatribe che, in questo momento, sono francamente di secondo piano.

Il bene comune

Sembra invece che i teologi si siano lasciati infatuare dalle sirene che cercano di occultare la vera questione teologico-religiosa che si lega al futuro della democrazia – o a una democrazia che verrà. Affinare di nuovo le armi per il duello con la cosiddetta «prosperity theology» vuol dire, da ultimo, lasciare del tutto non sorvegliato il campo in cui si gioca il futuro dell’ordine internazionale – e con esso il destino concreto dei popoli e dei nostri nipoti.

Chi ha bisogno di una prosperity theology per giustificare religiosamente la propria ricchezza e il proprio benessere, consegnando la stragrande maggioranza dell’umanità alla irrilevanza per la fede cristiana, mostra da sé quanto quella ricchezza e benessere siano un problema per la loro stessa coscienza. Una teologia che esalta il destino di un’esigua minoranza della popolazione mondiale, per quanto essa possa essere potente, è funzionale più alla immunizzazione della sua coscienza che essere la chiave per conquistare il mondo e piegarlo alle ragioni di Dio.

È affare privato esclusivo di pochi, per quanto influenti e strategici essi possano essere. Altre, quindi, dovrebbero essere le preoccupazioni della teologia in questo momento, soprattutto qui da noi – preoccupazioni che riguardano il bene pubblico e lo stato costituzionale che la vecchia Europa è stata capace di forgiare tra il primo e secondo dopoguerra nel XX secolo.

Gli Stati Uniti non sono uno stato costituzionale dal punto di vista giuridico – sono un esperimento democratico a se stante, il cui destino ha però ripercussioni globali. Due sembrano essere le questioni dirimenti in questo momento della storia umana: l’uso presidenziale del potere esecutivo nella massima estensione concessa dalla Costituzione degli Stati Uniti (con l’aura teologica che lo stato di eccezione comporta); e l’uso delle istituzioni politiche pubbliche per privatizzare il governo della Nazione (per farne una sorta di consiglio di amministrazione a rappresentanza degli azionisti di maggioranza).

Cristianesimo politico post-confessionale

Entrambe non solo chiedono una capacità di giudizio critico da parte della teologia, ma hanno in sé un risvolto teologico nel quadro della storia politica americana – che non riesce a non essere anche una storia religiosa e cristiana, anche oggi. È all’interno di questo quadro che va letto, e compreso fino in fondo, l’uso politico del cristianesimo da parte di Trump e della sua amministrazione – oggi molto più esposto a derive difficili da governare alle stesse mani che ne concepiscono l’architettura perché, rispetto al primo mandato di Trump, è cambiato in maniera profonda il quadro internazionale su cui esso impatta.

Probabilmente, nella declinazione politico-religiosa del cristianesimo messa in atto da Trump, stiamo assistendo a una paradossale riterritorializzazione della «religione senza cultura» (O. Roy), alla creazione di un cristianesimo sovra-confessionale che produce una comunità politico-religiosa trasversale alle Chiese, sottraendosi alla loro giurisdizione anche in materia di fede. Fenomeni, questi, che dovrebbero interessare la teologia cristiana se essa non vuole rimanere archeologia di un mondo che non esiste più.

image_pdfimage_print

i ‘lupi’ al capezzale di papa Francesco

scontro tra fazioni dietro la salute del papa

di Paolo Rodari
in “il manifesto” del 20 febbraio 202

Involontariamente, è Giorgia Meloni, in visita dal Papa al Gemelli, a smentire le vulgate più
estremiste sulla salute di Bergoglio. La premier dice di aver trovato Francesco «vigile e reattivo.
Abbiamo scherzato come sempre. Non ha perso il suo proverbiale senso dell’umorismo».
A conferma del fatto che, seppure complesse, le condizioni fisiche di Bergoglio restano al momento
stazionarie con un «lieve miglioramento», come ha comunicato ieri il Vaticano. Certo, il futuro è
un’incognita, avendo il Papa 88 anni compiuti, ma nello stesso tempo le parole di Meloni spingono
a pensare che la possibilità che si ristabilisca c’è e non è campata per aria.
Da tempo, tuttavia, si rincorrono voci sulla possibilità di dimissioni che aprano la strada a un nuovo
conclave. Nelle scorse ore, addirittura, il rientro a Roma del cardinale Pietro Parolin dal Burkina
Faso, è stato letto dai settori più anti bergogliani come un segnale di aggravamento della salute di
Bergoglio, tralasciando tuttavia che l’agenda del segretario di Stato era già stata decisa da cinque
mesi. E fra l’altro, ignorando il fatto che, in caso di sede vacante, non è il segretario di Stato a dover
gestire l’eventuale post pontificato, ma rispettivamente il camerlengo e il decano del collegio
cardinalizio, Kevin Joseph Farrell e Giovanni Battista Re.
Voci che coprono altre voci. Da giorni le diverse fazioni presenti nella Chiesa provano a tirare
acqua al proprio mulino. Da una parte ci sono quelli che descrivono lo stato di salute di Francesco
come ormai irreversibilmente compromesso per spingerlo alle dimissioni, forti del fatto che fu lo
stesso Pontefice a dichiarare che si sarebbe fatto da parte se non fosse stato più in grado di svolgere
pienamente le proprie mansioni.
Dall’altra, c’è chi minimizza e parla al massimo della necessità di una riduzione degli impegni nel
caso di un ritorno a Santa Marta, senza però comprendere che Francesco decide da solo e che,
insieme, difficilmente accetterebbe un ridimensionamento nelle proprie funzioni. Certo, nei
prossimi mesi, se riprenderà in mano l’attività pubblica ordinaria, non è escluso che venga
rimodulato il calendario delle presenze papali agli eventi giubilari in modo da impedire ricadute a
quel punto assai pericolose.
Ma la rimodulazione sarebbe solo temporanea e non sarebbe in alcun modo un ridimensionamento.
L’antagonismo a Bergoglio ha radici lontane e non è una novità. Dall’inizio del pontificato c’è chi
pensa al dopo, senza così fermarsi a cogliere e a comprendere la spinta di novità del suo magistero.
All’inizio un’importante opposizione fu alimentata da una parte dell’episcopato nordamericano,
vicino a un mondo repubblicano statunitense spaventato dall’imprevedibilità e dalla non
controllabilità del primo Papa venuto dal Sudamerica, dalla sua visione sull’ambiente, le
migrazioni, gli armamenti, e dalle sue aperture a Est, alla Cina soprattutto. Settori romani
minoritari, ma combattivi, hanno cavalcato quest’onda antagonista, nel tempo tuttavia perdendo
terreno.
L’arrivo a Roma di Victor Manuel Fernandez come prefetto dell’ex Sant’Uffizio, quello stesso
Fernandez contro il quale durante il pontificato di Ratzinger erano stati costruiti dossier per
bloccarne l’ascesa, ha sancito definitivamente e fragorosamente la vittoria di un’altra linea
teologica: dai princìpi non negoziabili di ratzingeriana memoria alla «Chiesa per tutti», che accoglie
senza chiedere patenti d’identità, di Francesco.
Che a primeggiare, oggi, sia questa visione lo dimostra anche quanto avvenuto recentemente negli
Stati uniti. Dopo anni di ammiccamenti al mondo repubblicano, l’episcopato del Paese si è espresso
pubblicamente contro le politiche migratorie di Trump facendo sentire nei palazzi che contano l’eco
di una sola voce.
Francesco è stato comunque capace di aggregare un certo consenso anche nel mondo sulla carta a
lui più ostile. Ricevendo a Santa Marta anche in forma privata diversi capi di Stato di destra, fra cui
Meloni, e dicendo a tutti di lavorare al di là delle rispettive appartenenze politiche – «Quello è di
sinistra, tu sei di destra, ma siete giovani ambedue, parlate», ha detto recentemente – si è smarcato
dalle diverse fazioni che tendono a usarlo per i propri interessi. Gli intramontabili bergogliani e
antibergogliani.

image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica

ANGELI IMPERFETTI
Lc 6,27-38 
il commento di E. Ronchi al vangelo della settima domenica del tempo ordinario
Domenica scorsa Gesù aveva proiettato nel cielo di Galilea un sogno e un terremoto: beati voi poveri, guai a voi ricchi.
Oggi sgrana un rosario di verbi esplosivi. Amate è il primo; e poi fate bene, benedite, pregate.
E noi pensiamo: ci sta. Ma quello che mi scarnifica, i quattro chiodi della crocifissione, è l’elenco dei destinatari. Chi dobbiamo amare? Amate i vostri nemici, gli infamanti, gli sparlatori, coloro che vi pugnalano alle spalle.
Gli inamabili.
Poi Gesù mi guarda negli occhi e si rivolge proprio a me: tu porgi l’altra guancia, tu dai anche la camicia, tu non chiedere indietro. E ti costringe ad andare in cerca di quelli che vorresti invece perdere.
Questo vangelo rischia di essere un supplizio, un martirio. Ci chiede cose impossibili, addirittura: Siate come Dio!
Nessuno riuscirà a vivere così a colpi di volontà, neppure i più bravi tra noi. Ma i verbi impossibili di Gesù descrivono l’agire di Dio.
Infatti: siate anche voi misericordiosi come il Padre.
E poi: come volete che gli uomini facciano a voi, fatelo voi a loro. Una capriola che pare illogica: ritorna al cuore, misurati con ciò che desideri, accosta le labbra alla sorgente del cuore.
Sappi che il cuore è buono. Che il tuo desiderio è buono. Abbiamo tutti un disperato bisogno di essere abbracciati e di essere perdonati.
Tutti desideriamo qualcuno che ci benedica, una casa dove sentirci a casa, e poter contare sul mantello di un amico.
Questo darò agli altri.
Ciò che desideri per te, dallo all’altro. Altrimenti vi sbranerete per un pugno di euro, per una donna, per il petrolio, per un bonus, per un posto al parcheggio.
L’unica strada per il sogno di cieli nuovi e terra nuova è Abele che diventa custode di Caino, la vittima che si prende cura del violento. Abele e Caino forzano insieme le porte del Regno.
Perdonate:
“Il perdono strappa dai circoli viziosi,
spezza le coazioni a ripetere su altri ciò che hai subito,
spezza la catena della colpa e della vendetta,
spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt).
Sì, io però sono un angelo imperfetto.
E allora il Vangelo propone una strategia. Un primo passo è sempre possibile, a tutti: il vangelo è pieno di inizi, trabocca della teologia dei germogli e del seme che spunta.
Basta il coraggio di un primo passo. Come Dio. Come il cuore. Sappi che sei buono!
Questi grandi verbi di fuoco (amate, date, perdonate) cominciano sottovoce, in penombra, raso terra, nel sussurro di una voce che ha i colori dell’alba.
“Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo” (Gandhi). Cambia qualcosa di te, ma sulla misura alta del vivere.
image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica

BEATI VOI POVERI
il commento di E. Ronchi al vangelo della sesta domenica del tempo ordinario
Luca 6, 20-26
Un vangelo potente e inarrivabile.
Da oltre cinquant’anni lotto con questo vangelo, che mi sfugge sempre.
Le parole che cerco di allineare sono come uccellini che sbattono contro le pareti della gabbia, a dire poco più del nulla che capiamo di queste parole immense.
“Sono venuto a portare il lieto annuncio ai poveri”, aveva detto nella sinagoga. Ed eccolo qui, il miracolo: beati voi poveri.
Il luogo della felicità è Dio, ma il luogo di Dio sono le infinite croci degli uomini.
E aggiunge alla fine un’antitesi abbagliante: non sono i poveri il problema del mondo, ma i ricchi: guai a voi ricchi!
Sillabe sospese tra sogno e miracolo, osate, prima ancora che da Gesù, da sua madre nel canto del Magnificat: “ha saziato gli affamati di vita, ha rimandato i ricchi a mani vuote”. (Lc 1,53).
Questi oracoli profetici, anzi più-che-profetici, quel “beati” che contiene pienezza, felicità, completezza, grazia, incollato a persone affamate e in lacrime, a poveracci, a disgraziati, ai bastonati dalla vita, ci obbliga a un capovolgimento di prospettiva, a guardare la storia con gli occhi dei poveri e dei piccoli, non con quelli dei ricchi e dei potenti, altrimenti non cambierà mai niente.
E ci saremmo aspettati: “beati voi poveri perché ci sarà un capovolgimento, un’alternanza, diventerete voi i signori”.
No. Il progetto di Dio è più profondo. C’è di mezzo il Regno dei cieli, che non è il paradiso o l’al di là, ma una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani.
Il mondo non appartiene a chi se ne impossessa o lo compra, ma a chi lo rende migliore. E non sarà reso migliore da coloro che hanno accumulato più denaro.
Beati voi… Il vangelo più alternativo che si possa pensare, il manifesto più stravolgente e contromano. Eppure, al tempo stesso, senti che è amico della vita, vangelo amico.
Perché le beatitudini non sono un comandamento, un ordine da eseguire, ma il cuore dell’annuncio di Gesù: la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, Dio regala gioia a chi costruisce pace.
In esse è l’inizio della guarigione del cuore, perché il cuore guarito sia l’inizio della guarigione del mondo.
Guai a voi, ricchi, sazi, gaudenti, famosi. I quattro “guai” ci inquietano un po’, ma non sono delle maledizioni: Dio non maledice le sue creature, mai, la sua è la voce della tristezza del padre in pena per i figli che si stanno perdendo.
“Guai” non suona come una minaccia, ma come il gemito dei lamenti funebri, il singhiozzo del pianto su chi appare come morto.
“Guai”: e vi sento dentro il lamento di Gesù, che piange i ricchi e i sazi come coloro che si sono sbagliati su ciò che è vita e ciò che non lo è; e sono diventati gli idolatri del vuoto, gli amanti del nulla.
E gli idoli sono crudeli, spietati: divorano i loro stessi adoratori.
image_pdfimage_print

quale giubileo per le forze armate – il sogno di un’alternativa

sogno di un giubileo delle forze disarmate e nonviolente!

di Pax Christi e Mosaico di Pace
in “www.finesettimana.org” del 11 febbraio 2025

Non più di qualche giorno fa, dalla Piazza San Pietro a Roma, le immagini ci raccontavano di
30.000 militari in “marcia” per il Giubileo delle Forze Armate, di Polizia e di Sicurezza. Anche loro,
le nostre sorelle e i nostri fratelli militari, lì per attraversare la Porta Santa, partecipare alla
celebrazione dell’Eucaristia, presieduta da Papa Francesco, e ripartire come “pellegrini di
speranza”.
Erano stati preceduti dalla domanda provocatoria, che Papa Francesco pone nella Bolla di Indizione
del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, al n. 8: “E’ troppo sognare che le armi tacciano e smettano
di portare distruzione e morte?”. E poi le sue forti e accorate parole rivolte alle e ai militari,
nell’omelia di domenica 9 febbraio u.s.: “Vi chiedo, per favore, di vigilare; vigilare contro la
tentazione di coltivare uno spirito di guerra; vigilare per non essere sedotti dal mito della forza e dal
rumore delle armi, …”.
Come Pax Christi Italia, unitamente alla redazione di Mosaico di Pace, non possiamo non porre
alcune domande che inquietano le nostre coscienze, e, ne siamo certi, anche quelle di tante donne e
uomini impegnati nella ricerca della pace. Lo facciamo anche se derisi e insultati come
“pacefondai” o, come letto di recente su un quotidiano italiano, “contaminati dalla epidemia di
pacifismo”, ma sempre più convinti che “se vogliamo la pace dobbiamo preparare la pace”.
Le Forze Armate sono lì per fare la guerra, che non è mai, mai giusta! Perché ogni guerra degenera
in immorali e illegali investimenti di armi che certo non concorrono a portar pace e riconciliazione
tra i popoli. Semplicemente scandalosa la modifica alla legge 185/90 che il nostro governo si
prepara ad approvare. Una legge nata per mettere un argine all’export delle armi e oggi, purtroppo,
destinata ad essere “cancellata” per lasciare campo libero a investimenti miliardari offensivi di
necessità, di urgenze e di bisogni vitali per il nostro vivere quotidiano.
Noi, artigiani di pace, NON CI STIAMO!!! Lo diciamo ad alta voce, in nome del Vangelo che ci
indica ben altre strade: Basta armare sempre di più l’economia, la cultura e la politica! Ci
permettiamo, poi, in quel coraggioso ed evangelico Sì-Sì, No-No, di chiedere alla Chiesa che
l’Anno Giubilare appena iniziato ricordi ai cristiani e al mondo intero, con le parole di San
Giovanni XXIII nella Pacem in Terris, che risolvere i conflitti con la guerra “Alienum est a ratione”.
Don Tonino Bello, Presidente di Pax Christi Italia, ebbe a parafrasare questa espressione con “…è
roba da matti!”.
Ci permettiamo fraternamente, ancora una volta, non di provocare ma di invitare ad avere il
coraggio di mandare segnali di un cambiamento di mentalità e di cultura di pace.
Possiamo chiedere di sostituire alle Diocesi Militari, agli Ordinari Militari, ai Cappellani Militari
vescovi e presbiteri che, senza divise e senza stellette, si prendano cura spirituale di coloro che
fanno questa difficile scelta di vita? Possiamo chiedere di modificare con parole di pace le preghiere
delle varie Forze Armate che a volte chiedono a Dio di benedire le loro armi? Nessun intento
“polemico” in queste nostre domande, solo il sogno e la visione di un mondo altro possibile rispetto
a quanto stiamo vivendo in questi giorni, sogno e visione di un Giubileo delle Forze Disarmate e
Nonviolente!
Tavarnuzze (Fi), 11 Febbraio 2025 Pax Christi Italia – Mosaico di pace Contatti: Pax Christi
Segreteria Nazionale 055-2020375, info@paxchristi.it – www.paxchristi.it Mosaico di pace:
080.3953507 – 348.3035658, info@mosaicodipace.it – www.mosaicodipace.i

image_pdfimage_print

l’antievangelica e anticristiana cosiddetta ‘teologia della prosperità’

quel «Vangelo diverso» che lo stravolge

di Antonio Spadaro
in “Avvenire” dell’11 febbraio 2025

La «teologia della prosperità» invocata dal tycoon: la fede per ottenere ricchezza: la dottrina che considera Dio un «fattorino cosmico» dei desideri umani.
La teologia della prosperità è stata definita un «vangelo diverso», talmente diverso da stravolgerne il senso. Le sue radici affondano negli Stati Uniti, dove il pastore Esek William Kenyon (1867- 1948) fu tra i primi a sostenere che attraverso il potere della fede, i credenti potevano ottenere ricchezza, salute e benessere, mentre la mancanza di fede portava alla povertà e alla malattia.
Queste dottrine chiare e semplici si sono correlate e nutrite in misura consistente anche del positive thinking, il «pensiero positivo», espressione di un certo American way of life. Esse si collegano in questo senso alla «posizione eccezionale» che Alexis de Tocqueville nel suo celebre La democrazia in America (1831) attribuiva agli americani. Fu Tocqueville ad affermare che tale way of life plasma
anche la religione degli americani. Questa «teologia», inizialmente circoscritta a piccoli gruppi
religiosi, ha trovato terreno fertile nel movimento neo-pentecostale e carismatico, che l’ha
amplificata e diffusa a livello globale. Il fenomeno si traduce, dal punto di vista mediatico, nell’uso
della televisione da parte di figure molto carismatiche di alcuni pastori, detentori di un messaggio
semplice e diretto, montato attorno a uno show di musica e testimonianze e a una lettura
fondamentalista e pragmatica della Bibbia ed è sostenuto dalla sua forte incidenza sulla vita
politica. Sin dalla sua prima cerimonia d’inaugurazione del mandato presidenziale, Donald Trump
ha incluso preghiere di predicatori del «vangelo della prosperità» quali Paula White, uno dei suoi
consiglieri spirituali. Per la prima volta nell’ottobre 2015 la White ha organizzato, nella Trump
Tower, un incontro di telepredicatori legati alla «teologia della prosperità», che hanno pregato per
l’attuale Presidente, imponendo le mani su di lui.
Il nucleo di questa «teologia» è la convinzione che Dio vuole che i suoi fedeli abbiano una vita
prospera, e cioè che siano ricchi dal punto di vista economico, sani da quello fisico e
individualmente felici. I fedeli sono incoraggiati a visualizzare ciò che desiderano e a dichiararlo
con fede, considerandolo già ricevuto. Questo approccio trasforma le promesse di Dio in una sorta
di contratto vincolante, in cui il credente assume una posizione dominante rispetto a un Dio che
diventa un “fattorino cosmico” (cosmic bellhop) al servizio dei desideri umani.
L’urgenza di una vita prospera e senza sofferenze si adegua a una religiosità a misura del cliente, e
il kairos del Dio della storia si adegua al kronos frenetico della vita attuale. In alcune società in cui
la meritocrazia è stata fatta coincidere con il livello socio-economico senza che si tenga conto delle
enormi differenze di opportunità, questo «vangelo», che mette l’accento sulla fede come «merito»
per ascendere nella scala sociale, risulta ingiusto e radicalmente anti-evangelico.
La teologia della prosperità presenta numerose criticità. Promuove un forte individualismo, in cui il
benessere personale è visto come risultato diretto della fede individuale, rischiando di esacerbare le
disuguaglianze sociali e di creare una mancanza di empatia verso i poveri, considerati come persone
con “fede insufficiente”. Inoltre, distorce il messaggio evangelico, riducendo la salvezza a un
semplice benessere materiale e trasformando la religione in un fenomeno utilitaristico e pragmatico.
Questo approccio è in netto contrasto con la concezione tradizionale del cristianesimo, che vede la
salvezza come un dono di Dio, non come il risultato delle proprie opere o della propria fede.
Questa teologia è chiaramente funzionale ai concetti filosofico-politico-economici di un modello di
taglio neoliberista e abbatte il senso di solidarietà. Inoltre, spinge le persone ad avere un
atteggiamento miracolistico, per cui solamente la fede può procurare la prosperità, e non l’impegno.
Quindi il rischio è che i poveri che restano affascinati da questo pseudo-vangelo rimangano
imbrigliati in un vuoto politico-sociale che consente con facilità ad altre forze di plasmare il loro
mondo, rendendoli innocui e senza difese. Sin dall’inizio del suo pontificato Francesco ha avuto
presente il «vangelo diverso» della «teologia della prosperità» e, criticandolo, ha applicato la
classica dottrina sociale della Chiesa. Più volte lo ha richiamato per porne in evidenza i pericoli
anche per un suo possibile diffondersi dentro la vita ecclesiale in modo strisciante. La prima volta è
avvenuto già in Brasile, il 28 luglio 2013. Rivolgendosi ai vescovi del Consiglio Episcopale
Latinoamericano, aveva puntato il dito contro il «funzionalismo» ecclesiale», che realizza «una
sorta di “teologia della prosperità” nell’aspetto organizzativo della pastorale». Essa finisce per
entusiasmarsi per l’efficacia, il successo, il risultato constatabile e le statistiche favorevoli. La
Chiesa così tende ad assumere «modalità imprenditoriali» che sono aberranti e allontanano dal
mistero della vera fede evangelica

image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica

LUI SULLA MIA BARCA
Luca 5,1-10
il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica del tempo orinario
Tirate le barche a terra lasciarono tutto e lo seguirono.
Senza neppure chiedersi dove Gesù li avrebbe condotti. Lo seguono in piena incoscienza.
Perché il motivo di tutto è solo lui, quel Rabbi dalle parole folgoranti. Allontanati da me, aveva detto Pietro; e alla fine si allontanano ma insieme, verso un altro mare, lasciando sulla riva le barche riempite fino all’orlo dal miracolo. Sono i ‘futuri di cuore’.
Tutto è cominciato con una notte buttata, le reti vuote, la fatica inutile. E Gesù in piedi vede. Vede ‘due barche’, dice il vangelo, ma io credo che veda tutta la delusione e la tristezza del mondo sui volti dei pescatori, che in disparte lavano le reti vuote.
Il maestro parla con linguaggio universale e immagini semplicissime, non dal pinnacolo del tempio ma dalla barca di un pescatore di Cafarnao. Non da luoghi sacri, ma da un angolo umanissimo e laico, in mezzo alle attività umane, non padrone, ma ospite dello spazio umano, delle periferie, delle attese, delle delusioni.
Gesù di fronte a uomini in crisi, per un pescatore non pescare è la crisi d’identità, usa tutta la sua sapienza e delicatezza: prega Simone di staccarsi un po’ dalla riva.
Sale sulla barca di Simone e lo prega: notiamo la finezza del verbo scelto da Luca. Così il maestro sale sulla barca della mia vita e mi prega di ripartire con quel poco che ho, con quel poco che so fare, per affidarmi un nuovo mare.
Prendi il largo e getta le tue reti.
Sulla tua parola le getterò. Simone si fida e si avvia il miracolo. Una quantità enorme di pesci, una quantità di giorni pieni di pane e di luce per lui e per tutti coloro che sulla sua parola getteranno le reti.
Un prodigio. Un segno. Simone ha paura: Allontanati da me, perché sono un peccatore. ​Gesù sull’acqua del lago ha una reazione bellissima. Lui, il grande pescatore di uomini, alle parole di Simone non risponde “non sei peggio degli altri”, non giudica, non condanna, ma neppure assolve.
A lui non interessa giudicare neppure in vista di una assoluzione, a lui interessa il frutto, la pesca abbondante, la fecondità della vita e non la purezza fondamentalista. Mette oro nelle ferite.
Gesù pronuncia una parola solenne e inattesa: non temere, d’ora in avanti tu sarai… e il futuro conta più del presente, più del passato,
d’ora in avanti cercherai uomini, raccoglierai vite per la vita.
E il bene possibile domani vale più del male di ieri e di oggi.
Io non sono che un perdonato, uno che non ha preso niente, ma che ora sulla tua parola getterà le reti ancora. Sono il primo dei paurosi, l’ultimo dei coraggiosi, ma d’ora in avanti qualcosa sarò, Signore, se la tua grazia farà del mio nulla qualcosa che serva a qualcuno.
image_pdfimage_print

a proposito di migranti: la storia cancellata dalla tracotanza dell’occidente

 

Il boomerang dei migranti

di Luigi Manconi
in “la Repubblica” del 3 febbraio 2025

Vent’anni fa Antonio Martino, economista e politico liberale e liberista, mi diceva: «Gli Stati Uniti
sono diventati grandi grazie al contributo della forza lavoro immigrata.
E, ricorda, si trattava in buona parte di forza lavoro irregolare. Ir-re-go-la-re!»

E se quello che appare oggi come il maggiore punto di forza delle destre di tutto il mondo — la
questione delle migrazioni — si traducesse con il tempo nel motivo di loro più acuta debolezza?
Notizie provenienti dalla Corte di Appello di Roma e dal parlamento tedesco, ma anche dalla stessa
America trumpiana, sembrano confermare una simile ipotesi. Il fenomeno delle migrazioni è
enorme, ed enormemente complesso, e richiede risposte altrettanto complesse, provvedimenti
razionali e strategie intelligenti. Al contrario, i programmi delle destre sono, palesemente, semplici.
E pur se suggestivi e ad alto tasso di manipolazione, si rivelano semplicistici fino alla rozzezza; e
cominciano già a manifestare le prime crepe.
Le foto pubblicate sul sito della Casa Bianca di migranti con i ceppi e incatenati alla vita
costituiscono la sordida icona del cattivismo più conformista, ma sembrano un manifesto ideologico
piuttosto che un credibile programma politico. Questo mentre, qualche giorno fa, il Financial Times
scriveva che il progetto di espulsione di undici milioni di stranieri irregolari richiederebbe dieci anni
di tempo e una spesa complessiva di mille miliardi.
Ma parliamo di noi. Il protocollo Albania sembra ispirarsi a quel meccanismo psichico che le
discipline della mente definiscono rimozione.
Il processo, cioè, che trasferisce altrove — nell’inconscio — pulsioni, angosce e fobie; e che si
realizza attraverso la sottrazione allo sguardo e, dunque, alla consapevolezza di ciò che è fattore di
inquietudine e ansia. Ecco, il nascondimento dei migranti fuori dai confini nazionali e dentro galere
etniche risponde a questa esigenza di occultare il «perturbante» (Freud).
Ma perché possa essere efficace, un simile progetto deve attuarsi all’interno di un sistema
istituzionale tutto all’insegna di quello stesso nascondimento.
Cosa non possibile in uno Stato di diritto quale tuttora, nonostante le insidie subite, è l’Italia. E in
questo Stato di diritto la divisione dei poteri resiste e quello giudiziario — oggi la Corte di Appello
di Roma — continua a fare la sua parte.
In Germania il tentativo di creare una intesa tra il centro conservatore e la destra neo-nazista ha
fatto un pericoloso passo avanti, salvo poi arrestarsi.
Credo che in ciò abbia avuto un ruolo importante il «fattore umano»: un soprassalto emotivo che,
dalle manifestazioni di piazza alle parole della ex cancelliera Angela Merkel, ha attraverso una parte
significativa dell’opinione pubblica.
Una politica migratoria più autoritaria e un accordo parlamentare con chiunque volesse sostenerla
volevano rappresentare, ancora una volta, la risposta semplice a un problema complesso, reso
ancora più arduo dal peso irriducibile della memoria collettiva.
Lì, centri d’accoglienza, centri per il rimpatrio, centri di detenzione evocano ancora fosche
assonanze storiche e richiamano spettri tuttora minacciosi.
Paradossalmente, dunque, il «passato che non passa» può manifestarsi come nuova vitalità di una
coscienza comune scossa, indebolita e lacerata e, tuttavia, resistente.
Ripeto, si tratta di incrinature e di brecce in un impianto ideologico e politico reazionario che
procede, si estende e, soprattutto, allarga i propri consensi: ma quei primi segnali di debolezza
vanno osservati con attenzione e — ecco il compito di una politica non subalterna — valorizzati e
approfonditi.
La funzione demagogico-propagandistica delle iniziative anti-migranti delle destre è sicuramente
potente, efficace nel breve periodo e assai remunerativa sul piano elettorale.
Ma quando il progetto trumpiano di «espellere undici milioni di clandestini» si scontrerà con il
ruvido dato dell’altissima percentuale di irregolari nell’agricoltura statunitense (oltre il 50 per
cento), che cosa accadrà?
E un ragionamento simile può essere fatto, in Italia, per la nostra agricoltura (circa il 25 per cento di
irregolari) e per segmenti importanti del settore manifatturiero e siderurgico, dei servizi, della
ristorazione e della cura della persona (oltre la metà «in nero»).
E quando l’indecente peregrinazione coatta dei richiedenti asilo tra il Nord Africa e Lampedusa e
tra Lampedusa e l’Albania e tra l’Albania e l’Italia avrà rivelato tutta la sua crudele vacuità,
sopravviverà qualcosa del «Piano Mattei» e della guerra agli scafisti «lungo tutto il globo
terracqueo»?
Per non dire di quel fantasmatico blocco navale che tanto priapismo xenofobo ha suscitato negli
angoli più oscuri della società italiana.
Sia chiaro: non c’è nulla per cui essere ottimisti, ma sarebbe un grave errore pensare che tutto sia
perduto. C’è molto, moltissimo, da fare.
Innanzitutto in chiave difensiva: non vanno tollerati alcun sopruso, alcuna forzatura normativa,
alcuna violazione dei diritti fondamentali.
E, poi, va costruita pazientemente una strategia alternativa che non conceda nulla all’ideologia
dell’avversario (per capirci: nessuna riedizione dello sciagurato memorandum con la Libia!) e che
sia capace di elaborare un piano economico sociale per la convivenza tra residenti e nuovi arrivati,
di regolarizzare gli irregolari (sul modello delle «grandi sanatorie» volute da Silvio Berlusconi nel
2002 e nel 2009) e di operare per una società la cui cultura e la cui identità non vengano cancellate,
bensì arricchite dal confronto con altre e nuove culture e identità.
Vent’anni fa Antonio Martino, economista e politico liberale e liberista, mi diceva: «Gli Stati Uniti
sono diventati grandi grazie al contributo della forza lavoro immigrata.
E, ricorda, si trattava in buona parte di forza lavoro irregolare. Ir-re-go-la-re!»

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print