antisionismo e antisemitismo
di Mauro Boarelli
in “Doppiozero” del 27 gennaio 2025
un quadro interpretativo semplificato e polarizzato che classifica in modo perentorio chiunque assuma una
posizione critica nei confronti della condotta di Israele come ostile all’esistenza stessa di quello
stato o come antisemita
Il conflitto tra Israele e Palestina ha intensificato il controllo sul discorso
pubblico. Istituzioni politiche e accademiche e organi di informazione – con poche eccezioni
(particolarmente rare nel panorama italiano) – hanno partecipato all’imposizione di un quadro
interpretativo semplificato e polarizzato che classifica in modo perentorio chiunque assuma una
posizione critica nei confronti della condotta di Israele come ostile all’esistenza stessa di quello
stato o come antisemita. Ogni possibilità di dibattito è preclusa: con un “antisemita” (non importa se
reale o immaginario) non si discute.
Con il suo libro Antisemita. Una parola in ostaggio (Bompiani, 2025), Valentina Pisanty rifiuta le
regole di questa rappresentazione e ne indaga le origini e il funzionamento, concentrandosi in
particolare sul “sequestro” della parola antisemita e sullo slittamento da un preciso significato
storico a un uso politico strumentale.
Il punto cruciale è individuato nella fusione tra il concetto di antisionismo e quello di antisemitismo,
praticata diffusamente con irresponsabile leggerezza. Questo processo di equiparazione necessita
della negazione della storicità di entrambi i termini. Solo questa rimozione, infatti, può permettere
di ridurre a sinonimi due termini che – in realtà – non sono affatto sovrapponibili, e di nascondere le
stratificazioni di significato che ciascuno di essi custodisce. Se è fondata la preoccupazione che
pezzi del tradizionale repertorio dell’antisemitismo possano oggi ricombinarsi dentro una cornice
antisionista favorendo rigurgiti antisemiti, è altrettanto evidente che l’equiparazione tra i due
concetti rafforza questa deriva, mentre una accurata distinzione la priverebbe della capacità di
espandersi in modo incontrollato.
Pisanty pone l’attenzione sul rischio che il processo di de-storicizzazione possa rinvigorire il
discorso razzista:
“Negare la storicità dell’antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista. Gli
antisemiti essenzializzano gli ebrei riconducendoli a uno stereotipo che ai loro occhi è scolpito
nell’eternità. Per reazione molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l’operazione a
valori invertiti, e ricostruiscono la propria identità di gruppo sul mito di uno scontro senza tempo”.
(pp. 36-37)
Questa osservazione – un’osservazione scomoda, che tocca nervi scoperti – evidenzia le
responsabilità di tutti coloro che, a qualsiasi livello, maneggiano senza cura – per ignoranza o,
viceversa, per intenzionale quanto miope scelta strategica – concetti che possono trasformarsi in
armi pericolose. Collocati al di fuori del tempo, cioè al di fuori della storia, risultano inservibili per
la comprensione di ciò che accade, ma possono essere agevolmente utilizzati per manipolare
l’opinione pubblica.
Non è certo una novità che la contesa intorno all’interpretazione storica avvenga anche sul controllo
delle definizioni. È agli inizi degli anni duemila che prende corpo l’idea di mettere a punto una
definizione prescrittiva di antisemitismo. Pisanty ricostruisce in modo dettagliato il lungo processo
da cui ha avuto origine la Definizione operativa di antisemitismo elaborata nel 2016
dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che da allora si è imposta – o pretende
di imporsi – come riferimento obbligato. Se la definizione proposta è piuttosto vaga, decisamente
ambigui sono alcuni degli esempi che il documento indica come comportamenti antisemiti, e che
potrebbero essere invece legittimamente interpretati – a seconda del contesto in cui si manifestano –
secondo altre chiavi di lettura. Il loro ruolo – ancora una volta – è quello di orientare il senso
comune verso l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo.
Il tentativo di affermare un monopolio sulla definizione di antisemitismo è strettamente connesso
alla disputa intorno al significato storico e all’eredità della Shoah. In un articolo di notevole valore
pubblicato dalla rivista “Gli asini” (n. 113/2024), Stefano Levi Della Torre ha messo a fuoco con
grande lucidità la portata del conflitto tra due diverse concezioni. La prima assume l’unicità della
Shoah come elemento che ne afferma il valore universale. In questo senso, “la memoria della Shoah
vale non solo per se stessa, ma anche a focalizzare l’attenzione su ogni altra «crudeltà di massa» del
passato e del presente al fine di mobilitare le coscienze e l’azione perché fatti simili non si ripetano
né per gli Ebrei né per altri.” La seconda afferma invece che “lo sterminio degli Ebrei è un fatto
estremo, tale che ogni commistione con persecuzioni, massacri e genocidi inflitti ad altri e in altre
situazioni riduce la percezione della sua unicità e della sua portata […]”. La prima sostiene che il
crimine commesso contro gli Ebrei sia stato un crimine contro l’umanità, e quindi la sua memoria
esprime sia un monito a riconoscere che il male estremo risiede nella nostra normalità, sia uno
stimolo ad agire perché nulla di simile possa ripetersi. La seconda – adottando una prospettiva
opposta – sostiene che la Shoah abbia rappresentato un crimine dell’umanità contro gli Ebrei, e in
questo modo chiude l’interpretazione entro uno spazio dominato dal vittimismo e dalla
sacralizzazione della Shoah.
L’analisi di Pisanty è quindi focalizzata su un aspetto specifico che deriva direttamente da questo
contrasto tra modi differenti di intendere la memoria della Shoah (la stessa autrice aveva già
affrontato il tema della “sacralizzazione”: Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la
Shoah, Bruno Mondadori, 2012). Più precisamente, l’oggetto del libro è il modo in cui una specifica
declinazione della memoria della Shoah viene trasferita da un piano culturale a un piano operativo,
nel quale assume la forma di prescrizioni e divieti. Sarebbe di grande interesse continuare l’analisi
indagando i modi in cui prescrizioni e divieti si depositano nel senso comune attraverso i meandri
dei social network e dei canali di informazione, lungo i quali gli indizi di antisemitismo vengono
diffusi senza controllo, amplificati, distorti, non di rado falsificati. Pisanty ne propone un assaggio
nelle pagine in cui ricostruisce minuziosamente la campagna orchestrata contro il leader laburista
britannico Jeremy Corbyn (a proposito della quale viene sottolineata la coincidenza con l’adozione
della Definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA).
Si tratta, in definitiva, della pretesa di “assumere il controllo della lingua”, come l’autrice scrive
nell’introduzione. Questa pretesa, naturalmente, non è una prerogativa del governo israeliano o
degli intellettuali che, in Europa e negli Stati uniti, semplificano concetti complessi piegandoli a
obiettivi politici contingenti (magari perdendo di vista, in questo modo, l’antisemitismo vero, che
non ha mai cessato di esistere e che rischia di tornare a espandersi, mentre gli occhi sono rivolti
nella direzione sbagliata). Herbert Marcuse aveva scritto pagine illuminanti al riguardo nel suo
saggio più celebre, L’uomo a una dimensione, pubblicato nel 1964. “Il linguaggio rituale-autoritario
– scriveva – si diffonde in tutto il mondo contemporaneo, nei paesi democratici come in quelli nondemocratici”, ed è un “linguaggio chiuso [che] non dimostra e non spiega, bensì comunica
decisioni, dettati, comandi”. E ancora:
“Gli elementi di autonomia, di scoperta, di dimostrazione e critica recedono dinanzi alla
designazione, all’asserzione, all’imitazione. […] il linguaggio tende ad esprimere ed a promuovere
l’identificazione immediata della ragione col fatto, della verità con la verità stabilita […]. Nei punti
nodali dell’universo di discorso pubblico, compaiono proposizioni analitiche autovalidantisi, che
funzionano come formule magico-rituali. Ficcate con un martellamento continuo nella mente
dell’ascoltatore, esse pervengono a chiuderla nel cerchio delle condizioni prescritte dalla formula”.
Anche in questo caso il concetto di “chiusura” è centrale, e la ricorrenza fa riflettere. Chiuso è il
linguaggio evocato da Marcuse, un linguaggio privato della sua funzione cognitiva in favore di un
ruolo meramente funzionale e operativo (e “la razionalità operativa – scrive ancora Marcuse – non
sa che farsene della ragione storica”). È chiusa la memoria della Shoah nella declinazione contestata
da Levi Della Torre, piegata su se stessa a difesa della propria identità di vittima. Ed è chiusa la
definizione di antisemitismo analizzata da Pisanty, costruita con l’intento di delegittimare e tacitare
le opinioni critiche nei confronti della politica di uno stato stigmatizzandole con un epiteto associato
a un comportamento sociale universalmente riconosciuto come inaccettabile (antisemita!),
indipendentemente da una verifica sulla verità di tale affermazione.
Chiusura è quindi il tratto che accomuna politiche della memoria e del controllo del linguaggio e
caratterizza aspetti cruciali della vita politica e sociale modellata nel corso di un lungo arco
temporale. Questa metamorfosi mostra ora il suo volto autoritario. Se la ristrutturazione del
linguaggio analizzata da Pisanty ha radici nel passato, l’aggressività con cui si manifesta ai nostri
giorni rappresenta un aspetto peculiare. D’altra parte non c’è da stupirsi: chiusura invoca
necessariamente censura, e prima o poi la censura arriva, anche nella forma più subdola
dell’autocensura, indotta dalla paura di prendere posizioni che verranno sistematicamente
stigmatizzate. Il dibattito pubblico sul conflitto tra Israele e Palestina – in particolare dopo il feroce
attacco di Hamas – è stato fortemente condizionato dal binomio censura/autocensura. Pisanty
analizza il caso della Germania, ricostruendo le tappe attraverso le quali, nel corso di un ventennio,
le “politiche della memoria […] hanno assunto i tratti di una religione di stato” (p. 119),
cristallizzando il lungo processo di elaborazione del senso di colpa della nazione in una serie di
imperativi categorici cui tutti devono uniformarsi, pena l’esclusione dalla vita civile (e quanto
questa esclusione sia concreta è testimoniato dai casi di censure e licenziamenti riportati nel
capitolo).
Il modo in cui il passato viene interpretato, trasmesso e utilizzato è sempre stato oggetto di una
disputa densa di conseguenze sociali. Nelle Tesi “sul concetto di storia” Walter Benjamin afferma:
“In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo
che è sul punto di soggiogarla”. La sua preoccupazione era rivolta al rischio che le società
conformino il proprio punto di vista (e quindi anche il rapporto con la propria storia e memoria) a
quello di chi detiene il potere. Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi somiglia molto a ciò che
Benjamin temeva. Nell’introduzione al suo libro, Valentina Pisanty sostiene che i processi di
costruzione di un linguaggio prescrittivo e autoritario relativo all’antisemitismo da lei analizzati
sono andati “di pari passo con la scalata al potere delle destre mondiali negli ultimi vent’anni” (p.
16). Benjamin ha scritto le sue riflessioni nei primi mesi del ‘40, inevitabilmente influenzato
dall’esperienza del nazismo. Un parallelismo su cui riflettere