non ogni critica a Israele è antisemitismo

antisionismo e antisemitismo

di Mauro Boarelli
in “Doppiozero” del 27 gennaio 2025

un quadro  interpretativo semplificato e polarizzato che classifica in modo perentorio chiunque assuma una
posizione critica nei confronti della condotta di Israele come ostile all’esistenza stessa di quello
stato o come antisemita

Il conflitto tra Israele e Palestina ha intensificato il controllo sul discorso
pubblico. Istituzioni politiche e accademiche e organi di informazione – con poche eccezioni
(particolarmente rare nel panorama italiano) – hanno partecipato all’imposizione di un quadro
interpretativo semplificato e polarizzato che classifica in modo perentorio chiunque assuma una
posizione critica nei confronti della condotta di Israele come ostile all’esistenza stessa di quello
stato o come antisemita. Ogni possibilità di dibattito è preclusa: con un “antisemita” (non importa se
reale o immaginario) non si discute.
Con il suo libro Antisemita. Una parola in ostaggio (Bompiani, 2025), Valentina Pisanty rifiuta le
regole di questa rappresentazione e ne indaga le origini e il funzionamento, concentrandosi in
particolare sul “sequestro” della parola antisemita e sullo slittamento da un preciso significato
storico a un uso politico strumentale.
Il punto cruciale è individuato nella fusione tra il concetto di antisionismo e quello di antisemitismo,
praticata diffusamente con irresponsabile leggerezza. Questo processo di equiparazione necessita
della negazione della storicità di entrambi i termini. Solo questa rimozione, infatti, può permettere
di ridurre a sinonimi due termini che – in realtà – non sono affatto sovrapponibili, e di nascondere le
stratificazioni di significato che ciascuno di essi custodisce. Se è fondata la preoccupazione che
pezzi del tradizionale repertorio dell’antisemitismo possano oggi ricombinarsi dentro una cornice
antisionista favorendo rigurgiti antisemiti, è altrettanto evidente che l’equiparazione tra i due
concetti rafforza questa deriva, mentre una accurata distinzione la priverebbe della capacità di
espandersi in modo incontrollato.
Pisanty pone l’attenzione sul rischio che il processo di de-storicizzazione possa rinvigorire il
discorso razzista:
“Negare la storicità dell’antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista. Gli
antisemiti essenzializzano gli ebrei riconducendoli a uno stereotipo che ai loro occhi è scolpito
nell’eternità. Per reazione molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l’operazione a
valori invertiti, e ricostruiscono la propria identità di gruppo sul mito di uno scontro senza tempo”.
(pp. 36-37)
Questa osservazione – un’osservazione scomoda, che tocca nervi scoperti – evidenzia le
responsabilità di tutti coloro che, a qualsiasi livello, maneggiano senza cura – per ignoranza o,
viceversa, per intenzionale quanto miope scelta strategica – concetti che possono trasformarsi in
armi pericolose. Collocati al di fuori del tempo, cioè al di fuori della storia, risultano inservibili per
la comprensione di ciò che accade, ma possono essere agevolmente utilizzati per manipolare
l’opinione pubblica.
Non è certo una novità che la contesa intorno all’interpretazione storica avvenga anche sul controllo
delle definizioni. È agli inizi degli anni duemila che prende corpo l’idea di mettere a punto una
definizione prescrittiva di antisemitismo. Pisanty ricostruisce in modo dettagliato il lungo processo
da cui ha avuto origine la Definizione operativa di antisemitismo elaborata nel 2016
dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che da allora si è imposta – o pretende
di imporsi – come riferimento obbligato. Se la definizione proposta è piuttosto vaga, decisamente
ambigui sono alcuni degli esempi che il documento indica come comportamenti antisemiti, e che
potrebbero essere invece legittimamente interpretati – a seconda del contesto in cui si manifestano –
secondo altre chiavi di lettura. Il loro ruolo – ancora una volta – è quello di orientare il senso
comune verso l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo.
Il tentativo di affermare un monopolio sulla definizione di antisemitismo è strettamente connesso
alla disputa intorno al significato storico e all’eredità della Shoah. In un articolo di notevole valore
pubblicato dalla rivista “Gli asini” (n. 113/2024), Stefano Levi Della Torre ha messo a fuoco con
grande lucidità la portata del conflitto tra due diverse concezioni. La prima assume l’unicità della
Shoah come elemento che ne afferma il valore universale. In questo senso, “la memoria della Shoah
vale non solo per se stessa, ma anche a focalizzare l’attenzione su ogni altra «crudeltà di massa» del
passato e del presente al fine di mobilitare le coscienze e l’azione perché fatti simili non si ripetano
né per gli Ebrei né per altri.” La seconda afferma invece che “lo sterminio degli Ebrei è un fatto
estremo, tale che ogni commistione con persecuzioni, massacri e genocidi inflitti ad altri e in altre
situazioni riduce la percezione della sua unicità e della sua portata […]”. La prima sostiene che il
crimine commesso contro gli Ebrei sia stato un crimine contro l’umanità, e quindi la sua memoria
esprime sia un monito a riconoscere che il male estremo risiede nella nostra normalità, sia uno
stimolo ad agire perché nulla di simile possa ripetersi. La seconda – adottando una prospettiva
opposta – sostiene che la Shoah abbia rappresentato un crimine dell’umanità contro gli Ebrei, e in
questo modo chiude l’interpretazione entro uno spazio dominato dal vittimismo e dalla
sacralizzazione della Shoah.
L’analisi di Pisanty è quindi focalizzata su un aspetto specifico che deriva direttamente da questo
contrasto tra modi differenti di intendere la memoria della Shoah (la stessa autrice aveva già
affrontato il tema della “sacralizzazione”: Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la
Shoah, Bruno Mondadori, 2012). Più precisamente, l’oggetto del libro è il modo in cui una specifica
declinazione della memoria della Shoah viene trasferita da un piano culturale a un piano operativo,
nel quale assume la forma di prescrizioni e divieti. Sarebbe di grande interesse continuare l’analisi
indagando i modi in cui prescrizioni e divieti si depositano nel senso comune attraverso i meandri
dei social network e dei canali di informazione, lungo i quali gli indizi di antisemitismo vengono
diffusi senza controllo, amplificati, distorti, non di rado falsificati. Pisanty ne propone un assaggio
nelle pagine in cui ricostruisce minuziosamente la campagna orchestrata contro il leader laburista
britannico Jeremy Corbyn (a proposito della quale viene sottolineata la coincidenza con l’adozione
della Definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA).
Si tratta, in definitiva, della pretesa di “assumere il controllo della lingua”, come l’autrice scrive
nell’introduzione. Questa pretesa, naturalmente, non è una prerogativa del governo israeliano o
degli intellettuali che, in Europa e negli Stati uniti, semplificano concetti complessi piegandoli a
obiettivi politici contingenti (magari perdendo di vista, in questo modo, l’antisemitismo vero, che
non ha mai cessato di esistere e che rischia di tornare a espandersi, mentre gli occhi sono rivolti
nella direzione sbagliata). Herbert Marcuse aveva scritto pagine illuminanti al riguardo nel suo
saggio più celebre, L’uomo a una dimensione, pubblicato nel 1964. “Il linguaggio rituale-autoritario
– scriveva – si diffonde in tutto il mondo contemporaneo, nei paesi democratici come in quelli nondemocratici”, ed è un “linguaggio chiuso [che] non dimostra e non spiega, bensì comunica
decisioni, dettati, comandi”. E ancora:
“Gli elementi di autonomia, di scoperta, di dimostrazione e critica recedono dinanzi alla
designazione, all’asserzione, all’imitazione. […] il linguaggio tende ad esprimere ed a promuovere
l’identificazione immediata della ragione col fatto, della verità con la verità stabilita […]. Nei punti
nodali dell’universo di discorso pubblico, compaiono proposizioni analitiche autovalidantisi, che
funzionano come formule magico-rituali. Ficcate con un martellamento continuo nella mente
dell’ascoltatore, esse pervengono a chiuderla nel cerchio delle condizioni prescritte dalla formula”.
Anche in questo caso il concetto di “chiusura” è centrale, e la ricorrenza fa riflettere. Chiuso è il
linguaggio evocato da Marcuse, un linguaggio privato della sua funzione cognitiva in favore di un
ruolo meramente funzionale e operativo (e “la razionalità operativa – scrive ancora Marcuse – non
sa che farsene della ragione storica”). È chiusa la memoria della Shoah nella declinazione contestata
da Levi Della Torre, piegata su se stessa a difesa della propria identità di vittima. Ed è chiusa la
definizione di antisemitismo analizzata da Pisanty, costruita con l’intento di delegittimare e tacitare
le opinioni critiche nei confronti della politica di uno stato stigmatizzandole con un epiteto associato
a un comportamento sociale universalmente riconosciuto come inaccettabile (antisemita!),
indipendentemente da una verifica sulla verità di tale affermazione.
Chiusura è quindi il tratto che accomuna politiche della memoria e del controllo del linguaggio e
caratterizza aspetti cruciali della vita politica e sociale modellata nel corso di un lungo arco
temporale. Questa metamorfosi mostra ora il suo volto autoritario. Se la ristrutturazione del
linguaggio analizzata da Pisanty ha radici nel passato, l’aggressività con cui si manifesta ai nostri
giorni rappresenta un aspetto peculiare. D’altra parte non c’è da stupirsi: chiusura invoca
necessariamente censura, e prima o poi la censura arriva, anche nella forma più subdola
dell’autocensura, indotta dalla paura di prendere posizioni che verranno sistematicamente
stigmatizzate. Il dibattito pubblico sul conflitto tra Israele e Palestina – in particolare dopo il feroce
attacco di Hamas – è stato fortemente condizionato dal binomio censura/autocensura. Pisanty
analizza il caso della Germania, ricostruendo le tappe attraverso le quali, nel corso di un ventennio,
le “politiche della memoria […] hanno assunto i tratti di una religione di stato” (p. 119),
cristallizzando il lungo processo di elaborazione del senso di colpa della nazione in una serie di
imperativi categorici cui tutti devono uniformarsi, pena l’esclusione dalla vita civile (e quanto
questa esclusione sia concreta è testimoniato dai casi di censure e licenziamenti riportati nel
capitolo).
Il modo in cui il passato viene interpretato, trasmesso e utilizzato è sempre stato oggetto di una
disputa densa di conseguenze sociali. Nelle Tesi “sul concetto di storia” Walter Benjamin afferma:
“In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo
che è sul punto di soggiogarla”. La sua preoccupazione era rivolta al rischio che le società
conformino il proprio punto di vista (e quindi anche il rapporto con la propria storia e memoria) a
quello di chi detiene il potere. Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi somiglia molto a ciò che
Benjamin temeva. Nell’introduzione al suo libro, Valentina Pisanty sostiene che i processi di
costruzione di un linguaggio prescrittivo e autoritario relativo all’antisemitismo da lei analizzati
sono andati “di pari passo con la scalata al potere delle destre mondiali negli ultimi vent’anni” (p.
16). Benjamin ha scritto le sue riflessioni nei primi mesi del ‘40, inevitabilmente influenzato
dall’esperienza del nazismo. Un parallelismo su cui riflettere

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la chiesa non scalda più il cuore e non cambia la vita – parola di papa

“la Chiesa è bloccata”

“parcheggiata dentro una religione convenzionale…”

di Andrea Filloramo 

La Chiesa è bloccata, parcheggiata dentro una religione convenzionale, esteriore, formale, che non scalda più il cuore e non cambia la vita”

Queste sono le parole chiare, semplici, lapidarie  di Papa Francesco con cui si oppone a quanti si dicono cattolici tradizionalisti, a quanti, cioè,  professano la dottrina e la prassi della Chiesa cattolica nella forma in uso prima del Concilio Vaticano II (1962-1965), deplorando gli aggiornamenti e le aperture  successive fatte  dagli ultimi Papi e auspicando o temendo che, come richiesto da più parti, ce ne siano ancora altre. 

Essi aderiscono alla dottrina cattolica come è esposta nel Catechismo di Pio X e praticano determinate devozioni pubbliche e private, che – come afferma Papa Francesco, non cambiano assolutamente la vita.  

Essi non pensano e molti di loro forse non sanno che il devozionismo, è cosa ben diversa dall’essere devoti e in effetti è – diciamolo con estrema  chiarezza  –  un frutto della crisi della fede. 

Ai vescovi conservatori statunitensi, che imputano  al Papa di aver impresso una svolta radicalmente progressista alla Chiesa cattolica, lo stesso Pontefice, nel corso di una intervista all’emittente televisiva “Cbs News, ” dice “E’ questo, un atteggiamento suicida, perché un conto è tenere in considerazione la tradizione, considerare le situazioni del passato, ma un altro è rinchiudersi in una scatola dogmatica” e ha precisato di riferirsi con l’epiteto di “conservatore” a quanti “si aggrappano a qualcosa e non vogliono vedere altro al di là di essa” 

    Sicuramente nessuno può negare che il cambiamento e l’innovazione, in ogni campo e in tutti, non sono di facile attuazione, non avvengono dall’oggi al domani, creano sempre ansia, mettono in stato di allerta, richiedono la capacità di fare scommesse audaci senza dare alcuna garanzia e la volontà di perseverare di fronte agli ostacoli, ma una certa parte della Chiesa Cattolica, quella clericale. sacerdotale, confessionale, chiamiamola pure sanfedista è fortemente incagliata in un dogmatismo astratto, che pietrifica la rivelazione, soffoca ogni istanza di novità, fa sempre arretrare e rifugiare nelle categorie della filosofia tomistica, considerata e rimasta ancora – qualunque cosa si pensi o si dica – la “philosofia perennis Ecclesiae”, cioè la filosofia imperitura della Chiesa.  

Non sono poche, quindi, le critiche, le osservazioni all’interno della stessa Chiesa, provenienti dallo stesso mondo clericale nel corso dei secoli, che – se osserviamo bene – si ripetono e sono sempre le stesse.  

Una cosa è certa: oggi non è più il tempo in cui a queste critiche, a questi giudizi e osservazioni, possa rispondere l’apologetica, che abbonda nelle omelie di molto preti, ossia il pensiero di teologi e scrittori di varie epoche, che si proponevano  di difendere la dottrina e l’autorità della Chiesa cattolica.     

Nella Chiesa il tema del rapporto tra passato e presente, rimane, come sempre è stato, uno dei più dibattuti e, probabilmente, finora irrisolti della nostra epoca.  

Interessante quanto il professore Marco Marzano osserva: “La Chiesa Cattolica trae la sua forza dalla sua formidabile continuità istituzionale, dal suo legame con un passato che essa cerca di rendere ogni giorno presente. Le fratture, le svolte, le discontinuità, gli strappi non le appartengono. Così come fondamentalmente ad essa estranee sono   l’umanesimo laico e la cultura dei diritti e delle libertà. Questa è la sua forza e questo è il suo limite. Chi si è illuso del contrario, di poter , dall’interno, trasformarla e stravolgerla o di farne, dall’esterno, una protagonista dei processi di liberazione ed emancipazione dell’umanità ha preso una solenne cantonata».  

Un semplice commento: “Se il vangelo è davvero «buona notizia», allora la fede cristiana non c’entra nulla con il pessimismo. Ciò non significa che la realtà non sia troppo spesso dura e dolorosa. Rimane il gravoso impegno e il coraggio di vedere come affrontarla”.

 

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il commento al vangelo della domenica

Luca è una persona seria, uno studioso, un credente. Non vende aria, non manipola o urla.Il suo mentore e maestro san Paolo, probabilmente, che lo ha accompagnato alla fede, gli ha chiesto di fare come Marco con Pietro e di scrivere un racconto su Gesù ad uso di chi, come lui, è pagano.Solo che Luca non è come Marco, o Matteo, non ha mai visto Gesù in vita sua. Come noi.

Allora, come abbiamo sentito, si è documentato, ha ascoltato i testimoni oculari, ha verificato le informazioni. Si è dato da fare. E tanto.

Perché la fede è una cosa seria. E Luca lo sa.

Porta rispetto per i suoi lettori, per noi. Per me.

Ha investito intelligenza e tempo perché possiamo renderci conto della solidità degli insegnamenti che abbiamo ricevuto.

Nel gioco al catastrofismo che sta avvelenando tutti, anche noi cristiani, in questo tempo di smarrimento in cui tutti siamo vittime e tutti siamo diventati aggressivi, sospettosi, dubbiosi, Luca ci offre un punto di vista diverso: vai alle origini, alle sorgenti, agli inizi. Alla Parola.

Sei confuso in questo tempo rissoso e volgare che fa crollare le certezze? Sei smarrito da qualche prete che rende poco credibile il Vangelo? Sconfortato dall’incoerenza di noi cristiani? Spaventato dal possibile nuovo ordine mondiale?

Non mollare la presa, non abbandonare la barca, torna al Cristo.

Segui Luca.

Fai come Esdra. Costruisci la tua fede sulla Parola.

Depressioni sante

Gli ebrei sono tornati dall’esilio in Babilonia da quasi un secolo ma non c’è traccia della rinascita. Violenza e anarchia si susseguono nella città ridotta a macerie e frettolosamente ricostruita. Bisogna intervenire, trovare un punto d’appoggio, qualcosa di condiviso.

Esdra, mandato da Artaserse, re di Persia, ha un’intuizione geniale. Raduna il popolo per un’intera giornata e solennemente fa leggere la Torah che, ormai, giaceva dimenticata nelle sacrestie del tempio distrutto. La reazione del popolo è straordinaria: ora hanno un orizzonte, una norma da seguire, un punto di vista condiviso, una Parola che Dio ha donato ed è stata dimenticata.

E che ora vogliono nuovamente accogliere, come facciamo noi in questa domenica dedicata alla Parola, secondo la volontà e la felice intuizione di papa Francesco.

È quello che possiamo fare noi, sostenuti dallo Spirito.

No, non è più il tempo dei trionfalismi e delle azioni di forza, siamo davvero rimasti un piccolo gregge, soprattutto nelle parrocchie. Ma la forza del vangelo ci riempie il cuore di gioia e di fiducia.

Noi sappiamo dove andare. E come. E celebriamo e viviamo la speranza di cieli nuovi e terra nuova in cui avrà stabile dimora la giustizia.

Prime parole

La liturgia cuce insieme l’introduzione di Luca con la prima parola pubblica pronunciata da Gesù.

Una parola pronunciata durante il servizio in sinagoga che Gesù frequenta abitualmente.

Non la snobba, non si sente migliore. Partecipa alla messa domenicale un po’ noiosa e frequentata, ormai, solo da persone anziane. Non si ritaglia una fede a sua misura (potrebbe farlo, è Dio!), vive la quotidianità in sana obbedienza.

La fede nasce e si coltiva con una sana propensione all’ascolto orante della Parola.

Due dettagli riportati da Luca ci incuriosiscono: è lui ad aprire il rotolo del profeta Isaia. Di solito era l’inserviente a farlo. Il messaggio è chiaro: solo in Gesù possiamo aprirci all’intelligenza delle Scritture, capire come l’Antico testamento fosse una preparazione alla venuta del Messia.

Alla fine della lettura chiude il rotolo e si siede.

Chiude il rotolo: ormai l’attesa del Messia si è conclusa. E si siede, come fanno i rabbini prima di insegnare. Non era difficile fare un commento: bastava mandare a memoria una delle interpretazioni fatte da qualche autorevole studioso e che circolavano negli ambienti delle sinagoghe.

Ma Gesù non fa commenti altrui. Proclama: quanto annunciato dal profeta Isaia si realizza qui, ora.

Isaia

Sono parole intrise di speranza, quelle di Isaia. Rivolte ad un popolo scoraggiato, in esilio, sconfitto. Nell’anima, anzitutto. Come la nostra società, come la nostra Chiesa che, pure, si è messa in cammino giubilare.

E il profeta, che aiuta a leggere gli aventi con lo sguardo di Dio, vola altissimo.

Dio lo ha mandato ad incoraggiare, a proclamare buone notizie, a liberare, a ridare vista.

In un mondo in cui tutti sono scoraggiati e rabbiosi.

In cui si parla solo di cattive notizie. In cui ci si contrappone.

In cui si vive schiavi delle proprie paure e delle proprie ossessioni.

Accecati dalla rabbia, dall’invidia, dalla bramosia.

Dio libera.

È un anno di grazia quello che sta iniziando. Come ogni anno. Come ogni tempo.

Questa è la nostra vita: l’opportunità di spalancare gli occhi dell’anima e di diventare liberi.

Ma non si tratta delle parole di un grande poeta e uomo di Dio rivolte ad un popolo di sbandati.

E nemmeno le parole che Gesù attribuisce a sé, nuovo profeta, nuovo Isaia.

Sono le parole che Dio ti sta sussurrando, amico lettore.

Oggi.

Oggi

Oggi si compie la salvezza, la liberazione, la consolazione.

Oggi è il tempo di Dio.

Oggi il Signore è qui.

Oggi puoi scoprire di essere amato, a prescindere, senza condizioni, e di poter amare.

Non quando le nostre chiese erano piene e la nostra Chiesa autorevole e influente (?). Non quando, da giovane, frequentavo quel gruppo con quel giovane viceparroco strabiliante. Non quando avevo una parrocchia vivace che mi aiutava e mi seguiva.

Oggi.

Con i troppi conflitti mondiali, la crisi economica, i ricchi arroganti, le frontiere blindate, le chiese svuotate, la violenza crescente, lo scoraggiamento dilagante, le contrapposizioni politiche.

Oggi è la salvezza.

Ditelo in giro.

Dite di Dio.

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il commento al vangelo della domenica

IL GIOCO DELL’ACQUA INNAMORATA

il commento i E. Ronchi al angelo ella seconda domenica del tempo ordinario

Gv 2,1-11

 

C’è festa grande, a Cana: il cortile è pieno di gente in quella notte di fiaccole accese, di canti e di balli.

Ci sono Gesù e sua madre e con loro la variopinta compagnia dei giovani seguaci saliti dai villaggi del lago.

L’intero Israele risuona del grido di morenti, schiavi, lebbrosi, e Gesù non interviene, va ad una festa, quasi giocando con dell’acqua e con del vino. Anziché asciugare lacrime, colma le coppe.   

Deve esserci qualcosa di molto importante se questa è la prima pennellata del quadro della salvezza. Il Vangelo chiama questo il “principe dei segni”: se capiamo Cana, capiamo gran parte del Vangelo.

Giovanni non parla di miracolo. Forse ha paura che la gente corra dietro ai maghi, e Gesù non lo è: i suoi sono segni, frecce che indicano una direzione, un senso ulteriore. Quel giorno Gesù scende nel pozzo profondo, là dove la vita inizia a battere il tempo seguendo il ritmo dell’amore.

A un certo punto della festa finisce il vino, simbolo biblico dell’amore. L’amore è sempre così poco, così a rischio, così raro.

Quante volte ci viene a mancare quel “non so che” di gioia, di passione, di sapore per far navigare questa fragile barca che è il nostro cuore. Mancano forse piccoli perdoni, piccole tensioni da chiarire, piccoli gesti di cura. Manca il buon vino.

Anche la relazione amorosa tra l’umanità e Dio si trascina stancamente, senza più gioia.

Cosa fare? Lo suggerisce Maria: Qualunque cosa vi dica, fatela! Sono le sue ultime parole, poi non parlerà più: Fate il suo Vangelo, tutto, e si riempiranno le anfore.

Di un vino migliore, come assicura il maestro di tavola: Tutti servono il vino buono all’inizio. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora.

A noi pare che questa sia la logica delle cose: l’entropia, la diminuzione, il decadimento progressivo, lo spegnersi del calore.

Il vangelo di Cana ci regala una visione controcorrente.

Non importa quali sono stati gli amori che hanno nutrito la tua esistenza, fecondi o sterili, stabili o lacerati, gloriosi o miseri, o forse entrambe queste cose al tempo stesso.

Quali che siano stati, un giorno Gesù se ne farà carico, anzi se ne è già fatto carico, se solo hai deposto le loro anfore di pietra davanti a Lui.

E li trasformerà in una realtà infinitamente migliore.

Con grande sorpresa mia che vedevo le cose finire e l’amore spegnersi; con grande sorpresa di tutti i commensali: Pensavamo di avere gustato il vino migliore all’inizio, pensavamo di averlo già finito, quello bevuto ieri pensavamo fosse il vino migliore.

E invece no, ancora una volta, per un’ultima volta Gesù ripeterà il miracolo di Cana, trasfigurando ogni nostro amore.

Avrà conservato il vino migliore per dopo, e per i secoli dei secoli. E questa è la speranza grande che accende ogni volta il segno di Cana, il principe dei segni!

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una riforma della chiesa a partire dalla liturgia

la Chiesa va riformata con coraggio

di ENZO BIANCHI

Abbiamo seguito tutto il percorso sinodale e, quindi, anche la celebrazione a Roma in due tappe del Sinodo voluto da papa Francesco come innovativo, inizio di una vera riforma, che speriamo sia ripresa nei prossimi anni.

Perché sarà un Sinodo certamente dei vescovi della Chiesa di Dio, ma sarà anche un Sinodo che avrà come soggetto il popolo di Dio sotto la guida dei pastori. Papa Francesco ha avuto coraggio e ha mostrato il suo carisma profetico che lo pone davanti a un gregge che, in buona parte, fatica ancora a seguirlo. Questo spiega perché nell’itinerario sinodale si sono accese attese e speranze che poi il Papa stesso ha dichiarato legittime, ma ancora bisognose di riflessione, di ricerca. E, soprattutto, di maturazione nel popolo che è la Chiesa.

Occorrerà anche affrontare la novità dell’emergenza delle diverse culture presenti tra i cattolici; culture che, di fatto, determinano in modo diverso l’etica, soprattutto ispirata dalla parola di Dio e dalla grande tradizione. Sarà sufficiente la formula dell’ “armonia delle diversità”, o delle “diversità riconciliate” per confermare l’unità certamente plurale, ma unità della fede?

Dopo decenni — i decenni del post-Concilio! – in cui il magistero non osava parlare di riforma della Chiesa, e ricorreva all’espressione renovatio, “rinnovamento”, papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, ha fatto risuonare questa parola sulle sue labbra senza paura. E l’ha indicata come un’urgenza, convinto che la “riforma” sia una dinamica salutare della vita del cristiano e della vita della Chiesa per tentare di ritornare con fedeltà al Vangelo.

E noi siamo convinti che se la Chiesa non si muove con coraggio nel senso della riforma, sempre più si troverà in una aporìa (l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema), nella quale perderà ogni sapore come il sale della parabola evangelica raccontata da Gesù. Riforma non è rivoluzione continua, non è brama di novità a ogni costo, ma risposta ai segni che vengono dalla storia e che richiedono un modo nuovo di vivere la Chiesa, di predicare il Vangelo, di stare nel mondo.

C’è riforma quando viene affermato radicalmente il primato del Vangelo su tutto; quando si conserva il tesoro prezioso del Vangelo; quando si lasciano cadere le ricchezze non necessarie in nome della carità. Per questa convinzione, in queste pagine della rivista, vorremmo umilmente — accettando di essere incompleti e anche di commettere degli errori nel delineare le forme del futuro —, cercare di riflettere e indicare alcune possibilità di riforma, pronti ad accogliere anche le correzioni da parte dei pastori e da parte di cristiani profetici, dotati di chiaroveggenza evangelica più di noi.

E cominciamo, dunque, con la liturgia che secondo me appare la realtà più ingessata, quasi imbalsamata, sempre meno eloquente e significativa per i credenti di oggi. Purtroppo, la riforma del concilio Vaticano II ha scatenato una reazione fino a produrre un doloroso scisma, che perdura a distanza di sessant’anni. E la Chiesa, come tramortita e spaventata, si è sentita in difficoltà a continuare la riforma. È risuonata a un certo punto una formula beata: “riforma delle riforme”, ma avendo il segno di un ritorno al passato non ha certo giovato.

Regna, dunque, la paura di cambiare qualcosa nel rituale. E — va anche detto — se uno osa farlo, l’autorità interviene in modo pesante… No, la liturgia deve oggi essere “celebrata altrimenti”! Certo, il celebrante deve essere un presbitero serio, preparato liturgicamente, che non innova tanto per innovare, che non si presenta come un attore teatrale, ma che, con discernimento e nella fedeltà al testo prescritto, innova parole e segni là dove sono necessari. L’impressione che molti hanno è che oggi la liturgia interessi poco alle autorità della Chiesa: queste sono preoccupate che si segua e si osservi pedissequamente il rituale prescritto! Viene qui da domandarsi se l’assemblea non desideri una celebrazione davvero più adatta alla sua realtà.

Si ha l’impressione che all’estero siano molti i tentativi di rinnovamento della celebrazione della messa, soprattutto in Belgio e in Francia (penso a La Messe qui prend son temps, presso la chiesa di Saint Ignace, a Parigi, e alle celebrazioni di Gabriel Ringlet in Belgio), mentre in Italia si ha il timore e credo anche la pigrizia mista a una scarsa fiducia nei cambiamenti. La “messa altrimenti” non è un’altra messa, ma è la messa di sempre, nella quale trovano posto alcuni cambiamenti di parole, linguaggi e segni che dicono però sempre la stessa realtà: l’eucaristia, la cena del Signore! E allora oso per una riforma indicare alcuni punti, a cominciare da quelli che, secondo me, sono più necessari.

Innanzitutto, perché non mutare le collette “sulle offerte”, che hanno un linguaggio tipicamente medioevale e abitualmente si rivolgono a Dio in un atteggiamento e con parole che non sono quelle dei figli ma dei servi dei poteri mondani? E così per molte collette del “dopo la comunione”, il linguaggio eucologico del Messale è troppo segnato da venerabili e antiche origini, poco comprensibile per i partecipanti all’eucaristia.

Anche i prefazi possono essere formulati in modo meno dogmatico e più esistenziale. Non è un caso che nei sussidi per la Messa siano presenti prefazi che sono ricchi di messaggio e nel contempo collocano le preghiere eucaristiche nel contesto in cui l’assemblea vive.

Ma si abbia anche il coraggio di mutare alcune espressioni delle anafore, o preghiere eucaristiche: queste non sono intoccabili, non sono parola di Dio, sono state donate alla Chiesa in tempi e culture differenti. Diverse sono le espressioni che insistono in modo ossessivo sul sacrificio (nel Messale italiano addirittura: «… in sacrificio per noi» appare nelle parole dell’Istituzione, non presenti nel testo originale latino!). E veramente faticose sono le espressioni nelle quali si chiede a Dio: «Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa la vittima immolata per la nostra redenzione» (cf Preghiera eucaristica III). Inoltre, non ci si rivolge a Dio come alla Maestà, dopo averlo invocato come Padre!

Ma sarebbe anche venuto il tempo di rendere la celebrazione eucaristica non più un faccia a faccia, come avviene adesso, tra presbitero presidente dell’assemblea e i fedeli partecipanti. Che senso ha che il presbitero, a differenza dei partecipanti alla messa, non sia rivolto anche lui verso l’altare, verso l’abside, come tutti? Questo faccia a faccia stanca e fa del presbitero un protagonista, non colui che guida l’assemblea.

Questi, quando entra per tutti i riti iniziali — atto penitenziale, inno del giorno, collette… — dovrebbe stare o in testa o in fondo all’assemblea, e comunque come l’assemblea rivolto verso l’abside (altare, croce), e soltanto dopo salire al seggio per ascoltare le letture. Sale all’altare e sta rivolto verso l’assemblea dall’offertorio alla comunione ma poi scende, e già la preghiera “dopo la comunione” la recita rivolto anche lui verso l’abside.

A ragione i tradizionalisti dicono versus Dominicum, “verso il Signore”. Questa struttura è stata prassi liturgica della comunità di Bose fin dal 1971, ottenendo l’accettazione della gente che vede tutti i membri del popolo di Dio che quando pregano sono rivolti verso il Signore.

Occorre un vero laboratorio che ricerchi, studi e produca testi. E che dia inizio a una riforma liturgica, senza paura. Altrimenti, presto non ci saranno più molti frequentatori della messa: anche i più vecchi, tridentini di formazione come me, ne sentono il bisogno!

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l’attualità del Cantico delle Creature di s. Francesco che compie ottocento anni

Il Cantico delle Creature ha 800 anni, testo moderno che risponde alla domanda: chi è l’Uomo?

Ha 800 anni ma il peso di tutti questi secoli non si avverte. Il Cantico delle Creature, primo poema in lingua volgare i cui versi sono composti sul modello dei salmi biblici di Davide, resta inossidabile, di una attualità inusitata, perché dotato di una dimensione profonda, quasi vertiginosa, capace di dare un senso alla più grande e importante domanda esistente: chi è davvero l’Uomo?

San Francesco quando compone il Cantico (detto anche Cantico di Frate Sole) sente che è alla fine. Inizia ad elaborarlo nell’ultimo biennio della sua vita (1225-1226), sente ormai che le sue forze stanno venendo meno, si trova in una condizione fisica e personale di totale sofferenza. È stigmatizzato, quasi cieco, vive al buio quasi da eremita a San Damiano in una celletta fatta di stuoie, piena di topi che lo tormentavano di giorno e di notte e, secondo le cronache, lo disturbavano anche durante la preghiera. In questo stato lui immagina il potentissimo legame tra tutte le cose viventi, la natura, il cosmo. La rete delle reti. “Laudato sì, mi Signore, per sora Luna e le stelle: in celu l’hai formate clarite preziose e belle”.

Francesco, il “Piccolino”, come si faceva chiamare dai suoi compagni, non è di certo come ce lo ha trasmesso Franco Zeffirelli nel bellissimo Fratello Sole Sorella Luna, con l’aitante Graham Faulkner che corre vigoroso nei campi di papaveri, proiettando di questo santo medievale un’icona romantica e un po’ patinata. In realtà Francesco è un uomo assai sofferto, tenacemente attaccato al convincimento di dover lasciare ai suoi fratelli una visione mistica e profetica capace di trasmettere ai suoi contemporanei il collegamento tra il Creatore e le creature, anche le più piccine.

ERESIA

E non è proprio un dettaglio, visto che in quel periodo il mondo cristiano è pesantemente segnato dall’eresia catara che spopola e sta portando avanti l’idea estremista di una natura maligna, dove tutto è in preda al demonio.

Francesco oltre a lasciare la Regola francescana e il suo testamento affida ai suoi seguaci anche questa poesia immortale, il Cantico, impegnandoli moralmente a cantarlo in ogni dove e a diffonderlo urbi et orbi.

CONTRAPPOSIZIONE

«Laudato sì mio Signore per sor’Acqua, la quale è multo utile, et humile e preziosa e casta. Laudato sì mio Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini la notte: et ello è bello e iocundo e robusto e forte». L’italiano dei versi è ovviamente nascente. L’autore ricorre volutamente al volgare proprio per essere in contrapposizione con il latino che resta la lingua utilizzata dai dotti e delle élite. Lui, invece, vuole seguire un filo conduttore immediato e semplice, privo di intermediari, come se avesse voluto rimarcare l’urgenza di diramare con più efficacia il messaggio della fratellanza con il Tutto. Il Cantico esprime ammirazione per la bellezza, incoraggia i rapporti pacifici, incalza il perdono ma pure l’accettazione della sofferenza che resta un terreno pieno di mistero.

LA MORTE

L’ideologia francescana delinea chiaramente il superamento della contrapposizione medioevale tra il mondo terreno inteso come regno del male e la realtà ultraterrena. Francesco riconosceva il segno dell’amore divino in tutti gli aspetti della natura (il sole, la luna, le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la terra), e anche nelle realtà piu umili e persino dolorose (per esempio la morte).

In quel periodo l’amore per la natura non era di certo quello che coltiviamo oggi a seguito della crisi climatica, poiché veniva vista come una realtà matrigna e ostile: bastava davvero poco per distruggere il lavoro dei campi e gettare nella miseria intere comunità. Francesco però riesce ad introdurre una diversa prospettiva.

«Altissimu, onnipotente, bon Signore» i tre titoli che aprono il poema anticipano il mistero di Dio creatore che Francesco contempla e predica. Di recente padre Guidalberto Bormolini e il poeta David Rondoni hanno scritto a quattro mani un libro intitolato Vivere il Cantico delle Creature in cui sottolineano che spiritualità cosmica e la spiritualità cristiana non sono assolutamente in contraddizione e che Francesco non fa altro che riprendere il filo tracciato dai Padri della Chiesa, i quali consideravano l’unità del mondo come un tema essenziale.

AMORE

Persino il tema della morte («Laudato sì mio Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skappare») appare come un accompagnamento alla fine naturale poiché inserita dentro a un Tutto e verso un’altra dimensione.

«È però anche un canto d’amore, perché amore è immortalità, o meglio è sostanza divina. Ben a ragione il Cantico delle Creature si conclude chiamando la morte sorella, perché non ci è nemica. La morte non è all’opposto della vita, ma è la porta della vita stessa» ha sottolineato padre Bormolini. Certamente ad 800 anni di distanza il messaggio del Cantico resta inalterato e moderno dicendo che l’intero cosmo è dentro di noi, e che se sperimentiamo la nostra spiritualità abbiamo accesso ad esperienze che ci collegano al divino, insegnandoci ad elevarci per protenderci verso la visione cristiana di salvezza. Dopo il centenario del primo presepe a Greccio e delle Sacre Stimmate a La Verna le famiglie francescane, unitamente alla diocesi e alla città di Assisi hanno avviato le celebrazioni del centenario del Cantico, il primo appuntamento si aprirà l’11 gennaio e per tutto l’anno sono in programma altri eventi commemorativi.

Assisi, via all’ottavo centenario del Cantico delle Creature

11 GEN – Si è svolta ad Assisi la solenne apertura dell’ottavo centenario della composizione del Cantico delle Creature di San Francesco, svoltasi tra il Santuario San Damiano e il Santuario della Spogliazione, per poi concludersi sulla tomba del Santo nella Basilica di San Francesco.   All’evento hanno partecipato tutti i rappresentanti della Conferenza della Famiglia francescana e monsignor Domenico Sorrentino, vescovo delle diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e di Foligno, oltre ai rappresentanti dell’amministrazione comunale che ha sostenuto l’iniziativa.

Fra Mauro Botti, guardiano del Santuario di San Damiano, ha fatto gli onori di casa.

“Il messaggio di Francesco ha superato i confini della Famiglia francescana – ha dichiarato fra Massimo Fusarelli, ministro generale dell’Ordine dei frati minori – e dopo 800 anni continua a ispirare molti uomini e donne di buona volontà, sia che lo leggano come poesia, come lode cristiana o come preghiera ecumenica o interreligiosa”.

Fra Francesco Piloni, ministro provinciale di Umbria e Sardegna, ha dato l’avvio ufficiale al centenario, nella sala del Cantico, adiacente al giardino nei pressi del quale era la celluzza di stuoie, che ospitò il Santo di Assisi: “Nonostante la cecità che segnava gli ultimi anni della sua vita – ha sottolineato – il Cantico ha lo sguardo di fede profonda di chi riconosce la bellezza del creato come riflesso della perfezione divina”.

Dopo la proclamazione del Cantico, a turno i ministri generali ne hanno commentato i passi.

Nel Santuario della Spogliazione fra Simone Calvarese, ministro provinciale dei Frati minori cappuccini del centro Italia ha presieduto la seconda parte della celebrazione. Qui si è voluto ricordare che Francesco, nella sua danza di lode, fa entrare l’uomo in altri due momenti dell’esistenza: il perdono e la morte.

Il vescovo Sorrentino ha concluso la celebrazione ricordando come le due ultime strofe del Cantico siano state concepite in Episcopio. “Il mio desiderio – ha detto – è che, per tutta la comunità ecclesiale e di rimbalzo per quella universale, questo inno, anche da questo Santuario, possa diventare il Cantico della pace nel mondo e tutti lo possano accogliere e cantare ogni giorno”. Nella chiesa Inferiore della Basilica è stata esposta la copia più antica del Cantico, custodita nella Biblioteca del Sacro convento. 

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il commento al vangelo della domenica

E IL CIELO FIORI’

il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica del Battesimo dii Gesù

Lc 3,15-16.21-22

Il popolo era in attesa, sognava il messia liberatore, e si ritrova un uomo ai margini del deserto, prosciugato dal sole e dai digiuni, solo voce nel vento.

Anche noi siamo in attesa, ma il nostro è un tempo in cui i sogni ci sono stati rubati. Giovanni invece li aveva riaccesi, e la gente sciamava da Gerusalemme al Giordano. Anche oggi non sono i profeti che mancano, ciò che manca è l’ascolto.

Sei tu il Messia? E Giovanni scende dall’altare delle attese della gente, per dire: no, non sono io. “Viene dopo di me colui che è più forte di me”. Di quale forza? Lui è il più forte perché usa parole di vita, perché ha un fuoco che parla al cuore e così lo seduce, come profetizzava Osea.  

Il vangelo di oggi ci incalza: Io sono solo acqua, ma deve arrivare molto di più, un fuoco nel quale saremo immersi. Giovanni che sogna aie bruciate, vento che spazza la pula, incontra un Dio che non conosceva: Gesù, che non è solo buono. È esclusivamente buono, che in fila con gli altri scende al fiume.

Luca non racconta il battesimo, ma più precisamente ciò che accade dopo. “Gesù stava in preghiera, e il cielo si aprì!” Conseguenza meravigliosa, effetto della preghiera: tu preghi e Dio apre il cielo.

La risposta alla preghiera non sono le grazie che noi chiediamo, ma lo sfondamento del cielo chiuso, una feritoia liquida d’azzurro. E fiorisce un azzurro che ristora, un azzurro che non mente: contempli la tua vita dalle stelle, la interpreti dall’alto. 

Infatti dal cielo scende un volo di parole: Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento.

FIGLIO, forse la più bella e la più forte tra le parole umane, che illumina un legame per sempre, la radice, la cura, la gioia, la tenerezza generativa, l’amore che non cede e non si volta indietro.

‘Amato’ è la seconda parola. Prima che tu risponda, che tu dica sì o no, il tuo nome per Dio è “amato”. Senza clausole e senza condizioni. Che io sia amato non dipende da me, per fortuna, dipende da Lui, dal suo amore asimmetrico e incondizionato.

‘Mio compiacimento’ è la terza parola. Qui possiamo sbirciare dentro il cuore di Dio: c’è in lui un brivido di piacere. Un Dio che dice è bello che tu ci sia! Tu rendi il mondo più bello, per il solo fatto di esistere. Figlio mio, ti guardo e sono felice. Sono felice di essere tuo padre.

E allora smettiamola di sentirci sempre sotto esame. Non siamo sotto osservazione, ma sotto abbraccio. Non siamo sotto indagine, ma sotto un volo di parole bellissime, sotto un abbraccio infinito.

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una strage di bambini a Gaza

 

a Gaza è in corso una strage di bambini, un precedente pericoloso per
tutta l’umanità

di Guido Rampoldi
in “Domani” del 8 gennaio 2025

La denuncia all’Onu della dottoressa statunitense Tanya Haj-Hassan, medico di terapia intensiva
pediatrica, per alcuni mesi volontaria nell’ospedale di Gaza: «Cosa resta da dire per convincere il
mondo a reagire?»
Secondo fonti militari israeliani citate dal Jerusalem Post, a Gaza un numero rilevante di miliziani
palestinesi sono minorenni privi di un reale addestramento: Hamas sta diventando un esercito di
ragazzini. Grazie ai nuovi ingressi avrebbe in parte ovviato alle perdite subite e oggi, sommata
all’organizzazione gemellata, la Jihad, conterebbe 12mila effettivi (20-23mila secondo le fonti
interpellate dalla tv israeliana Channel 12). Piccoli gruppi continuano a operare anche nel nord di
Gaza, benché quel territorio sia stato spopolato dall’Idf con operazioni che israeliani autorevoli – un
ex premier, un ex capo di stato maggiore, il quotidiano Haretz – descrivano esplicitamente come
«pulizia etnica» (termine, insieme ad “apartheid israeliano”, tuttora tabù per il timoroso
opinionismo italiano).
Se stiamo al proposito dichiarato dal governo Netanyahu – distruggere Hamas – la guerra è fallita.
La brutalità dell’intervento ha prodotto per reazione stuoli di guerrieri in erba decisi a vendicare i
lutti e le sofferenze di cui sono state vittime e testimoni. Per intuirlo sono perfino superflui i report
sugli “acts of genocide” commessi dall’Idf (l’ultimo, prodotto da Amnesty, è stato ripreso con
evidenza da New York Times e Washington Post; scarsa o nulla l’eco sulla stampa italiana).
La strage dei bambini
È sufficiente la testimonianza resa alle Nazioni Unite dalla statunitense Tanya Haj-Hassan, medico
di terapia intensiva pediatrica, per alcuni mesi volontaria nell’ospedale di Gaza. Il suo racconto vale
un centinaio di editoriali sul tema.
«Come uno dei pochi osservatori internazionali a cui è stato permesso di entrare a Gaza, posso
dirvi: passate solo 5 minuti in un ospedale e diventerà dolorosamente chiaro che i palestinesi
vengono massacrati intenzionalmente, affamati e spogliati di tutto il necessario per vivere (…) Intere
famiglie sono state cancellate. I nostri colleghi del settore sanitario e del settore umanitario vengono
uccisi in numero da record. Abbiamo curato innumerevoli bambini che hanno perso intere famiglie,
un fenomeno così frequente a Gaza che è stato dato loro un nome specifico: “Bambino ferito senza
famiglia sopravvissuta”. Abbiamo tenuto le mani dei bambini mentre esalavano il loro ultimo
respiro, ed eravamo l’unica persona, a loro sconosciuta, che potesse tentare di confortarli».
Ospedali nel mirino
Significativa è anche la premessa che Tanya Haj-Hassan ha anteposto alla sua deposizione: «Prima
di condividere ciò di cui sono stata testimone, voglio citare il mio collega dottor Mohammed
Ghanim, un giovane medico del pronto soccorso che è stato ucciso un mese fa da un drone
israeliano (…): “Ho evitato di diffondere storie tragiche per due motivi. La prima: so che non serve
a niente. La seconda: non riesco a trovare le parole per descrivere quel che accade”. Provo la stessa
sensazione. Cosa resta da dire per convincere il mondo a reagire? (…) Non ci sono parole che
trasmettano adeguatamente quanto perversa sia questa aggressione. Ricordo Mohammed, 5 anni,
con una ferita alla testa, probabilmente un colpo d’arma da fuoco, che è morto al pronto soccorso
perché non c’erano letti in terapia intensiva. (…) O il tredicenne Amer che aveva subito un grave
trauma al collo dopo che la sua casa è stata bombardata e continuava a chiamare sua sorella. Non
l’aveva riconosciuta nella ragazza che era nel letto accanto a lui, le ustioni l’avevano resa
irriconoscibile. Dopo la sua morte Amer restò l’unico membro sopravvissuto della sua famiglia.
Ricordo la sua voce dolce che mi sussurrava all’orecchio: “Vorrei morire con loro. Tutti quelli che
amo sono in paradiso. Non voglio più essere qui”. (…) Tutto ciò che è necessario per sostenere la
vita umana è sotto attacco a Gaza, e lo è da molto tempo: acqua, cibo, riparo, istruzione, assistenza
sanitaria, energia, fognature e servizi igienico-sanitari. Tutte le università di Gaza sono state
distrutte, comprese le uniche due scuole di medicina in cui insegnavo (…).
Immaginate questi bambini, le madri, i padri che cercano disperatamente cure mediche e speranza
in uno dei pochi ospedali rimasti a Gaza. Poi si spegne l’elettricità. L’ingresso dell’ospedale viene
colpito da un missile. L’ospedale ha ricevuto (dagli israeliani) l’ordine di evacuazione. È
apocalittico. Quello stesso ospedale – dove ho assistito a ciascuna di queste orribili tragedie – è
stato preso di mira più volte negli ultimi 14 mesi, così come praticamente ogni altro ospedale di
Gaza. Gli ospedali e gli operatori sanitari sono stati sistematicamente presi di mira dall’esercito
israeliano fin dal primo giorno. Uccisi, imprigionati, torturati. Ho incontrato personalmente
operatori sanitari che hanno descritto torture fisiche, psicologiche e sessuali inflitte dall’esercito e
dalle guardie carcerarie israeliane. Una delle mie infermiere, Saeed, è stata rapita e detenuta per 53
giorni. Ha descritto le forme più orribili di tortura. (…).
Il dottor Ghanim, che ho citato prima, ha scritto in aprile, 6 mesi prima di essere ucciso:
“(…)Eravamo 13 medici al pronto soccorso, tutti siamo stati torturati a diversi livelli e 6 sono stati
feriti o imprigionati. Sto parlando solo del dipartimento di cui ero responsabile e non sto parlando
dei medici di altri dipartimenti che sono stati assassinati dopo essere stati arrestati o dei medici la
cui sorte è ancora sconosciuta”. Oltre mille operatori sanitari sono stati uccisi a Gaza. Altre
centinaia sono stati detenuti in Israele. Almeno quattro sono stati uccisi durante la prigionia (…)
Molti sono stati uccisi mentre cercavano di salvare i feriti in quelli che sono tristemente noti come
gli attacchi israeliani doppi e tripli – un posto viene colpito, poi colpito di nuovo una seconda e una
terza volta quando i soccorritori sono arrivati per soccorrere le vittime. (…)».
Gaza, un precedente per l’umanità
Per minimizzare questa testimonianza ci vengono offerti vari espedienti. Innanzitutto si dirà che la
dottoressa Tanya Haj-Hassan, avendo un cognome arabo, dev’essere certamente un’antisemita,
accusa però svuotata dall’uso grossolano e meccanico che ne fanno anche in Italia vari esponenti
della multiforme destra ebraica: se tutti sono in odore di antisemitismo (perfino il papa, per aver
espresso l’auspicio che la giustizia internazionale indaghi quel che Israele combina a Gaza) non lo è
nessuno, può concludere la giudeofobia autentica. Un metodo meno ottuso consiste nel buttarla
sulla visione prospettica.
Si dirà: se l’Asse del Male minaccia la nostra civiltà (giudaico-cristiana, s’intende) che altro sono se
non un dettaglio i tormenti inflitti alla popolazione di Gaza? E poi quel conflitto non è diverso da
qualunque altro conflitto, dunque perché commuoversi per i bambini di Gaza? È la guerra, signora
mia, cosa si aspettava? Rifletta, quale esercito non ha commesso crimini di guerra?
In realtà qui si parla soprattutto di crimini contro l’umanità, infamie piuttosto rare in questo secolo,
tali da autorizzare la spaventosa profezia che ci consegna Tanya Haj-Hassan: «Il precedente che è
stato stabilito a Gaza si diffonderà ovunque in tutto il mondo. Segna la fine dello stato di diritto.
Come ha detto un mio collega, un volontario: “Quando ero a Gaza, mi sembrava di assistere al
preludio della fine dell’umanità”. Se la solidarietà con i tuoi simili non è una ragione sufficiente per
agire, pensa a come questo si ripercuoterà su di te. La domanda con cui vi lascio è: cosa stiamo
rischiando noi tutti?».

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la condizione pericolosa in cui versa il mondo – davvero una guerra mondiale a pezzi

il mondo è in fiamme

Intervista a Enzo Bianchi a cura di Alex Corlazzoli
in “il Fatto Quotidiano” del 4 gennaio 2025

ENZO BIANCHI

Ha trascorso il Natale con i suoi fratelli, le sue sorelle e con alcuni ospiti cucinando per
tutti specialità piemontesi come il bunet, un dolce a base di uova, zucchero, latte, cacao, amaretti
secchi e liquore. Si è dedicato a riflettere, a pensare, a studiare raccolto nella sua cella alla nuova
fraternità di Casa della Madia, ad Albiano d’Ivrea, a pochi chilometri dalla comunità di Bose che
ha fondato nel dicembre del 1965 per poi essere costretto ad allontanarsi nel 2020 a causa di
un decreto papale mai compreso fino in fondo da molti.
Quando Enzo Bianchi parla – nonostante gli 82 anni da compiere il 3 marzo – ha lo sguardo di un
bambino e declina i verbi al futuro come se avesse davanti una vita intera. La sua è un’attenzione
costante all’attualità, alla politica, alle crisi internazionali, alle guerre. Con l’arrivo del nuovo
anno ilfattoquotidiano.it lo ha incontrato per fare con lui un quadro della situazione politico-sociale
e per parlare dell’Anno santo cui ha dedicato la sua ultima fatica editoriale: Lessico del
Giubileo (edizioni Edb).

Padre Bianchi, il Giubileo che ha preso il via in questi giorni con l’apertura della Porta Santa
non rischia di apparire oggi come un evento anacronistico, fuori dai tempi per chi è lontano
dalla Chiesa o persino una manifestazione romanocentrica?

Indubbiamente il Giubileo presenta dei problemi. Il più grande è quello ecumenico perché essendo
l’anno in cui si ricorda il concilio di Nicea, dunque una professione di fede di tutta la Chiesa, il
Giubileo torna a dividerci con i cristiani della riforma perché ancora una volta si parla di
indulgenze, una questione per la quale sembrava ci fosse stato un accordo tra Chiesa e riformati.
Non parliamo degli ortodossi che si sentono estranei all’anno giubilare, non partecipano.
Il giubileo solo cattolico è nato nel 1300 dopo la separazione tra Oriente e Occidente perché il
volto di Dio era quello di un giudice severo mentre la gente invocava un Dio misericordioso.
Fu San Francesco il primo, con la perdonanza, a instaurare qualcosa di questo genere.
Successivamente Papa Celestino V con la perdonanza dell’Aquila proclamò di nuovo un anno di
perdono per tutti. Una volta compreso che il Giubileo aveva un grande successo tra la gente, il
pontefice Bonifacio VIII lo organizzò perché portava soldi a Roma, non certo per
un rinnovamento della Chiesa. E da allora è così.

E oggi che valore ha o può avere l’Anno Santo?

Il Giubileo che viviamo non sembra avere alcuna connessione con quello biblico mai proclamato
dagli Ebrei: i debiti non vengono rimessi, la condivisione dei beni non c’è, la libertà ai
prigionieri non è concessa. Che Giubileo è? Solo spirituale? A forza di spiritualità annulliamo il
Vangelo. Credo che sarà un gran carrozzone di pellegrinaggi a Roma ma non si risolverà nulla.
Qualche giorno fa per gli 88 anni di Papa Francesco ha scritto su “X”: “E’ un vegliardo più
che un vecchio che veglia sulla Chiesa guidando un gregge che fa fatica a seguirlo. Ma lui non
lo abbandona e continua da profeta a camminare davanti cercando le pecore che fuori dal
gregge rischiano di perdersi”.

Chi è che non va dietro a questo pontefice?

La maggior parte non lo segue. Una parte non è contenta di quello che lui vede come cammino
della Chiesa, soprattutto là dove parla dei poveri, degli scarti, dei peccatori: gli uomini religiosi
non lo comprendono. Non lo capiscono nemmeno quelli che lo scimmiottano, tanti preti di strada
sono diventati star.

Il 2025 inizierà con l’insediamento del presidente eletto Donald Trump alla Casa Bianca. È
preoccupato?

No, sono convinto che il presidente degli Stati Uniti non abbia alcuna soggettività di potere. Decide
sotto dettatura dei grandi poteri dell’America: i fabbricatori di armi, i leader del settore energetico.
Che ci fosse Biden o che vi sia Trump saranno comunque gli altri a decidere se finire una guerra,
se “trasportare” democrazia come spesso hanno proclamato occupando in realtà zone del mondo.
Mi preoccupa la situazione internazionale, questo scontro da terza guerra mondiale: il pianeta sta
andando in fiamme.
Poi c’è il Medio Oriente: la situazione a Gaza, in Siria, in Libano, in Egitto, in Iran dove
hanno sequestrato la giornalista Cecilia Sala.
Gli Stati Uniti pur di avere un piede in quella terra causano tutto questo tramite Israele. La guerra
messa in atto è fatta a nome degli Stati Uniti che vogliono avere un piede in questa zona dove c’è
una parte cospicua del petrolio.

Veniamo all’Italia. In questi giorni è stata approvata la manovra di bilancio. E’ un governo
che dimentica i più poveri o che va davvero incontro alle esigenze della gente?

La realtà è una politica che deve assolutamente compiacere la Chiesa con le sue richieste a favore
della natalità e della famiglia ma manca l’occhio della giustizia e dell’uguaglianza.
Oltre a essere un monaco lei è un uomo “da palco”, capace di parlare a centinaia di persone.

Si parla spesso della capacità di parlare agli italiani della premier Giorgia Meloni. Che ne
pensa?

E’ vero, comunica bene all’italiano medio e volgare che ha bisogno di qualcosa di gridato e di
forte, nemmeno pensato. Pur di non pensare, gli slogan e le dichiarazioni in pompa magna
colpiscono.
Se le dico il nome di Roberto Vannacci la fa arrabbiare, indignare o sorridere?
Mi fa pietà. Mi sembra che sia uno di quei residui che purtroppo ci sono ovunque di una volgarità
fascista che permane anche da noi.

Così anche Matteo Salvini?

No, è uno che manca proprio dei connotati di cultura che invece dovrebbe avere un ministro di
questo Paese.

Ma a sinistra non c’è nulla o lei vede qualcosa che possa dare speranza?

C’è poco. Continuano ad arrabattarsi gli uni contro gli altri senza mai avere una visione che non sia
troppo personalistica e soggettiva. La sinistra è malata di un protagonismo narcisistico…

E se Enzo Bianchi dovesse votare domani quindi che farebbe?

Non andrei al seggio.
Tre auguri a chi leggerà questa intervista: un viaggio da fare nel nuovo anno; un libro da
leggere, un film da non perdere nel 2025.
Auguro ai più di andare a Istanbul, capirebbero molte cose del Medio Oriente e cosa si sta
fabbricando in questo impero ottomano che vuole sorgere come una stella. Il libro che consiglio è Il
discepolo che Gesù amava di Giulio Busi. Infine spererei che la gente vedesse se non l’ha ancora
fatto Dio ha bisogno degli uomini, diretto da Jean Delannoy, tratto dal romanzo
di Henri Queffélec

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il comento al vangelo della domenica

E LA TENEREZZA ERA DIO

 

il commento di E. Ronchi al vangelo della  II domenica dopo Natale

Giovanni comincia il Vangelo con un canto che ci chiama a volare alto, un volo d’aquila che proietta Gesù verso i confini del tempo.

In principio, bereshit, prima parola della Bibbia. Ma poi il volo d’aquila plana fra le tende dell’accampamento umano: E venne ad abitare, letteralmente “piantò la sua tenda” in mezzo a noi.

Poi Giovanni apre di nuovo le ali e vola verso l’origine, con parole assolute:

Tutto è stato fatto per mezzo di lui. Non solo gli umani, ma il filo d’erba e la pietra e il canarino giallo, tutto viene dalle sue mani. «Nel cuore della pietra Dio sogna il suo sogno e di vita la pietra si riveste» (G. Vannucci).

La creazione è un atto d’amore sussurrato. Creatore e creatura si sono abbracciati e, almeno in quel bambino, uomo e Dio sono una cosa sola. Almeno a Betlemme.

Questo ci assicura che un’onda amorosa viene a battere sulle rive della nostra esistenza, che c’è una vita più grande e più amante di noi, alla quale attingere.

Cristo non è venuto a portarci una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, pulsante di desiderio. Sono venuto perché abbiate la vita, in pienezza (Gv 10,10).

Gesù non ha compiuto un solo miracolo per punire o intimidire qualcuno. I suoi sono sempre segni che guariscono, accrescono, sfamano, fanno fiorire la vita in tutte le sue forme; il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo. E in noi, il suo volto.

“Veniva nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo”, nessuno escluso. “La luce splende nelle tenebre, ma esse non l’hanno vinta”. Ripetiamolo a noi e agli altri, in questo mondo duro: le tenebre non vincono. Mai.

“Venne fra i suoi ma i suoi non l’hanno accolto”. Dio non si merita, si accoglie. Facendogli spazio in te, come una donna fa spazio al figlio piccolo che le cresce in grembo.

Dopo il suo, è ora tempo del mio Natale: Cristo nasce perché io nasca, nuovo e diverso. Sta a noi camminare e cercare dietro una stella, come i Magi. E anche ringraziare chi ci ha aiutato a viaggiare verso Dio, chi è stato per noi una stella: forse un libro, un prete, un amico, una mamma.

“E la vita era la luce”. Cerchi luce? Ama la vita, abbine cura, falla fiorire. Amala, con i suoi turbini e le sue tempeste ma anche con il suo sole e i suoi fiori appena nati, in tutte le Betlemme del mondo.

Amala! È la tenda del Verbo, il santuario che sta in mezzo a noi.

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