quel «Vangelo diverso» che lo stravolge
di Antonio Spadaro
in “Avvenire” dell’11 febbraio 2025
La «teologia della prosperità» invocata dal tycoon: la fede per ottenere ricchezza: la dottrina che considera Dio un «fattorino cosmico» dei desideri umani.
La teologia della prosperità è stata definita un «vangelo diverso», talmente diverso da stravolgerne il senso. Le sue radici affondano negli Stati Uniti, dove il pastore Esek William Kenyon (1867- 1948) fu tra i primi a sostenere che attraverso il potere della fede, i credenti potevano ottenere ricchezza, salute e benessere, mentre la mancanza di fede portava alla povertà e alla malattia.
Queste dottrine chiare e semplici si sono correlate e nutrite in misura consistente anche del positive thinking, il «pensiero positivo», espressione di un certo American way of life. Esse si collegano in questo senso alla «posizione eccezionale» che Alexis de Tocqueville nel suo celebre La democrazia in America (1831) attribuiva agli americani. Fu Tocqueville ad affermare che tale way of life plasma
anche la religione degli americani. Questa «teologia», inizialmente circoscritta a piccoli gruppi
religiosi, ha trovato terreno fertile nel movimento neo-pentecostale e carismatico, che l’ha
amplificata e diffusa a livello globale. Il fenomeno si traduce, dal punto di vista mediatico, nell’uso
della televisione da parte di figure molto carismatiche di alcuni pastori, detentori di un messaggio
semplice e diretto, montato attorno a uno show di musica e testimonianze e a una lettura
fondamentalista e pragmatica della Bibbia ed è sostenuto dalla sua forte incidenza sulla vita
politica. Sin dalla sua prima cerimonia d’inaugurazione del mandato presidenziale, Donald Trump
ha incluso preghiere di predicatori del «vangelo della prosperità» quali Paula White, uno dei suoi
consiglieri spirituali. Per la prima volta nell’ottobre 2015 la White ha organizzato, nella Trump
Tower, un incontro di telepredicatori legati alla «teologia della prosperità», che hanno pregato per
l’attuale Presidente, imponendo le mani su di lui.
Il nucleo di questa «teologia» è la convinzione che Dio vuole che i suoi fedeli abbiano una vita
prospera, e cioè che siano ricchi dal punto di vista economico, sani da quello fisico e
individualmente felici. I fedeli sono incoraggiati a visualizzare ciò che desiderano e a dichiararlo
con fede, considerandolo già ricevuto. Questo approccio trasforma le promesse di Dio in una sorta
di contratto vincolante, in cui il credente assume una posizione dominante rispetto a un Dio che
diventa un “fattorino cosmico” (cosmic bellhop) al servizio dei desideri umani.
L’urgenza di una vita prospera e senza sofferenze si adegua a una religiosità a misura del cliente, e
il kairos del Dio della storia si adegua al kronos frenetico della vita attuale. In alcune società in cui
la meritocrazia è stata fatta coincidere con il livello socio-economico senza che si tenga conto delle
enormi differenze di opportunità, questo «vangelo», che mette l’accento sulla fede come «merito»
per ascendere nella scala sociale, risulta ingiusto e radicalmente anti-evangelico.
La teologia della prosperità presenta numerose criticità. Promuove un forte individualismo, in cui il
benessere personale è visto come risultato diretto della fede individuale, rischiando di esacerbare le
disuguaglianze sociali e di creare una mancanza di empatia verso i poveri, considerati come persone
con “fede insufficiente”. Inoltre, distorce il messaggio evangelico, riducendo la salvezza a un
semplice benessere materiale e trasformando la religione in un fenomeno utilitaristico e pragmatico.
Questo approccio è in netto contrasto con la concezione tradizionale del cristianesimo, che vede la
salvezza come un dono di Dio, non come il risultato delle proprie opere o della propria fede.
Questa teologia è chiaramente funzionale ai concetti filosofico-politico-economici di un modello di
taglio neoliberista e abbatte il senso di solidarietà. Inoltre, spinge le persone ad avere un
atteggiamento miracolistico, per cui solamente la fede può procurare la prosperità, e non l’impegno.
Quindi il rischio è che i poveri che restano affascinati da questo pseudo-vangelo rimangano
imbrigliati in un vuoto politico-sociale che consente con facilità ad altre forze di plasmare il loro
mondo, rendendoli innocui e senza difese. Sin dall’inizio del suo pontificato Francesco ha avuto
presente il «vangelo diverso» della «teologia della prosperità» e, criticandolo, ha applicato la
classica dottrina sociale della Chiesa. Più volte lo ha richiamato per porne in evidenza i pericoli
anche per un suo possibile diffondersi dentro la vita ecclesiale in modo strisciante. La prima volta è
avvenuto già in Brasile, il 28 luglio 2013. Rivolgendosi ai vescovi del Consiglio Episcopale
Latinoamericano, aveva puntato il dito contro il «funzionalismo» ecclesiale», che realizza «una
sorta di “teologia della prosperità” nell’aspetto organizzativo della pastorale». Essa finisce per
entusiasmarsi per l’efficacia, il successo, il risultato constatabile e le statistiche favorevoli. La
Chiesa così tende ad assumere «modalità imprenditoriali» che sono aberranti e allontanano dal
mistero della vera fede evangelica