il ‘corno’ e il … giubileo

Giubileo, un corno

i Alberto Maggi
in “ilLibraio.it” del 10 gennaio 2025

Se quando ci chiedono cos’è il Giubileo rispondiamo che è un corno, abbiamo risposto giusto.
Infatti, “giubileo”, deriva da un termine ebraico (Yobel) che indica il corno (di montone) al suono
del quale s’inaugurava un tempo particolarmente santo (Lv 25,9). La motivazione che sta alla base
del Giubileo è la volontà del Signore che in mezzo al suo popolo “non vi sia alcun bisognoso” (Dt
15,4).
Per impedire che qualcuno finisse definitivamente in situazioni di povertà, si stabilì che ogni sette
anni tutti i debiti fossero cancellati (Dt 15,1-11). Inoltre, ogni quarantanove anni, fu stabilito un
cinquantesimo anno in cui non si sarebbe né seminato né raccolto, e ogni proprietà doveva ritornare
al suo proprietario originario (Lv 25,8-17). Entrambe le leggi, del settimo e del cinquantesimo anno,
si rivelarono subito inefficaci e inapplicabili. Infatti, la legge del condono dei debiti, da
provvedimento a favore dei poveri, si era ritorta contro le categorie più disagiate, poiché nessuno
prestava denaro se non aveva la certezza che gli sarebbe stato restituito entro il settimo anno. E la
legge del Giubileo ogni cinquanta anni, era talmente utopica che rimase una pia intenzione e non fu
mai realizzata. Ideato per evitare che nel popolo ci fossero bisognosi, l’applicazione del Giubileo
avrebbe ridotto alla povertà l’intero popolo. Infatti, se ogni 49° e 50° anno non si poteva né
seminare né raccogliere, la carestia era garantita, e bisognoso sarebbe diventato tutto Israele.
Nonostante questo, l’ideale del Giubileo, come anno in cui il Signore avrebbe ristabilito la giustizia,
rimase vivo nel popolo, e venne proclamato da Gesù nella sinagoga di Nazaret. Qui Gesù annunciò
“l’anno di grazia del Signore”, e affermò che il tempo nel quale ognuno avrebbe sperimentato
l’amore di Dio non sarebbe stato ogni cinquanta anni, ma che ogni giorno sarebbe stato tempo di
liberazione: “Oggi questa Scrittura si è compiuta in voi che ascoltate” (Lc 4,21). I presenti nella
sinagoga però non gradirono l’annuncio dell’attuazione di questo anno giubilare. Fintanto che il
Giubileo restava una legge utopica andava bene a tutti, ma quando Gesù ne annunciò la sua
immediata realizzazione, tutti gli si rivoltarono contro: “All’udire queste cose, tutti nella sinagoga
furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del
monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio” (Lc 4,29). Gesù, venuto a
realizzare la volontà del Padre suo, non viene meno al suo proposito, e continua a proporre la realtà
del Giubileo rendendolo caratteristica visibile della comunità del regno di Dio.
Per questo, nel Padre nostro, formula con la quale la comunità si impegna ad accettare le
Beatitudini, Gesù rende quotidiano il Giubileo con la richiesta: “Condona i nostri debiti come noi li
abbiamo cancellati ai nostri debitori” (Mt 6,12). Gesù non parla di peccati, ma ha scelto il termine
debiti, che va al di là della trasgressione di precetti o comandamenti. Mentre è possibile perdonare
le colpe e restare in possesso dei propri averi, il condono dei debiti esige la rinuncia a questi.
Mentre “peccato” è un vocabolo appartenente alla sfera religiosa e si richiama a una norma
trasgredita, “debito” è un termine riguardante concretamente il campo economico e figuratamente le
relazioni interpersonali (essere in debito di qualcosa). Il debito nei confronti di Dio si deve al fatto
che l’uomo veniva considerato debitore verso il Signore per i beni della creazione. Dio non
pretendeva l’impossibile pagamento di questo debito, ma chiedeva che gli uomini si rendessero
conto di essergli debitori per avere lo stesso comportamento umano e solidale verso i loro debitori.
Il condono di questo debito infatti viene dal Padre concesso unicamente in base alla sua misericordia, e non è condizionato da alcun tipo di prestazione umana. Il condono agli altri deve essere una
conseguenza del condono del Padre.
Gesù, pertanto, scegliendo il termine “debiti” intende richiamarsi a quanto prescritto nel Libro del
Deuteronomio, dove appare il verbo “essere debitore” in riferimento alla “legge del settimo anno”:
“Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione. Ecco la norma di questa remissione: ogni
creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto:
non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, poiché è stata proclamata la remissione per il
Signore” (Dt 151-2 LXX). Questa legislazione era stata aggirata al tempo di Gesù attraverso la
pratica del Prosbul, un certificato contenente una dichiarazione, fatta di fronte al tribunale, in virtù
della quale il debitore autorizzava il creditore a riscuotere il suo credito in qualunque tempo, anche
dopo i sette anni, prescindendo dalla legge del condono.
Gesù ha preso le distanze e rifiutato l’istituzione del Prosbul per riportarsi così alla purezza del
disegno primitivo di Dio, in aperta opposizione alla “tradizione degli antichi” (Mt 15,9) che
pretendeva di spacciare per insegnamenti divini quelli che erano soltanto “precetti di uomini” (Mt
15,9; Is 29,13), soppiantando l’originaria parola di Dio. Pertanto il condono del debito e con esso la
concessione del perdono, devono essere immediati. Ogni ritardo nella manifestazione di un amore
capace di tradursi in generosa condivisione, non fa che aumentare il debito verso il Padre originato
dall’assenza dell’amore e impoverire tutta la comunità: “Non abbiate alcun debito con nessuno, se
non quello di un amore vicendevole” (Rm 13,8). Ma l’annuncio di questo Giubileo, vera “buona
notizia” per quanti sono poveri, si trasforma in una sciagura per i ricchi, che credono di possedere il
denaro mentre in realtà ne sono posseduti. E il furore col quale i fedeli della sinagoga di Nazaret
hanno cacciato Gesù, è lo stesso che coglie quanti capiscono che la vera porta santa da varcare per il
Giubileo, è quella della banca, per alleggerire il proprio conto, e condividere il tanto che hanno con
chi non ha niente. Fintanto che il Giubileo si risolve con una pratica religiosa è bene accolto da tutti,
ma quando esige un cambiamento di vita

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Neve Shalom – il villaggio della convivenza tra Israele e Palestina

 

seminare pace

di Claudio Geymonat
in “Riforma” – settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 31 gennaio
2025

l’“Oasi della Pace”, Wahat-al-Salam in arabo, Neve Shalom in ebraico, è un esperimento pressoché unico in Israele e Palestina. Un villaggio dove si vive, si cresce, si studia insieme, ebrei, palestinesi, cristiani

«Le divisioni, i litigi, avvengono anche qui, è ovvio. La differenza sta nel fatto che noi non
smettiamo mai di parlarci e confrontarci. Non alziamo mura fra di noi e, nonostante tutto,
proseguiamo nel confronto, anche se poi ognuno magari rimane con le proprie convinzioni». E poi
ancora: «Un’altra cosa che sappiamo fare bene è non essere d’accordo. Però lavoriamo sulla
mediazione e continuiamo a vivere insieme». L’“Oasi della Pace”, Wahat-al-Salam in arabo, Neve
Shalom in ebraico, è un esperimento pressoché unico in Israele e Palestina. Un villaggio dove si
vive, si cresce, si studia insieme, ebrei, palestinesi, cristiani. Dalla nostra prospettiva a migliaia di
chilometri di distanza appare logico. Evidentemente non lo è, tanto che rappresenta praticamente un
unicum. È stato fondato negli anni ’70 da fra’ Bruno Hussar, nato ebreo, cresciuto nell’islamico
Egitto e diventato frate domenicano, che ha scelto di costruire un luogo dove fare dialogare le
persone di fedi diverse.
Oggi sono circa 300 persone a convivere su questa collina a metà strada fra Gerusalemme e Tel
Aviv, che deve il nome alle parole di Isaia (32, 18): «Il mio popolo abiterà in un territorio di pace, in
abitazioni sicure, in quieti luoghi di riposo».
Una piccola ma coraggiosa sfida sia al potere dei più forti sia alla disperazione dei più deboli, che
indica che soltanto nel riconoscimento dell’altro si possono trovare soluzioni di pace.
Nell’ambito del progetto «Fermiamo l’odio, aiutiamo i costruttori di pace» della Federazione delle
chiese evangeliche in Italia (Fcei) sono in Italia due donne che vivono nel villaggio.
Dorit Alon Shippin è nata in Israele da genitori ebrei israeliani nel 1958. Fa parte della comunità dal
1984. Insieme al marito Howard vi ha cresciuto tre figli. Shireen Najjar è stata la prima bambina
araba a nascere nella comunità.
Ha frequentato l’asilo e la scuola primaria del villaggio. Dopo aver vissuto a Gerusalemme, con il
marito Mustafa ha deciso di tornare ad abitare nell’“Oasi” «perché non volevo crescere i nostri figli
tra quotidiane violenze e soprusi da parte dell’esercito israeliano».
Vari i loro incontri pubblici in queste settimane, due in particolare organizzati dalla stessa Fcei con i
referenti italiani delle associazioni che appoggiano l’esistenza del villaggio. A Milano il 21 gennaio,
a esempio, insieme al Forum delle religioni di Milano, Acli Milanesi, Associazione italiana amici di
Neve Shalom – Wahat al-Salam e Centro studi Confronti, hanno risposto alle domande del pubblico
accorso assai numeroso. Insieme a loro sono intervenuti i pastori Alessandro Spanu, presidente
dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia, Cristina Arcidiacono e Gabriele Arosio che ha
anche moderato l’incontro.
L’Oasi non è un eremo isolato, dove il mondo non entra, ma un’idea differente di convivenza che si
esprime a partire dall’aspetto educativo, centrale per formare nuove generazioni in grado di
spezzare il ciclo di violenza. In un Paese dove, ancora, appena l’1 per cento degli studenti dei due
popoli condivide il medesimo percorso scolastico, sono presenti scuole di vario grado, dove studenti
ebrei e musulmani frequentano le stesse classi, giungendovi anche da paesi vicini. Le lezioni
vengono condotte da due insegnanti, tutto si svolge nelle proprie lingue di riferimento, e si impara
soprattutto a crescere insieme fin da giovanissimi.
Come ha ricordato lo storico Gadi Luzzatto Voghera in chiusura dell’incontro milanese, «la
dinamica dell’educazione è il grande esempio di Neve Shalom – Wahat-al-Salam. Sentire la
narrazione, studiare la narrazione della storia dell’altro. Studiare la Nakba, da parte ebraica, e
studiare la Shoah, da parte araba palestinese, è – credo – il modo più significativo per riuscire ad
attivare delle dinamiche di dialogo che siano permanenti. E l’educazione è l’unico mezzo che ci
permette di guardare con fiducia al futuro, al di là di qualsiasi retorica».
«Una sera – ricorda Dorit Alon Shippin – ero seduta proprio a casa dei genitori di Shireen e ho
sentito per la prima volta la narrativa araba sulla nascita dello Stato di Israele. Fu uno shock
assoluto, non c’era Internet, noi avevamo ricevuto sempre e solo una narrazione soltanto, di parte.
Sono passati 40 anni, oggi ci sono molte organizzazioni rispetto ad allora che lavorano per la
mediazione dei conflitti e la costruzione della Pace, eppure la situazione è peggiorata».
«Dopo il 7 ottobre – raccontano le due donne – grazie al dialogo ci siamo accorti che le notizie che
noi riceviamo sono ancora una volta profondamente differenti. Gli ebrei leggono e ascoltano i
propri mezzi di comunicazione che forniscono una narrazione, e gli arabi fanno lo stesso con i loro.
I media delle due parti raccontano la loro verità. Come fare a capire quale sia la vera situazione?
Continuando a parlare, a informarsi fino alla sfinimento».
Il villaggio ospita anche una “Scuola per la pace” aperta al mondo: un luogo dove i giovani ebrei e
arabi imparano a cogliere la complessità del conflitto in corso e avviano percorsi di comprensione
reciproca. A tutt’oggi più di 25.000 giovani, tra i 15 e i 18 anni, hanno partecipato ai corsi. Nel
villaggio fra’ Bruno ha inoltre fortemente voluto un edificio che poi ha preso il nome di “Casa del
silenzio”, il luogo dell’incontro fra religioni, senza spigoli, aperta per le preghiere e le funzioni dei
fedeli: cristiani, ebrei, musulmani, di qualunque religione.
«Come diceva mio padre, conclude Shireen Najjar, vivere a Wahat-al-Salam – Neve Shalom è come
stare in una coppia: quando le cose vanno bene, è facile stare insieme, ma la vera prova si ha
durante le difficoltà. Dal 7 ottobre in poi, la nostra comunità sta affrontando un momento
estremamente difficile. Questo è il nostro esame come comunità. Ma nessuno se n’è andato».
Convivenza, riconciliazione, parole chiave con il proposito di rispettare tutte le differenze facendo
incontrare le diversità perché si conoscano e si diano valore reciprocamente, per non aver più paura
l’uno dell’altro: per seminare appunto l’idea della pace.

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