il commento al vangelo della domenica


tutta la vita del Figlio
il commento di E. Bianchi al vangelo della diciannovesima domenica (12 agosto 2018) del tempo ordinario:

Gv 6,41-51

In quel tempo  i Giudei si misero a mormorare contro di Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: «Sono disceso dal cielo»?».
Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Siamo sempre impegnati nella lectio delle parole pronunciate da Gesù nella sinagoga di Cafarnao: parole suscitate da reazioni e domande di quegli ascoltatori definiti nel quarto vangelo come “i giudei”, cioè quei credenti nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe nutriti dell’ideologia giudaica dominante, forgiata dai capi religiosi del popolo, ostili a Gesù e poi responsabili, insieme ai capi politici romani, della sua condanna.

Nella porzione di discorso proposta dall’ordo liturgico per questa domenica, viene innanzitutto testimoniata una mormorazione. Gesù aveva parlato di un pane, donato dal Padre suo, venuto dal cielo, un pane capace di dare la vita al mondo (cf. Gv 6,32-33). In seguito si era identificato egli stesso con questo pane: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6,35), ma queste sue affermazioni risultano agli orecchi dei suoi ascoltatori una pretesa folle, scandalosa, inaudita. Per questo si domandano l’un l’altro: come può quest’uomo, Gesù di Nazaret, che appare ed è realmente un uomo, rivelarsi come disceso dal cielo, dunque venuto da Dio, inviato da lui? Come può dirsi pane, dirsi cibo capace di togliere la fame? La sua pretesa risulta inammissibile, dunque irricevibile, perché attenta alla signoria di Dio (cf. Gv 5,18; 10,33).

Proprio l’umanità di Gesù scandalizza, la sua carne e il suo sangue: il suo corpo fragile di creatura lo dichiara terrestre, non disceso dal cielo. Inoltre quei giudei hanno una conoscenza precisa di Gesù, dovuta alla realtà dei fatti: è il figlio del falegname di Nazaret, anche sua madre è ben conosciuta, dunque egli viene semplicemente da questo piccolo borgo della Galilea, non dal cielo.

Di fronte a queste contestazioni e a questo disprezzo, Gesù reagisce chiedendo in primo luogo di astenersi dal mormorare, poi dichiarando: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. Ecco il mistero della fede: non basta l’intelligenza umana, non sono sufficienti le facoltà umane per discernere chi è veramente Gesù, ma occorre un’azione di Dio, colui che Gesù stesso definisce suo Padre. Solo attraverso l’accoglienza di questo dono gratuito si può accedere a Gesù, attirati da questa forza divina. Aderire a Gesù, essere coinvolti nella sua vita è essenzialmente grazia che accompagna, con un’assoluta preminenza sull’impegno personale del discepolo. Certo, a questa attrazione del Padre si può rispondere con consapevolezza, convinzione, nella libertà e accedendo all’amore per Gesù, ma le si può anche opporre un rifiuto, una chiusura.

Quando però avviene questo accesso convinto a Gesù, allora la comunione con la sua vita è tale che neppure l’ostacolo definitivo, la morte, può vincerla. Infatti Gesù stesso, lui, il Risorto, farà risorgere nell’ultimo giorno chi si è affidato a lui condividendo con lui la sua stessa vita. Siamo ormai nel tempo del compimento della profezia e se i profeti avevano annunciato che Dio stesso avrebbe istruito il suo popolo, ecco che questa azione di Dio nell’oggi si compie attraverso la presenza del Figlio sulla terra, non come istruzione per l’osservanza della Legge, ma come istruzione finalizzata all’aderire all’uomo Gesù (cf. Is 54,13; Ger 31,33-34).

Tutti gli umani, non solo i figli dell’antica alleanza ma tutti i figli di Adamo, tutta l’umanità può ascoltare Dio, accogliere il suo insegnamento e quindi venire a Gesù. Non vi è certo ancora la possibilità di vedere Dio faccia a faccia, perché questo non è mai stato possibile nel regime della fede: solo il Figlio, che è da Dio, lo ha visto faccia a faccia (cf. Gv 1,18) e ne è la narrazione, l’interpretazione unica e veritiera, perché chi vede il Figlio vede il Padre (cf. Gv 14,9).

Anche queste parole possono suscitare scandalo, ma qui siamo al cuore della fede cristiana: andare a Gesù significa incontrare un uomo, con un’umanità piena, con una carne fragile, significa incontrare un uomo che vive tra gli altri, ha sentimenti umani, parla una lingua umana, incontra gli esseri umani, si mette al loro servizio, li istruisce, li cura e li guarisce. È in questa sua umanità che possiamo vedere Dio e quindi compiere il cammino che ci porta ad aderire a lui. Sì, perché, come Gesù ha detto: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Ritorna quindi sulla bocca di Gesù per la terza volta l’affermazione solenne: “Io sono (Egó eimi) il pane della vita, il pane vivo”. Chi parla è Egó eimi, il Nome santo di Dio rivelato a Mosè (cf. Es 3,14), e definisce la sua identità quale pane, cibo per la vita.

Qui però dobbiamo fare molta attenzione e soprattutto non finire per dividere “il pane della vita” da Gesù, l’uomo Gesù, il Figlio di Dio fatto carne. Mai si deve disgiungere il Cristo, il Figlio, dalle sue parole e dal pane che egli ha donato al mondo: sarebbe un attentato alla pienezza dell’identità di Gesù! E non ci si lasci ingannare dal parallelismo che egli instaura tra il pane che discende dal cielo e la manna, perché solo il movimento dal cielo alla terra lo giustifica. La manna che Dio aveva dato ai padri nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto era sì un dono, ma per saziare la fame; non era un cibo che poteva procurare loro salvezza, tant’è vero che i destinatari di quel dono sono poi morti senza entrare nella terra promessa. “Il pane disceso dal cielo”, invece, quello che il Padre dona, è Gesù Cristo stesso, ed è decisivo per la vita eterna. Chi partecipa al banchetto di questo pane – che l’inno liturgico per la festa del Corpo del Signore definisce panis vivus et vitalis – vive la vita eterna. Assimilare questo pane che è Gesù Cristo significa ricevere l’antidoto alla morte, iniziando a vivere una vita altra da quella mortale, la vita stessa del Figlio di Dio

Certo, dobbiamo ammetterlo: queste parole di Gesù nel quarto vangelo ci danno le vertigini se le accogliamo con fede, mentre ci scandalizzano se non sentiamo una profonda e segreta attrazione verso Gesù, destata da Dio. Dio non ci costringe, neppure si impone, porgendoci il dono del Figlio nel suo grande amore per Dio e per il mondo (cf. Gv 3,16), ma ci fa un’offerta affinché sappiamo rispondergli nella libertà e per amore. E proprio in virtù di questa accoglienza del dono di colui che è disceso dal cielo “per noi e per la nostra salvezza” e che ha dato la sua intera vita, il suo corpo, la sua carne, il suo sangue, e il suo spirito, come dono gratuito e per tutti, vigiliamo per essere sempre capaci di credere, adorare e confessare Gesù come l’unico nostro Signore. In quest’ottica, siamo chiamati a non scindere mai l’eucaristia dalla cristologia, con il rischio di cosificare il sacramento e di impoverirlo dell’immensità del mistero.

Questo capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni, nell’insistere sull’unica identità di colui che è il Figlio del Padre disceso dal cielo, di colui che è parola di Dio ed è pane, cibo di vita eterna per i credenti, ci rende saldi nella fede cristiana, alla quale è immanente la fede eucaristica.

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Dio non è così …

chi è stato?

Sap 14,30: concepirono un’idea falsa di Dio

«È incredibile l’abuso che noi occidentali abbiamo fatto della Bibbia per dominare il mondo»

Alex Zanotelli

 

Chi ha trasformato Colui che salva in colui che giudica e punisce?
Chi ha trasformato Colui che è compassione e tenerezza in colui che minaccia ritorsioni?
Chi ha trasformato Colui che è Amore in un contabilizzatore di colpe?
Chi ha trasformato Colui che è Padre in colui che valuta i meriti?
Chi ha trasformato Colui che è sposo fedele e innamorato in colui che ci accoglie solo a certe condizioni e ci vuole sempre diversi?
Chi ha trasformato Colui che si umilia per noi in colui che ci guarda dall’alto.
Chi ha trasformato Colui che si identifica con i sofferenti in colui che si allea con gli oppressori della terra?
Chi ha parlato senza conoscere Dio?(*)

(*)“Il Dio che si rivela in Gesù capovolge le idee che l’uomo religioso si fa di Dio”.

(D. Bonhoeffer, in Conflitti cristologici con il magistero di Josè Ignacio Gonzàlez Faus, Concilium 3/2008, p. 145).

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il capitalismo non può essere democratico

l’economia che produce ferite

le parole nette di papa Francesco

«Le strutture economiche sacrificano vite umane per utili maggiori»

papa Francesco

da Altranarrazione

Capitalismo finanziario

Strutture di peccato

La disuguaglianza sociale nel capitalismo finanziario non è un elemento accidentale o temporaneo ma strutturale. Dovendo garantire un extra-benessere a pochi non può tollerare forme di redistribuzione della c.d. ricchezza. È un sistema economico incompatibile con la democrazia: ne impedisce le dinamiche basilari. Dove c’è il capitalismo, al di là delle denominazioni, vige di fatto l’oligarchia. L’1% è in grado di soggiogare il 99% attraverso un uso smaliziato della forza e l’aiuto fondamentale degli intermedi: di coloro cioè che non appartengono all’1% ma sono pronti a tutto pur di raccogliere le briciole che cadono da quel tavolo. Allora li vedi sostenere le tesi della tecnocrazia europea, della finanza e dei globalizzatori dello sfruttamento. Li vedi tristemente al servizio dell’iniquità, attori non protagonisti di una squallida commedia. Il 99% può indignarsi, ne ha facoltà, ma con calma: nei luoghi, nei modi e nei tempi concessi dal potere. L’importante è che dopo lo sfogo  ritorni velocemente alla catena di montaggio.

testo di papa Francesco:

Le ferite che provoca il sistema economico che ha al centro il dio denaro, e che a volte agisce con la brutalità dei ladri della parabola [del samaritano], sono state criminalmente ignorate. Nella società globalizzata, esiste uno stile elegante di guardare dall’altro lato, che si pratica ricorrentemente: sotto le spoglie del politicamente corretto o le mode ideologiche, si guarda chi soffre senza toccarlo, lo si trasmette in diretta, addirittura si adotta un discorso in apparenza tollerante e pieno di eufemismi, ma non si fa nulla di sistematico per curare le ferite sociali e neppure per affrontare le strutture che lasciano tanti esseri umani per strada. Questo atteggiamento ipocrita, tanto diverso da quello del samaritano, manifesta l’assenza di una vera conversione e di un vero impegno con l’umanità. Si tratta di una truffa morale, che, prima o poi, viene alla luce, come un miraggio che si dilegua. I feriti stanno lì, sono una realtà. La disoccupazione è reale, la corruzione è reale, la crisi d’identità è reale, lo svuotamento delle democrazie è reale. La cancrena di un sistema non si può mascherare in eterno, perché prima o poi il fetore si sente e, quando non si può più negare, nasce dal potere stesso che ha generato quello stato di cose la manipolazione della paura, dell’insicurezza, della protesta, persino della giusta indignazione della gente, che trasferisce la responsabilità di tutti i mali a un “non prossimo”.

(Papa Francesco, Messaggio in occasione dell’incontro dei movimenti popolari a Modesto, California, 16-19 febbraio 2017)

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un papa che merita sognare – per una chiesa ‘altra’

ho sognato il papa

«Quando crollano i beni di un istituto religioso, io dico: “Grazie, Signore!”, perché questi incominceranno ad andare sulla via della povertà e della vera speranza nei beni che ti dà il Signore»

papa Francesco

Non mi capita spesso ma questo sogno desidero raccontarlo perché è speciale: è fatto ad occhi aperti.

C’erano molte persone raccolte in Piazza San Pietro, visibilmente emozionate.

Guardavano in alto, in attesa che il nuovo Papa si affacciasse dal balcone.

Si aprì, invece, il portone della Basilica e il pontefice neoeletto, senza scorta, uscì per salutare i fedeli presenti.

Gli porsero, poco dopo, un megafono per farsi ascoltare dai più lontani.

Prese a dire parole inaudite:

«Buonasera fratelli e sorelle! Desidero, innanzitutto, comunicarvi che oggi inizia un nuovo cammino per la Chiesa.

Il cambiamento consisterà soprattutto nella rinuncia ad ogni forma di Potere, ai privilegi e ai comportamenti che ci allontanano dalla vita reale.

Ci faremo guidare unicamente dal vangelo, riscopriremo il carisma profetico denunciando le strutture di peccato, ci schiereremo, senza indugio, dalla parte dei poveri, degli oppressi e di tutti quelli a cui viene negata una seconda possibilità.

Non faremo più calcoli, non guarderemo più alle convenienze sociali, non difenderemo più la Chiesa con mezzi umani, perché la Chiesa ha già il suo difensore: Cristo. Infatti a noi spetta imitare la sua prassi e condividere le sue opzioni. Quindi il nostro programma da oggi sarà quello indicato nel Vangelo di Luca – annunciare ai poveri un lieto messaggio, proclamare ai prigionieri la liberazione, la vista ai ciechi, la libertà agli oppressi, predicare la misericordia di Dio – e in quello di Matteo al capitolo 25. Ascolteremo i poveri e solo quando avremo finito con loro daremo spazio ai c.d. Capi di Stato.

Consegneremo il Vaticano alle autorità civili, metteremo a disposizione della comunità tutte le ricchezze in esso contenute.

La Chiesa vivrà nel mondo e stabilirà la sua sede legale in tutti i luoghi in cui l’uomo soffre.

Lasceremo i Palazzi ed andremo negli ospedali, nelle carceri, negli accampamenti dei disperati, nelle fabbriche, nei call center…

Liquideremo la Banca e la sostituiremo con l’unica Banca coerente con la testimonianza evangelica: quella della tempo e della solidarietà.

Da oggi investiremo solo in gratuità e confideremo solo nelle risorse provenienti dal Fondo chiamato ‘Provvidenza’.

Non useremo più elicotteri, ma ci sposteremo con i mezzi di trasporto che usano i poveri: quelli pubblici.

Incontrerete il Papa su un autobus o in una metro e la sua nuova abitazione sarà presso una parrocchia di periferia.

Sposeremo la causa degli ultimi perché lo richiede il Vangelo e perché la Chiesa ha bisogno di conversione.

Rinunceremo alle sovvenzioni statali per vivere la grazia della sobrietà e per condividere la condizione di chi non riceve simili aiuti.  

Saremo una Chiesa povera e dei poveri sia per testimoniare che l’Amore di Dio –che è l’essenziale – è gratuito, sia per denunciare l’iniquità dell’attuale sistema economico-sociale che per garantire il profitto a pochi avidi sfrutta i popoli e devasta l’ambiente.

Saremo radicali e ci inginocchieremo solo per pregare e non per ottenere qualcosa in cambio dai potenti. Saremo la voce dei poveri, la coscienza critica, avremo paura ma chiederemo a Cristo la forza per percorrere la sua stessa strada».

A questo punto mi sono svegliato, e rimango nell’attesa che tutto ciò diventi realtà.

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l’efficacia della parola di Dio “come il fuoco e come un martello che spacca la roccia”

ricerca di significati

da Altranarrazione

 

La Parola di Dio non è innocua(1).

Possiamo tradirla, rifiutarla ma non ignorare.

In qualche modo penetra come l’acqua e si insinua nelle invisibili fessure dei muri che pensiamo di erigere con attenzione e perizia.

Rimane lì a sollecitarci mantenendo il nostro cuore inquieto.

Ci fa intravedere il bene anche se non riusciamo a compierlo (2).

È perfettamente aderente alla nostra umanità, mentre il resto ci divide.

Ci consente un respiro ampio, mentre il resto ci soffoca.

Porta il nostro sguardo nel profondo strappando la patina delle formalità.

Ci svela il significato che sta appena dietro l’apparenza.

Ci illumina in questa vita da trascorrere irrimediabilmente al buio.

Indica la strada anche quando scegliamo quella sbagliata.

Permette di tornare indietro, di andare oltre e ci riporta sempre a casa.

Guarisce l’angoscia esistenziale e consola la malinconia dell’Assenza.

Ci fa compagnia quando non c’è nessuno al nostro fianco e riconcilia quando non vogliamo più nessuno al nostro fianco.

Ci restituisce forza quando stiamo per arrenderci e smaschera gli inganni dell’arroganza.

Riapre prospettive quando i nostri orizzonti entrano in un vicolo cieco. 

Utilizza con l’anima un linguaggio che la mente non riesce a decifrare.

Compie percorsi dentro di noi che rimangono assolutamente misteriosi.  

Possiamo comprendere solo qualcosa dagli effetti.

Ci insegue quando fuggiamo e trova il nascondiglio in cui vorremmo evitare di esistere.

È voce di silenzio sottile(3) nell’intimità dell’incontro è grido profetico dai tetti(4) quando annuncia la liberazione degli oppressi.

Predilige i piccoli e i poveri abitando nelle loro vite.

Per questo leggiamo la Parola sulla carta ma la vediamo vivere solo nel contatto con loro. La lectio divina inizia alla scrivania ma si realizza e completa nelle baracche dove soffrono i nostri fratelli e le nostre sorelle.

1) “La mia parola non è forse come il fuoco e come un martello che spacca la roccia?” (Geremia 23,29)

2) ”C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Lettera ai Romani 7, 18-19)

3) (1Re 19,12)
4) (Isaia 40,2; Matteo 10,27)

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il grande ‘giudizio’ in linguaggio attuale

glossa a Matteo 25

“«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Il Signore promette ristoro e liberazione a tutti gli oppressi del mondo, ma ha bisogno di noi per rendere efficace la sua promessa”

papa Francesco 

Ero precario e non mi avete stabilizzato,

ero disoccupato e non mi avete ricollocato,

ero operaio e non mi avete ricompensato adeguatamente,

ero studente e non mi avete formato al giudizio critico,

ero donna e non mi avete riconosciuto condizioni di eguaglianza sul posto di lavoro;

ero diversamente abile e non mi avete integrato,

ero campesino e non mi avete supportato nella lotta contro l’oppressione,

ero desaparecido e non mi avete cercato,

ero giovane e non avete rispettato la mia speranza,

ero anziano e non mi avete coinvolto,

ero prete, magistrato, politico, giornalista che combatteva Regimi e Mafie e non avete smesso di fare accordi e compromessi indicibili,

ero profeta e non mi avete ascoltato,

ero Dio e non mi avete riconosciuto.

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il commento al vangelo della domenica

Gesù, il pane della vita


il commento di E. Bianchi alla diciottesima domenica del tempo ordinario (5 agosto 2018):
In quel tempo quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».
Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!

Dopo il segno della moltiplicazione-condivisione dei pani, Gesù, rifiutando l’acclamazione mondana da parte della folla che voleva farlo re perché egli le aveva procurato del cibo, era fuggito in solitudine sul monte (cf. Gv 6,14-15), lasciando i discepoli che cercavano di tornare in barca sull’altra riva del mare, verso Cafarnao (cf. Gv 6,16-17). Ma era ormai notte e una violenta tempesta si era scatenata sul lago. In quella situazione di difficoltà i discepoli scorgono Gesù che cammina sulle acque del lago venendo verso di loro e sono colti da paura. Ma egli dice: “Egó eimi, Io sono, non abbiate paura!”, poi approda con loro sulla terra ferma ed entra in Cafarnao (cf. Gv 6,18-21).

Ed ecco, “il giorno dopo” (Gv 6,22) la folla, che aveva mangiato il pane, si mette sulle sue tracce, lo raggiunge attraversando a sua volta il lago su diverse barche, e gli chiede con rispetto: “Rabbi, maestro, quando sei venuto qua?”. Gesù però, conoscendo le motivazioni di quella ricerca, non risponde alla curiosità della folla ma svela con autorevolezza quanto essa sia insufficiente, ambigua e sviante: “Amen, amen io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni (semeîa), ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”. Quella ricerca fa di Gesù colui che soddisfa i bisogni umani e colma la mancanza, ma misconosce la sua vera identità, quella di chi è venuto non per dare un cibo che toglie la fame materiale ma per donare ciò che nutre per la vita eterna. Quei galilei hanno visto il prodigio ma non vi hanno letto il segno, ossia ciò che quell’azione di Gesù significava. Hanno provato la sazietà ma non hanno compreso che quel pane era il dono della vita di Gesù.

Svelato dunque l’atteggiamento della folla, nella sinagoga di Cafarnao Gesù fa un lungo discorso, annunciandone il tema nelle sue prime parole: “Operate non per il cibo che perisce, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Questi, infatti, il Padre, Dio, ha segnato con il suo sigillo”. Gesù chiede ai suoi ascoltatori un impegno, rivela il dono che egli, quale Figlio dell’uomo, fa agli uomini e si manifesta come colui sul quale il Padre ha posto la sua benedizione. Occorre dunque darsi da fare, mettersi in azione per un cibo che nutre per la vita eterna. È vero che occorre darsi da fare per ricevere dal Padre il pane quotidiano (cf. Mt 6,11; Lc 11,3), nutrimento per il corpo destinato alla morte; nello stesso tempo, però, Gesù esorta a desiderare, cioè a lavorare con altrettanta intensità e convinzione in vista di quel cibo che solo lui può donare, il cibo che dà la vita per sempre, la vita che rimane oltre la morte.

Si faccia attenzione: Gesù non disprezza il cibo materiale ma, sapendo che “non di solo pane vive l’uomo” (Dt 8,3, Mt 4,4), esorta a lavorare con convinzione e intensità in vista di quel cibo che dà la vita per sempre, cibo che solo lui, il Figlio dell’uomo, può dare. Infatti, inviandolo nel mondo il Padre lo ha segnato con il suo sigillo, ha messo in lui la sua impronta (cf. Eb 1,3), essendo egli “l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), il volto della sua gloria, parola e racconto che narra il vero e unico Dio (cf. Gv 1,18).

Ma anche di fronte a questa rivelazione della sua identità quei galilei non comprendono e dunque domandano a Gesù: “Che fare? Che cosa dobbiamo fare per realizzare la volontà di Dio? Quale comando assolvere?”. Gesù, in risposta, rivela l’opera, l’agire per eccellenza, che pure sembra una non azione, qualcosa che secondo il sentire umano manca di concretezza: l’azione delle azioni, l’azione per eccellenza che Dio vuole e chiede è credere, aderire a colui che egli ha mandato. L’unica opera è la fede, dice Gesù. È opera di Dio perché consente a Dio di operare nell’uomo, nella storia, nella vita di colui che crede. Sì, sta qui la differenza cristiana: al cuore della vita del credente non c’è la legge ma la fede. Non lo si ripeterà mai abbastanza, e non si dimentichi che il primo nome dato ai discepoli di Gesù nel Nuovo Testamento dopo la resurrezione è stato proprio “i credenti” (At 2,44; 4,32). La fede fa i cristiani, plasma i cristiani, salva i cristiani.

Questa verità centrale va però compresa bene: la fede non è un atto intellettuale, gnostico, ma è un’adesione vitale a Gesù Cristo, è un essere alla sua sequela, coinvolti con la sua stessa vita. In tal modo vengono spazzate via le contrapposizioni intellettuali tra fede e azioni-opere, tra contemplazione e azione. L’opera del cristiano è credere, è accogliere il dono della fede per farne la propria responsabilità, la propria opera, la propria lotta, la propria custodia. Solo così si riconosce il primato alla grazia, all’amore gratuito e sempre preveniente del Signore, che è un dono da accogliere con spirito di stupore e di ringraziamento, in quanto capace di generare nel profondo del cuore responsabilità e desiderio di rispondere al dono, o meglio al Donatore. Credere in Gesù Cristo, l’Inviato di Dio nel mondo, significa essere dove lui è (cf. Gv 12,26; 14,3; 17,24), condividendo con lui la stessa vita, “ovunque egli vada” (Ap 14,4), radicalmente e “fino alla fine” (eis télos: Gv 13,1).

Ma quella folla rivela la propria identità: per credere vuole un segno! Avevano visto il segno della moltiplicazione-condivisione dei pani, ma dal momento che questo non era sfociato in ciò che essi volevano, nella proclamazione di Gesù Re e Messia mondano, ora ne esigono un altro, come quello fatto da Mosè attraverso il dono della manna (cf. Sal 78,24). In tal modo mostrano di non essere neanche capaci di leggere la Torah, perché in essa – spiega loro Gesù – “non Mosè ha dato il pane dal cielo, ma il Padre dà il pane dal cielo, quello vero, ossia colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. E così Gesù rivela di sentirsi chiamato non a dare qualcosa, ma a donare tutto se stesso! Allora chiedono a Gesù di dare loro questo pane e di darlo per sempre. Ed egli risponde con la rivelazione inaudita: “Egó eimi, io sono il pane della vita”. Dunque il pane per la vita eterna non è un semplice dono da parte di Gesù, ma è Gesù stesso, che dona tutta la sua persona.

Cosa significa questo linguaggio che rischia di essere da noi compreso in modo astratto? Significa che Gesù è cibo, e in questa prima parte del suo lungo discorso egli si presenta come cibo in quanto Parola, Parola del Padre, Parola fatta carne (cf. Gv 1,14), Parola discesa dal cielo, Parola inviata da Dio agli umani. La Parola di Dio è sempre stata letta nell’Antico Testamento come cibo, pane che dà la vita all’umanità (cf. Is 55,1-3; Pr 9,3-6, ecc.); ma ora questa Parola, detta molte volte e in diversi modi nei tempi antichi agli esseri umani tramite Mosè e i profeti (cf. Eb 1,1), è un uomo: è Parola di Dio umanizzata in Gesù di Nazaret. In questo senso Gesù si consegna agli umani quale “pane della vita”, pane che porta la vita.

Questo linguaggio è talmente vertiginoso che non è possibile commentare tali parole di Gesù: vanno solo accolte in adorazione. Gesù, sì, proprio Gesù, un uomo, un ebreo marginale di Galilea, il figlio di Maria e di Giuseppe, proveniente da Nazaret, è in verità la Parola di Dio e, in quanto tale, è cibo, pane per la nostra vita di credenti in lui. Chi può dire di essere in grado di capire e sostenere queste parole? In ogni caso, forse il Signore ci chiede solo che tentiamo di accogliere queste parole; e di farlo sapendo che il suo dono, la sua grazia ci permette di renderle parole accolte da ciascuno di noi in modo personalissimo, cioè come soltanto il Signore può farcele conoscere e comprendere. Così assimiliamo il cibo per la vita eterna, secondo la promessa di Gesù: “Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6,35). Una promessa parallela a quella fatta da Gesù alla donna di Samaria: “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete in eterno” (Gv 4,14).

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il Dio straniero … che viene sempre da lontano e ha bisogno sempre di noi

anche Dio è straniero

Perché viene da lontano: dall’inizio dei tempi, fino a farsi prossimo, un giorno, improvvisamente.

Perché entra a casa nostra con un misto di aspettative e di timore: spesso non riconosce la nostra lingua particolare, lui che vorrebbe parlarne una universale.

Perché esiste, ma per manifestarsi, per avere un’identità, un passaporto, un timbro sul foglio di via, ha bisogno di noi. Dei nostri occhi, delle nostre mani, del nostro muoversi e camminare.

Perché non pretende alcunché da noi, ma, appena arrivato, si rende disponibile anche per i lavoretti in nero, prova a donarsi così com’è. Perché vuol solo essere accettato.

Perché sui barconi condivide il posto bagnato in cui coricarsi, alla mensa della Caritas il pane e la pastasciutta, coi compagni il dolore per una madre lasciata in Africa e l’incertezza della vita. Condivide. Sempre.

Perché serve: badante nelle case di chi non riesce obiettivamente ad accudire i propri vecchi, contadino dove nessuno raccoglie più i pomodori, manovale sotto il sole d’agosto. Serve, perché spesso gli mettono in tasca pochi spiccioli all’ora, e poco importa se si cade da un cornicione, se cade chi probabilmente non esiste.

Perché non giudica, ma è sempre giudicato: dal medico all’ingresso di frontiera, dal questurino, dal datore di lavoro, da noi che spesso lo guardiamo male perché un po’ sporco e strano. E, oggi, anche dai personaggi del finale dei vangeli: i nuovi governatori, i nuovi re edomiti o nabatei, e soprattutto, come allora, da un popolo intero che grida “crucifige”. Quando va male qualcosa, anziché incolpare noi stessi ce la prendiamo con lui, un Dio che è capro espiatorio.

Perché è sempre in croce: dell’ingiuria, della calunnia, della malafede, dell’ignominia, del crimine, della colpa, della miseria e della malattia.

Perché muore: di colpi di proiettile tirati per caso, di ruspa sui campi di soggiorno, di risse, di inseguimenti; per annegamento, per asfissia, per corpo contundente. Soprattutto, muore di indifferenza.

Perché risorge. In chi dice no alla cultura della paura e della morte. Nelle suore della Carità minacciate dai naziskin; nei preti di strada, di tutte le forme di strada. Nei sindacalisti e nei politici che hanno ancora una coscienza. In ciascuno di noi, se solo lo si vuole, senza fare chissà che.

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razzisti senza … motivo

 

non sono razzista, ma …

 

Qualcuno è razzista perché è arrabbiato.
Qualcuno è razzista perché è discriminato sul lavoro.
Qualcuno è razzista perché gli altri sono razzisti.
Qualcuno è razzista perché “e allora il PD?”.
Qualcuno è razzista perché sono loro che sono neri.
Qualcuno è razzista perché loro hanno il telefonino.
Qualcuno è razzista perché “lasciamoli lavorare”.
Qualcuno è razzista perché c’è chi sfrutta l’immigrazione.
Qualcuno è razzista sempre, tranne quando c’è un corpo da comprare.
Qualcuno è razzista perché “loro rubano”. (“E allora il PD?”)
Qualcuno è razzista ma non lo vuole ammettere.
Qualcuno è razzista perché dice “è meridionale, ma è una gran brava persona”.

Tante persone sono razziste, ma nessuno ha un buon motivo per esserlo.

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