mons. Bettazzi riconosce la fede e la profezia di Giovanni Franzoni e gliene resta grato

 

in ricordo di Giovanni Franzoni

+ Luigi Bettazzi

già presidente di Pax Christi 

 http://www.paxchristi.it/?p=13132

Pax Christi Italia e Mosaico di Pace mi chiedono di esprimere la loro partecipazione al lutto della famiglia e della Comunità  cristiana di S. Paolo a Roma per la morte di Giovanni Franzoni.

Personalmente lo ricordo, quando era Abate di S. Paolo, alle Assemblee della CEI e agli ultimi due Periodi del Concilio Vaticano II. Penso alla sua attività negli anni caldi dopo il 1968; il suo libro “La terra è di Dio” (cui seguì poi “Anche il cielo è di Dio. Il credito dei poveri”) anticipava i problemi ecologici oggi sul tavolo della politica internazionale. Le sue prese di posizione sulla Chiesa dei poveri e sul dialogo con i comunisti sembrano appartenenti al passato, ma la sua dichiarazione di aver votato comunista lo portò alla “riduzione allo stato laicale”. Il suo temperamento ardente ma soprattutto il legame con la Comunità di S. Paolo, che aveva fondato e diretto fino ai nostri giorni, lo portarono a prese di posizioni di critica e di contestazione molto forti al di là di ogni compromesso (ad esempio di prendere domicilio nella mia Diocesi, pur restando a Roma), che indussero poi la Chiesa a decisioni drastiche.

Era rimasto, anche vivendo da laico (e sposandosi) uomo di fede. L’avevo incontrato il mese scorso, presentando insieme in una parrocchia piemontese il Concilio Vaticano II, di cui eravamo rimasti gli ultimi membri viventi italiani, ed era stato molto pacifico e fraterno. Forse i suoi atteggiamenti di contrasto non permetteranno lo si ponga tra i profeti, accanto a d. Mazzolari e d. Milani, ma non gli tolgono il merito di una profezia – sulla Chiesa dei poveri, sull’ecologia, sulla nonviolenza e la pace – perseguita con sincerità e con coraggio e con la coscienza di una fede sincera. Gliene restiamo grati.

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il commento al vangelo della domenica

IL SEMINATORE USCÌ A SEMINARE

commento al vangelo della quindicesima domenica del tempo ordinario (16 luglio 2017) di p. Alberto Maggi:

Mt 13,1-23

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti». Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”. Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

La parabola del seminatore, narrata da Gesù nel vangelo di Matteo all’inizio del capitolo 13, è un incoraggiamento per tutti coloro che annunziano la parola. Il risultato non dipende dal seme, dalla parola, ma dipende dal terreno. Per comprendere questa parabola, occorre rifarsi all’annunzio che si trova nel profeta Isaia, da parte del Signore: “così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”. Il Signore assicura che la sua parola contiene in sé un’energia creatrice, la stessa parola del Creatore che disse: “sia la luce e luce fu”, quindi questa parola contiene un’energia creatrice che, quando incontra il terreno adatto, sviluppa tutte le sue potenzialità. Gesù illustra in questa parabola, le possibilità, ed anche le difficoltà, nell’accoglienza di questa la parola. È Gesù stesso che la spiega, quindi, nella seconda parte, andiamo addirittura alla spiegazione, Gesù afferma: “voi dunque ascoltate la parabola del seminatore”, che evidentemente è Gesù, e tutti coloro che seminano questa parola, “ogni volta che un ascolta la parola del Regno”, la parola è del Regno, la società alternativa proposta da Gesù, “e non la comprende”, come mai non la comprende? Non la comprende perché per accogliere il regno, Gesù mette come condizione la conversione. Che significa la conversione? Se fino a oggi hai vissuto per te e per i tuoi bisogni, per le tue necessità, da oggi cambia completamente vita, vivi per il bene e le necessità degli altri, questa è la società alternativa, il regno proposto da Gesù. “non la comprende viene il Maligno”, già Gesù aveva parlato di questo maligno quando, nel capitolo 5, aveva detto: “il vostro parlare sia sì, sì, no, no, il di più viene dal maligno”, che cos’è il maligno? Mentre Dio è amore che si mette a servizio degli uomini, il maligno è il potere che li domina. Allora Gesù avverte che, tutti coloro che vivono sotto la sfera del potere, sono completamente refrattari alla sua parola, infatti dice: “ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada”, quindi inutile seminarlo perché arrivano subito gli uccelli. Che significa questo? Quanti detengono il potere naturalmente vedono, in questo messaggio di Gesù, una minaccia al loro dominio sulle persone, ma anche quanti ambiscono ad ottenere il potere, perché vedono nel messaggio di Gesù un rischio per le proprie ambizioni, ma la categoria più tragica (è composta da) quelli che sono sottomessi al potere, perché vedono nel messaggio di Gesù un attentato alla sicurezza che la sottomissione al potere dà, questi sono completamente refrattari. “Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia”, quindi vede in questa parola la risposta al proprio desiderio di pienezza di vita, “ma non ha in sé radici”, cosa significa? che questa parola “non mette radici”, non trasforma l’individuo, “ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione”, Gesù nell’annuncio dalla parabola diceva “quando spunta il sole”, il sole è fonte, è fattore di vita per la pianta; se la brucia la colpa non è del sole, è che la pianta non ha potuto mettere radici. Allora qui per Gesù l’effetto del sole è la tribolazione o la persecuzione: la persecuzione per l’individuo e per la comunità, non è fattore di distruzione, ma fattore di crescita; se distrugge è perché l’individuo, la comunità non hanno modificato la propria esistenza. E quindi anche questo caso fallisce. “Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto”, Gesù ha messo come condizione la conversione, cioè vivi per gli altri e non per te stesso; se vivi per te, ti trovi in condizioni economiche precarie, vedi la soluzione nel denaro, ma appena riesci a raggiungere, ottenere questo denaro, subito nascono nuove ambizioni, nuove esigenze, e di nuovo ti trovi in preoccupazione economica. Allora chi pensa soltanto ai propri bisogni, chi si trova sempre preoccupato per la propria condizione economica, come potrà mai occuparsi dei bisogni, delle necessità degli altri? Infine “Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende”, la comprende appunto perché si è convertito, “questi dà frutto e produce”, per comprendere l’espressione paradossale, ma non tanto, di Gesù occorre conoscere che, nella cultura dell’epoca, da un chicco di grano si ricavava una spiga con sette, otto grani. Quando l’annata era buona, la spiga aveva dieci grani, in occasioni eccezionali si trovava addirittura una spiga con trenta grani, ma era una cosa eccezionale. Ebbene quello che per gli uomini è eccezionale, Gesù lo mette all’ultimo, infatti dice: “produce il cento, il sessanta, il trenta per uno»”, cosa vuol dire Gesù? Quando il terreno è adatto, la parola creatrice sprigiona tutta la sua capacità, tutta la sua potenzialità, in una maniera che l’uomo non può neanche immaginare.

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in morte di G. Franzoni – l’autobiografia di un ‘cattolico marginale’

UN «CATTOLICO MARGINALE»

PRESENTATA IN CAMPIDOGLIO L’AUTOBIOGRAFIA DI GIOVANNI FRANZONI

 da: Adista Notizie n° 20 del 31/05/2014

«Cattolico marginale» è la formula scelta per definire Giovanni Franzoni, la cui autobiografia è stata presentata a Roma, in Campidoglio, lo scorso 20 maggio (Autobiografia di un cattolico marginale, Rubbettino Editore, 2014, pp. 262, 16€)

Una perifrasi dai molteplici significati, perché con l’aggettivo marginale si possono intendere molte cose. Ai margini vive ed opera la «Chiesa di periferia» a cui Franzoni ha scelto di appartenere, ha detto mons. Matteo Zuppi, vescovo ausiliare di Roma Centro, intervenuto alla presentazione del libro per un saluto iniziale. Marginale significa anche la «volontà di tenersi lontano e di rifiutare il potere», ha aggiunto Raniero La Valle. E stare sul margine può voler dire scegliere di «abitare lungo i confini della società e dell’umanità sofferente», ha sottolineato Francesca Brezzi, docente di Filosofia morale all’università Roma Tre.

Ma marginale Franzoni lo è stato anche perché la Chiesa di Roma, guidata allora dal card. Ugo Poletti, decise di metterlo ai margini, di emarginarlo, per le sue tante scelte politiche di laicità, vicine agli impoveriti e agli oppressi ma lontane dall’istituzione ecclesiastica legata mani e piedi in un abbraccio demoniaco alla Democrazia Cristiana, al grande capitale, ai palazzinari, ai potenti della città. Perché quella di Franzoni e della Comunità di San Paolo – prima dentro e poi fuori della basilica di cui è stato abate – è stata una storia strettamente intrecciata a quella della città di Roma. «Senza Franzoni e la Comunità questa storia sarebbe stata molto diversa», ha ricordato La Valle, protagonista anche lui di tante vicende che videro Franzoni fra gli attori principali, dai “cattolici per il no” al referendum per confermare la legge sul divorzio del 1974, ai cattolici che militavano nel Pci e nella Sinistra indipendente. E Paolo Masini, assessore capitolino ai lavori pubblici e alle periferie della giunta guidata dal sindaco Ignazio Marino, ha affermato che «è un dovere e un onore per Roma Capitale (la nuova denominazione del Comune di Roma, ndr) poter ricordare Franzoni e la Comunità di San Paolo».

Sicuramente quella di Giovanni Franzoni non è stata una storia marginale nel senso di ininfluente. Ma una vicenda che ha profondamente segnato la storia della società e della Chiesa italiana post-conciliare. Il libro – curato da due membri della Comunità cristiana di base di San Paolo, Salvatore Ciccarello e Antonio Guagliumi, che hanno raccolto e poi trascritto il racconto direttamente dalla viva voce di Giovanni Franzoni, arricchendolo con una selezione di documenti straordinari, dalla corrispondenza privata di Franzoni con le zie, agli scambi epistolari con i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica che poi lo sospesero a divinis, alle lettere di solidarietà di diversi amici, come i vescovi Michele Pellegrino e Luigi Bettazzi oppure fratel Arturo Paoli – racconta questa storia, intersecando «macrostoria e microstoria». L’infanzia e l’adolescenza a Firenze sotto il fascismo e durante la guerra. Gi studi al Collegio Capranica e alla Gregoriana di Roma. L’ingresso nell’ordine dei Benedettini. Gli anni nell’abbazia di Farfa, il trasferimento a Roma nel 1964 come abate di San Paolo fuori le mura, la partecipazione alle ultime due sessioni del Concilio Vaticano II.

Nella basilica di San Paolo, Franzoni si lascia interrogare dalle contraddizioni della città e di un quartiere popolato e popolare come San Paolo, animato anche dalla convinzione che la vita monastica non significa isolamento dal mondo ma impegno nella storia. Prende forma così una comunità “orizzontale” di laici, donne e uomini, che cominciano a riflettere sul che fare per vivere un Vangelo ancorato alla società e alla città, immergendosi nelle vicende sociali e politiche: l’opposizione alla parata militare del 2 giugno e ai cappellani militari, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, il sostegno all’obiezione di coscienza al servizio militare, le lotte degli operai licenziati della Crespi (una fabbrica di infissi non lontana dalla basilica), l’attenzione agli emarginati e agli esclusi, in particolare i reclusi nell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà. A San Paolo si realizza anche quella piena partecipazione dei laici alla vita della Chiesa proclamata dal Concilio e mai compiuta: l’omelia della messa domenicale, celebrata in basilica dall’abate Franzoni, viene preparata il sabato sera in un confronto collettivo e paritario con i laici.

Fascisti e cattolici tradizionalisti protestano – passando anche all’azione con irruzioni durante le assemblee e con scritte contro Franzoni sui muri dei palazzi del quartiere –, i gerarchi ecclesiastici mugugnano e guardano a vista la comunità, ma non trovano elementi per intervenire con delle sanzioni. Fino all’aprile del 1973, a causa di una preghiera dei fedeli contro lo Ior, rigorosamente spontanea, letta da un giovane durante la messa domenicale. Il cerchio di stringe, a Franzoni viene imposto dal Vaticano di censurare preventivamente le preghiere, lui rifiuta e il 12 luglio 1973 si dimette da abate, non prima di aver pubblicato la lettera pastorale La terra è di Dio, che conteneva un severo atto d’accusa contro la speculazione fondiaria ed edilizia portata avanti con il silenzio e la complicità dell’istituzione ecclesiastica e contro gli stretti legami fra Chiesa e poteri economici, all’ombra della Democrazia Cristiana. E fuori dal tempio nasce la Comunità cristiana di Base di San Paolo, che l’anno scorso ha celebrato i suoi 40 anni di esistenza (v. Adista Notizie n. 36/13) vissuti con due obiettivi: desacralizzare e riappropriarsi del Vangelo per incarnarlo nella storia, in piena autonomia e libertà di coscienza.

E la storia continua. Nel referendum del 1974 Franzoni si schiera a favore del divorzio e viene sospeso a divinis. Nel 1976, dopo la sua dichiarazione di voto per il Pci, viene dimesso dallo stato clericale. Poi il referendum sull’aborto e il coinvolgimento in tutte le lotte sociali degli anni ‘80 e ‘90. In tempi più recenti l’opposizione alle guerre in Iraq e Afghanistan, il referendum sulla legge 40 contro l’ordine di astensionismo arrivato dal card. Ruini, il sostegno alle battaglie di Beppino Englaro e Piergiorgio Welby, commemorato a San Paolo mentre Ruini gli aveva negato il funerale religioso. Oggi le attività con i profughi afghani accampati alla stazione Ostiense, nell’indifferenza delle istituzioni capitoline; le storiche battaglie contro il Concordato e i cappellani militari, ma anche i percorsi di fede con il gruppo biblico e il gruppo donne che, seguendo il filone della ricerca teologica e biblica femminista, approfondisce le tematiche riguardanti la condizione delle donne nella Chiesa e nella società.

Un’autobiografia che, chiarisce Franzoni, non è «un’apologia e nemmeno un amarcord  ma una storia in cammino che continua ancora».

luca kocci

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frei Betto commemora François Houtart e Miguel d’Escoto

 

al servizio degli oppressi

 da: Adista Documenti n° 26 del 15/07/2017

 

 

in memoria di François Houtart e di Miguel D’Escoto,

figure chiave della Chiesa della liberazione

 da: Adista Documenti n° 26 del 15/07/2017

Una dolorosa perdita per il mondo, per l’America Latina, per la Chiesa della liberazione, la scomparsa, ad appena due giorni di distanza l’uno dall’altro, il 6 e l’8 giugno scorso, del sacerdote e sociologo belga François Houtart, fondatore del Centro Tricontinental dell’Università Cattolica di Lovanio e della rivista Alternatives Sud, e Miguel D’Escoto, sacerdote ed ex ministro degli Esteri del governo sandinista. A rendere loro omaggio, facendo memoria della loro vita e della loro instancabile militanza, è il domenicano Frei Betto, che, in un commento pubblicato sul sito Gente de Opinião (12/6) e su altri altri organi di informazione, ripercorre i momenti più significativi del suo rapporto con le due grandi figure della Chiesa della liberazione. Così, Frei Betto ricorda come Houtart avesse abbandonato l’Europa «per vivere in America Latina e dedicarsi ai movimenti sociali dei Paesi del nostro continente, dell’Africa e dell’Asia», diventando uno dei più prestigiosi intellettuali del movimento altermondialista, grazie soprattutto alle sue lucide critiche nei confronti del modello di sviluppo dominante e alle sue puntuali riflessioni sulla necessità (al di là della pur importante adozione di misure dirette a risolvere problemi immediati) di avviare seriamente una transizione verso un nuovo paradigma centrato sulla realizzazione del Bene Comune dell’Umanità. Con conseguente distinzione, da parte del sociologo belga, tra misure tali da configurare veri «passi avanti verso un nuovo paradigma» e quelle tradotte appena in «un adattamento del sistema esistente a nuove esigenze ecologiche e sociali», particolarmente evidenti, queste ultime, nei Paesi latinoamericani governati da forze più o meno progressiste, convinte, a suo giudizio, «che non si possano sviluppare le forze produttive senza passare per la logica del mercato capitalista» (v. Adista Documenti n. 16/12). 

Fedele al governo sandinista (malgrado le pesanti contraddizioni dell’amministrazione Ortega), come pure fedele alla Chiesa cattolica (malgrado la sospensione a divinis subita nel 1984 per il suo rifiuto a rinunciare all’incarico di ministro degli Esteri all’epoca della rivoluzione) è rimasto fino alla fine Miguel D’Escoto, il quale, nel 2014, si era visto accogliere da papa Francesco la sua richiesta di venire reintegrato nel sacerdozio ministeriale (v. Adista Notizie n. 30/14): auspicato lieto fine di una vicenda culminata con la sospensione a divinis decisa dal Vaticano nei confronti di d’Escoto e di altri due “ribelli”, i fratelli Fernando (scomparso il 20 febbraio del 2016, v. Adista Notizie n. 9/16) ed Ernesto Cardenal, rispettivamente ministri della Cultura e dell’Educazione del governo sandinista, tutti e tre convinti sostenitori della necessità di prestare tale servizio al loro Paese, a fronte di una tragica carenza di quadri intellettuali in conseguenza dell’analfabetismo endemico in cui il Nicaragua era precipitato sotto la sanguinosa dittatura di Somoza. Da allora, le strade dei tre sacerdoti-ministri si sarebbero poi divise: dopo la sconfitta della rivoluzione e la crisi del sandinismo, solo d’Escoto era rimasto nel Fronte sandinista, ricoprendo anche, con coraggio e fermezza, la presidenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dal 2008 al 2009 (durante la quale aveva anche reso possibile, tra molte altre cose, l’approvazione unanime, da parte dell’Assemblea Generale, della risoluzione relativa alla Giornata Internazionale della Madre Terra, da celebrarsi il 22 aprile di ogni anno; v. Adista n. 56/09). I due fratelli Cardenal avevano invece abbandonato il Fronte in polemica con la gestione autoritaria del partito da parte di Daniel Ortega e uno di loro, Fernando, era stato riammesso, già nel 1996, dopo un anno di noviziato, nella Compagnia di Gesù, da cui era stato espulso nel 1984 dietro pressione della Santa Sede. 

di seguito, in una  traduzione dal portoghese di Adista, ampi stralci dell’articolo di Frei Betto in memoria dei suoi due amici:

 

François Houtart

François Houtart si è spento il 6 giugno scorso, in Ecuador. Aveva 92 anni e l’entusiasmo rivoluzionario di un giovane di 20. Il nostro ultimo incontro è stato a marzo, quando ho tenuto una serie di conferenze a Quito su invito del presidente Rafael Correa. François mi ha accompagnato tutto il tempo. Insieme siamo andati a Pucahuaico, dove è sepolto il corpo di mons. Leônidas Proaño, il vescovo degli indios identificato con la Teologia della Liberazione. La cappella, ai piedi del vulcano Imbabura, era piena di indigeni e di gente del popolo. Houtart aveva presieduto la celebrazione eucaristica.

(…). Ero stato alunno di François a Lovanio, in Belgio, dove per anni insegnò Sociologia e Scienze della Religione ad alunni provenienti dalla periferia del mondo, tra cui il colombiano Camilo Torres e il brasiliano Pedro Ribeiro de Oliveira, il quale racconta: «Nel 1975, tornai in Belgio per iniziare il dottorato. Durante la prima riunione di lavoro, Houtart, il mio relatore, smontò tutto quello che avevo preparato per la tesi sul cattolicesimo popolare. Disse che era insufficiente, perché non offriva una spiegazione sociologica. Per accrescere i miei timori, aggiunse: “Come saprai, solo la teoria marxista è realmente esplicativa. Le altre sono appena descrittive”. Uscii da lì stordito, senza riuscire a capire come un prete che era stato perito al Concilio e aveva persino collaborato alla stesura della Gaudium et Spes, fosse diventato marxista senza lasciare la Chiesa. A poco a poco compresi: opponendosi attivamente alla guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam, aveva scoperto, nella teoria della lotta di classe, uno strumento teorico in grado di chiarire cosa vi fosse in gioco in quella guerra, nei movimenti anticolonialisti dell’Africa e dell’Asia e nelle dittature latinoamericane. La cosa migliore è che mi convinse una volta per tutte. L’ultima occasione in cui partecipammo insieme a un congresso di Sociologia della Religione, eravamo gli unici sociologi a usare lo strumentario marxista per spiegare fatti religiosi. Scherzai con lui, chiedendogli di aspettare ancora a lungo a lasciare questo mondo, per non lasciarmi solo a utilizzare Marx nell’analisi della religione…».

François era alto, aveva occhi molto chiari e sorrideva facilmente, anche nell’esprimere, al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, nel 2005, pertinenti critiche al governo brasiliano alla presenza dello stesso presidente Lula. Parlava pacatamente e argomentava in maniera didattica, avendo abbandonato l’Europa per vivere in America Latina e dedicarsi ai movimenti sociali dei Paesi del nostro continente, dell’Africa e dell’Asia. Nel 2016, aveva accompagnato il congresso nazionale del MST (Movimento dei Senza Terra), a Brasilia.

Partecipammo insieme a vari eventi in Brasile, a Cuba, in Nicaragua e in Bolivia. Mi chiedevo sempre come un uomo di più di 80 anni trovasse la forza di viaggiare per il mondo, spesso trascinando una pesante valigia con i suoi libri, senza mai lamentarsi di dormire in una tenda indigena nelle Ande, in un insediamento del MST in Brasile o in una capanna di coltivatori di riso in Vietnam.

Nei suoi anni di studio a Roma, François ebbe come collega un giovane chiamato Karol Wojtyla. Mi raccontò che il seminarista polacco aveva un’ossessione per l’apprendimento delle lingue. Approfittava delle ferie per recarsi in regioni europee in cui potesse imparare una nuova lingua. In un’occasione, accompagnò Houtart in Belgio, allo scopo di migliorare il suo francese e di conoscere il fiammingo.

Una notte, Wojtyla tornò a casa sotto una forte pioggia. Le sue scarpe si erano rovinate con l’acqua. François incontrò um seminarista belga che, portando lo stesso numero del polacco, poté cedergli un nuovo paio di scarpe. Decenni dopo, ormai sacerdote, il donatore chiese di essere ricevuto da Giovanni Paolo II. La burocrazia vaticana spiegò che l’agenda era piena. Inviando una nota al papa con il ricordo di quelle scarpe, le porte del Vaticano si aprirono.

Nel 2016, Houtart mi aveva invitato in Ecuador per un seminario sull’enciclica socioambientale Laudato si’ di papa Francesco. Il risultato del lavoro di quei giorni è stata la pubblicazione del libro, scritto a quattro mani, Laudato si’. Cambiamento Climatico e Sistema Económico (Quito, Centro de Publicaciones, Pontifícia Universidad Católica del Ecuador, 2016).

Durante il viaggio intrapreso lo scorso marzo nella regione andina dell’Ecuador, François mi aveva raccontato della sua partecipazione, a 15 anni, alla resistenza contro l’occupazione nazista in Belgio. Insieme a un amico aveva deciso di fabbricare una bomba artigianale per far deragliare un treno di soldati di Hitler. L’operazione non ebbe successo e gli valse una tirata d’orecchi da parte della madre. Mi aveva anche detto che aveva più di dieci fratelli. Dieci anni fa, quando erano tutti vivi, si erano riuniti per celebrare i mille anni che raggiungevano le loro età tutte insieme.

Durante la visita di Giovanni Paolo II a Cuba, nel gennaio del 1998, Fidel aveva invitato Houtart come assistente, insieme a Pedro Ribeiro de Oliveira, al teologo italiano Giulio Girardi e a me. Furono giorni di intenso lavoro comunitario.

 

Formazione operaia

Nel 2016, François mi aveva offerto un interessante racconto sulla sua formazione, che riporto qui di seguito:

«Negli anni di seminario a Malines (Belgio), partecipai, durante le vacanze, a numerose riunioni della JOC (Gioventù Operaia Cattolica) in Vallonia e a Bruxelles. Fu allora che scoprii la situazione della classe operaia dell’epoca (1944-1949). Nel dopoguerra, lo sforzo di ricostruzione dell’Europa era accompagnato da un forte sfruttamento del lavoro e le condizioni sociali dei giovani erano particolarmente scandalose. I congressi regionali e nazionali della JOC permettevano di informarsi sul quadro più generale della situazione economica e sociale. Inoltre, ebbi la possibilità di visitare diverse fabbriche e miniere di carbone. La JOC belga mi mise in contatto con il movimento in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra, in Germania, in Spagna e a poco a poco la dimensione internazionale si trasformò anch’essa in una parte importante del mio ingresso nel mondo del lavoro. In numerose occasioni, conversai con mons. Cardijn (fondatore della JOC) e rimasi molto impressionato dalla sua combattività, dalla sua insistenza sull’incompatibilità tra l’ingiustizia sociale e la fede cristiana e dalla sua conoscenza della vita dei giovani lavoratori. Scoprii anche il metodo pedagogico, quello di non partire dall’alto imponendo un sapere, ma dal basso, scoprendo la realtà: vedere, giudicare, agire.

Questa esperienza mi indusse, dopo l’ordinazione sacerdotale, a chiedere di intraprendere gli studi di Scienze Sociali e Politiche all’Università Cattolica di Lovanio. Vi passai tre anni, restando in permanente contatto con la JOC e viaggiando per l’Europa per gli incontri del movimento. Dedicai la mia tesi di laurea allo studio delle strutture pastorali di Bruxelles, avendo scoperto, da una parte, la loro assenza in ambienti operai e, dall’altra, l’identificazione della cultura religiosa cristiana con la cultura borghese, con conseguente divorzio dalla classe operaia e, particolarmente, dai giovani. (…). Dopo aver ottenuto una borsa di studio per l’Università di Chicago (1952-1953), al fine di continuare a studiare la Sociologia Urbana e la Sociologia della Religione, risiedetti in una parrocchia in cui lavorava il cappellano della JOC della città. Fu anche l’occasione per partecipare a numerosi incontri della JOC degli Stati Uniti. Durante le vacanze di Pasqua del 1953, andai all’Avana per assistere a un Congresso della JOC dell’America Centrale e dei Caraibi, alla presenza di Cardijn, tenendo riunioni con sezioni locali e incontrando il cappellano nazionale di Cuba.

È così che mi affacciai alla problematica latinoamericana, che desideravo conoscere da tempo. (…). Tenni lezioni per un semestre all’Università di Montreal e partecipai anche ad attività del movimento. Da lì mi trasferii di nuovo in America Latina e per 6 mesi percorsi quasi tutti i Paesi, dal Messico all’Argentina, sempre con la JOC, grazie ai contatti stabiliti durante i congressi internazionali. Fu una grande scuola la scoperta del continente dal basso. Una volta ancora, mi trovai di fronte all’abisso tra ricchi e poveri e al terribile sfruttamento dei giovani in ambito urbano e rurale. Rimasi colpito dal ruolo dei sacerdoti, impegnati nel rinnovamento di una Chiesa tanto distante dal popolo e tanto vicina alle élite e alle oligarchie sociali. Erano attivi in tutti i campi: sociale, liturgico, pastorale, biblico. Gran parte di questi sacerdoti apparteneva agli ordini religiosi e molti di loro avevano studiato in Europa. È stato questo contatto con l’America Latina a farmi intraprendere, nel 1958, uno studio socio-religioso sull’insieme del continente, con gruppi in ogni Paese e spesso con membri della JOC. Terminato nel 1962, fu pubblicato in quaranta volumi, finché il Consiglio Episcopale Latinoamericano non mi chiese di prepararne una sintesi in tre lingue da distribuire, all’inizio del Concilio Vaticano II, all’insieme dei vescovi e di accompagnarli come peritus durante nei 4 anni di lavoro conciliare.

Il card. Cardijn mi aveva chiesto nel frattempo di diventare il cappellano internazionale del movimento, ma, benché la proposta mi interessasse evidentemente molto, il mio vescovo, il card. Van Roey, non era di questo avviso. In seguito (…), mi misi in contatto anche con la JOC in Sri Lanka, in India, in Vietnam, in Corea del Sud, nelle Filippine. (…). In Sudafrica, in pieno apartheid, partecipai per 3 giorni a una riunione nazionale con giovani lavoratori bianchi, neri e meticci, malgrado fosse proibito, in un convento dei Padri Oblati, in Bloemfontein. Dovunque, in America Latina, Asia e Africa, mi riunii negli anni successivi con antichi membri della JOC, nei sindacati, nelle Ong o nel seno di partiti politici progressisti e anche rivoluzionari, come in Nicaragua o in Bolivia. Gli insegnamenti tratti dalla JOC sono stati numerosi e fondamentali. In primo luogo, la conoscenza del mondo operaio, delle sue lotte, delle sue organizzazioni. Quindi il metodo del “vedere, giudicare, agire”, che offre una cornice per la riflessione assai efficace in termini di analisi della realtà e di azioni a essa conformi. Se ho studiato Sociologia e ho portato avanti costantemente il lavoro di ricerca, è stato proprio per affinare il “vedere” in società molto diverse e complesse. E ciò mi ha anche permesso di scoprire che era possibile leggere la società non solo dall’alto, ma anche dal basso e che l’opzione del Vangelo era quella di guardare al mondo con gli occhi dei poveri e degli oppressi. Non esiste una scienza neutrale, soprattutto nel quadro delle scienze umane. La pedagogia della JOC e il suo adattamento all’ambiente specifico di giovani lavoratori, spesso a malapena alfabetizzati, mi ha insegnato a utilizzare un linguaggio semplice, a strutturare correttamente il ragionamento perché venga compreso, in una parola a scendere dal piedistallo accademico e a imparare anche da coloro che sono portatori di un sapere pratico, spesso disprezzato dal sapere cosiddetto colto.

Infine, è ancora la JOC che mi ha portato ad approfondire la dimensione sociale del Vangelo, e a comprendere come il Signore ci chieda un amore efficace. Non si tratta unicamente di un atteggiamento personale: questo amore implica la costruzione di una società giusta e l’impegno a seguire l’esempio offerto da Gesù all’interno della sua società, in cui annunciò i valori del Regno di Dio, l’amore per il prossimo, la giustizia, l’uguaglianza, la misericordia, la pace, combattendo tutti i poteri oppressivi, economici, sociali, politici e anche religiosi. Non morì invano sulla croce» (Quito, 1 marzo 2016).

 

La vita oltre

Nidia Arrobo Rodas, che lavorava con François alla Fundación Pueblo Indio del Ecuador, ha raccontato i suoi ultimi momenti:

«Il nostro amato François se ne è andato così come è vissuto, con una serenità totale, integro, lucido, diafano, in piedi… Il giorno prima, dopo un Atto di denuncia presso lo IAEN (Instituto de Altos Estudios Nacionales) sul genocidio Tamil, avevamo cenato come d’abitudine con la zuppa che tanto gli piaceva – per lui era imprescindibile, la sera, mangiarla insieme nella nostra mini residenza – e, come d’abitudine, era andato a dormire… Chiaramente nella sua stanza aveva continuato a lavorare… Non sappiamo fino a che ora… Fino alle 23 abbiamo ancora ricevuto sue e-mail. Al mattino, si era alzato per fare la doccia ma le forze gli erano venute meno… Si era seduto sulla poltrona vicino al letto e, con la mano sul cuore, è rimasto a dormire il sonno più profondo della sua vita, placidamente, senza alcun rumore, nel più profondo silenzio…  Un infarto… Alle sette e mezzo della mattina… si è risvegliato in Dio. Eravamo stati dal cardiologo, su mia richiesta, proprio ad aprile, perché sentivo che si agitava molto e che era come se gli mancasse l’aria… Il cardiologo gli aveva detto che doveva operarsi perché l’arteria del cuore era ostruita, e il bypass non rispondeva più come quattro anni prima, quando gli era stato applicato. Gli avevo detto: François, l’operazione è urgente. Aveva scelto di farla in Belgio su suggerimento dello stesso cardiologo… Ma, per quanto insistessi, aveva deciso di non andare subito: “Ho molti impegni, devo finire le lezioni a giugno e poi vado”. Gli avevo detto che sarebbe passato molto tempo. Ma egli era padrone assoluto della sua volontà e delle sue decisioni… Aveva deciso di completare ciò che era previsto e di partire a giugno per la sua operazione, che, diceva, era un’inezia. Aveva già i biglietti e le valigie pronte per viaggiare il 9 giugno prima a Bogotá, poi una settimana a Cuba, poi una settimana in Brasile e infine in Belgio. Io sapevo che aveva scelto di vivere con noi, che era felice, che ha vissuto felicemente… e penso che in fondo al cuore volesse terminare qui i suoi giorni.

(…). Abbiamo goduto della sua presenza gioviale, piena di amicizia, di finezza di spirito, di delicatezza, di attenzioni, ma al tempo stesso so che anche lui è stato felice con noi… Ce lo diceva sempre e questo mi riempie di gioia e di gratitudine. Lo sentiamo tra di noi, è vivo e resterà vivo e resuscitato nelle lotte di liberazione di tutti gli impoveriti del mondo e nei dolori di parto dei popoli indigeni e della nostra Pachamama. Come risulta dal suo testamento, lo abbiamo cremato… e al più presto le sue ceneri riposeranno insieme a quelle della madre in Belgio».

 

Miguel D’Escoto

Due giorni dopo la scomparsa di Houtart, ho perso un altro amico, anche lui prete e rivoluzionario, padre Miguel D’Escoto, morto a  84 anni. Ministro degli Affari Esteri del Nicaragua sandinista tra il 1979 e il 1990, ha presieduto l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite negli anni 2008-2009.

Figlio di un diplomatico, D’Escoto era nato a Los Angeles nel 1933. Era stato ordinato sacerdote nella congregazione di Maryknoll ed era stato uno dei fondatori della casa editrice newyorchese Orbis Books, che, nel 1977, aveva pubblicato negli Stati Uniti il mio libro Lettere dalla prigione, con il titolo Against Principalities and Powers.

Fu D’Escoto a ricevere me e Lula a Managua, in occasione del primo anniversario della Rivoluzione Sandinista, nel luglio del 1980. Ci condusse alla casa di Sérgio Ramirez, allora vice-presidente del Paese, la sera del 19 luglio, quando conoscemmo e conversammo lungamente con Fidel Castro.

Nel gennaio del 1980, venne a São Paulo, in compagnia di Daniel Ortega, presidente del Nicaragua, per partecipare al primo congresso mondiale della Teologia della Liberazione. Fu uno degli oratori della Notte Sandinista, nel teatro dell’Università Cattolica di São Paulo.

Il 29 novembre del 1981, a Managua, lo incontrai nuovamente a casa sua (…), insieme a Daniel Ortega, al segretario generale del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale René Nuñez, ai teologi Gustavo Gutiérrez, Pablo Richard, Fernando Cardenal, Uriel Molina e al ministro del Benessere Sociale, p. Edgard Parrales.

D’Escoto, che era appena tornato dal Messico, aveva descritto in maniera dettagliata le conversazioni sull’America Centrale che avevano intrattenuto il presidente López Portillo e il general Alexander Haig, segretario di Stato degli Stati Uniti. Tra le persone presenti a casa di D’Escoto era palpabile la soddisfazione per l’efficienza dello spionaggio sandinista all’interno del governo messicano.

Parlammo della congiuntura della Chiesa, della campagna internazionale contro la Rivoluzione e della Gioventù Sandinista, affidata alle cure di Fernando Cardenal. Mi preoccupava il carattere meccanicistico del marxismo divulgato tra i giovani sandinisti, una mera apologetica di vecchi manuali russi. Posi l’accento sull’importanza che i sacerdoti al potere – D’Escoto, Parrales e i fratelli Cardenal – esplicitassero pubblicamente la loro vita di fede. Temevo che riflettessero un’immagine più politica che cristiana.

Il 16 novembre del 1984, a Managua, tornai a casa di D’Escoto. Gli chiesi per quale motivo non fosse andato alla riunione dell’OEA (Organizzazione degli Stati Americani, ndt) a Brasilia. «Per non legittimare l’OEA – rispose – che continua a servire da strumento nelle mani degli Stati Uniti contro la sovranità dei popoli dell’America Centrale».

Celebrammo l’eucarestia sotto la veranda di vimini del suo cortile. Leggemmo e meditammo Matteo 4, 25 ss. D’Escoto si sfogò: «Ho il corpo e la mente stanchi, perché non riesco più a seguire il ritmo accelerato imposto dalle circostanze. Sogno di godermi la solitudine, di aver tempo per me, di non dover stare sempre attento al telefono. So però che nel frattempo è solo un sogno. Dalla mia intimità con Gesù traggo le forze che mi sostengono».

Alla fine della  celebrazione, mi disse: «Ti chiedo due cose. Sto leggendo con molto piacere l’ultimo libro di dom Pedro Casaldáliga. Ho saputo che, fra poco, andrà in Spagna. Chiedigli di passare prima per il Nicaragua. E insisti con dom Paulo Evaristo Arns perché venga all’insediamento di Daniel, il prossimo 10 gennaio».

«Perché non telefoniamo ora a dom Paulo?», suggerii. Tentammo, ma il cardinale di São Paulo non era in casa.

Undici giorni dopo trasmisi personalmente il messaggio a dom Paulo Evaristo Arns. L’anno successivo, dom Pedro Casaldáliga visitò il Nicaragua.

Nel marzo del 1986, lo incontrai nuovamente all’Avana, in compagnia di Rosario Murillo (attuale vice-presidente del Nicaragua e moglie di Daniel Ortega) e di Manuel Piñeiro, capo del Dipartimento per l’America del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba. Parlammo a lungo della situazione del Nicaragua e dell’appoggio esplicito che i vescovi Miguel Obando e Pablo Antonio Vega davano alla politica aggressiva di Reagan. D’Escoto era dell’opinione che i preti, i religiosi e i laici dovessero affrontare coraggiosamente l’arcivescovo di Managua, passando, se necessario, alla disobbedienza ecclesiastica. Questo gli valse, successivamente, la sospensione dall’esercizio sacerdotale da parte di Giovanni Paolo II, misura revocata da papa Francesco.

Nel gennaio del 1989, all’Avana, ci vedemmo alla commemorazione dei 30 anni della Rivoluzione Cubana. Si intrattenne in una lunga conversazione con Leonardo Boff sulla teologia della Trinità. «È la base della mia spiritualità», gli sentii dire. E si lamentò della situazione del suo Paese: «La cosa più dura per il popolo del Nicaragua non è l’aggressione americana, ma la mancanza di appoggio da parte della Chiesa».

Ci sono stati altri incontri, successivamente, come all’epoca in cui presiedeva l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, perdendo completamente la fiducia nell’efficacia di questa importante istituzione, manipolata dagli interessi della Casa Bianca.

La scomparsa di François Houtart e Miguel D’Escoto è una perdita per l’America Latina, per la causa dei poveri e per la Teologia della Liberazione. L’eredità che ci lasciano riguarda il modo in cui vivere la fede cristiana in un mondo diviso tra pochi miliardari e una moltitudine di miserabili e ciò che significa essere discepoli di Gesù in questo tormentato inizio del XXI secolo.

 

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così cominciò il primo preteoperaio a Viareggio

il salto del muro

don Sirio Politi, preteoperaio a Viareggio

Armando Sestani 

luglio 1961: in una luccicante estate versiliese in pieno boom economico, un prete fuori dagli schemi decide di compiere un clamoroso gesto di solidarietà verso i lavoratori in sciopero di uno stabilimento della Darsena viareggina

Il vecchio muro della F.E.R.V.E.T. di Viareggio, che nel luglio 1961 don Sirio Politi, contravvenendo agli espliciti divieti aziendali in merito, osò scavalcare per andare a celebrare messa con gli operai in sciopero. Ai giorni nostri, il complesso ospita un cantiere navale.

Il vecchio muro della F.E.R.V.E.T. di Viareggio, che nel luglio 1961 don Sirio Politi osò scavalcare per andare a celebrare messa con gli operai in sciopero.

“Hanno affittato anche le barche”. Con questa constatazione inizia un articolo dello scrittore viareggino Silvio Micheli, pubblicato sulle pagine del quotidiano comunista l’Unità all’indomani del ferragosto del 1961. Viareggio è in quegli anni una delle mete preferite del neonato turismo di massa, frutto di una crescita economica che proprio in quell’anno raggiunge il suo apice, con un aumento del PIL dell’8,3%. Sono gli anni del cosiddetto “miracolo italiano”, quando la lira conquista nel 1960 il riconoscimento di moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Milioni di italiani possono permettersi l’acquisto del televisore e del frigorifero: tuttavia, diventa l’automobile il sogno di molti. La FIAT, che nel 1955 mette in produzione la 600, presenta due anni dopo la 500, al costo di 490.000 lire, pari a tredici stipendi di un operaio: nonostante il prezzo sia elevato, inizia proprio in quegli anni la motorizzazione di massa degli italiani. L’utilitaria, spesso acquistata dopo la firma di numerose cambiali, permette di raggiungere, soprattutto in estate, le località balneari. “Tutta Viareggio” scrive Micheli “ha dovuto far posto ai ferragostini, una volta completati alberghi e pensioni. Ma i ferragostini continuavano ad arrivare rigati di sudore dalle città e dalle campagne cotte dal sole”.

un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena

 

Ma se esiste una Viareggio che fa del turismo, di élite e di massa, la sua risorsa principale e cerca di sistemare i villeggianti come può, c’è un’altra Viareggio che vive una situazione ben diversa. Da quando inizia la costruzione del porto-canale nel 1819, la città versiliese si sviluppa nei decenni successivi prendendo due direzioni: da una parte, la città turistica e commerciale con i suoi alberghi e i ritrovi per gli artisti, dall’altra, la Darsena con i cantieri navali, regno dei maestri d’ascia e calafati prima e della carpenteria metallica poi. A dividere queste due realtà, il porto-canale.

Tuttavia, nella Darsena viareggina non si costruiscono solo navi di ogni genere. In quella parte della città è situata anche una delle fabbriche più importanti: la F.E.R.V.E.T., acronimo che significa Fabbricazione E Riparazione Vagoni E Tramway, con sede principale a Bergamo e succursali in altre città. Le cronache e le testimonianze dell’epoca ci raccontano di un lavoro particolarmente duro, svolto in un ambiente malsano e con attrezzi inadeguati per il tipo di produzione richiesto. Per questo motivo gli operai, all’epoca circa 270, sono tra i più combattivi e politicizzati della città. Quando nel 1955 la FIOM subisce una pesante sconfitta nelle elezioni della commissione interna alla FIAT, passando dal 65% al 36%, nello stesso anno alla F.E.R.V.E.T. la FIOM aumenta i consensi, raggiungendo il 73% dei voti operai. Per tutti gli anni ’50 la conflittualità operaia si manifesta con scioperi e occupazioni dello stabilimento, come in quella estate del 1961. Dalla metà del mese di luglio, gli operai occupano lo stabilimento, contro la smobilitazione paventata dall’azienda, trascinando i lavoratori viareggini in più scioperi di solidarietà. Tuttavia, quella lotta passerà alla storia cittadina per un gesto di solidarietà e di disobbedienza di un prete, anzi di un preteoperaio.

Nativo di Capezzano Pianore (Camaiore, Lu), don Sirio Politi (1920-1988), assieme al fiorentino don Bruno Borghi (1922-2006), fu il primo preteoperaio italiano.

Dall’estate del 1956 don Sirio Politi, nato nel 1920 e fino all’anno prima parroco di Bargecchia, una piccola frazione collinare del comune di Massarosa, si è stabilito nella Darsena, in un piccolo edificio trasformato in una chiesina che si affaccia sul Canale Burlamacca, e lavora come scaricatore di porto. Fino al 1959 ha lavorato in un cantiere navale, poi si è dovuto licenziare: le autorità ecclesiastiche romane hanno infatti posto fine all’esperienza dei pretioperai, nata in Francia nei primi anni ’40. Insieme a don Bruno Borghi di Firenze, Politi è il primo preteoperaio italiano.

Don Sirio chiede più volte alla direzione di poter effettuare la messa all’interno della fabbrica occupata, ma il permesso viene ripetutamente negato. Finché una domenica, dopo l’ennesimo rifiuto, prende una valigia e la riempie con gli arredi sacri. Porta con sé anche una scala, per permettergli di scavalcare il muro di cinta della fabbrica, e, con l’aiuto degli operai, riesce ad entrare. “Ho scavalcato questo abisso di divisione”, scriverà don Sirio, “e mi sono sentito come in terra libera, fra uomini liberi”. Gli operai gli fanno visitare la fabbrica: “Una attrezzatura primitiva, un macchinario antiquato di quarant’anni fa, un’organizzazione di lavoro assurda e un disordine inconcepibile”. Intanto viene preparato l’altare “con attrezzi di lavoro e lamiere”. Ricordando quella esperienza, scrive don Sirio: “Può darsi che molti non siano credenti. Forse alcuni hanno voluto questa Messa per interesse di pubblicità: ma a me non importava nulla dei motivi e delle intenzioni – e nel caso ero felice che almeno quella Messa servisse a dei poveri, a degli operai… l’importante era che Dio fosse lì tra i poveri, che Gesù Cristo consumasse lì, fra gli operai, il Suo Sacrificio di Redenzione… a dare senso, significato, valore infinito ed eterno a questa povera vicenda umana, a queste situazioni di ingiustizia, a questa sofferenza per i diritti fondamentali alla vita”.

Darsena viareggina: la “Chiesina del Porto” (o “Chiesina dei Pescatori”) subito dopo la ristrutturazione del 1962, voluta e realizzata dallo stesso don Politi, che, poeta, uomo di lotta e di pace, era pure un abile artigiano.

La F.E.R.V.E.T. continuerà ancora per un trentennio l’attività, fino ad una ennesima occupazione e alla definitiva chiusura nel 1991. Don Sirio Politi proseguirà nel suo cammino, svolgendo l’attività di fabbro e continuando nelle battaglie nonviolente a difesa degli obiettori di coscienza, per la pace e contro l’opzione nucleare, attraverso una feconda attività editoriale. 

 

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anche per l’islam l’essenza di Dio è perdono e misericordia – un altro modo di guardare all’islam

perché l’essenza di Allah è nel perdono

di Pietro Citati
in “la Repubblica” del 10 luglio 2017

 

In nessuna religione, mai, l’unicità di Dio ha avuto un ruolo così intenso, violento ed esasperato come nell’Islam. “Non vi è divinità all’infuori di Dio”: vale a dire; “non vi è nulla che esiste all’infuori di Dio”. Come dice al-Ghazali (1058-1110), all’inizio del “Rinnovamento delle scienze religiose” (“Scritti scelti”, a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, Utet),

“nella sua essenza egli è Uno senza socio, Singolo senza simile, Signore senza oppositore, Solo senza rivali, Eterno senza un prima, Perpetuo senza un principio, Perenne senza un ultimo, Sempiterno senza fine, Sussistente senza cessazione, Continuo senza interruzione”. Allah è “il Primo e l’Ultimo, il Manifesto e l’Occulto”, dice il Corano. Non è un corpo con una forma, né una sostanza con limite e misura. Non è simile a cosa alcuna: misure non lo limitano, né lo contengono spazi. Egli è: non lo circoscrivono lati: non lo racchiudono terre né cieli; è seduto sul Trono senza contatto, assestamento, insediamento, dimora, spostamento. Egli non abita in cosa alcuna, né alcuna cosa abita in lui: è troppo elevato perché lo possano contenere luoghi, troppo puro perché lo possano limitare tempi; anzi Egli era prima di creare tempi e luoghi. Egli è l’Unico che non ha contrari, il Signore che non ha opposti, il Ricco che non ha bisogno, il Potente che fa ciò che vuole, il Sussistente, il Dominatore delle cose inerti, degli animali e delle piante, Colui che ha la grazia, la maestà, lo splendore e la perfezione. Se un uomo è rinchiuso nell’inferno, basta che egli conosca l’unicità di Dio perché lasci l’inferno. Come disse Maometto: “Chiunque dice: ‘non vi è Iddio se non Iddio, entrerà in Paradiso’”.

Nel suo bel libro L’esoterismo islamico (Adelphi), Alberto Ventura esplora Allah, senza cessare di paragonarlo alle figure divine nella Qabbalah, nel Tao, nella cultura indiana e in pseudo-Dionigi l’Areopagita.

Non possiamo che implorare Allah:

“O Dio, dice al-Ghazali, ti chiedo una grazia totale, una protezione continua, una misericordia completa, un’esistenza felice: ti chiedo beneficio perfetto e favore completo, generosità dolcissima, bontà affabile. O Dio sii con noi e non contro di noi. Attua largamente le nostre speranze, congiungi i nostri mattini e le nostre sere, versa in gran copia il tuo perdono sulle nostre colpe, accordaci il favore di correggere i nostri difetti, o Potente, o Perdonatore, o Generoso, o Sapiente, o Onnipotente. O Primo dei primi, o Ultimo degli ultimi, o più Misericordioso della misericordia”.

Al-Ghazali insegue tutti gli aspetti di Dio. Allah è oltre ogni nome e attributo, oltre ogni condizione e relazione, oltre tutte le apparenze e gli occultamenti, oltre ogni palesarsi e nascondersi, oltre ogni congiungimento e separazione, oltre tutte le contemplazioni e le intuizioni, oltre ogni cosa pensata e immaginata. Egli è oltre l’oltre, e poi oltre l’oltre, e poi ancora oltre l’oltre. Egli è il Principio infinito, incondizionato e immortale, che non può venire racchiuso entro i confini della ragione umana. È l’essere e il non-essere, il manifestato e il non manifestato, il suono e il silenzio. La sua immagine più adeguata è una notte tenebrosissima, nella quale non si può scorgere nulla di determinato e preciso. Allah non somiglia a niente: nessuna cosa gli somiglia; la sua mano non somiglia alle altre mani, né la sua penna alle altre penne, né la sua parola alle altre parole, né la sua scrittura alle altre scritture. Eppure somiglia al mondo e all’uomo e il mondo e l’uomo gli assomigliano: “se non ci fossero le somiglianze, l’uomo non potrebbe elevarsi dalla conoscenza di sé stesso alla conoscenza del creatore”. Allah determina tutte le cose. Non avviene, nel mondo inferiore e in quello superiore, batter di ciglio, balenar di pensiero, subitaneo volgere di sguardo, se non per decreto, potere e volontà di Dio. Da lui proviene il male e il bene, l’utilità e il danno, l’Islam e la miscredenza, la conoscenza e la sconoscenza, il successo e la perdita, il vero e il falso, l’obbedienza e la disobbedienza, il politeismo e la fede. Anche il male – insiste al-Ghazali – e gli atti di ribellione umana non accadono per volontà di Satana ma di Dio. A volte egli proibisce ciò che vuole, e ordina ciò che non vuole. Non ha scopi, mentre gli uomini hanno scopi precisi. Desidera ciò che desidera senza alcun timore; e decide e fa quello che vuole, senza timore. Se ti fa perire, egli ha già fatto perire un numero infinito di tuoi simili e non ha smesso di tormentarli. “Sorveglia i tuoi respiri e i tuoi sguardi – dice al-Ghazali – e sta bene attento a non distrarti da Dio un solo istante”. A volte egli ci protegge da ogni tribolazione e malattia: ma egli non ha mai, in nessun momento, obblighi verso di noi o verso il mondo, di cui non ha assolutamente bisogno. Come diceva Ali Bakr, la nostra assoluta incapacità di comprendere Dio è il nostro modo supremo di comprenderlo: sapere che noi siamo esclusi da lui è la nostra vera vicinanza. “Lode a colui che ha stabilito per le creature una via alla sua comprensione attraverso l’incapacità di comprenderlo”. Quando Dio entra nel cuore umano, la luce vi risplende, il petto si allarga, scopriamo il mistero del mondo, la grazia della misericordia cancella il velo dell’errore, e brilla in noi la realtà delle cose divine. Il cuore ripete il nome di Dio, fino a quando la lingua lo pronuncia incessantemente, senza essere comandata. Da principio è un rapido baleno che non permane, poi ritorna, si ritira, passa, ritorna. Tuttavia nemmeno in questo istante esiste in al-Ghazali quella identificazione con Dio, che altri mistici islamici (come al-Hal- laj) esperimentano e di cui parlano inebriati. Al-Ghazali preferisce parlare di annientamento dell’uomo: anzi di annientamento dell’annientamento, “perché il fedele si è annientato rispetto a sé stesso, e si è annientato rispetto al proprio annientamento: in quello stato egli è incosciente di sé stesso e incosciente della propria incoscienza”. Rispetto al Principio supremo, ogni elemento della realtà, se viene considerato in sé e per sé, è quasi insignificante, quasi illusorio, quasi un puro nulla. Ma al tempo stesso esso è significante perché è capace di riflettere l’Assoluto increato. Allora il molteplice manifesta l’essenza, e il passaggio dal molteplice all’uno e dall’uno al molteplice è istantaneo. Così il mare, dice Ibn Arabi, si moltiplica nella forma delle onde, pur rimanendo sé stesso. Dio è altro rispetto alle cose: ma non così altro da escludere ogni somiglianza; dunque è insieme altro e simile. Se qualcuno dicesse: “non conosco che Dio eccelso” direbbe la verità; ma se dicesse “non conosco Dio eccelso”, direbbe ugualmente il vero. Questa – sottolinea Alberto Ventura – è la profonda doppiezza, ambiguità e ricchezza della vita e della cultura islamica. Quando l’intelletto umano è libero dagli inganni della fantasia e dell’immaginazione, esso può vedere le cose come sono. È quella che al-Ghazali chiama la condizione profetica: nella quale rifulgono le tavole dell’invisibile, le leggi dell’Altra vita, le conoscenze su Dio che vanno oltre la portata dello spirito intellettivo. Dio dunque si può vedere. Ci sono persone che vedono le cose tramite lui, e altre che vedono le cose e tramite le cose vedono lui. I primi hanno una visione diretta di Dio: i secondi lo deducono dalle sue opere; i primi appartengono alla categoria dei giusti, i secondi a quella dei sapienti. Talvolta Dio si manifesta così intensamente e in modo così esorbitante, che viene occultato. Come dice il Corano, Dio è nascosto dietro settanta (o settecento o settemila) veli di luce e di tenebra: se egli li rimuovesse, il suo sublime splendore brucerebbe chiunque sia giunto vicino a lui con lo sguardo. Dio si nasconde dietro sé stesso. La sua luce è il suo velo. Secondo una tradizione raccontata dal Al-Ghazali, Dio ha detto: “Se il mio servo commette un peccato grande come la terra, io lo accolgo con un perdono grande come la terra”. Quando l’uomo pecca, l’angelo tiene sollevata la penna per sei ore: se l’uomo si pente e chiede perdono, l’angelo non registra il peccato a suo carico; se continua a peccare, registra il suo peccato soltanto come una cattiva azione. Dio non si stanca di perdonare finché il suo servo non si stanca di chieder perdono. Se il fedele si propone una buona azione, l’angelo la segna prima che egli l’abbia compiuta e, se la compie, gliene vengono registrate dieci. Quindi Dio la moltiplica fino a settecento volte. Allah perdona soprattutto i grandi peccatori. Come dice Maometto: “Io ho la facoltà di intercedere per i grandi peccatori. Credi forse che userei questa facoltà per gli uomini obbedienti e timorati? No, essa riguarda soltanto gli insozzati dalla mente confusa”. Ibrahim, figlio di un emiro della Battriana, racconta: “Mentre una volta giravo intorno alla Ka’ba, in una notte piovigginosa e scura, mi fermai presso la porta e dissi: ‘mio Signore preservami dal peccato, affinché mai io mi ribelli a Te’. Una voce proveniente dalla Ka’ba mi sussurrò: ‘O Ibrahim mi chiedi di preservarti dal peccato e tutti i miei servi mi chiedono questo. Se io preservassi te e loro dal peccato, su cosa riverserei la mia grazia e chi perdonerei?’”.

Il perdono di Dio: sia per gli islamici sia per i cristiani, questa è
l’essenza della rivelazione di Allah.

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una teologia invecchiata è come il sale che perde il suo sapore

è urgente rinnovare la teologia

di José M. Castillo

La teologia, che regge il pensiero della Chiesa e ci dice per quale strada devono andare le decisioni della Chiesa, è più importante del papa, dei cardinali, dei vescovi, dei chierici, dei teologi, dei fedeli, delle leggi, dei riti, dei costumi, di tutto il resto che c’è nella Chiesa. La teologia, in fin dei conti, dice a tutti noi quello che Dio vuole e quello che Dio ordina. In maniera tale che il papa (qualsiasi) dice e ordina quello che la teologia gli dice. Per questo è così importante la teologia. Il problema sta, come credo, nel fatto che ad un gran numero di cristiani non interessa la teologia. E quindi non sanno molto di teologia. Questo è comprensibile. Perché la teologia, che solitamente si insegna (dove questo si insegna), utilizza una serie di parole, concetti e criteri, che sono stati inventati dai greci dell’Antichità, ma in questi tempi la maggior parte della gente non sa neanche quello che vuole dire questo vocabolario, né a che cosa serve. Il centro, l’asse, il fondamento della teologia cristiana dovrebbe essere non il pensiero dei sapienti greci dell’Antichità. Ed ancor meno i miti religiosi precedenti al giudaismo, che nella Bibbia leggiamo come “Parola di Dio”. La teologia cristiana dovrebbe avere come centro, asse e fondamento quello che è l’origine ed il principio determinante del cristianesimo: quell’umile artigiano galileo che è stato Gesù di Nazareth: il suo modo di vivere, quello che ha fatto, quello che ha detto, quello che sono stati i suoi interessi e le sue preoccupazioni, quello che ha visto nella gente che ha conosciuto ed il “ricordo pericoloso” che quell’uomo così speciale ci ha lasciato. Questo “ricordo pericoloso” di Gesù è stato scritto nel Vangelo, che si riassume e si raccoglie in quattro collezioni di racconti, i quattro vangeli, cioè la “teologia narrativa”, sommario decisivo di ogni possibile teologia che voglia definirsi “cristiana”. Il centro della teologia cristiana non può stare fuori del Vangelo. E non può essere teologia cristiana se non comporta un “ricordo pericoloso”. Ebbene, leggendo e rileggendo la teologia narrativa che ci presenta il Vangelo, in quest’insieme di racconti quello che subito si nota è che le tre grandi preoccupazioni, che hanno occupato e monopolizzato la vita di Gesù, sono state: 1) la salute degli esseri umani (racconti di guarigioni, espresse nel “genere letterario” dei miracoli); 2) l’alimentazione condivisa (i pranzi dei quali si parla tanto nei vangeli); 3) le relazioni umane (sermoni e parabole). La fede, la relazione con il Padre, i sentimenti personali più profondi …, tutto nella vita di Gesù gira intorno a queste tre preoccupazioni. E queste preoccupazioni sono state così forti che Gesù le ha anteposte alle norme che imponevano i maestri della legge, alle osservanze dei farisei, all’autorità dei sommi sacerdoti …. Fino al punto che questo gli è costato la vita. Gesù ha fatto tutto questo perché affermava con certezza che chi vedeva lui, vedeva Dio (Gv 14,7-9). Ossia, si è identificato con Dio. L’aspetto centrale nella vita di Gesù non è stato la religione. È stato umanizzare questo mondo così disumanizzato. Non ci dovrebbe preoccupare tanto il dialogo tra le religioni. Ci dovrebbe preoccupare quello che preoccupa tutti gli esseri umani: la salute, il cibo condiviso, le migliori relazioni umane. I tre pilastri di ogni possibile religione. Questo è stato il centro della vita di Gesù: umanizzare questa vita. In questo sta il cammino della speranza che ci porta a Dio. __________________________________________________

articolo pubblicato il 06.07.2017 nel Blog dell’Autore in Religión Digital (www.religiondigital.com ) 

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la lettera dipapa Francesco al g20

“…Nei cuori e nelle menti dei governanti e in ognuna delle fasi d’attuazione delle misure politiche c’è bisogno di dare priorità assoluta ai poveri, ai profughi, ai sofferenti, agli sfollati e agli esclusi, senza distinzione di nazione, razza, religione o cultura, e di rigettare i conflitti armati.

A questo punto, non posso mancare di rivolgere ai Capi di Stato e di Governo del G20 e a tutta la comunità mondiale un accorato appello per la tragica situazione del Sud Sudan, del bacino del Lago Ciad, del Corno d’Africa e dello Yemen,…”

“…. La guerra, tuttavia, non è mai una soluzione. Nella prossimità del centenario della Lettera di Benedetto XV Ai Capi dei Popoli Belligeranti, mi sento obbligato a chiedere al mondo di porre fine a tutte queste inutili stragi.”

LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALLA DOTTORESSA ANGELA MERKEL, IN OCCASIONE DELL’APERTURA DEI LAVORI DEL VERTICE DEL G20 [Amburgo, 7-8 luglio 2017]

A Sua Eccellenza Dottoressa Angela Merkel Cancelliere della Repubblica Federale di Germania

In seguito al nostro recente incontro in Vaticano e rispondendo alla Sua opportuna richiesta, desidero trasmetterLe alcune considerazioni che stanno a cuore a me e a tutti i Pastori della Chiesa Cattolica, in vista del prossimo incontro del G20…
Vorrei innanzitutto manifestare a Lei e ai leader che si incontreranno ad Amburgo il mio apprezzamento per gli sforzi compiuti per assicurare la governabilità e la stabilità dell’economia mondiale, con particolare attenzione ai mercati finanziari, al commercio, ai problemi fiscali e, più in generale, ad una crescita economica mondiale che sia inclusiva e sostenibile (cfr. Comunicato del G20 di Hangzhou, 5 settembre 2016). Tali sforzi, come ben prevede il programma di lavoro del Vertice, sono inseparabili dall’attenzione rivolta ai conflitti in atto e al problema mondiale delle migrazioni.
Nel Documento programmatico del mio Pontificato rivolto ai fedeli cattolici, l’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, ho proposto quattro principi di azione per la costruzione di società fraterne, giuste e pacifiche: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; e il tutto è superiore alle parti. E’ evidente che queste linee di azione appartengano alla sapienza multisecolare di tutta l’umanità e perciò ritengo che possano anche servire come contributo alla riflessione per l’incontro di Amburgo e anche per valutare i suoi risultati.
Il tempo è superiore allo spazio. La gravità, la complessità e l’interconnessione delle problematiche mondiali sono tali che non esistono soluzioni immediate e del tutto soddisfacenti. Purtroppo, il dramma delle migrazioni, inseparabile dalla povertà ed esacerbato dalle guerre, ne è una prova. E’ possibile invece mettere in moto processi che siano capaci di offrire soluzioni progressive e non traumatiche e di condurre, in tempi relativamente brevi, ad una libera circolazione e alla stabilità delle persone che siano vantaggiosi per tutti. Tuttavia, questa tensione tra spazio e tempo, tra limite e pienezza, richiede un movimento esattamente contrario nella coscienza dei governanti e dei potenti. Una efficace soluzione distesa necessariamente nel tempo sarà possibile solo se l’obiettivo finale del processo è chiaramente presente nella sua progettualità. Nei cuori e nelle menti dei governanti e in ognuna delle fasi d’attuazione delle misure politiche c’è bisogno di dare priorità assoluta ai poveri, ai profughi, ai sofferenti, agli sfollati e agli esclusi, senza distinzione di nazione, razza, religione o cultura, e di rigettare i conflitti armati.
A questo punto, non posso mancare di rivolgere ai Capi di Stato e di Governo del G20 e a tutta la comunità mondiale un accorato appello per la tragica situazione del Sud Sudan, del bacino del Lago Ciad, del Corno d’Africa e dello Yemen, dove ci sono 30 milioni di persone che non hanno cibo e acqua per sopravvivere. L’impegno per venire urgentemente incontro a queste situazioni e dare un immediato sostegno a quelle popolazioni sarà un segno della serietà e sincerità dell’impegno a medio termine per riformare l’economia mondiale ed una garanzia del suo efficace sviluppo.
L’unità prevale sul conflitto. La storia dell’umanità, anche oggi, ci presenta un vasto panorama di conflitti attuali o potenziali.
La guerra, tuttavia, non è mai una soluzione. Nella prossimità del centenario della Lettera di Benedetto XV Ai Capi dei Popoli Belligeranti, mi sento obbligato a chiedere al mondo di porre fine a tutte queste inutili stragi. Lo scopo del G20 e di altri simili incontri annuali è quello di risolvere in pace le differenze economiche e di trovare regole finanziarie e commerciali comuni che consentano lo sviluppo integrale di tutti, per raggiungere l’Agenda 2030 e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (cfr. Comunicato del G20 di Hangzhou). Tuttavia, ciò non sarà possibile se tutte le parti non si impegnano a ridurre sostanzialmente i livelli di conflittualità, a fermare l’attuale corsa agli armamenti e a rinunciare a coinvolgersi direttamente o indirettamente nei conflitti, come pure se non si accetta di discutere in modo sincero e trasparente tutte le divergenze. È una tragica contraddizione e incoerenza l’apparente unità in fori comuni a scopo economico o sociale e la voluta o accettata persistenza di confronti bellici.
La realtà è più importante dell’idea. Le tragiche ideologie della prima metà del secolo XX sono state sostituite dalle nuove ideologie dell’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria (cfr. EG, 56). Esse lasciano una scia dolorosa di esclusione e di scarto, e anche di morte. Nei successi politici ed economici, invece, che pure non sono mancati nel secolo scorso, si riscontra sempre un sano e prudente pragmatismo, guidato dal primato dell’essere umano e dalla ricerca di integrare e di coordinare realtà diverse e a volte contrastanti, a partire dal rispetto di ogni singolo cittadino. In tale senso, prego Dio che il Vertice di Amburgo sia illuminato dall’esempio di leader europei e mondiali che hanno privilegiato sempre il dialogo e la ricerca di soluzioni comuni: Schuman, De Gasperi, Adenauer, Monnet e tanti altri.
Il tutto è superiore alle parti. I problemi vanno risolti in concreto e dando tutta la dovuta attenzione alle loro peculiarità, ma le soluzioni, per essere durature, non possono non avere una visione più ampia e devono considerare le ripercussioni su tutti i Paesi e tutti i loro cittadini, nonché rispettare i loro pareri e le loro opinioni. Vorrei ripetere l’avvertenza che Benedetto XVI indirizzava al G20 di Londra nel 2009. Sebbene sia ragionevole che i Vertici del G20 si limitino al ridotto numero di Paesi che rappresentano il 90% della produzione mondiale di beni e di servizi, questa stessa situazione deve muovere i partecipanti ad una profonda riflessione. Coloro – Stati e persone – la cui voce ha meno forza sulla scena politica mondiale sono precisamente quelli che soffrono di più gli effetti perniciosi delle crisi economiche per le quali hanno ben poca o nessuna responsabilità. Allo stesso tempo, questa grande maggioranza che in termini economici rappresenta solo il 10 % del totale, è quella parte dell’umanità che avrebbe il maggiore potenziale per contribuire al progresso di tutti. Occorre, pertanto, far sempre riferimento alle Nazioni Unite, ai programmi e alle agenzie associate e alle organizzazioni regionali, rispettare e onorare i trattati internazionali e continuare a promuovere il multilateralismo, affinché le soluzioni siano veramente universali e durature, a beneficio di tutti (cfr. Benedetto XVI, Lettera all’On. Gordon Brown, 30 marzo 2009).
Ho voluto offrire queste considerazioni come contribuito ai lavori del G20, fiducioso nello spirito di solidarietà responsabile che anima tutti i partecipanti. Invoco perciò la benedizione di Dio sull’incontro di Amburgo e su tutti gli sforzi della comunità internazionale per attivare una nuova era di sviluppo innovativa, interconnessa, sostenibile, rispettosa dell’ambiente e inclusiva di tutti i popoli e di tutte le persone (cfr. Comunicato del G20 di Hangzhou).
Gradisca, Eccellenza, le mie espressioni di alta considerazione e stima.

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ho sognato cha camminavo in riva al mare …

messaggio di tenerezza

Ho sognato che camminavo
in riva al mare con il Signore
e rivedevo sullo schermo del cielo
tutti i giorni della mia vita passata.


E per ogni giorno trascorso
apparivano sulla sabbia due orme:
le mie e quelle del Signore.
Ma in alcuni tratti ho visto una sola orma,
proprio nei giorni
più difficili della mia vita.
Allora ho detto: “Signore
io ho scelto di vivere con te
e tu mi avevi promesso
che saresti stato sempre con me.
Perché mi hai lasciato solo
proprio nei momenti più difficili? “
E lui mi ha risposto:
“Figlio, tu lo sai che io ti amo
e non ti ho abbandonato mai:
i giorni nei quali
c’è soltanto un’orma sulla sabbia
sono proprio quelli
in cui ti ho portato in braccio”.

da PensieriParole <https://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-anonime/poesia-21579>

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l’unica persona al mondo che ha negli occhi e nel cuore lo sguardo dei migranti

papa Francesco

“Dio è nei migranti che tutti vogliono cacciare via”

Domandiamoci:

la nostra fede è feconda? Produce opere buone? Oppure è piuttosto sterile, e quindi più morta che viva? Mi faccio prossimo o semplicemente passo accanto? Queste domande è bene farcele spesso, perché alla fine saremo giudicati sulle opere di misericordia; il Signore potrà dirci: ‘Ti ricordi quella volta, sulla strada da Gerusalemme a Gerico? Quell’uomo mezzo morto ero io’. ‘Quel bambino affamato ero io’. ‘Quei migranti che vogliono cacciare via ero io’. ‘Quel nonno solo ero io'”.

Papa Francesco, nell’Angelus della domenica, non cita casi specifici ma si limita a enunciare la parabola del buon Samaritano. Ma il riferimento non può che essere alla cronaca, anzi alle cronache del mondo. A partire dalla morte di Emmanuel, il nigeriano ucciso a Fermo, un esempio concreto di razzismo che allontana il prossimo, che separa.

“Anche noi – ha sottolieato – possiamo porci questa domanda: chi è il mio prossimo? Chi devo amare come me stesso? I miei parenti? I miei amici? I miei connazionali? Quelli della mia stessa religione?”.

Francesco ha spiegato che Gesù ci cambia la prospettiva: “Non devo catalogare gli altri per decidere chi è il mio prossimo e chi non lo è, dipende da me, la decisione è mia. Dipende da me essere o non essere prossimo della persona che incontro e che ha bisogno di aiuto, anche se è estranea o magari ostile”. Lo ha detto papa francesco oggi all’angelus, a completamento della parabola evangelica del buon samaritano.

 E, dalla parabola del buon samaritano, il papa ha tratto un altro messaggio, quello del fare.
“Dobbiamo fare opere buone – ha detto – non dire solo parole che vanno al vento ma fare. Mi viene in mente quella canzone che dice ‘parole parole parole’. Ecco, non parole ma fare”. E, oltre a fare, bisogna anche chiedere e chiedersi se la nostre fede “sia feconda. Produce opere buone – si è chiesto il papa – oppure è piuttosto sterile, e quindi più morta che viva? mi faccio prossimo o semplicemente passo accanto? selezione le persone a secondo del mio proprio piacere. Queste domande è bene farcele spesso, perchè alla fine saremo giudicati sulle opere di misericordia e il signore potrà dirci: ‘ti ricordi quella volta, sulla strada da gerusalemme a gerico? quell’uomo mezzo morto ero io. Quel migrante che volevano cacciare via ero io. Quel nonno abbandonato ero io. Quel malato che nessuno va a trovare in ospedale ero io”.
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