il commento al vangelo della domenica

“chi avrà tenuto per sé la propria vita la perderà”
il vangelo della tredicesima domenica del tempo ordinario (2 luglio 2017) commentato da Ermes Ronchi:
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato […] Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

Un Dio che pretende di essere amato più di padre e madre, più di figli e fratelli, che sembra andare contro le leggi del cuore. Ma la fede per essere autentica deve conservare un nucleo sovversivo e scandaloso, il «morso del più» (Luigi Ciotti), un andare controcorrente e oltre rispetto alla logica umana.
Non è degno di me. Per tre volte rimbalza dalla pagina questa affermazione dura del Vangelo. Ma chi è degno del Signore? Nessuno, perché il suo è amore incondizionato, amore che anticipa, senza clausole. Un amore così non si merita, si accoglie.
Chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà! Perdere la vita per causa mia non significa affrontare il martirio. Una vita si perde come si spende un tesoro: investendola, spendendola per una causa grande. Il vero dramma per ogni persona umana è non avere niente, non avere nessuno per cui valga la pena mettere in gioco o spendere la propria vita.
Chi avrà perduto, troverà. Noi possediamo veramente solo ciò che abbiamo donato ad altri, come la donna di Sunem della Prima Lettura, che dona al profeta Eliseo piccole porzioni di vita, piccole cose: un letto, un tavolo, una sedia, una lampada e riceverà in cambio una vita intera, un figlio. E la capacità di amare di più.
A noi, forse spaventati dalle esigenze di Cristo, dall’impegno di dare la vita, di avere una causa che valga più di noi stessi, Gesù aggiunge una frase dolcissima: Chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca, non perderà la sua ricompensa.
Il dare tutta la vita o anche solo una piccola cosa, la croce e il bicchiere d’acqua sono i due estremi di uno stesso movimento: dare qualcosa, un po’, tutto, perché nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con il verbo dare: Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio. Non c’è amore più grande che dare la vita!
Un bicchiere d’acqua, dice Gesù, un gesto così piccolo che anche l’ultimo di noi, anche il più povero può permettersi. E tuttavia un gesto non banale, un gesto vivo, significato da quell’aggettivo che Gesù aggiunge, così evangelico e fragrante: acqua fresca.
Acqua fresca deve essere, vale a dire l’acqua buona per la grande calura, l’acqua attenta alla sete dell’altro, procurata con cura, l’acqua migliore che hai, quasi un’acqua affettuosa con dentro l’eco del cuore.
Dare la vita, dare un bicchiere d’acqua fresca, ecco la stupenda pedagogia di Cristo. Un bicchiere d’acqua fresca se dato con tutto il cuore ha dentro la Croce. Tutto il Vangelo è nella Croce, ma tutto il Vangelo è anche in un bicchiere d’acqua.
Nulla è troppo piccolo per il Signore, perché ogni gesto compiuto con tutto il cuore ci avvicina all’assoluto di Dio.
Amare nel Vangelo non equivale ad emozionarsi, a tremare o trepidare per una creatura, ma si traduce sempre con un altro verbo molto semplice, molto concreto, un verbo fattivo, di mani, il verbo dare.
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questa volta papa Francesco non l’ha proprio azzeccata – se avesse dato più ascolto …

l’incriminazione del cardinale Pell per pedofilia e le colpe di papa Francesco

da tre anni le vittime e (pochi) giornalisti hanno messo in guardia il pontefice e il Vaticano sul lato oscuro del prelato australiano. Ma Bergoglio l’ha nominato prima suo braccio destro per l’economia, poi membro del gruppo dei nove cardinali più influenti della Chiesa. Nonostante le prove che Pell fosse un insabbiatore seriale

di Emiliano Fittipaldi
L'incriminazione del cardinale Pell per pedofilia e le colpe di papa Francesco

L’incriminazione del cardinale George Pell, accusato di pedofilia dai magistrati australiani dopo una serie di denunce considerate più che verosimili dagli inquirenti e dalla polizia, è uno spartiacque del pontificato di Francesco. Perché l’inchiesta colpisce al cuore uno degli uomini più potenti del Vaticano, il “ranger” venuto da Sidney per “moralizzare” la corrotta curia romana. Un uomo chiamato direttamente da Bergoglio, nonostante le ombre che da anni avvolgevano la sua tonaca.

Oggi il Vaticano e alcuni cantori del pontificato di Francesco, davanti alle accuse terribili di stupro, hanno subito cercato di rigirare la frittata per mitigare la portata dello scandalo. Evidenziando che Pell non troverà riparo dalla giustizia dietro le mura d’Oltretevere, ma sarà costretto a lasciare l’incarico e a difendersi davanti il tribunale dello Stato di Victoria. «Ecco la tolleranza zero di Francesco», s’è affrettato a scrivere più di un vaticanista, mentre Massimo Franco sul Corriere della Sera si spinge addirittura a vedere nella capitolazione del braccio destro del papa «un cambio di passo nella lotta alla pedofilia».

vedi anche:

Una lettura del caso assolutoria e minimalista: ci mancherebbe altro che Bergoglio e la Santa Sede avessero deciso il contrario, proteggendo un cardinale, un fedelissimo del papa “rivoluzionario” davanti ad accuse gravissime. Francesco, che ha recentemente paragonato gli abusi sessuali alle messe nere, non poteva fare diversamente, abbandonando il suo (ex) braccio destro al suo destino giudiziario.

L’incriminazione del cardinale Pell in Australia per abusi sessuali e stupro segna uno spartiacque in questo Pontificato. Perché il porporato è stato scelto personalmente da Bergoglio come suo numero 3 nonostante le inchieste avessero già fatto emergere la sua condotta poco cristiana. Il commento di Emiliano Fittipaldi, inviato dell’Espresso e autore di “Lussuria”, libro sui pedofili coperti dal Vaticano
   
   
   
   

Lo scandalo Pell, al netto della propaganda, racconta ben altro. Perché se le accuse di abusi sessuali di Pell su bambini e minorenni sono arrivate solo qualche mese fa (le prime denunce sono state depositate alla polizia la scorsa estate), evidenze sulla natura ambigua del cardinale originario di Ballarat sono note da anni.

In passato, quando era vescovo di Melbourne, il “ranger” era già stato denunciato da un chierichetto di 12 anni per gravi molestie (il processo si era chiuso nel 2002 senza alcuna condanna per mancanza di prove) e Ratzinger – anche per questo – aveva sempre frenato le sue ambizioni, cancellando la sua promozione a capo di un dicastero romano. 

Durante la conferenza stampa in Vaticano il cardinale George Pell ha dichiarato di “rifiutare totalmente le accuse” di abusi sessuali che gli vengono rivolte, di voler tornare in Australia per difendersi e di avere più volte nei mesi scorsi e anche recentissimamente, messo il corrente il Papa di questa situazione. Bergoglio ha concesso a Pell un periodo di congedo per difendersi. Il cardinale non si dimette comunque dalla carica di prefetto degli Affari economici del Vaticano. Dopo la difesa di Pell è stato letto in italiano e in inglese un comunicato della Santa Sede
   
   
   
   

Ma il cardinale dal 2012 è finito nel mirino di decine di vittime e di sopravvissuti agli orchi. Ragazzi e ragazze che nel corso delle audizioni della Royal Commission, una commissione nazionale voluta dal governo di Camberra, hanno additato “Big George” come un insabbiatore, come un uomo che ha sistematicamente difeso i pedofili australiani (secondo il rapporto preliminare della Commissione il 7 per cento dei preti cattolici dell’isola sono implicati in vicende di pedofilia), come un vescovo che ha inventato un sistema di risarcimenti usato in realtà «per distruggere e controllare le vittime e difendere l’immagine e la cassaforte della Chiesa». Qualcuno, come un padre a cui un preside cattolico ha violentato due bimbe di 4 e 5 anni, l’ha definito «un sociopatico».

Su L’Espresso e nel libro “Lussuria” chi vi scrive ha documentato come Pell abbia chiesto a famiglie distrutte di accettare, per chiudere definitivamente il caso nel civile, 30 mila euro, «in caso contrario noi ci difenderemo strenuamente in tribunale»; come il cardinale abbia accompagnato sottobraccio pedofili seriali come l’amico Gerald Ridsdale (condannato alla fine per aver violentato decine di bambini) in tribunale; come il prete copriva sistematicamente accuse a suo dire false e rivelatesi poi verissime.

vedi anche:

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Così il Vaticano protegge i preti pedofili

Alti prelati del Vaticano, italiani e stranieri. Molto vicini a papa Francesco. Che per anni hanno insabbiato le violenze sessuali sui minori da parte degli orchi con la tonaca. Le nuove rivelazioni su responsabilità, silenzi e omertà

Altre vittime hanno raccontato – in testimonianze giurate – come Pell abbia cercato di comprare il proprio silenzio. Un documento di un verbale di un incontro del clero australiano del settembre del 1996 dimostra invece che “il ranger”, mentre umiliava le vittime con risarcimenti ridicoli (per chiudere centinaia di casi la chiesa australiana ha investito negli ultimi anni 8 milioni di dollari, non proprio una cifra generosa: i soli beni immobili e finanziari della chiesa di Melbourne, nascosti da Pell in due trust, valgono 1,3 miliardi di dollari) si prodigasse contemporaneamente in favore di sacerdoti pedofili (padre Gannon, padre O’ Donnell e padre Glennon), ordinando ai suoi sottoposti di aiutarli economicamente, in modo da fargli avere uno stipendio, vitto, appartamenti, l’assicurazione sanitaria.

Pell si è sempre difeso energicamente dalle accuse, rigettandole con forza. Anche il Vaticano lo ha appoggiato in ogni modo. I giudici della Royal Commission però non gli hanno creduto, tanto da definire in una relazione del 2015 il suo comportamento «poco cristiano». Nonostante tutte le informazioni sul lato oscuro di Pell fossero già pubbliche e presumibilmente in possesso della Santa Sede, Francesco ha nominato “Big George” prima capo della Segreteria dell’Economia, poi membro del C9, il gruppo dei cardinali che deve consigliare il pontefice nella gestione della Chiesa universale.

Davanti alle denunce delle vittime australiane (che non ha mai voluto incontrare) e a quelle di (pochi) giornalisti, Bergoglio ha sempre difeso Pell a spada tratta, rinnovando i suoi incarichi e il suo potere anno dopo anno. Nel silenzio, quasi totale, della stampa italiana. Fino ad oggi, quando le accuse di abusi sessuali (tutti da dimostrare, va detto e ripetuto) hanno costretto al repentino cambio di rotta. Con l’ammissione, ovviamente indiretta, di aver sbagliato un’altra nomina chiave del suo pontificato.

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il commento al vangelo della domenica

“NON ABBIATE PAURA “

commento al vangelo della dodicesima domenica del tempo ordinario (25 giugno 2017) di Ermes Ronchi:

Matteo 10,26-33

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

Non abbiate paura: voi valete più di molti passeri. Ogni volta, di fronte a queste parole provo paura e commozione insieme: la paura di non capire un Dio che si perde dietro le più piccole creature: i passeri e i capelli del capo; la commozione di immagini che mi parlano dell’impensato di Dio, che fa per te ciò che nessuno ha fatto, ciò che nessuno farà: ti conta tutti i capelli in capo e ti prepara un nido nelle sue mani. Per dire che tu vali per Lui, che ha cura di te, di ogni fibra del corpo, di ogni cellula del cuore: innamorato di ogni tuo dettaglio.
Nemmeno un passero cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Eppure i passeri continuano a cadere, gli innocenti a morire, i bambini ad essere venduti a poco più di un soldo o gettati via appena spiccato il loro breve volo.
Ma allora, è Dio che fa cadere a terra? È Dio che infrange le ali dei corti voli che sono le nostre vite, che invia la morte ed essa viene? No. Abbiamo interpretato questo passo sull’eco di certi proverbi popolari come: non si muove foglia che Dio non voglia. Ma il Vangelo non dice questo, assicura invece che neppure un passero cadrà a terra senza che Dio ne sia coinvolto, che nessuno cadrà fuori dalle mani di Dio, lontano dalla sua presenza. Dio sarà lì.
Nulla accade senza il Padre, è la traduzione letterale, e non di certo senza che Dio lo voglia. Infatti molte cose, troppe accadono nel mondo contro il volere di Dio. Ogni odio, ogni guerra, ogni violenza accade contro la volontà del Padre, e tuttavia nulla avviene senza che Dio ne sia coinvolto, nessuno muore senza che Lui non ne patisca l’agonia, nessuno è rifiutato senza che non lo sia anche lui (Matteo 25), nessuno è crocifisso senza che Cristo non sia ancora crocifisso.
Quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo sulle terrazze, sul posto di lavoro, nella scuola, negli incontri di ogni giorno annunciate che Dio si prende cura di ognuno dei suoi figli, che nulla vi è di autenticamente umano che non trovi eco nel cuore di Dio.
Temete piuttosto chi ha il potere di far perire l’anima, l’anima è vulnerabile, l’anima è una fiamma che può languire: muore di superficialità, di indifferenza, di disamore, di ipocrisia. Muore quando ti lasci corrompere, quando disanimi gli altri e togli loro coraggio, quando lavori a demolire, a calunniare, a deridere gli ideali, a diffondere la paura.
Per tre volte Gesù ci rassicura: Non abbiate paura (vv 26,28,31), voi valete! Che bello questo verbo! Per Dio, io valgo. Valgo di più, di più di molti passeri, di più di tutti i fiori del campo, di più di quanto osavo sperare. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita.

(Letture: Geremia 20,10-13; Salmo 68; Romani 5,12-15; Matteo 10,26-33)

 

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il sì del papa e il no del cardinale ai due ‘preti ribelli’ – ma per fortuna che c’è … Bassetti

il cardinale di Firenze su don Milani
«no alla causa di beatificazione»

secondo mons. Betori il parroco di Barbiana non fu mai escluso dalla Chiesa ed è stato impropriamente usato come modello di contestazione

«Ma ora si chiude una fase»

Per don Lorenzo Milani non ci sarà alcun «processo canonico. Assolutamente no, almeno fino a quando ci sarò io. Dopo non tocca a me dirlo… ma io non credo alla santità di don Lorenzo: qui non ci farò un santuario». Lo ha detto l’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, al termine della visita di Papa Francesco a Barbiana. «A Barbiana mi aspetto che non cambi nulla», ha aggiunto Betori ricordando che già ora la piccola chiesa di don Lorenzo è meta di oltre 10 mila persone l’anno, moltissimi studenti, e soffermandosi a lungo sulle parole del Papa che ha richiamato la fedeltà di don Milani alla Chiesa. «La giornata porta luce ulteriore sulla figura di don Lorenzo» e nella chiesa fiorentina, «e spero che questa nostra chiesa sia capace di riprendere in mano pagine difficili. Una chiesa – ha concluso il cardinale – mai rifiutata da questo suo figlio».

«Mai escluso dalla Chiesa»

«Io credo poco a riabilitazioni postume. Don Milani non si è mai sentito escluso dalla Chiesa, ha sempre rivendicato di starci dentro» ha aggiunto il cardinale Betori, ricordando che don Lorenzo «non appartiene alla contestazione ecclesiastica, è stato utilizzato da questa, come don Mazzolari, ma non è mai stato in contrapposizione. E per questo non c’è niente da riparare. Nella Chiesa ci si sta, soffrendo ma anche godendo e oggi abbiamo goduto». La giornata di oggi «riporta luce sulla Chiesa fiorentina che, mi auguro, sarà capace di riprendere in mano pagine ancora difficili da recuperare, comprendere bene nella specificità delle situazioni» ha proseguito l’arcivescovo di Firenze, ribadendo che questa Chiesa «non ebbe un facile rapporto con suo figlio, ma mai fu da lui rifiutata, da un sacerdote che con il suo essere maestro ed educatore fu sacerdote fino in fondo, che visse la sua missione di riscatto degli ultimi».

 

capire perché fu ostacolato

Per un verso, con la visita di Papa Francesco, «si chiude il percorso di recupero della dimensione ecclesiale di don Milani, iniziato con il cardinale Silvano Piovanelli – ha spiegato ancora Betori, che al suo fianco aveva i rappresentanti degli allievi di don Lorenzo, di Calenzano e di Barbiana e il sindaco di Vicchio, Roberto Izzo – ma ora abbiamo un compito nuovo, che è capire le ragioni per cui era stato ostacolato, ragioni che vanno rimosse, e questo è il compito della Chiesa. Anche per questo nel prossimo mese di ottobre organizzeremo un convegno su `Esperienze pastorali”. L’arcivescovo si è detto convinto che don Milani sarebbe stato lo stesso anche in una parrocchia del centro di Firenze, come «San Lorenzo. Credo sarebbe stato se stesso anche lì. Barbiana non era Scampia: qui c’era tutto da fare anche per la dignità, e io ammiro la sua fede assoluta, senza la quale non si spiega niente: ha vissuto il suo sacerdozio spendendosi totalmente per i più poveri».

 il cardinale Bassetti

“don Lorenzo Milani per me è un santo”


di Stefania Falasca 
Il presidente della Cei conosceva bene il priore di Barbiana: come Mazzolari era un prete fino in fondo. «Aveva una fedeltà assoluta alla Chiesa»

Don Lorenzo Milani (Ansa)

don Lorenzo Milani

«No, non direi che la visita del Papa possa essere considerata un risarcimento. Tutti abbiamo sofferto e pagato qualcosa. Anche il Papa ne ha avuto. E quello che si è pagato non ce lo può dare il Papa, non ce lo dà la Chiesa, ma Dio». Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, commenta così la visita di papa Francesco a Barbiana. Un gesto che «ci dice semplicemente che quest’uomo, questo sacerdote ha camminato sulla strada giusta, è stato un pastore fedele. E la Chiesa oggi ne riconosce la profezia».

Nativo del Mugello, l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, conosce bene il priore di Barbiana, per lui è uno di casa. «I profeti li fa Dio – aggiunge – e li fa in un determinato tempo, nunc pro tunc, ora e per dopo. E allora io dico che di don Mazzolari c’è bisogno oggi, e così di don Milani».

Quella di andare a Bozzolo e Barbiana è ancora una volta una scelta in direzione degli ultimi. «Come quella di andare a benedire le case – continua il presidente della Cei –. Che vuol dire? C’era bisogno che il Papa andasse a benedire le case? Voleva dire: sacerdoti ricordatevi di visitare le vostre famiglie. Sono segni esemplari che il Papa fa come pastore di tutta la Chiesa perché noi possiamo seguirlo. E certamente è un fatto esemplare andare sulle tombe di don Mazzolari e di don Milani».

Nella riflessione del porporato non può mancare il ricordo personale di don Milani. «Era un uomo che aveva un’intelligenza creativa e che io, per le sue scelte così radicali e coerenti e per il primato che ha dato alla coscienza, ho spesso paragonato a Newman. Lui è stato, diciamo così, un po’ come Gesù: un segno di contraddizione». Bassetti racconta come fosse ieri l’incontro avuto con don Milani, da seminarista quando partì in lambretta da Firenze con un suo amico del Seminario, di nascosto perché il rettore non gli avrebbe potuto dare il permesso. «Ma ci venne il desiderio di conoscere questo prete, che vedevamo sulle riviste ». Quell’incontro è rimasto fissato nella sua memoria: «A Barbiana don Milani ci venne incontro sulla strada: “Chi siete?” chiese. Eravamo in talare, ci riconobbe come due seminaristi. “Avete chiesto il permesso al rettore? – aggiunse –. “No”. “Ecco, si comincia male”, disse. “Fossi io il rettore vi butterei tutt’e due fuori dal Seminario, perché siete disobbedienti”. Questo era don Milani». Si è parlato molto del paradosso di questa “disobbedienza obbedientissima” del priore di Barbiana. Lei cosa ne pensa? «Se don Milani non fosse stato obbedientissimo, non avrebbe avuto senso la visita di papa Francesco a Barbiana, perché sarebbe stato uno dei tanti preti anticonformisti che si sono distinti con un carattere estremamente forte… Ma don Milani non è tutto questo. Don Milani è un prete fino in fondo, un uomo con una fedeltà assoluta alla Chiesa e alla sua coscienza».

Eminenza, lei ha parlato di primato della coscienza… «È Il coraggio suggerito da Dio di dire la verità senza disobbedire alla Chiesa. Obbedire a Dio prima che agli uomini e loro, don Mazzolari come don Milani, l’hanno fatto. Ma queste sono delle costanti e delle linee direttrici per la Chiesa di ogni tempo». Don Milani è un sacerdote che dopo l’esperienza di Calenzano, piuttosto breve, va certamente inquadrato per quindici anni, dal 1952 a 1967, a Barbiana, dove è stato parroco solo di un centinaio di anime. È ancora incompreso don Milani secondo lei? «Non credo che tutti l’abbiamo compreso – sottolinea il presidente della Cei –. Quando la sua mamma è andata per la prima volta a Barbiana scrive una lettera dove lei gli dice: “Lorenzo non avere paura… parleremo con il cardinale, prima o poi te leva da lì,stai tranquillo”. E lui le dà una riposta feroce. È l’unica volta: “Tu misuri la dignità di un prete dalla grandezza della parrocchia. Ma che importa se un parroco ha dieci anime o ottantamila, quando è chiamato ad annunciare il Vangelo e a fare il prete nell’obbedienza dove stato chiamato. Io sono contento di essere a Barbiana e ti dico che voglio morire a Barbiana”. Don Milani è un prete fino in fondo intriso della sua missione della grazia di Dio. Non si spiegano né Mazzolari né Milani senza il tocco della grazia di Dio, senza il loro attaccamento ai sacramenti, alla visione sacramentale della Chiesa».

Mazzolari e Milani, «preti autentici», modelli che possono essere riproposti anche alla Chiesa di oggi. Per don Mazzolari sta per aprirsi la causa di canonizzazione. Secondo lei è santo don Milani? «Don Lorenzo Milani è santo, per come l’ho conosciuto io, è un santo». «Del resto – aggiunge il cardinale Bassetti – chi è il santo? Non è quello che ha meno difetti di tutti o che moralmente ha il profilo più alto di tutti, questa non è la santità. Il santo per me è uno che è vaccinato di Spirito Santo. E lo rimane certo… anche con il suo caratteraccio, perché don Lorenzo a volte ha avuto dei modi di trattare quasi al limite. Ma possiamo dire è un santo, anche senza aureola riconosciuta canonicamente, perché tutto in lui nasceva dalla purezza del cuore e in questo modo insegnava e andava avanti nella ricerca della perfezione, confidando nella realtà dei sacramenti». La sua osservazione non stenterebbe certo a trovare consensi anche presso i suoi ex alunni e a quelli che sono stati accanto al priore di Barbiana, ma che forse non vorrebbero la sua canonizzazione. «Vuole un mio parere? Preferirei ora tenermi il mio Lorenzo con me, che per me è un grande santo, anche senza l’aureola. Non c’è bisogno che don Lorenzo faccia i miracoli, perché la sua vita è stata un miracolo».

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l’evento storico dell’onore restituito da parte di papa Francesco a don Milani e don Mazzolari

 

don Milani e don Mazzolari, il primo Papa a casa dei due preti ribelli

19/06/2017 

oggi papa Francesco rende onore ai due grandi sacerdoti che avevano anticipato il vento del Concilio

storia di due anime tormentate e a lungo incomprese

Tra Barbiana e Bozzolo ci sono 155,6 km in linea d’aria. Papa Francesco li percorrerà in elicottero la mattina del 20 giugno. Bozzolo e Barbiana non sono soltanto quello che sono fisicamente: un paesone in provincia di Mantova sotto la diocesi di Cremona e una punta di campanile tra le case sparse nella vegetazione intricata dei monti del Mugello a 40 km da Firenze.

Sono molto di più: sono il luogo, fisico e spirituale, di don Primo Mazzolari e di don Lorenzo Milani. Il luogo delle loro – diverse – solitudini, anche. Solitudini spiritualmente vicine, molto più dei chilometri che li dividevano. Solitudini che oggi prova a raccogliere in un abbraccio comune – per la prima volta a 50 anni dalla morte di Lorenzo Milani e 58 dalla morte di Primo Mazzolari – papa Francesco.

Abbiamo chiesto a Mariangela Maraviglia, storica della Chiesa, nel comitato scientifico della Fondazione Don Primo Mazzolari, una vita a studiare i “disobbedienti”, Mazzolari, Milani, Turoldo, di guidarci a capire la “storicità” di questo viaggio, in luoghi in cui arrivavano a fatica i vescovi, figuriamoci un Papa. «C’è di certo una portata storica in questa visita: queste due figure furono in vita condannate da una Chiesa che tentò inutilmente di ridurle al silenzio: furono censurati i loro libri, nel caso di Mazzolari anche la predicazione, don Milani fu esiliato a Barbiana, gli fu ritirato dal commercio Esperienze pastorali (quel decreto dell’allora Sant’Uffizio è stato dichiarato decaduto solo nel 2015 da papa Francesco, ndr). Furono osteggiati anche dopo la morte e anche dopo il concilio Vaticano II. Ancora oggi non sono unanimemente amati. E ora vengono riconosciuti da un Papa come figure degne di speciale attenzione. A me sembra che questa visita possa essere letta come un segno esteriore, rilevante simbolicamente, di quel cambio di passo, qualcuno ha detto della “rivoluzione culturale”, che Francesco sta imprimendo alla Chiesa; poi per capire meglio l’intenzione di Francesco dovremo sentire le sue parole. Ma sicuramente possiamo dire che don Milani e don Mazzolari avvertirono fortemente nella propria vita la necessità che la Chiesa fosse come indica il Papa: “Non una Chiesa chiusa in sé stessa, autoreferenziale, ma un corpo vivente che cammina e agisce nella storia”. Ho l’impressione che in entrambi papa Francesco individui quell’amore fattivo per gli “scartati della storia” e insieme quella fedeltà alla Chiesa, mai venuta meno, che fanno di loro testimoni privilegiati del modello di Chiesa che il Papa indica nel suo ministero quotidiano».

AFFINITÀ ELETTIVE

Don Milani e don Mazzolari non si sono mai incontrati ma in vita si sono conosciuti, scambiandosi poche lettere; da queste si colgono una consonanza profonda e alcuni innegabili elementi comuni pur appartenendo a generazioni diverse: Mazzolari era nato nel 1890 e morto nel 1958, don Milani è morto il 26 giugno del 1967 a 44 anni.

«Li accomuna», continua Mariangela Maraviglia, «il metodo, per dirla con Mazzolari, dell’incarnazione: la convinzione che il cristianesimo nasca dall’incarnazione di Cristo nella storia, che non possa ridursi a uno “spiritualismo disincarnato”. Li accomuna la convinzione, sintetizzata nell’I care (“mi interessa”) milaniano, che un cristiano che prenda sul serio il Vangelo non possa che tradurlo nello spendersi per una società più giusta. Li accomuna il fatto di credere nel dialogo con i lontani, cosa che portò entrambi a prese di posizioni costose in epoca di scomunica dei comunisti. Mazzolari sul quindicinale Adesso, da lui fondato, a quel proposito scrisse: “Il Vangelo mi chiede di condannare l’errore ma di amare l’errante: condanno il comunismo, amo i comunisti”».

Don Milani, con pragmatismo, negli stessi anni, a San Donato a Calenzano, fondò una scuola laica, ponendosi il problema di non imporre ai figli degli operai comunisti scelte laceranti tra la scuola popolare e la famiglia: «Nella sua visione credenti e atei devono dialogare senza preclusioni per la ricerca della verità».

SEMPRE DENTRO LA CHIESA

Anche nei momenti di massima amarezza, di fronte a una Chiesa non pronta a comprendere le urgenze pragmatiche dei contesti sociali in cui operavano: «Don Milani e don Mazzolari non pensarono mai che la Chiesa potesse essere abbandonata, neppure quando li colpiva con durezza. Nessun dubbio per loro che il primato del Vangelo e della coscienza debbano essere affermati dentro la Chiesa, non contro. A questo proposito Mazzolari parlava di “servire in piedi”, concetto che anche Milani ha applicato vivendo».

Una sintonia a distanza la loro che si è nutrita anche di significative differenze: «Mazzolari, figlio di contadini, era entrato in seminario a 12 anni, Milani, di famiglia facoltosa, colta e laica, folgorato dalla vocazione a 23 anni».

LA PAROLA AI POVERI

Lo stesso concetto, fondamentale nel ministero di entrambi: “Dare la parola ai poveri”, non a caso titolo di una rubrica mazzolariana su Adesso, che ospitò anche scritti di don Lorenzo Milani: «È declinato in modi diversi: per Mazzolari significò riconoscere l’esistenza dei poveri e incalzare con i suoi scritti la Chiesa e la politica perché si facessero carico dell’emergenza sociale. Milani affidò alla scuola, prima a San Donato poi a Barbiana, il compito di dare ai poveri il dominio della parola, con l’idea, forse utopica, che cittadini consapevoli potessero raddrizzare il mondo».

Nemmeno Bozzolo e Barbiana sono la stessa cosa: «Bozzolo è un grosso borgo in cui Mazzolari, che si definiva prete rurale, ha potuto esprimersi dentro una comunità. Barbiana è stata un esilio. Ma mi sembra significativo che queste visite alla periferia, in cui, diceva Mazzolari, “maturano i destini del mondo”, avvengano nello stesso giorno. E non credo che sia senza peso, alla base, l’esperienza personale e pastorale di Bergoglio, sacerdote e vescovo a contatto diretto con la povertà in Argentina e ora Papa dalla scelta di vita semplice».

Dagli slum di Buenos Aires a Barbiana. Dalla fine del mondo, alla fine del mondo.

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Marcelo Barros e la ‘laudato sì’ a due anni dalla pubblicazione

a due anni dalla ‘laudato sì’ di papa Francesco

Marcelo Barros

“mai documento ha avuto una ripercussione così forte in tutto il mondo”

“Penso che mai un documento pontificio abbia avuto una ripercussione così forte in tutto il mondo, quello cristiano e quello non cristiano. Tutti si sono sentiti coinvolti in questa chiamata a un’alleanza tra umanità e ambiente, come dice il Papa, a camminare insieme per prendersi cura della vita, degli altri, di tutti gli esseri viventi”.

Lo afferma Marcelo Barros, biblista e monaco benedettino brasiliano, figura di spicco della teologia della liberazione, che in questi due anni ha dedicato molti incontri a presentare e approfondire il testo

L’Enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco “sulla cura della casa comune” sta per compiere due anni. Pubblicata il 18 giugno 2015, porta in realtà la data del 24 maggio, solennità della Pentecoste. “Penso che mai un documento pontificio abbia avuto una ripercussione così forte in tutto il mondo, quello cristiano e quello non cristiano. Tutti si sono sentiti coinvolti in questa chiamata a un’alleanza tra umanità e ambiente, come dice il Papa, a camminare insieme per prendersi cura della vita, degli altri, di tutti gli esseri viventi”. Lo dice Marcelo Barros, biblista e monaco benedettino brasiliano, figura di spicco della teologia della liberazione, che in questi due anni ha dedicato molti incontri a presentare e approfondire il testo.   

Per Barros l’elemento centrale di “novità nella coscienza della Chiesa” è stato il fatto che “un Papa abbia assunto la nozione di ecologia integrale: l’ecologia non solo come cura dell’ambiente, ma l’unione tra la cura dell’ambiente, l’ecologia sociale e l’ecologia interiore, la conversione ecologica”. Che cosa è successo in questi due anni? “Non credo che la Laudato sì’ abbia potuto in due anni cambiare la struttura del mondo dal punto di vista economico e sociale”. Barros fa riferimento alla prima parte dell’Enciclica, in cui si “dice chiaramente chi è il colpevole di questa situazione ecologica: se continuiamo a mettere l’interesse del mercato come assoluto non c’è salvezza né per l’umanità né per l’ambiente. E questo non può cambiare miracolosamente.

Ma sta cambiando una coscienza.

Penso ad esempio a tutti i movimenti sociali e al dialogo che adesso hanno con il Vaticano. Il Papa ha fatto tre incontri con i loro rappresentanti ed è una cosa nuova ed è una conseguenza di questo appello. Credo anche che nella spiritualità, sia della Chiesa cattolica sia di quelle evangeliche, la Laudato si’ sia riuscita a indicare elementi nuovi”.

Non mancano iniziative concrete: la più recente, la “Laudato si’ challange”, la sfida tra start-up che hanno un interesse nel sociale secondo gli orientamenti dello sviluppo sostenibile dell’Onu, lanciata il 5 maggio all’Accademia Pontificia delle scienze sociali.

Altre hanno ricevuto un’accelerazione, come le esperienze di ricerca e di valorizzazione dei semi originari in Brasile e la consapevolezza dell’importanza dell’agricoltura ecologica e dell’alimentazione sana. O ancora la campagna internazionale “fossil fuel divestment” a cui stanno ora aderendo anche realtà cattoliche che decidono di ricorrere a fonti energetiche alternative.

Un altro “appello di papa Francesco nella Laudato si’ è che si crei un’alleanza ecumenica o interreligiosa dal punto di vista dell’ecologia, che le religioni si uniscano per la cura della terra”, ricorda Barros.

Il cristianesimo, che pure ha una sorgente biblica aperta a una spiritualità ecologica, ha sempre nutrito un certo pregiudizio contro la sacralizzazione della natura e per questo nella storia della spiritualità cristiana si è creato un dualismo tra natura e storia” dando la precedenza alla “manifestazione di Dio nella storia più che nella natura”. Nel superamento del dualismo le Chiese della Riforma sono arrivate prima, mentre “la Chiesa cattolica ci è arrivata con un certo ritardo”. Sono però circa trent’anni (dall’Assemblea ecumenica di Basilea nel 1989) che il tema della salvaguardia del creato è entrato a pieno titolo tra gli imperativi ecumenici. “L’ecologia è già una strada per l’ecumenismo in America latina come anche in Europa. Papa Francesco ha sempre sottolineato che l’ecumenismo si fa con gesti concreti e un cammino insieme a servizio dell’umanità. Però se questo cammino non è confermato anche da un approfondimento della dottrina e da un dialogo sulla fede, può essere superficiale. Una cosa dipende dall’altra, però la prima cosa è la praxis”.

Se sul piano dell’”ecologia ambientale” i cambiamenti climatici sono l’emergenza, in ambito di “ecologia sociale” lo è la migrazione: “Ogni popolo ha un rapporto esistenziale con la sua terra. E quando una persona deve andare via dalla sua terra, c’è qualcosa che si rompe. La migrazione non è un fenomeno spontaneo, i migranti non sono turisti, ma arrivano da noi perché non possono vivere nella loro terra per le conseguenze di un sistema economico generato dalle nazioni ricche” che foraggia le guerre ed è all’origine dei cambiamenti climatici.

“La grande ipocrisia di questo mondo è che provoca la migrazione, con un’azione intenzionale, e poi dice: come la possiamo reggere?”.

Quindi oggi è necessario “attaccare le cause di questa situazione che altrimenti prosegue o peggiora. Allo stesso tempo è necessario aprirsi alla realtà attuale che è questa e non può cambiare magicamente”. Per un verso, quindi, se l’economia è la “gestione della casa comune, significa che un’economia non può mai essere pensata in modo isolato dal bene comune, che è l’obiettivo dell’economia e dell’organizzazione della società. Se un’organizzazione sociale ha regole che non portano alla vita, che accettano la morte o la promuovono, quella regola è ingiusta e iniqua” e va cambiata. Per altro verso accogliere e vivere la solidarietà deve avvenire in modo “razionale, ben pensato, concreto e sistematico, non solo sentimentale. La sfida per i cristiani è “reimparare a tenere insieme giustizia e fede”: occorre dialogare e trovare una pedagogia che faccia di nuovo percepire “la contraddizione tra egoismo, individualismo e fede”.

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la grande notte della teologia odierna

non c’è successione per la generazione dei teologi del concilio

introduzione di  Eletta Cucuzza 12/06/2017

da: Adista Documenti n° 22 del 17/06/2017

 Non c’è più la “grande teologia”, quella che ha reso possibile realizzare e alimentare il Concilio Vaticano II, la legge della vita ha portato via quei maestri, ma il guaio è che è senza eredi, perché la paura ha coartato la creatività dei teologi: troppe teste sono cadute sotto la scure della Congregazione per la Dottrina della Fede durante i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI! Eppure ci sarebbe un gran bisogno di attualizzare le risposte della teologia cattolica alle fondamentali domande degli esseri umani, di rendere comprensibile oggi il messaggio di Gesù, di non insistere su «presunte “verità”» ormai indifendibili, su rituali liturgici che si continua ad imporre malgrado vecchi di secoli. È questo il cuore della riflessione del teologo José María Castillo che riconosce a papa Francesco l’intelligenza e la volontà di un essenziale rinnovamento, ma teme che non glielo consentiranno i «molti uomini» che nella Chiesa hanno «il bastone del comando» e «non sono disposti a lasciare il potere che esercitano».

 

di seguito, in una  traduzione di Adista, l’articolo di Castillo, tratto da Religión digital del 15 maggio scorso.

non c’è più teologia

e la chiesa non ha le parole per l’umanità di oggi

 

Per la legge della vita, la grande generazione dei teologi che hanno reso possibile il rinnovamento teologico che ha realizzato il Concilio Vaticano II è sul punto di estinguersi del tutto. E nei decenni successivi, purtroppo, non è emersa una generazione nuova che ha potuto continuare il lavoro che i grandi teologi del XX secolo hanno iniziato.

Gli studi biblici, alcuni lavori storici e anche altro in materia di spiritualità sono ambiti del lavoro teologico che sono stati degnamente mantenuti. Per converso si ha l’impressione che movimenti anche importanti, come ad esempio la teologia della liberazione, stiano venendo meno. Speriamo che mi stia sbagliando.

Cos’è successo nella Chiesa? Cosa ci sta succedendo? La prima considerazione è che quello che stiamo vivendo in questo ordine di cose è molto grave. Gli altri ambiti del sapere non smettono di crescere: le scienze, gli studi storici e sociali, sicuramente le più diverse tecnologie ci sorprendono ogni giorno con nuove scoperte; mentre la teologia (sto parlando di quella cattolica) rimane ferma, inaccessibile e scoraggiante, interessante per sempre meno gente, incapace di dare risposte alle domande che si pongono tante persone e, soprattutto, impegnata a mantenere come intoccabili presunte “verità” che non so come si possa continuare a difendere a questo punto della storia.

Per fare alcuni esempi: come possiamo continuare a parlare di Dio con tanta sicurezza che diciamo quello che pensa e quello che vuole, sapendo che Dio è il Trascendente, che pertanto non è alla nostra portata? Com’è possibile parlare di Dio senza sapere esattamente quello che diciamo? Come si può affermare con sicurezza che “attraverso un uomo è entrato il peccato nel mondo”? E com’è che presentiamo come verità centrali della nostra fede quelli che in realtà sono miti vecchi di oltre quattro mila anni? Con quali argomenti si può dar per certo che il peccato di Adamo e la redenzione da questo peccato sono verità centrali della nostra fede?

Com’è possibile difendere l’affermazione che la morte di Cristo è stato un “sacrifico” rituale di cui Dio ha avuto bisogno per perdonarci le nostre malvagità e salvarci per il cielo? Come si può dire alla gente che la sofferenza, la disgrazia, il dolore e la morte sono “benedizioni” che Dio ci manda? Perché continuiamo a mantenere rituali liturgici che risalgono a più di 1.500 anni fa e nessuno comprende né sa perché li si continui ad imporre alla gente? Davvero crediamo a quello che ci dicono in alcuni sermoni sulla morte in merito al purgatorio e all’inferno?

A ben guardare, la lista delle domande strane, incredibili, contraddittorie sarebbe interminabile. E intanto le chiese sono vuote o frequentate da poche persone anziane che assistono alla messa per inerzia o per abitudine. E in tutto questo i nostri vescovi gridano al cielo per questioni di sesso, mentre tacciono (o fanno affermazioni tanto generiche da equivalere a silenzi complici) di fronte alla quantità di abusi di minori commessi da sacerdoti, di abusi di potere commessi da quanti maneggiano il potere per abusare di alcuni, rubare ad altri ed umiliare quelli che sono alla loro portata.

Insisto: a mio modo di vedere, il problema è nella povera, poverissima teologia che abbiamo. Un teologia che non prende sul serio la cosa più importante della teologia cristiana, che è la “incarnazione” di Dio in Gesù, il richiamo di Gesù a “seguirlo”, l’esemplarità della vita e del progetto di vita di Gesù. E la grande domanda che noi credenti dovremmo porre è: come rendiamo presente il Vangelo di Gesù in questo tempo e in questa società in cui ci è dato vivere?

E insisto, infine, sul fatto che il controllo di Roma sulla teologia è stato molto forte, dalla fine del pontificato di Paolo VI fino alla rinuncia al papato di Benedetto XVI. Il risultato è stato tremendo: nella Chiesa, nei seminari, nei centri di studi teologici, c’è paura, molta paura. E ben sappiamo che la paura blocca il pensiero e paralizza la creatività.

L’organizzazione della Chiesa, in questo ordine di cose, non può continuare come negli ultimi anni. Papa Francesco vuole una “Chiesa in uscita”, aperta, tollerante, creativa. Ma porteremo avanti questo progetto? Purtroppo nella Chiesa ci sono molti uomini, con il bastone del comando, che non sono disposti a lasciare il potere che esercitano. E se così, avanti!, che presto avremo liquidato il poco che ci rima

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il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

LA MIA CARNE E’ VERO CIBO E IL MIO SANGUE VERA BEVANDA

commento al vangelo della domenica del ‘corpus domini’ 18 giugno 2017) di p. Alberto Maggi :

Gv 6,51-58

In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Le parole che adesso leggeremo e commenteremo, quelle di Gesù nel vangelo di Giovanni, sono talmente gravi che, al termine di queste, gran parte dei suoi discepoli lo abbandonerà e non tornerà più con lui. Vediamo allora che cos’è di grave, di importante, che Gesù ha detto.
Nel capitolo 6 del vangelo di Giovanni troviamo un lungo e intenso insegnamento sull’Eucaristia. Giovanni è l’unico evangelista che non riporta la narrazione della cena, ma è quello che, più degli altri, riflette sul profondo significato della stessa.
Quindi il capitolo 6 è un insegnamento, una catechesi alla comunità cristiana, sull’Eucaristia. Leggiamo il capitolo 6, dal versetto 51. “«Io sono»”, e Gesù rivendica la condizione divina, “«il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno»”.  
Gesù garantisce che l’adesione a lui è ciò che permette all’uomo di avere una vita di una qualità tale che è indistruttibile. Questa è la vita eterna. Gesù, il figlio di Dio, si fa pane perché quanti lo accolgono e sono capaci di farsi pane per gli altri, diventino anch’essi figli di Dio. “ «E il pane che io darò è la mia carne»” – Gesù adopera proprio il termine carne, che indica l’uomo nella sua debolezza, “«per la vita del mondo»”.
Quello che Gesù sta dicendo è molto importante: la vita di Dio non si da al di fuori della realtà umana. Non ci può essere comunicazione dello Spirito dove non ci sia anche il dono della carne. Quindi il dono di Dio passa attraverso la carne, dice Gesù. L’aspetto terreno, debole, della sua vita. Qui l’evangelista presenta una contrapposizione tra gli uomini della religione che si innalzano per incontrare Dio – un Dio che la religione ha reso lontano, inavvicinabile, inaccessibile – e, invece, un Dio che scende per incontrare l’uomo.
“Allora i Giudei”, con questo termine nel vangelo di Giovanni si indicano le autorità, “ «si misero a discutere aspramente tra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?»” Un Dio che, anziché pretendere lui i doni dagli uomini, si dona all’uomo fino ad arrivare a fondersi con lui, si fa alimento per lui. Questo è inaccettabile per le autorità religiose che basano tutto il loro potere sulla separazione tra Dio e gli uomini.
Un Dio che vuole essere accolto dagli uomini e fondersi con loro, questo per loro non solo è intollerabile, ma è pericoloso. Ebbene Gesù risponde loro: “ «In verità, in verità io vi dico »”, quindi la doppia affermazione “in verità, in verità io vi dico” è quella che precede le dichiarazioni solenni, importanti di Gesù, “«Se non mangiate la carne del figlio dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita»”.
Gesù si rifà all’immagine dell’agnello, l’agnello pasquale. La notte del’Esodo Mosè aveva comandato agli ebrei di mangiare la carne dell’agnello perché avrebbe dato loro la forza di iniziare questo viaggio verso la liberazione e di aspergere il sangue sugli stipiti delle porte perché li avrebbe separati dall’azione dell’angelo della morte.
Ebbene Gesù si presenta come carne, alimento che da la capacità di intraprendere il viaggio verso la piena libertà, e il cui sangue non libera dalla morte terrena, ma libera dalla morte definitiva. Poi Gesù, tante volte non fosse stato chiara la sua affermazione, dice: “Chi mastica la mia carne”. Il verbo masticare i greco è molto rude, primitivo, in greco è trogon. Già il suono dà l’idea di qualcosa di primitivo, e significa “masticare, spezzettare”.
Quindi Gesù vuole evitare che l’adesione a lui sia un’adesione ideale, ma dev’essere concreta. Infatti dice: “«Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna »”. La vita eterna per Gesù non è un premio futuro per la buona condotta tenuta nel presente, ma una possibilità di una qualità di vita nel presente. Gesù non dice “avrà la vita eterna”. La vita eterna c’è già. Chi, come lui, fa della propria vita un dono d’amore per gli altri, ha una vita di una qualità tale che è indistruttibile. 
“«E io lo risusciterò nell’ultimo giorno »”. L’ultimo giorno non è la fine dei tempi. L’ultimo giorno, nel vangelo di Giovanni, è il giorno della morte in cui Gesù, morendo, comunica il suo Spirito, cioè elemento di vita che concede, a chi lo accoglie, una vita indistruttibile.
E Gesù conferma che la sua “ «carne è vero cibo e il suo sangue è la vera bevanda »”. Con Gesù non ci sono regole esterne che l’uomo deve osservare, ma l’assimilazione di una vita nuova. E la sua carne è vero cibo, quello che alimenta la vita dell’uomo, e il suo sangue vera bevanda, cioè elementi che entrano nell’uomo e si fondono con lui. Non più un codice esterno da osservare, ma una vita da assimilare.
Gesù ci presenta un Dio che non assorbe gli uomini, ma li potenzia. Un Dio che non prende l’energia degli uomini, ma comunica loro la sua. E Gesù continua ad insistere: “«Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui »”. Ecco la piena fusione di Gesù con gli uomini e degli uomini con Gesù.
Quello di Gesù è un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con gli uomini e dilatarne la capacità d’amore. “«Come il Padre, che ha la vita»”, ed è l’unica volta che Dio viene definito come il Padre che è vivente, “«ha mandato me»”, il Padre ha mandato il figlio per manifestare il suo amore senza limiti, “«e io vivo per il Padre, così anche colui che mastica …»”, di nuovo Gesù insiste con questo verbo che indica non un’adesione teorica, ma reale e concreta, “«… me, vivrà per me»”.
Alla vita ricevuta da Dio corrisponde una vita comunicata ai fratelli. Questo è il significato dell’Eucaristia. E, come il Padre ha mandato il figlio ad essere manifestazione visibile di un amore senza limiti, così quanti accolgono Gesù sono chiamati a manifestare un amore incondizionato.
E conclude Gesù: “ «Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono»”. Gesù mette il dito nella piaga del fallimento dell’Esodo. Tutti quelli che sono usciti dall’Egitto sono morti. I loro figli sono entrati. E Gesù contrappone il suo esodo che è destinato invece a realizzarsi pienamente.
E di nuovo Gesù insiste: “«Chi mastica»”, quindi adesione piena e totale, non simbolica, “ «questo pane vivrà per sempre»”. Chi orienta la propria vita, con Gesù e come Gesù, a favore degli altri, ha già una vita che la morte non potrà interrompere.

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seminare oggi il futuro – frei Betto e il fallimento della modernità

il futuro nascerà dal seme che piantiamo

 

 

diventare seme perché altri possano avere un raccolto

alla ricerca del paradigma della post-modernità

 
da: Adista Documenti n° 22 del 17.06.2017

 Se «la storia del futuro sarà il risultato di quello che noi facciamo oggi, nel presente», il seme che ora siamo chiamati a piantare dovrà andare molto oltre quel paradigma di sviluppo proprio dell’età moderna da cui è derivata la «globocolonizzazione» in corso. Non ha infatti nessuna esitazione il domenicano brasiliano Frei Betto a proclamare il fallimento della modernità – evidentemente incapace di estendere all’insieme dell’umanità i benefici prodotti dai pur grandi progressi realizzati in questi secoli – e ad attribuirne la responsabilità al capitalismo. Ed è quanto mai significativo che tale riflessione Frei Betto l’abbia condotta a Cuba, la patria del socialismo, e precisamente a Guantánamo, dove si è recato su invito del Centro Martin Luther King, in occasione del trentesimo anniversario della sua fondazione. «Questa mattina – così il domenicano ha iniziato la sua conferenza, il 26 aprile scorso – ho potuto realizzare il primo di due sogni: sono potuto andare a Caimanera a conoscere la Baia di Guantánamo, e persino rivolgere uno sguardo agli invasori statunitensi. E ora spero di realizzare il secondo: vedere la Baia recuperata dal popolo cubano».

Una riflessione a tutto campo, quella di Frei Betto, che non ha mancato di soffermarsi sulla delicata congiuntura attuale dell’America Latina, segnata da quella che in più occasioni egli ha definito come «impasse dei governi progressisti», denunciando i limiti del modello neodesarrollista (ed estrattivista) seguito da questi ultimi, mirato sostanzialmente a fare dell’America Latina un’oasi di stabilità del capitalismo in crisi, ed evidenziando come tali governi, se hanno avuto indubbiamente il merito di adottare importanti misure a favore delle fasce più povere, non sono riusciti però a ridurre il potere di espansione del grande capitale, né a intaccare l’egemonia ideologica della destra. Scegliendo, infatti, la via dell’accesso al consumo di beni personali, anziché puntare prioritariamente a garantire beni sociali come istruzione, salute, trasporto, casa, i governi progressisti hanno rinunciato ad alimentare un più che mai necessario processo pedagogico di formazione e di organizzazione politica, finendo per intaccare i tradizionali simboli identitari della sinistra: l’organizzazione della classe lavoratrice, la garanzia dell’etica in politica e la realizzazione di cambiamenti strutturali.

È in questo quadro che, agli occhi di Frei Betto, Cuba si presenta ancora oggi come un «simbolo per tutti i militanti della speranza del mondo», un riferimento per «tutta la gente che sogna un altro mondo possibile». Convinto che i cambiamenti in corso nell’isola non condurranno a una sua trasformazione in una mini-Cina, un mix tutt’altro che emancipatore di governo socialista ed economia capitalista, quanto piuttosto al benefico passaggio da un’economia statalizzata a un’economia popolare, il domenicano invita i cubani a non perdere mai di vista la necessità di un’alfabetizzazione politica e ideologica, in quanto, sottolinea Frei Betto, il solo fatto di nascere in un Paese come Cuba non rende le persone «naturalmente socialiste»: «come diceva Lenin, l’amore è un prodotto culturale, è frutto di un’educazione».

Da qui l’impegno a «calzare i valori socialisti», che poi sono gli stessi valori evangelici: «Tutto il vangelo – afferma – si riassume in due valori: quello dell’amore per quanto riguarda le relazioni personali, e quello della condivisione per quanto riguarda le relazioni sociali. Per questo dico che il socialismo è il nome politico dell’amore».

Di seguito, in una traduzione di Adista dallo spagnolo, il testo della conferenza di Frei Betto, pubblicato su Resumen Latinoamericano/Cubadebate del 7 maggio scorso. 

 

Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca

 

Stiamo vivendo qualcosa che i nostri nonni non hanno potuto sperimentare: se essi hanno conosciuto epoche di cambiamenti, noi stiamo vivendo un cambiamento d’epoca. Una cosa profondamente diversa. L’ultima volta che l’Occidente ha assistito a un cambiamento d’epoca è stato 500 anni fa, nel passaggio dall’epoca medievale a quella moderna.

Stiamo vivendo un’esperienza che hanno sperimentato persone che conosciamo solo per fama, come Copernico, Miguel de Cervantes, Erasmo da Rotterdam, Teresa d’Avila, Galileo Galilei, i quali hanno vissuto il passaggio dal Medioevo alla Modernità esattamente come noi stiamo vivendo quello dalla modernità alla postmodernità.

Ogni cambiamento d’epoca suscita problemi, incertezze e dubbi, a causa della difficoltà di comprendere i mutamenti di valori e di riferimenti…

Ma cos’è che caratterizza un’epoca? È il suo paradigma, come il palo centrale che sostiene il tendone del circo. Il paradigma del periodo medievale, durato mille anni, è stata la religione: da qui la supremazia della Chiesa, il potere del papa di nominare re e principi, la centralità della concezione teologica della natura.

I greci avevano già scoperto, tre secoli prima di Cristo, che la Terra era sferica e danzava intorno al sole. Ma la Chiesa adottò la cosmologia di Tolomeo, secondo cui il nostro pianeta era immobile ed era il sole a girargli intorno, passando sotto di esso di notte. Poiché infatti non conveniva alla Chiesa affermare che Dio si era incarnato in un pianeta qualsiasi, la Terra doveva essere il centro dell’universo. E d’altro canto i nostri sensi non colgono il fatto che la Terra si muova.

Finché non arriva Copernico, il quale aveva letto Paulo Freire! Perché lo dico? Perché, questo maestro dell’Educazione Popolare insegna che, quando cambiamo luogo sociale, cambiamo anche il luogo epistemico, ossia cambiamo il nostro modo di conoscere la realtà.

Se vivi a Guantánamo, guarderai alla realtà in un modo, se vai a vivere a Miami, la guarderai in un altro modo. È un principio dell’Educazione Popolare: la testa pensa dove poggiano i piedi. Se la gente non sta con il popolo, difficilmente penserà a favore del popolo.

Per questo dico che Copernico aveva letto Paulo Freire: fino a quel momento, gli scienziati avevano guardato al sistema solare tenendo i piedi sulla Terra. Copernico, al contrario, guardando al sistema solare con i piedi virtualmente sul Sole, vide tutto, scientificamente, in maniera diversa, prendendo atto che era il sole il centro del nostro sistema. E fu una rivoluzione.

Non è stata però solo la cosmologia di Copernico a determinare il cambiamento d’epoca. Bisogna ricordare anche le invasioni musulmane in Europa, con la conseguente diffusione della cultura orientale (fino all’arrivo degli arabi, nel XIII secolo, gli europei non conoscevano l’esistenza del numero zero).

Un altro fattore importante è stato quello dell’erosione dell’egemonia della Chiesa cattolica: proprio quest’anno stiamo celebrando i 500 anni della Riforma Protestante di Martin Lutero, iniziata con la presentazione, nel 1517, delle sue 95 tesi per la riforma della Chiesa. E infine un grande peso assumono anche le spedizioni marittime condotte dai Paesi della Penisola Iberica, con la scoperta di un nuovo continente. (…).

Il fallimento della modernità

Sono stati questi i fattori che hanno condotto al superamento del paradigma medievale, con la sostituzione della religione da parte della ragione, nei suoi due versanti della scienza e della tecnologia. E con il sorgere di un profondo ottimismo, dettato dalla convinzione che, una volta estromessa la superstizione religiosa, come sarebbe stata chiamata dagli illuministi, la scienza e la tecnologia avrebbero trovato una soluzione per tutti i problemi del mondo: le malattie, la peste, le guerre… Ma il fatto è che, guardando al passato e tracciando un bilancio di questi 500 anni, noi, figli della modernità, ci rendiamo conto che i progressi sono stati moltissimi – l’essere umano ha persino messo i piedi sul suolo lunare, la gente vive più a lungo, molte malattie come la peste sono state debellate – ma, ecco il problema, hanno beneficiato solo pochi.

A vivere su questo pianeta siamo oggi 7,2 miliardi di abitanti e di questi la metà, 3,6 miliardi di persone, non ha neppure accesso a diritti animali come mangiare, allevare la prole, ripararsi dal freddo e dalle intemperie. 3,6 miliardi di persone per cui è un lusso parlare di diritti umani. Si tratta di persone che passano la loro intera esistenza nello sforzo di garantirsi la conservazione biologica, di poter mangiare e dar da mangiare alla famiglia, come fanno il leone e l’elefante o un uccello che si allontana dal nido per cercare cibo per i piccoli. Si può dire pertanto che la modernità ha fallito e che ciò è avvenuto a causa del capitalismo.

È stato il capitalismo a far sì che le conquiste, reali e buone, restassero un privilegio del 10% dell’umanità. Chi può godere delle grandi conquiste della medicina? I più ricchi. Chi può utilizzare i più veloci mezzi di trasporto? Ancora i più ricchi. E chi ha accesso a tutta la tecnologia della comunicazione? Sempre loro, e scandalosamente. Secondo i dati dell’ong britannica Oxfam, appena 8 persone possiedono una ricchezza pari a quella di 3,6 miliardi di abitanti del pianeta, la metà dell’umanità.

La modernità è fallita. Ed è fallita perché, come evidenzia Thomas Piketty, l’autore del libro Il capitale nel XXI secolo, si registra una sempre maggiore accumulazione di ricchezza in poche mani, una brutale e crescente disuguaglianza.

Ci chiediamo allora se la modernità, con tutti i suoi progressi, non finirà per abbandonare questo paradigma della ragione, considerando che ad appropriarsene è stata la logica capitalista. Nell’economia classica, la relazione è la seguente: io, un essere umano, indosso una camicia, in funzione delle mie relazioni sociali con altri esseri umani. Quello che conta è, da un lato, l’essere umano con altri esseri umani e, dall’altro, le merci come strumenti di avvicinamento, di socialità, di comodità. Ma ora i termini si sono invertiti: non più essere umano-merce-essere umano, ma merce-essere umano-merce. La marca della mia camicia deve far sì che gli altri vedano che valgo perché indosso una merce di valore. In altre parole, se vengo a casa tua a piedi, ho un valore “Z”, se vengo con l’ultimo modello di Mercedes Benz, ho un valore “A”. La persona è la stessa, ma è la merce a decidere che valore ha come essere umano. Il che significa che, nella nostra cultura, un uomo o una donna che vivono in strada – in Brasile ve ne sono moltissimi, in attesa che qualcuno dia loro una moneta o un pezzo di pane – non hanno alcun valore. Sono esseri umani, frutto di una relazione d’amore tra due persone, ma non hanno valore perché non sono rivestiti di alcuna merce. E non hanno valore neppure per lo Stato capitalista. Uno Stato che ha due braccia: quello amministrativo, quello per cui chi vive in strada non vale nulla, e quello repressivo, che entra immediatamente in azione allorché chi vive in strada, mosso dalla fame, rompe la vetrina di una panetteria – una proprietà privata, e la proprietà privata è sacra – per mangiare qualcosa.

Si tratta di un capovolgimento completo: nella teologia classica di San Tommaso è questa persona che ha fame a essere sacra, mentre, nella logica capitalista, a essere sacra è questa panetteria, questo negozio, che non può essere toccato neppure se una persona ha fame.

Il futuro sarà il seme che piantiamo

Il futuro sfida ciascuno di noi, perché la storia non è già stata scritta: la storia del futuro sarà il risultato di quello che noi facciamo oggi, nel presente.

Questo vale per le nostre vite personali e per le nostre vite sociali. Quello che sarà il futuro è il risultato del seme che stiamo piantando oggi, e dobbiamo chiederci che seme sia, quale raccolto ci si aspetti, che tipo di umanità e di mondo si pensi di costruire.

Quale sarà il paradigma della postmodernità? Vorremmo che fosse la globalizzazione della solidarietà, anziché l’attuale globocolonizzazione, l’imposizione del modello consumista ed edonista delle società capitaliste. Dobbiamo lottare per tale obiettivo, ma non sarà un compito facile. Perché le nostre forze sono scarse rispetto a quelle di chi vuole che prevalga il paradigma del mercato, quella mercificazione di tutti gli aspetti della vita umana e della natura così appropriatamente denunciata da papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’, il primo documento papale della storia della Chiesa sul tema socioambientale. Un’enciclica che il filosofo e sociologo Edgar Morin ha definito come il documento più avanzato nella storia dell’ecologia, in quanto, a differenza dei precedenti, non si limita solo a indicare gli effetti della degradazione ambientale, ma affronta anche e soprattutto le cause.

Se il mercato si impone come paradigma della postmodernità, per l’umanità non c’è più futuro. E oggi sappiamo che tutto è in funzione del mercato, l’unico ente che è senza frontiere, che non ha bisogno di passaporto, che non deve chiedere permesso per entrare non solo in qualunque Paese e in qualunque casa, ma anche nella nostra coscienza e nella nostra cultura.

Per questo, se ciascuno di noi è chiamato a rispondere alla domanda sul tipo di mondo che vuole lasciare alle future generazioni, può farlo solo in due modi. Può dire: “non mi importano le generazioni future, voglio solo godermi la mia vita”. Ma in questo modo, abbracciando un’opzione egocentrica, antietica e criminale, difficilmente sarà una persona felice, perché la felicità esiste solo per chi rende felici gli altri. E non si tratta di un’opzione: si è totalmente preda del neoliberalismo – che ci vuole convincere che la cosa più importante è la nostra vita personale – totalmente addomesticati dal sistema.

E poi c’è l’altra alternativa: “intendo costruire un mondo per tutti”. Quando finii in carcere, sognavo che il mio tempo personale sarebbe coinciso con il mio tempo storico, come avvenuto a Fidel e a Raúl. È molto raro che si possa avere un sogno, vivere la realtà di questo sogno e sopravvivere come hanno fatto loro. È molto raro! Non esiste un altro leader rivoluzionario nella storia a cui sia accaduto quanto avvenuto a Fidel. Oggi la penso come Che Guevara: devo essere un seme affinché altre generazioni possano avere un raccolto. Questa è la disposizione rivoluzionaria di oggi: fare della vita un seme perché gli altri abbiano vita.

Gesù lo ha detto nel Vangelo di Giovanni: che era venuto perché tutti avessero vita, e vita in abbondanza e pienezza. E ha incontrato una morte precoce per dare vita, perché altri avessero vita.

Gli errori dei paesi progressisti

Noi oggi viviamo all’interno di questo mondo globocolonizzato e dobbiamo analizzare per quale motivo l’esperienza socialista sia fallita in Europa Orientale. Sono stato quattro volte in Unione Sovietica e oggi mi chiedo cosa stiano facendo quei compagni che mi guardavano dall’alto in basso come se io, in quanto credente, non fossi sufficientemente rivoluzionario: staranno lottando per il socialismo o si saranno adeguati al sistema capitalista?

Non era quello il socialismo che vogliamo, perché non aveva radici. E neppure il socialismo della Cina, dove un’economia capitalista si è unita a un governo teoricamente socialista. Resta Cuba.

A volte mi chiedo se voi cubani siete consapevoli dell’importanza storica di questo Paese come simbolo per tutti i militanti della speranza del mondo, e non parlo solo della sinistra, ma di tutta la gente che sogna un altro mondo possibile. Cuba è un riferimento.

Se il socialismo fallisse a Cuba, l’unica alternativa sarebbe un futuro capitalista, che è il presente dell’Honduras, del Guatemala, di nazioni segnate da un alto livello di violenza, miseria, povertà, disuguaglianza. Negli ultimi anni, in questo blocco che chiamiamo America Latina e Caraibi, sono sorti molti governi progressisti (e in questo Cuba ha avuto un ruolo ispiratore): in Argentina, Ecuador, Bolivia, Brasile, Paraguay, Honduras, El Salvador, Nicaragua, Venezuela. Ma, sebbene si siano registrate molte conquiste importanti, ora si assiste a una crisi, a una impasse.

Prendiamo il caso del Brasile: se gli anni dei governi di Lula e Dilma sono stati i migliori di tutta la storia del Paese, sono stati però commessi anche grandi errori.

Per prima cosa, non è stato cambiato il paradigma di sviluppo. Alla scuola primaria si apprende che il Brasile è stato storicamente una nazione esportatrice di materie prime, cominciando dal pau brasil (un albero della famiglia delle Fabaceae, ndt) che ha dato il nome al Paese, per finire allo zucchero, all’oro, al caffè. E lo è ancora. L’unica cosa che è cambiata è che adesso non le chiamiamo più materie prime, ma commodities.

I nostri governi progressisti hanno commesso il grave errore di confidare eccessivamente su una congiuntura internazionale caratterizzata dall’alto prezzo di queste commodities (il Venezuela, per esempio, non immaginava che il prezzo del petrolio sarebbe crollato, incidendo pesantemente su tutta la sua economia). Un quadro, questo, in cui risultava più economico importare merci dalla Cina che fabbricarle al proprio interno, con la conseguenza che in alcuni Paesi, come il Brasile, si è registrato un devastante processo di de-industrializzazione, con relativa chiusura di fabbriche e perdita di posti di lavoro. Così, i prodotti che prima fabbricavamo noi ora dobbiamo acquistarli fuori.

Ma c’è un secondo errore. Immaginiamo una famiglia povera che vive in una baracca di legno di una favela di Rio de Janeiro: nella sua baracca la famiglia dispone di computer, cellulare, frigorifero, televisore, forno a microonde, ma vive pur sempre in una favela, non ha una vera casa, non ha accesso alla salute, all’educazione, al trasporto, alla cultura, alla sicurezza.

I nostri governi, insomma, hanno commesso l’errore di dare la priorità all’accesso delle persone ai beni personali, quando avrebbero dovuto invece seguire l’esempio di Cuba, privilegiando, in primo luogo, i beni sociali: educazione, salute, alimentazione, casa… Perché, in mancanza di accesso ai beni sociali, è assai difficile raggiungere un livello sufficiente di qualità di vita solo con i beni personali, soprattutto nel quadro del modello consumista e neoliberista, considerando per esempio che un cellulare diventa vecchio già dopo un anno. Così funziona il mercato: chi sta dietro al mercato ha bisogno che quanti hanno la possibilità di spendere acquistino sempre nuovi modelli dello stesso prodotto, ai fini del mantenimento del sistema.

Il terzo errore è che non abbiamo promosso l’alfabetizzazione politica del popolo. È venuto meno il lavoro, che qui porta avanti il partito, e anche il Centro Martin Luther King, di formazione ideologica e di organizzazione popolare.

Voi sapete che la neutralità non esiste: se io non vengo educato a una concezione solidale, altruista, socialista, significa che la mia formazione avverrà all’interno di una prospettiva individualista, egocentrica, consumista. Se l’apparato di formazione, o, piuttosto, di deformazione ideologica, è di gran lunga più potente dei nostri piccoli sistemi di educazione politica, bisogna ciononostante impegnarsi in tal senso, perché ciascuno di noi, nel suo cuore, ha dei valori ed è a partire da questi che imprimiamo una determinata direzione alle nostre vite. Solo la nostra coerenza con tali valori ci rende felici.

Torniamo all’esempio del Che: era in pace con la storia, aveva vissuto il successo della Rivoluzione Cubana, era sopravvissuto alla Sierra Maestra, era ministro del governo di Cuba; avrebbe potuto restare lì e magari essere ancora vivo, alla guida del governo di Cuba insieme a Raúl. Ma, come un San Francesco d’Assisi della politica, rinunciò a tutto per dare la propria vita affinché altri avessero vita. Prima va in Congo, poi in Bolivia, dove muore a 37 anni, sicuramente felice, perché a renderci felici è la motivazione interiore, sono i valori che ci portiamo dentro e non il denaro, né la funzione che esercitiamo. Ciascuno, durante la sua vita, risponde a questa domanda ontologica: la mia vita è soltanto per me stesso o è perché anche altri abbiano vita?

I nostri governi hanno ottenuto dei successi che è importante ricordare, ma più importante ancora, adesso, è correggere gli errori che sono stati commessi. Se il Brasile è oggi una nazione governata da un golpista di nome Temer, vuol dire che dobbiamo fare autocritica. Non so se in Unione Sovietica si sia fatta autocrítica, ma Dio non voglia che un giorno mi trovi a incontrare cubani che dicano di dover fare autocritica per il fallimento del socialismo a Cuba: sarebbe la fine di tutta la speranza storica dell’umanità.

Cuba è la speranza

Dobbiamo fare autocritica prima che fallisca ciò che avrebbe avuto la possibilità di avanzare. Non abbiamo promosso l’alfabetizzazione politica e ideologica perché pensavamo che il solo fatto di stare sotto un governo progressista rendesse le persone progressiste. È come pensare che a Cuba chiunque nasca sia, naturalmente, socialista. Non è vero. Ogni bambino cubano è naturalmente capitalista, perché, come diceva Lenin, l’amore è un prodotto culturale, è frutto di un’educazione.

Se hai un neonato in casa, sai bene che alle 3 di mattina, quando hai bisogno di dormire, egli avrà fame e vorrà il latte, e piangerà per averlo, indipendentemente dalla tua stanchezza e dal fatto che dovrai andare a lavoro, finché la sua richesta non verrà soddisfatta. Per questo il sistema capitalista ha tanta forza: perché risponde a ciò che di meno umano c’è nella nostra natura.

All’interno del contesto latinoamericano e mondiale di egemonia del mercato e del capitalismo, di crisi dei governi progressisti, come si presenta Cuba agli occhi di uno straniero che viene in questo Paese da 37 anni, condividendo molti momenti di difficoltà, soprattutto durante il Periodo Speciale, e conservando sempre una vicinanza profondamente fraterna a Fidel e Raúl?

Una volta, durante gli anni ’80, chiesi a Fidel se avessi potuto rivolgere una critica alla Rivoluzione ed egli mi rispose: «Tu, Betto, non solamente hai il diritto, ma hai anche il dovere di rivolgere le critiche che ritieni opportune». E da quel momento mi sono sentito molto a mio agio in questo Paese nel dire le cose in maniera chiara, senza eufemismi.

Cuba attraversa ora una fase di trasformazione, all’interno di questo contesto mondiale. Tant’è che, fuori dall’isola, le persone mi chiedono se, con tutti i cambiamenti in corso, l’apertura al capitale straniero, le relazioni con le transnazionali, Cuba non si trasformerà in una mini-Cina, sposando un’economia capitalista con un governo socialista (lo chiedevano anche dopo la caduta del Muro di Berlino, quando tutti parlavano di effetto domino e affermavano che Cuba sarebbe caduta subito dopo, e invece ha resistito, anche se non ho incontrato nessun capitalista disposto a riconoscerlo). Io rispondo di no, per due ragioni. La prima ragione è che questo Paese sta cambiando il proprio modello economico, ma è un errore pensare che stia uscendo da un’economia socialista per entrare in un’economia capitalista. In realtà, Cuba esce da un’economia statalizzata in direzione di un’economia popolare. La distinzione è semplice: in un’economia statalizzata, lo Stato fornisce tutto, mentre, in una popolare, lo Stato è, sì, fornitore, ma non interamente, perché ci sono anche imprenditori privati, cooperative, forme di economia solidale…, e molte altre forme che vanno crescendo dal basso verso l’alto.

Economia popolare nel quadro del socialismo significa che i protagonisti di questo processo devono avere uno spirito socialista molto radicato. Io dico sempre che il socialismo è il nome politico dell’amore. Quando ami la tua famiglia, non neghi ai tuoi figli da mangiare e da bere e tutti, benché diversi, hanno uguali diritti e uguali opportunità. Così deve essere per un popolo.

Fidel un giorno mi disse: «Abbiamo commesso l’errore di dare alla gente l’impressione che la Rivoluzione sia come una mucca con una mammella per ogni bocca». Così la gente aveva cominciato a pensare: «se vado a lavoro guadagno, se non vado guadagno ugualmente». Sono alcuni vizi legati alla creazione di questa tremenda dipendenza.

Ora no, ora assistiamo al protagonismo economico della gente, del popolo cubano con la sua creatività, con la sua capacità di iniziativa, con la sua capacità di inventare meraviglie dal niente – tutti gli stranieri che arrivano all’Avana si meravigliano nel vedere quelle auto che io guardavo quando avevo 6 anni -, un popolo che ha resistito a tante aggressioni e che resiste ancora… Ora la palla è vostra: per quanto il governo, malgrado tutte le difficoltà, possa incontrare le migliori soluzioni economiche per il Paese, siete voi che dovete prendere una decisione etica: trarrò beneficio da questo protagonismo per me o contribuirò a creare una cultura etica? Perché non c’è dubbio che il danno provocato dalla corruzione nei nostri governi progressisti sia irreparabile.

Ricordo Fidel quando diceva che un rivoluzionario può perdere tutto: può perdere la libertà andando in carcere e la famiglia andando in esilio, può perdere la salute ammalandosi e la scolarità non potendo seguire studi universitari, può perdere il lavoro, facendosi cacciare in quanto rivoluzionario, e persino la vita, ma solo una cosa non può perdere: l’etica. Non c’è via di uscita se un rivoluzionario perde la morale, se passa ad agire senza etica, a volte addirittura a nome della Rivoluzione, sì, a nome della Rivoluzione, perché ci sono persone che sono d’accordo con il processo non perché siano rivoluzionari, ma perché ne traggono profitti personali, esattamente come nella Chiesa vi sono molti vescovi e preti che sono lì non perché siano convinti e abbiano fede, ma perché risulta per loro conveniente.

Sono stato due anni nel governo Lula come consigliere speciale del programma Fame zero, e ho scritto due libri, La mosca azzurra, pubblicato anche a Cuba, e Calendario del potere, dove ho evidenziato quanto sia stata illuminante l’esperienza del potere. Per esempio, pensavo che il potere cambia le persone e invece ho scoperto che non è vero: il potere non cambia nessuno, fa solo sì che la persona si riveli per quella che è. Vale a dire che quella persona era già arrogante, egoista, autoritaria, oppressiva, ma non aveva ancora la possibilità di mettere tutto questo in  pratica. Tutto è sintetizzato in un detto spagnolo: se vuoi conoscere Juanito, dagli una carica.

Il potere fa questo. Ma il potere è questo: mettersi anonimamente al servizio di una causa di liberazione nel Congo e poi in Bolivia, come ha fatto il Che.

Quando ci si identifica con la propria funzione, e non importa di quale funzione si tratti, non parlo solo di coloro che stanno al governo, alla guida di un partito, no, parlo anche della direttrice di una scuola, del direttore di una banca, di un vigile urbano…, se la gente non viene educata a questa dimensione di servizio, il capitalismo arriva e con il suo potere di persuasione impedisce che un giorno l’umanità possa essere come una famiglia, dove persone con diversi livelli di intelligenza, e talenti e doni distinti, hanno tutti gli stessi diritti e le stesse opportunità. È così che un giorno deve diventare l’umanità. Ma per ottenerlo ci vuole un progetto storico.

Cosa dobbiamo fare quotidianamente per raggiungere tale scopo? Calzare i valori socialisti, che sono gli stessi valori evangelici. Esattamente la stessa cosa. Tutto il vangelo si riassume in due valori: quello dell’amore per quanto riguarda le relazioni personali, e quello della condivisione per quanto riguarda le relazioni sociali. Per questo dico che il socialismo è il nome politico dell’amore.

Noi cristiani preghiamo il Padre nostro, e chiediamo il nostro pane quotidiano. Dio è padre nostro, non mio, e lotto perché il pane sia un bene di tutti, non solamente mio; per questo un credente che non sia disposto a condividere e a lottare per una società in cui si condividano i beni non dovrebbe pregare il Padre nostro. Un credente del genere vive in una menzogna: egli crede in un idolo, un dio creato nella sua testa per giustificare la sua posizione anti-etica. Perché la preghiera di Gesù riguarda il Padre nostro e il pane nostro, il fatto cioè che tutti abbiano il necessario per la vita.

Termino con questa frase che poi dirò di chi è. «Sono i comunisti che la pensano come i cristiani. Cristo ha parlato di una società dove i poveri, i deboli, gli esclusi, siano loro a decidere. Non i demagoghi, non i barabba, ma il popolo, i poveri, che abbiano fede nel Dio trascendente oppure no, sono loro che dobbiamo aiutare per ottenere l’eguaglianza e la libertà». È quanto ha affermato papa Francesco nell’intervista concessa a La Repubblica l’11 novembre 2016.

Ed è curioso. «Sono i comunisti che la pensano come i cristiani»: è chiaro che, molto prima che ci fossero comunisti, vi furono, in tre secoli di Impero Romano, cristiani rivoluzionari che provocarono il crollo dell’Impero. Cristiani che non solamente condividevano i loro beni, ma che lottavano anche contro un potere oppressore, che era l’Impero Romano.

E finisco dicendo un’ultima cosa. Non c’è distinzione tra credenti e non credenti, se gli uni e gli altri hanno come scopo l’amore, anche per i nemici. Attenzione, però: amare i nemici non significa concordare con essi o sostenerli. Amare il nemico è sottrargli gli strumenti che gli permettono di essere un oppressore e restituirgli la dignità umana. Far sì, per esempio, che Trump si guadagni il salario lavorando! Perché, se Nerone ha dato fuoco a Roma e Hitler all’Europa, questo pazzo vuole ora dare fuoco a tutto il mondo. E noi non possiamo permetterlo.

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la monaca che parla di ‘teologia queer’ allergica al cristianesimo conservatore

 

intervista a Teresa Forcades

a cura di Antonio Gnoli
in “la Repubblica” del 11 giugno 2017

Non si immagina facilmente cosa sia la vita di una suora senza pensare alla condizione in un certo senso di emarginazione in cui per lo più versa. Perciò quando ho incontrato la prima volta Teresa Forcades e l’ho sentita parlare non di Dio ma di uomini e donne, non di anime ma di corpi, non di astinenza ma di sessualità ho provato una sconcertante meraviglia. Era come se nel ciclo di parole religiose si nascondesse una coscienza concretamente amorosa.

Teresa Forcades è una monaca benedettina, di origine catalana. Ha poco più di cinquant’anni e osserva le regole della clausura, con alcune aperture dedicate alla socialità. È medico (ha studiato negli Stati Uniti), teologa (dottorato a Barcellona e a Berlino); si interessa di psicoanalisi e di femminismo.

Come è passata dalla medicina alla teologia?

«Avrei fatto volentieri il medico condotto in qualche piccolo paesino della Catalogna, dove il contatto con la gente è più forte. Ma quando finii l’università ho avvertito un bisogno di raccoglimento. Per circa un anno mi ritirai solitaria in una casa di campagna».

Come passava le giornate?

«Le ore erano scandite da un ordine semplice: mangiare, dormire, meditare. Avevo con me gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Ma non ero pronta a una vita diversa. Ero giovane, desiderosa ancora di approfondire lo studio della medicina. Preparai così l’ammissione a una università americana. Fui accettata e trascorsi un certo periodo in un ospedale di Buffalo. Sembrava una carriera assicurata. Ma il destino aveva in serbo altre cose».

Quali?

«Conobbi Elisabeth Schüssler Fiorenza, teologa e femminista cattolica romena naturalizzata americana. Fu lei ad avvicinarmi alla teologia e al femminismo. Ma era complicato tenere insieme l’ospedale e i nuovi interessi. Avevo anche fatto domanda per Harvard e l’università aveva accettato il mio curriculum. Mi ritrovai in una situazione complicata: non volevo rinunciare ai miei studi di teologia».

Doveva scegliere tra la Chiesa e l’Università?

«Più esattamente tra un colloquio finale che mi avrebbe in seguito consentito l’ingresso nei migliori ospedali oppure…».

Oppure?

« In quel periodo, era il 1995, tornai per breve tempo in Spagna, presso il monastero di Montserrat. Ero confusa e inquieta. Ma sentii che quel luogo aveva per me un senso familiare».

Era un monastero benedettino?

«Per monache di clausura. Passai alcune settimane in preghiera. Un giorno la badessa mi convocò dicendomi che aveva saputo dei miei trascorsi di medico, in particolare di esperta di malattie infettive. Chiese se potevo spiegare a lei e alle sorelle cos’era il virus dell’Aids che in quegli anni mieteva molte vittime. Organizzammo l’incontro in un pomeriggio durante il quale volli parlare anche dell’omosessualità e del modo in cui nell’immaginario della gente era passato il messaggio sbagliato che la malattia fosse da attribuire al peccato di essere gay».

Come reagirono le monache?

«Con mio grande stupore benissimo. Ci furono molte domande e la discussione continuò durante la cena. Mi sembrava di aver trovato il mio mondo. Il giorno dopo manifestai alla badessa l’intenzione di entrare in convento. Si mise a ridere. Non se l’aspettava. Dissi convinta che preferivo Monserrat ad Harvard. Lei cercò di frenare il mio entusiasmo. Mi consigliò di andare ad Harvard e, se dopo i due anni di borsa di studio avessi sentito ancora la “chiamata”, ne avremmo riparlato».

Il tempo non ha scalfito quella decisione.

«Infatti, nel 1997 presi i voti».

I suoi genitori come reagirono?

«Mio padre era incredulo, mia madre arrabbiatissima. Solo mia sorella appoggiò fino in fondo la
decisione. Quanto ai miei amici, quasi tutti mi diedero della pazza. Lasciare la prospettiva di Harvard per il convento era una scelta inconcepibile».

La sua è una famiglia borghese?

«No, mio padre era un agente di commercio e mia madre infermiera. Si separarono che avevo undici anni. Ero la prima di tre sorelle. Un giorno mio padre, mentre ci accompagnava a scuola, ci informò che si era innamorato di un’altra donna».

Lei come la prese?

«Restai in silenzio. Fu una reazione strana. Mi sembrava un gesto enorme ma al tempo stesso temevo per lui».

Che anno era?

«Era il 1977. Il caudillo Franco era morto da un paio d’anni, dopo una lunghissima agonia. La Spagna appariva un Paese immobile. Isolato da tutto. Ricordo che quando nel 1978 con le sorelle e mia madre andammo a Parigi, provai una sensazione di libertà e un’emozione per tutto quello che lì percepivo».

Ha qualche memoria della dittatura franchista?

«In quanto catalani, i miei non erano favorevoli al regime. In famiglia circolava la storia dei due nonni. Quello paterno aveva militato per la sinistra. Quello materno era medico e durante la guerra civile venne arrestato dai repubblicani. Non aveva sentimenti franchisti, ma il fatto che fosse una delle autorità del Paese, convinse i “ rossi” che il nonno era un nemico del popolo e come tale andava fucilato».

Ci fu l’esecuzione?

«Mia nonna pianse e implorò il comandante. Consegnò i gioielli di famiglia e disse che aspettava un figlio (era incinta di mia madre) e che se il padre fosse stato fucilato nessuno avrebbe potuto badare al loro sostentamento. Fu questo a salvargli la vita».

Come visse il suo ruolo di novizia?

«All’inizio ci fu entusiasmo. Poi cominciarono i dubbi. Accompagnati da un senso di oppressione, noia, assenza di prospettiva».

Si stava accorgendo della durezza di quei voti?

«Avvertivo il conforto della preghiera e la semplicità di quel mondo, governato da un silenzio armonico. E tuttavia mi sembrava di sprofondare nella disperazione. Era come se non avessi la forza, la convinzione, la tenuta per sostenere quella scelta. Mi chiedevo se Dio mi avrebbe aiutata. Vedevo intorno a me gente felice e provavo per contrasto un senso di profondo disagio».

Aveva capito cosa non andava?

«Non coglievo intorno a me nessuno stimolo culturale. Avevo girato il mondo e discusso con le menti più aperte, imparato lingue. Improvvisamente mi ritrovavo in una specie di calma piatta».

Dubitò della sua vocazione?

«Ero in crisi. Non avevo ancora preso i voti. Accadde in quel periodo che mi innamorassi di un giovane medico. Fu un mettere alla prova i miei veri sentimenti. Dovevo scegliere tra Dio e il mondo. Fu a quel punto che avvertii fortissima l’esigenza di diventare monaca».

Cosa significò essere chiamata? Glielo chiedo perché magari in quella “voce che chiama” ci può essere suggestione, fraintendimento, proiezione di sé.

«Può esserci tutto questo, solo il tempo decide il grado di autenticità di quella voce».

Non avverte il peso dell’emarginazione?

«Al contrario, mi sento al centro di tutto quel che faccio».

Cosa intende per centralità?

«Non intendo dominio o controllo di un ambiente. Penso semmai a una radicalità senza dogma. Ogni volta che si cerca un centro si cerca un vuoto».

Non rischia di essere un’illusione?

«Immagino il centro non come un principio di stabilità ma di rottura ».

Forse occorrono entrambe.

«Stabilità e rottura si possono anche alternare. Come l’ordine e il disordine. La storia lo insegna. Ma penso che la mia vita riposi in un centro invisibile che non si può definire. E che per questo chiamerei esperienza mistica».

Ho letto nel suo “Siamo tutti diversi” (edito da Castelvecchi) che lei riconduce l’esperienza del vuoto al pensiero di Lacan.

« Può sorprendere che una monaca legga Lacan e tragga dal suo pensiero qualche utile suggerimento. Mi sono occupata di psicoanalisi e in particolare della nozione di “ soggetto inconscio”. Freud sostiene che l’autenticità interiore di una persona sia stata repressa».

Che può dunque essere liberata?

«È il ruolo che dovrebbe svolgere la psicoanalisi. Stiamo parlando di un ideale moderno: liberare le forze dell’uomo! Nel momento in cui si è sostituito a Dio, l’uomo ha sviluppato un desiderio infinito di sé. In teoria pensa di poter fare tutto».

E in pratica?

« La società, lo Stato, la Chiesa sono le istituzioni che lo opprimono. È così che il soggetto scopre di non avere nessuna autentica interiorità. Ecco perché Lacan dice che l’interiorità è un vuoto e che questo vuoto lo si può rappresentare come la morte del soggetto».

La morte del soggetto viene dopo la morte di Dio?

«Non vi sarebbe quella senza questa».

Eppure desideriamo diventare persone autentiche.

«Nell’orizzonte mondano la nostra identità ci arriva dall’esterno, come i desideri, è indotta. Nell’infanzia è data dal rapporto con la madre. Pensiamo che da questa relazione originaria scaturisca la nostra autenticità. Ma non è così. La madre passa e cerchiamo una nuova identità, che troveremo in qualche altra cosa o situazione. È ciò che spinge Lacan a dire che non c’è nessuna autenticità in noi. Siamo abitati soltanto da un vuoto».

Anche il desiderio è una forma di vuoto?

« Il desiderio che si realizza nel vuoto è appunto ciò che chiamo misticismo. Ma si tratta di un desiderio senza determinazioni».

Il desiderio nasce sempre come una forma di assenza.

«Ma quasi sempre è indotto da ciò che ci manca del di fuori: un paio di pantaloni firmati, una giacca elegante, una macchina fuoriserie. Non è in questo senso che intendo il desiderio. Agostino si era spinto fino a dire che tutti desiderano Dio, ma non tutti danno lo stesso nome alla cosa».

Cosa significa desiderare Dio nell’epoca della sua morte?

«Per me significa difendere la verità».

Tutti sostengono, religiosamente, di volerla difendere, perfino con l’uso delle armi e dell’omicidio.

«Quella non è verità: è soltanto fanatismo. D’altro canto, la verità non può essere un concetto relativo, per cui ciascuno ha la propria brava verità pronta all’uso».

E allora?

« La verità per me è tutto ciò che essa non è. Ma il punto è che occorre argomentare ogni volta questo “non è”».

Non si sente una privilegiata?

«In che senso?».

Penso alla semplicità delle sue sorelle; al fatto che non posseggono né usano strumenti sofisticati; che non si occupano di filosofia e di omosessualità; che rispettano la clausura.

«Ho molta invidia per le sorelle che vivono permanentemente la loro clausura. Non parlerei di privilegio; ma di una disposizione a compiere alcune azioni. Quanto alla clausura dopo il concilio di Trento fu introdotta quella parziale. La comunità del monastero decide la dispensa, come applicarla e quando revocarla».

Com’è la sua vita nel monastero?

«È divisa in proporzioni uguali tra il lavoro e la preghiera».

Per lavoro cosa intende?

« Svolgo soprattutto un’attività intellettuale: faccio traduzioni, scrivo articoli, insegno. Quest’anno la mia lezione è divisa in due parti: sulla necessità dell’anima, che prende spunto dal libro di Simone Weil La prima radice, e sulla teologia femminista nella storia».

Lei ha parlato di una “teologia queer”. Cosa significa?

« Queer è un termine che cominciò a circolare negli anni Novanta. Può voler dire “attraversamento”, “passaggio”, “transizione”. Poi ha preso il significato di bizzarro, strano, stravagante».

È stato ricondotto all’universo transgender.

«È vero e si tratta di una declinazione possibile. Quello che intendo è affrontare una teologia fuori dagli schemi precostituiti. La teologia non è la difesa concettuale dell’esistenza di Dio. Il che potrebbe creare parecchi malintesi. No. È una forma di co-creazione».

Cioè?

«Penso che Dio non si sia limitato a creare il mondo e noi in sette giorni. Co-creazione significa che noi continuiamo a svolgere il suo lavoro con altri strumenti».

Però non siamo perfetti.

«Creare è anche rischiare. Senza il rischio, dice Weil, non c’è libertà. Dio ha creato dei pezzi unici. Sta a noi continuare a esserlo».

Questo vuol dire per lei essere monaca?

«Vuol dire anche questo».

Si potrebbe accostarla a un pensiero eretico.

«Non sono mai stata indottrinata a un cristianesimo conservatore. Per ogni giorno che passa dovremmo essere disposti ad apprendere qualcosa di nuovo».

Non teme la scomunica?

«Sono preparata, non la temo. La scomunica è stata la cosa peggiore del cattolicesimo. Equivale all’ostracismo dei greci».

È felice?

«Lo sono ogni volta che rientro in monastero. Ogni volta che faccio qualcosa che aiuta a trasformarci. Agostino ha detto: “ Dio ci ha creato senza di noi, però non ci vuole salvare senza di noi”. Felicità è anche questa consapevolezza del nostro essere umani per e con gli altri».

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