l’eredità spirituale lasciataci da p. Orternsio da Spinetoli

 

Oltre l'“inutile fardello” di dogmi e di miti. Lo straordinario insegnamento di Ortensio da Spinetoli

oltre l’“inutile fardello” di dogmi e di miti

lo straordinario insegnamento di Ortensio da Spinetoli

da: Adista Documenti n° 28 del 29/07/2017

Un’occasione da non perdere per rivisitare l’appassionata ricerca del frate cappuccino e biblista di fama internazionale Ortensio da Spinetoli, scomparso il 31 marzo 2015: è questo che offre il suo scritto, pubblicato postumo, dal titolo L’inutile fardello. L’insegnamento di uno straordinario teologo controcorrente (Chiarelettere, Milano, 217, pp. 85, euro 10), «una sorta di manifesto per il rinnovamento esegetico e teologico della Chiesa» in cui, come scrive nella Prefazione Alberto Maggi, biblista dell’Ordine dei Servi di Maria, «è racchiuso tutto il ricco pensiero di padre Ortensio».

Un pensiero che, «come un bisturi doloroso ma vitale, costringe a ripensare importanti concetti teologici che sono ancora un tabù» per la maggioranza dei credenti, dal peccato originale all’eucarestia, dalla verginità di Maria alla «mistica del patire». E per il quale Ortensio ha pagato un prezzo molto alto – l’isolamento, il processo da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede (alla maniera «in uso nell’Unione Sovietica, cioè senza alcuna possibilità né di conoscere le accuse né tantomeno di difendersi»), l’allontanamento dall’insegnamento -, ma senza mai abbandonarsi a «recriminazioni rancorose», nella consapevolezza, sottolinea Maggi, «di dover tenere in conto la beatitudine della persecuzione». E, d’altro canto, senza neppure mai arrendersi, ma riprendendo anzi con rinnovata energia «le sue spietate lucide analisi della realtà di una Chiesa alla deriva», una Chiesa che egli voleva «più vicina al modello indicato da Gesù Cristo».

Se Ortensio, studioso «coltissimo e meticoloso» – come lo descrive nell’Introduzione Franco Cortinovis, diventato, in seguito a un folgorante incontro nel 2005, suo discepolo, amico e stretto collaboratore nella stesura dei testi, fino a ricevere da lui l’incarico testamentario di “erede letterario” – ha dedicato gran parte della sua vita e della sua ricerca allo studio del Gesù storico, completamente oscurato dal Cristo della fede, questo libro postumo offre con forza, nuovamente, l’immagine di un Cristo divino perché profondamente umano, «demitizzando idee radicatissime» come quelle relative alla dottrina del peccato originale, sconosciuta ai profeti e «di cui Gesù stesso – scrive Ortensio – non ha fatto parola»,  o all’interpretazione sacrificale della morte di croce, che rende Gesù «la “vittima” di espiazione dei peccati dell’umanità che Dio non ha mai chiesto né aspetta», o alla trasformazione della Chiesa in un’istituzione gerarchico-monarchica, in un totale stravolgimento della proposta del suo fondatore.

Un testo inedito, quello appena pubblicato, che, come spiega Cortinovis, nasce dallo sviluppo di una lettera personale scritta nel 2014, un anno prima della sua morte, a un giovane confratello che aveva espresso interesse per i temi a lui cari e a cui Ortensio, abituato al trattamento tutt’altro che positivo che gli era spesso riservato da vari appartenenti al suo ordine, aveva fatto dono di una delle sue opere, l’Itinerario spirituale di Cristo. Accompagnando il dono con una lettera, Ortensio aveva voluto così offrire al suo confratello un’introduzione e una chiave di lettura per aiutarlo a entrare nel tema del libro, ma fornendo in tal modo, sottolinea Cortinovis, «una potente sintesi del suo pensiero», una «testimonianza troppo preziosa per non condividerla con i suoi lettori, presenti e futuri».

E se, come prevede Maggi, anche questo libro, come tutti quelli di padre Ortensio, «susciterà scandalo, scalpore, sarà fonte di polemiche e censure», aggiungendosi «ai tanti testi vivamente sconsigliati da chi ha paura di tutto quel che è nuovo e che può turbare le sicurezze che l’immutabile dottrina della chiesa offre», ci pensa Ortensio stesso a rassicurare il suo giovane confratello: «Le mie indicazioni – scrive – possono apparire troppo innovative, ma rispetto al progresso che ha fatto, sta facendo in questi ultimi anni e farà presto la scienza biblico-teologica, i competenti e gli informati non possono che definirle “conservatrici” (v. Hans Küng, Eugen Drewermann, Matthew Fox, John Dominic Crossan, John Shelby Spong, Roger Lenaers, José Arregui, da noi Augusto Cavadi, Vito Mancuso, Felice Scalia, per far solo qualche nome; tutta gente che purtroppo la gerarchia ignora quando non condanna ma che ormai fanno scuola dentro e fuori l’istituzione)». E agginge: «L’esortazione che facevo agli alunni al termine di “certe” lezioni e che ho continuato a ripetere al pubblico dopo le mie conferenze, è sempre stata la stessa: “Non si pensi che siano queste le ultime o le definitive risposte. Le più giuste, senz’altro migliori, sono quelle che devono venire. Sappiamo cercare e aspettare fiduciosi”». Perché, conclude, non ci sono dubbi sul fatto che «il relativismo, la precarietà, la provvisorietà non indicano indifferentismo religioso, nichilismo o ateismo, ma costituiscono l’unico atteggiamento spirituale e culturale legittimo in un mondo diventato pluridimensionale e multietnico, in cui la verità si è fatta più lontana perché la realtà si è fatta più vicina e si rivela agli scienziati, ai filosofi e quindi anche (e perché no?) ai teologi, più complessa e mobile (evolutiva) di quanto si fosse mai pensato fino a ora».

Di seguito ampi stralci del capitolo sull’eucarestia. 

 

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un bilancio positivo di quattro anni di pontificato di papa Francesco

dopo quattro anni e mezzo Francesco sta cambiando chiesa e mondo

di Filippo Trippanera
in “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” – www.chiesadituttichiesadeipoveri.it – del 22 luglio 2017

Dopo circa quattro anni e mezzo di pontificato (il tempo che fu sufficiente a Giovanni XXIII per “terremotare” la Chiesa), penso che si possa abbozzare un primo tentativo di bilancio del pontificato di Francesco. Complessivamente, mi pare di poter dire che siamo in presenza di un Magistero forte, convinto, deciso e penetrante; un Magistero pastorale, ma anche pieno di dottrina ed incisivo nella Chiesa e nel mondo, ben al di là dei rilievi – per così dire – di “audience” e di “share”.

Le opposizioni e le critiche che emergono – soprattutto all’interno della Chiesa, dei vescovi e dei cardinali di Curia – non scalfiscono minimamente e non fanno oscillare il timone della barca di Pietro. Sono posizioni prevalentemente autoreferenziali, senza fondamenti – a me pare – teologici o dottrinali, pastorali o biblici o di tradizione cattolica. Tutte queste opposizioni – o “dubia” – prescindono del tutto dal Concilio Vaticano Secondo e dai grandi Magisteri di san Giovanni XXIII e del beato Paolo VI. Chiusa la parentesi apertasi con la tragica morte di Giovanni Paolo I e definita con le – in qualche modo – profetiche dimissioni di Benedetto XVI, è ripreso il cammino conciliare e possiamo ben dire che il 13 marzo 2013 equivale al 9 dicembre 1965. E, se erano già fuori del tempo le posizioni di Ottaviani, Siri e di buona parte della Curia pacelliana, ancor di più lo sono quelle degli oppositori di Francesco. La debolezza di queste opposizioni si ricava anche dai modi con cui vengono espresse, da far pensare che dietro ci sia un disegno più politico e di immagine che pastorale e di fede. Molto significativo è il modo con cui sono state lasciate filtrare alcune esternazioni del papa emerito, soprattutto in merito al ricordo del cardinale Meisner, di recente scomparso; esternazioni interpretate come un contrasto con il pontificato di Francesco, in plateale difformità dal silenzio assoluto e dalla preghiera, cui aveva dichiarato di uniformarsi il papa emerito. Non ho motivo di mettere in dubbio la correttezza e la lealtà di Benedetto XVI, il quale credo abbia voluto affermare principi autentici senza minimamente pensare di porre in discussione il magistero del suo successore. Il problema è di chi ha fatto filtrare questa notizia come se fosse una critica a Francesco. La stessa presenza costante di mons. George Gershwin – prefetto della Casa pontificia – in quasi tutte le apparizioni pubbliche di Francesco, che, a mio avviso, è stato un atto di delicatezza del nuovo papa verso il suo predecessore, può venire interpretata come un controllo, una sentinella, una interferenza pesante; ma non credo che ciò sia. Quanto, poi, ai vari Socci, Negri, Burcke, Caffarra e sodali, penso che lascino il tempo che trovano. Altre opposizioni e critiche sembrano – talora – emergere da altro versante dell’opinione pubblica della Chiesa o dal suo interno e riguardano una pretesa timidezza, indecisione o mancanza di coraggio e/o credibilità del papa verso problemi molto importanti, come il ruolo della donna, il suo sacerdozio, la gestione delle finanze della Santa Sede nonché l’atteggiamento sulla pedofilia e sul gender. Questo tipo di posizioni mi sembrano anch’esse autoreferenziali e dettate più da esigenze di immagine che di sostanza. Io penso che papa Francesco, invece, pur con i suoi modi e, forse, con i suoi limiti ovvii, sia pienamente nel solco profondo della Chiesa e del Concilio Vaticano Secondo, e sta operando un reale cambiamento in profondità, non solo della Chiesa, ma anche del mondo. Questa mia opinione si fonda su dati del tutto oggettivi, ormai storici. Innanzi tutto, il linguaggio che egli usa: dal “buonasera” del 13 marzo 2013, ai ripetuti e costanti “buon giorno, arrivederci, buon pranzo, buona notte” premessi alle sue allocuzioni invece delle formule classiche “Sia lodato Gesù Cristo; pace e bene; cari figlioli (terminologia usata da Giovanni XXIII); e simili … “; un linguaggio asciutto, essenziale, come il “ Cari fratelli e sorelle “, come la menzione frequente di “fratelli cardinali; fratelli patriarchi, pope, papi, vescovi (di altre Chiese cristiane)”. Un linguaggio che non lascia spazio ad interpretazioni e che incarna la Chiesa in mezzo agli uomini. Questo tipo di linguaggio, si trasforma in comportamenti specifici ed estremamente significativi, ben al di là dell’aneddotica … Ma il fatto emblematico di questo pontificato è la canonizzazione del beato Giovanni XXIII, senza miracoli, in contestualità con il “santo post-subito” di Giovanni Paolo II; canonizzazione preceduta dall’elevazione alla porpora di mons. Loris Capovilla, quasi centenario, e incentrata in quella straordinaria definizione di papa Giovanni come “guida guidata”. Giovanni XXIII era stato proclamato beato con tanto di miracolo nell’anno 2000, in contestualità con il papa Pio IX. Un’accoppiata di beati che fece molto discutere per l’avvicinamento del papa del Concilio Vaticano Secondo al papa del Sillabo e del Vaticano primo. Apparve a molti la relegazione di Giovanni XXIII ad una sorta di eccezione ad una regola ben incarnata da Pio IX. Alla canonizzazione il discorso si capovolge e, nella sostanza, si delinea la straordinaria figura di papa Giovanni come maestro di generazioni e tale da costituire la regola evangelica, che dà dignità ad eccezioni come Pio IX e Giovanni Paolo II, la cui santità miracolosa attinge e trova fondamento nella santità senza miracoli di Giovanni XXIII. Lo spessore e la portata di questo fatto, eminentemente teologici, dottrinali, pastorali, conciliari ed evangelici, sono qualificanti e profondi, e trovano puntuale conferma in altre costanti del pontificato di Francesco, ben al di là delle piccolezze, con cui si vorrebbe limitarlo e metterlo in difficoltà. In tal senso, estremamente significative sono la beatificazioni di papa Paolo VI e di Oscar Arnulfo Romero, come prodotto di una linea pastorale e teologica incentrata sulle continue e costanti citazioni (nei documenti e nei discorsi), su ogni argomento, del papa Paolo VI (il più citato da Francesco), per un verso; e nei continui e costanti riferimenti alla teologia della liberazione, massacrata dai due suoi predecessori, dall’altro. In questa linea vanno colti anche i continui, costanti ed argomentati riferimenti e citazioni anonime del Patto delle Catacombe, della Chiesa dei poveri, di Giorgio La Pira, di don Lorenzo Milani, di don Tonino Bello, di Ernesto Balducci, di Davide Turoldo e di don Mazzolari; personaggi che evidentemente Francesco conosce bene e profondamente fino a farli propri, tanto da citarli – spesso alla lettera – senza farne menzione. Sotto questo profilo, resta impressionante l’omelia pronunciata sulla piazza di L’Avana, accanto alla gigantografia del Che Guevara, tutta incentrata su un concetto chiave contenuto in “Lettera a una professoressa”: “fai strada ai poveri senza farti strada”, che il papa ha tradotto: “servire i poveri senza servirsene”, e conclusa con le testuali parole di don Tonino Bello: “chi non vive per servire non serve per vivere”. E sempre in questa linea vanno letti tutti i suoi documenti: dalla “Evangelii Gaudium” alla “Laudato sì”, e tutti gli atti canonici da lui emessi, nonché i provvedimenti assunti, ad iniziare dalla nomina dei vescovi (basti pensare, qui in Italia, a Galantino, a Bassetti, a Montenegro, a Zuppi, a Lorefice, ed ora a De Donatis ed a Delpini ed ai nuovi vescovi di Ferrara, Brescia ed Ancona), dei cardinali, alla continua internazionalizzazione del Sacro Collegio. Tutto un magistero che incide profondamente nella vita della Chiesa e del Popolo di Dio, e che mette costantemente ai margini gli oppositori ed i critici. In sostanza, possiamo concludere nel senso che Francesco continui in questa sua linea, che sta cambiando profondamente la Chiesa, dai vertici fino alle periferie, ed impegnarci – come sempre ci chiede e, in particolare, chiese a Barbiana – a pregare per lui “perché possa trarre ispirazione da questo bravo prete … Per portare avanti la sua fiaccola”.

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negli USA un ecumenismo che perdica la guerra spirituale

ecumenismo dell’odio negli Usa

Un momento dell'incontro fra il Papa e il presidente statunitense Trump in Vaticano lo scorso 25 maggio

un momento dell’incontro fra il Papa e il presidente statunitense Trump in Vaticano lo scorso 25 maggio

 

un ecumenismo che predica la ‘guerra spirituale’ si sta diffondendo negli Usa:

Manicheismo 
“Negli Stati Uniti, il manicheismo politico-religioso è nato perché il linguaggio teologico ed ecclesiale, negli ultimi trent’anni specialmente, è divenuto molto polarizzato, a causa del sistema politico basato su due partiti. Quindi, su alcune questioni il laicato cattolico tende a identificarsi, anche dal punto di vista religioso, con i cattolici-repubblicani di un partito o i cattolici-democratici dell’altro. E’ un fenomeno che deriva dal sistema politico americano, ma anche dal carattere militante del suo cristianesimo, inclusa la Chiesa cattolica”. Massimo Faggioli, storico del cristianesimo, docente alla Villanova University di Philadelphia, commenta e spiega il saggio su “Fondamentalismo evangelicale e integralismo cattolico” apparso sulla rivista ‘La Civiltà Cattolica’, un articolo che ha suscitato un ampio dibattito.

 

Una politica soggetta alla religione 
“Gli Usa sono un paese fondato da una comunità di cristiani molto credenti, convinti che fosse necessaria una rifondazione sociale e politica totale per vivere insieme sotto il controllo della religione”, spiega Faggioli. “La Chiesa cattolica ha un atteggiamento più cauto rispetto all’idea del dominio della religione sulla politica, ma negli ultimi anni negli Usa, c’è stata una migrazione d’idee e di persone dalle Chiese protestanti americane verso il cattolicesimo. C’è stata una grande massa di conversioni, anche fra intellettuali importanti, e questi convertiti hanno portato con loro questa idea protestante, essenzialmente calvinista e americana, per cui la politica è soggetta alla religione ed è difficile pensare a una separazione o a una distinzione fra questi due ambiti”. “L’articolo de La Civiltà cattolica, quindi, – continua lo storico – punta in modo corretto la sua attenzione su questo fenomeno, che definisce ‘Fondamentalismo evangelicale’, che è intellettualmente molto interessante, ma provoca alcuni problemi che vanno analizzati, come correttamente fa la rivista dei gesuiti”.

Letteralismo biblico
“Si parla in questo caso di ‘fondamentalismo’ perché è un tipo di cristianesimo che si basa sul testo biblico, sulla scrittura, in modo fondamentale. Cioè ritrova nella Scrittura alcuni passaggi letterali che fondano o rifondano una società, una civiltà o una legislazione, in modo diretto, non mediato dal Magistero della Chiesa, com’è per i cattolici. Questa dinamica è tipicamente americana – spiega Faggioli –  perché il letteralismo biblico in sé è un fenomeno estraneo al cattolicesimo che è più orientato sulla Tradizione della Chiesa piuttosto che direttamente sulla Scrittura. Negli Usa, invece, questa vicinanza alla tradizione calvinista-protestante ha fondamentalizzato alcuni cattolici”.

La Teologia della prosperità 
“Un altro effetto di questo fondamentalismo evangelicale è la ‘Teologia della prosperità’. Si tratta di un messaggio religioso diffuso negli Usa da alcune chiese cristiane neo-protestanti, secondo cui l’amore di Dio si rivela agli individui che sono in buona salute fisica e sono ricchi. Cioè, se uno è sano, è ricco e felice è un segnale che è amato da Dio. Questa è una teologia che è chiaramente eretica o aberrante, ma è molto importante in alcune Chiese protestanti – non solo degli Usa ma anche dell’America Latina e dell’Africa – e trova spazio, anche se in un modo diverso, all’interno del cattolicesimo americano. Questo è un fenomeno preoccupante perché è una diretta negazione del messaggio sociale della Chiesa cattolica sui poveri e la giustizia. C’è dunque un conflitto fra quello che la Chiesa dice sulla giustizia sociale e sui poveri e il ‘Vangelo della prosperità’, secondo cui i poveri sono lontani da Dio. Una posizione che è esattamente il contrario di quella del Magistero”. “Questo articolo – aggiunge Faggioli – fa il punto al momento giusto, perché il fenomeno Trump è l’elevazione della Teologia della prosperità a programma politico”.

I legami con l’ascesa di Trump 
“Il fenomeno dell’elezione di Trump è indubbiamente legato anche al diffondersi di questa teologia. E’ un fatto che i pastori invitati dal presidente americano all’inaugurazione della sua amministrazione, il 20 gennaio scorso, fossero i più importanti rappresentanti della teologia della prosperità negli Usa. Anche all’interno della Chiesa cattolica statunitense, le posizioni contro la Chiesa dei poveri o il messaggio sociale di Papa Francesco sono un effetto delle infiltrazioni di questa teologia. Ed è un fenomeno particolare che non si verifica, mi pare, in altre comunità cattoliche nel mondo”.

L’ecumenismo della trincea
“La Civiltà Cattolica – continua Faggioli – a proposito di questa fusione tra Fondamentalismo evangelico e Cattolicesimo integralista giunge a parlare di ecumenismo fondamentalista e lo definisce ‘dell’odio’. Il motivo sta nel fatto che è un tipo di ecumenismo che non si preoccupa di creare dei ponti con i lontani, ma di identificare i lontani come nemici comuni sia ai cattolici che ai protestanti. E tra questi annovera i musulmani, in alcuni casi addirittura gli ebrei – con una sorta di antisemitismo – e non è quindi finalizzato al dialogo. L’articolo lo chiama ‘ecumenismo dell’odio’, ma sono proprio i sostenitori di questo tipo di fenomeno a definirlo ‘ecumenismo della trincea’. In questa visione il mondo è in guerra contro di noi e noi cristiani di diverse confessioni dobbiamo organizzarci per combattere questa guerra. E’ inutile dire che si tratta di un ecumenismo totalmente diverso da quello che Papa Francesco chiama l’ecumenismo ‘del sangue’, cioè del martirio. E’ un ecumenismo molto diverso che negli Usa ha un rilievo teologico, culturale e politico abbastanza importante, specialmente con la presidenza Trump”.

Netto contrasto col Magistero 
“E’ un fatto oggettivo che questo ecumenismo che predica la ‘guerra spirituale’, che si sta diffondendo negli Usa, sia in diretto contrasto con il Magistero del Papa. Si fa spazio con diversi linguaggi: ma, per esempio, molte delle recenti conversioni dalle Chiese evangelicali a quella cattolica, negli Usa, nascono nel riconoscimento di quest’ultima come una Chiesa più forte e cioè capace di combattere il nemico: in quella visione gli asiatici, i musulmani e altri. E’ una visione ideologica che accomuna diverse chiese che si ritrovano sulla stessa lunghezza d’onda ma non è quella del Magistero cattolico degli ultimi cinquant’anni”.

(Fabio Colagrande)

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parola di cardinale: un nuovo rispetto nella chiesa verso i gay

Il cardinale Cupich

“nella chiesa dire persone gay, lesbiche o LGBT è un segno di rispetto”

Il cardinale di Chicago Blase Cupich  è entrato nel dibattito relativo al modo in cui la Chiesa cattolica dovrebbe interagire con i gay e le lesbiche, parlando alla platea di Chicago ha detto che si dovrebbero usare le stesse parole che le persone LGBT  utilizzano per definirsi.

“Iniziamo come sempre la conversazione affermando con certezza che tutte le persone hanno valore, che la loro vita deve essere rispettata e  che noi dovremmo rispettarle“, ha affermato il Cardinale Cupich in risposta ad una domanda dopo un discorso tenuto al City Club di Chicago il 17 luglio.

“Ecco perché penso che i termini gay, lesbiche,  LGBT e tutte quelle espressioni che le persone ritengono essere in sintonia col proprio essere, dovrebbero essere rispettate“, continua il cardinale di Chicago. “Le persone dovrebbero essere chiamate come desiderano essere chiamate piuttosto che uscirsene con termini che forse mettono a proprio agio solo noi. Quindi iniziamo a farlo“.

I commenti del cardinale arrivano in un momento in cui alcuni vescovi cattolici stanno prendendo in considerazione come impegnarsi verso la comunità LGBT. Lo scrittore americano James Martin, SJ, afferma nel suo nuovo libro “Guilding a bridge” che i gay e le lesbiche dovrebbero essere chiamati con queste medesime espressioni, notando che lo stesso papa Francesco ha usato il termine gay.

Ma i critici hanno affermato che l’uso di questi termini in sostituzione di frasi come “persone che sperimentano attrazione verso lo stesso sesso” suonerebbe come una sconfitta di fronte alla secolarizzazione.

Il Cardinale Cupich, che ha voluto sottolineare un approccio pastorale a questioni di moralità sessuale che rispecchia la visione di Papa Francesco, ha affermato che la chiesa insegna che il matrimonio è unione tra un uomo e una donna, un sacramento che porta nuova vita nel mondo e che “la società ha il compito, mi pare di poter dire di sostenerla in modo differente e qualificante.”

Più tardi quella sera il Cardinale Cupich, intervenuto alla “Chicago Tonight ” della WTTW per discutere della violenza di gang armate in città, si è rifiutato di commentare un  documento promulgato nella vicina diocesi di Springfield in cui, il vescovo Thomas Paprocki, ha detto ai sacerdoti che i gay e le lesbiche sposati non possono ricevere la comunione o avere dei funerali cattolici.

“Questa non è la nostra politica”, ha affermato il Cardinale Cupich, aggiungendo, “è prassi comunque non commentare le scelte politiche di altre diocesi” (…).

articolo di Michael J. O’Loughlin pubblicato sul sito della rivista cattolica America (USA) il 18 luglio 2017, libera traduzione di Pietro P.

 

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padre Zanotelli richiama l’attenzione sull’Africa

APPELLO AI GIORNALISTI/E

ROMPIAMO IL SILENZIO SULL’AFRICA

di Alex Zanotelli

Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani. Trovo infatti  la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. Sò che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo.
Mi appello a voi giornalisti/e  perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. (Sono poche purtroppo le eccezioni in questo campo!)
E’ inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa)
Ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
E’ inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba ,il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
E’ inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
E’ inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
E’ inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
E’ inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
E’ inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
E’ inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
E’ inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
E’ inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
E’ inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!!)
Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.  Questo crea la paranoia dell’ ‘invasione’, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’ Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti Ma i disperati della storia nessuno li fermerà. Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al Sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano:”Aiutamoli a casa loro”, dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.
E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa  come patria dei diritti.
Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?). Per questo vi prego di rompere questo silenzio- stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un ‘altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.
Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.
  Alex Zanotelli
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nonostante tutto ho fiducia in papa Francesco

la trasparenza di Francesco non si è fermata a Ratisbona

la linea del Papa per la verità non risparmia il fratello di Ratzinger e il cardinal Muller appena sollevato dal suo incarico

di M.A. Calabrò

“Choc”: non c’è altra parola per descrive l’effetto della pubblicazione del Rapporto Weber in Vaticano su quanto successo nella diocesi di Ratisbona. Papa Francesco è rimasto molto rattristato da quanto emerso nel documento, che ha peggiorato oltre ogni immaginazione il quadro già gravissimo emerso un anno e mezzo fa , in una prima relazione.

 

Ancora più prostrato Benedetto XVI visto che il caso riguarda la città dove ha insegnato all’Universita’ per lunghi anni e coinvolge suo fratelli Georg.

“Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, questo il commento allo choc da parte di padre Hans Zollner, gesuita, che dirige il Centro per la protezione dei minori dell’università Gregoriana e fa parte della Commissione pontificia voluta da Papa Francesco. Zollner, tedesco, è nato proprio a Ratisbona, nel 1966, ma ha frequentato altre scuole, diverse da quelle dove sono avvenute le violenze.

 

La frase citata da Zollner è un celebre versetto del Vangelo di Giovanni. Un versetto che pur non essendo nel motto episcopale di Rudolf Voderholzer, dal 6 dicembre 2012, vescovo di Ratisbona, sembra fatto a posta per lui. Questa frase di Gesù è quella che sembra avere ispirato Voderholzer in una decisione senza precedenti. Ha dato lui l’incarico ad un avvocato indipendente, Ulrich Weber, di scandagliare 60 anni di storie di violenze e abusi sessuali (alcuni casi risalgono all’immediata dopoguerra e le vittime hanno passato gli ottant’anni) avvenuti in due scuole cattoliche limitrofe all’istituzione culturale più prestigiosa della città, il famoso Coro della cattedrale. “E Weber lo ha ringraziato pubblicamente per questo”.

 

L’operazione trasparenza, insomma, non si è fermata neppure a Ratisbona. Non si è fermata cioè davanti al fatto che quella città tedesca è indissolubilmente legata alla vita del Papa emerito Benedetto XVI e di suo fratello Georg. “Il vescovo Voderholzer ha preso sul serio l’impegno di tolleranza zero contro la pedofilia di Papa Francesco e la sua responsabilità di pastore, quella che gli americani chiamano accountability”, aggiunge Zollner .

 

Voderholzer ha dato carta bianca a Weber, gli ha dato accesso completo agli archivi. I risultati emersi sono scioccanti, “sono tali che devono destare in noi inquietudine e vergogna”, dice ancora padre Hans. “Per il numero delle vittime coinvolte, per la lunga durato degli abusi sia fisici che sessuali, per il clima di violenza e di terrore”.

E non ultimo per le accuse contenute nel Rapporto a Georg Ratzinger, fratello di Benedetto XVI di non aver denunciato quello che aveva saputo. Così come quelle contro l’immediato predecessore di Voderholzer, il cardinale Gherard Muller, per dieci anni (2002-2012) alla guida della diocesi di Ratisbona, il cui mandato alla guida della Congregazione per la dottrina della fede – che ha tra i suoi compiti anche quello di affrontare i casi di pedofilia del clero – Papa Francesco non ha rinnovato proprio all’inizio di questo mese di luglio.

Era noto infatti che il rapporto Weber era ormai concluso e che sarebbe stato reso pubblico nell’arco di poche settimane. Ma in Vaticano si sostiene che la decisione papale su Muller ha a che fare con altro e non con il Rapporto Weber.

In polemica con Muller si era dimessa il primo marzo 2017, Marie Collins, una sopravvissuta agli abusi di un prete, che era stata nominata dal Papa nella Pontificia Commissione per la protezione dei minori. “Non ero a Ratisbona durante il mandato episcopale del cardinale Muller”, si limita a commentare Zollner, ma insieme sottolinea che “coloro che vogliono la verità devono essere ammirati per il coraggio di guardare in faccia la realtà e per la decisione di dare, sia pure con decenni di ritardo, aiuto alle vittime e qualche forma di sostegno e compensazione”.

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il commento al vangelo della domenica

LASCIATE CHE L’UNA E L’ALTRO CRESCANO INSIEME FINO ALLA MIETITURA

commento al vangelo della sedicesima domenica del tempo ordinario (23 luglio 2017) di p. Alberto Maggi 

Mt 13,24-43

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”». Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo». Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

Nel vangelo di Matteo non sono presenti soltanto le tentazioni che Gesù ha subito, ma vengono esposte anche le possibili tentazioni della comunità dei credenti in ogni tempo. Nel capitolo 13, troviamo tre parabole, con la risposta a tre possibili tentazioni: sono le parabole del Regno. è Gesù che parla ai suoi discepoli, espone queste parabole del Regno dei cieli, ricordo che questa espressione è tipica di Matteo, ma indica il Regno di Dio, cioè la società alternativa dove, anziché accumulare per sé, si condivida generosamente con gli altri, dove anziché comandare, si serva, e dove anziché salire, si scende. Questo è il Regno dei cieli. La prima tentazione alla quale è sottoposta la comunità di ogni tempo, è la tentazione di essere una comunità di eletti, una comunità di gente superiore, e che quindi cerca di eliminare gli altri. A questa tentazione Gesù risponde con la parabola, quella del seminatore e della zizzania. Dice Gesù che “mentre tutti dormivano, venne il suo nemico,” il nemico del Signore, “seminò della zizzania”, la zizzania è un seme che è tossico, è un narcotico, “in mezzo al grano”. Ma più dannosa del seme nocivo della zizzania, sono i servi, gli zelanti servi. Infatti “Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”, e si propongono “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. E nella parabola il padrone del campo lo impedisce, dice: “No perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano”. La loro azione, quella dei servi zelanti, è più pericolosa della zizzania. Quindi Gesù dice no ad una comunità di soli eletti, questa è la tentazione che subiscono spesso i gruppi ecclesiali, nei quali ognuno si sente di avere l’unica risposta al modo di vivere del messaggio di Gesù, e per questo snobbano o condizionano la vita degli altri. Gesù non è d’accordo su questo, quindi no alla tentazione di essere una comunità di eletti. La seconda tentazione che la comunità subisce, lo vediamo lungo tutto il vangelo, è quella della manìa di grandezza, allora Gesù continua, dice: “espose loro un’altra parabola dicendo: “Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a”. Per comprendere questa parabola bisogna rifarsi al profeta Ezechiele. Nel profeta Ezechiele il regno futuro era immaginato, è il capitolo 17 di Ezechiele, come un cedro, il cedro lo sappiamo, il cedro è chiamato il re degli alberi, che è posto su un alto monte. Quindi qualcosa di straordinario, qualcosa che attira subito la vista, l’ammirazione per il suo splendore. Gesù dice nulla di tutto questo: “è simile a un granello di senape che l’uomo prese e seminò”, è strano che Gesù parli di seminare, perché la senape non si semina, “nel suo campo”. Commenta Gesù: “Esso è il più piccolo di tutti i semi”, la senape è una pianta infestante; i suoi semi, che sono microscopici, piccolissimi, con il vento arrivano ovunque, per questo non viene seminata, ma viene temuta dai contadini palestinesi. Quindi è piccolo, ma arriva ovunque: questo è il messaggio di Gesù: “Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre”, e qui ecco la sorpresa di Gesù, “piante dell’orto”, cosa vuol dire Gesù? Che il Regno dei cieli, cioè il Regno di Dio, anche nel suo momento di massimo splendore, non attirerà l’attenzione; la pianta della senape è un arbusto che, in zone favorevoli, tipo il lago di Galilea, raggiunge due o tre metri, ma è una pianta comune che non attira nessuna attenzione. Ebbene per Gesù, il Regno di Dio, nel momento del suo massimo sviluppo, non attirerà l’attenzione per la sua grandezza, per la sua meraviglia, ma come una pianta infestante, arriverà ovunque. La terza e ultima tentazione è quella dello scoraggiamento. La comunità cristiana è piccola, il lavoro da fare è tanto, e c’è il rischio di scoraggiarsi. Allora Gesù, per questa tentazione, dice un’altra parabola: “«Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina”, tre misure di farina sono quaranta chili, è un po’ tanto per una casa domestica. Perché questo riferimento ai quaranta chili? Perché nell’Antico Testamento, questa quantità di misura appare in relazione agli episodi di Abramo e di Sara, di Gedeone e di Anna, la madre del profeta Samuele, sempre in occasione dell’esaudimento delle promesse di Dio al popolo, anche in circostanze che sembravano impossibili. Allora dice: questo lievito lo “mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata»”; la comunità cristiana non deve spaventarsi di fronte all’enormità del lavoro, ma deve mescolarsi con la realtà esistente per poi trasformarla, e Gesù lo garantisce. Ebbene delle tre parabole, l’unica che i discepoli chiedono in maniera perentoria, addirittura imperativa di spiegare, è quella che, non è che non l’hanno capita, forse è l’unica che hanno capito, ma sulla quale non sono d’accordo. Infatti “in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci”, e il verbo è all’imperativo, con autorità, “la parabola della zizzania nel campo»”. Quindi questa parabola in cui Gesù smentisce la tentazione di essere una comunità di eletti, una comunità di superiori riguardo agli altri, questa non viene accettata dalla comunità dei discepoli. Ebbene Gesù spiega, in questo resto della parabola, che sono gli individui che si giudicano da soli, scegliendo cosa essere: o essere grano, pane che alimenta, benedizione per gli altri, o essere zizzania, un tossico che avvelena e che dà la morte. Quindi tre tentazioni alle quali le comunità di tutti i tempi possono essere sottoposte, ma con la certezza, con la garanzia, che il messaggio di Gesù si realizzerà nonostante tutto, nonostante la pochezza dei termini.

 

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a Ratisbona un cinquantennio di inferno contro i bambini – occorre un radicale mea culpa

il coro di Ratisbona

un inferno di violenze per 547 bambini e adolescenti

di Luca Kocci
in “il manifesto” del 19 luglio 2017

Almeno 547 bambini e adolescenti del coro di voci bianche del duomo di Ratisbona, in Baviera, fra il 1945 e il 1992 – negli anni in cui a dirigere il coro ci fu anche il fratello del papa emerito Joseph Ratzinger, Georg – avrebbero subito violenze di ogni tipo dai preti e dai propri educatori, molti di loro anche abusi sessuali. La denuncia è arrivata dall’avvocato tedesco Ulrich Weber, che dal 2015 sta indagando sullo scandalo che ha investito la diocesi di Ratisbona, un vero e proprio crimine ai danni di minori di cui si parlava già da molti anni, ma non con l’evidenza e soprattutto le dimensioni che sono state rivelate ieri, durante una conferenza stampa in cui l’avvocato ha presentato i risultati della sua inchiesta. Nel gennaio 2016 Weber aveva parlato “solo” di 231 casi di percosse, privazioni del cibo, abusi e violenze sessuali. Ora il numero è più che raddoppiato: 547 bambini subirono maltrattamenti fisici e psicologici, 67 di loro anche violenze sessuali, da parte di 49 fra preti ed educatori che sarebbero stati identificati ma che difficilmente andranno a processo per via della prescrizione (finora solo due religiosi sono comparsi in un tribunale penale tedesco: un ex insegnante di religione vicedirettore del liceo, allontanato nel 1958, e un ex direttore del convitto, entrambi morti nel 1984). E i numeri potrebbero crescere ancora, fino a far assumere al “caso Ratisbona” una rilevanza pari a quella di altri scandali internazionali di pedofilia ecclesiastica, dagli Stati Uniti all’Irlanda. «Le vittime hanno descritto i loro anni di scuola come una prigione, come l’inferno e come un campo di concentramento. Molti si ricordano di quegli anni come il periodo peggiore della loro vita, caratterizzato da paura e violenza», usata come «metodo» per ottenere «massimi risultati» e «assoluta disciplina», ha spiegato l’avvocato Weber nel rapporto presentato alla stampa. Un vero e proprio «sistema della paura», fatto di violenze, sottomissione psicologica, incapacità di reagire, omertà e silenzi, che ha avvolto per anni l’ambiente dei Regensburger domspatzen, i «passeri del duomo di Ratisbona», come venivano chiamati i bambini e i ragazzi del coro delle voci bianche. Il rapporto non condanna direttamente come autore delle violenze ma nemmeno assolve mons. Georg Ratzinger, fratello del papa emerito Benedetto XVI, direttore del coro fra il 1964 e il 1994, che avrebbe «fatto finta di non vedere» e che sarebbe colpevole «di non essere intervenuto, nonostante fosse a conoscenza» di ciò che accadeva. Da parte sua, Georg Ratzinger, chiamato in causa già diversi anni fa, si è sempre difeso: «Se fossi stato a conoscenza dell’eccesso di violenza utilizzato, avrei fatto qualcosa», dichiarò in passato in un’intervista ad un giornale bavarese, ammettendo quindi che una dose “equilibrata” di violenza veniva praticata.

Non ne esce bene nemmeno il cardinal Gerhard Müller, vescovo di Ratisbona dal 2002 al 2012 prima di essere chiamato da papa Ratzinger in Vaticano a dirigere la Congregazione per la Dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio), incarico che qualche settimana fa, allo scadere del quinquennio, papa Francesco non gli ha rinnovato (anche per divergenze teologiche: Müller rappresenta una linea conservatrice rispetto alle aperture pastorali di Bergoglio). Pur non essendo coinvolto né direttamente né indirettamente – tutte le violenze sarebbero avvenute prima che Müller assumesse la guida della diocesi –, il rapporto dell’avvocato Weber critica il modo con cui ha gestito la vicenda, dopo le prime denunce: in particolare non avrebbe cercato alcun dialogo con le vittime né si sarebbe impegnato a chiarire cosa fosse realmente accaduto nel coro delle voci bianche della cattedrale della sua diocesi. Diocesi che poi, andato via Müller, ha parzialmente cominciato ad ammettere i fatti dei decenni precedenti, assicurando un indennizzo massimo di 20mila euro per ciascuna vittima. La prossima settimana, in Australia, si aprirà un nuovo processo per casi di pedofilia ecclesiastica: davanti ai magistrati andrà il cardinale George Pell, attuale capo – sebbene “in aspettativa” – della segreteria per l’Economia, il ministero dell’economia del Vaticano.

 

violenze nel coro Ratisbona
una lettera del 1967 di un piccolo alunno della scuola preparatoria del coro
“vi prego, venite a prendermi…”
la lettera della vittima 153 del Coro dei bambini di Ratisbona
il documento drammatico è tra i tanti contenuti nel rapporto Weber Tweet 19 luglio 2017
“Cari cari genitori, vi voglio tanto tanto bene. Vi prego, vi prego vorrei così così così volentieri tornare a casa. Vi prego, vi prego non mi mandate nessun pacchettino, io vorrei così così così tanto tornare a casa”.
Inizia così una lettera della vittima 153 del coro di bambini del Duomo di Ratisbona, scritta nel 1967 da alunno della scuola preparatoria del coro. Nel rapporto presentato da Ulrich Weber, l’avvocato incaricato di gettare luce sugli abusi nella Cattedrale di Ratisbona, questo documento è classificato tra le “lettere di nostalgia”.
“Venite a prendermi appena leggete questa lettera e non dimenticatevi la valigia. Io devo sempre sempre piangere. E pagate tutto subito, è meglio così. Ho tantissima nostalgia. Aspetto nella mia stanza. Saluti, il vostro caro…”.
E’ solo una delle tante testimonianze raccolte nel corposo rapporto di 440 pagine che documenta gli abusi fisici e sessuali subiti da almeno 547 bambini del prestigioso coro tra il 1945 e i primi anni Novanta. I “passeri” del Duomo di Ratisbona (“Regensburger Domspatzen”) tra il 1964 e il 1993 furono diretti da Georg Ratzinger, fratello del Papa emerito, che già nel 2010, all’epoca dalla ondata di rivelazioni e accuse sulle violenze subite da bambini da parte di prelati cattolici, si era scusato con le vittime. 
 OCCORRE UN’AUTOCRITICA SPIETATA
adesso Francesco ha un dovere: ribaltare la chiesa delle bugie
di Marco Marzano
Sono agghiaccianti le notizie che ci arrivano da Ratisbona. Insomma quella scuola di Ratisbona assomigliava decisamente a un lager: molti che ebbero la disgrazia di passarvi dicono di avervi trascorso gli anni “peggiori della loro vita”. Come in ogni lager, gli aguzzini erano numerosi e organizzati: secondo i dati del rapporto, ben cinquanta di loro sono già stati identificati, ma è probabile che siano molti di più. Di quel campo di concentramento, Georg Ratzinger, il fratello del papa emerito, è stato per 30 anni, autorevole direttore. Secondo chi ha redatto il rapporto, egli sapeva, copriva e proteggeva gli autori delle violenze.
La prima reazione a questa notizia consiste nel pensare che l’orribile situazione possa essere stata, almeno in parte, all’origine delle clamorose dimissioni di Ratzinger: come è noto, il rapporto tra il papa emerito e il fratello è sempre stato fortissimo e psicologicamente sbilanciato a favore del maggiore dei due, cioè dell’ex direttore del coro-lager. Cosa sarebbe successo se il pontefice tedesco fosse stato ancora regnante al momento della pubblicazione del rapporto? Quanto discredito sarebbe caduto sul Vaticano a seguito delle gesta del fratello del capo? Non lo sapremo mai perché, forse per sua fortuna, Ratzinger non è più papa. Ma non credo sia questo l’elemento su cui concentrarsi.
Perché ce n’è uno più importante: la Chiesa Cattolica si è trovata e si troverà in futuro decine di volte ad essere messa sul banco degli imputati per le azioni esecrabili di alcuni suoi membri. È venuto il momento per la grande istituzione di assumersi direttamente la responsabilità di tutto questo, di ammettere che quei crimini non sono solo il risultato del comportamento di alcune personalità malvage o perverse, ma anche in grande misura la conseguenza di un modello formativo, di un addestramento specializzato, di un’immagine del prete e del suo ruolo che l’istituzione ha costruito in secoli lontani (nei quali la pedofilia e le botte ai ragazzini non erano nemmeno reati) e che si rifiuta ostinatamente di cambiare, anche di fronte ad evidenze come quella di Ratisbona. Penso sia necessario quindi che la Chiesa non solo compia un profondo atto di contrizione e una richiesta di perdono, ma anche che avvii un gigantesco e pubblico processo di autocoscienza, di autocritica: qualcosa di simile a quello che hanno fatto i tedeschi dopo la fine del nazismo. Sarebbe un gesto liberatorio e straordinario, che porterebbe davvero la Chiesa nella modernità, riscattandosi da una delle sue pagine più buie. Ci pensi Francesco. Sarebbe un modo per entrare davvero nella storia.
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assurdo criminalizzare la solidarietà

 

Se la solidarietà è un crimine
se la solidarietà è un crimine
 
da Adista Segni Nuovi n° 27 del 22/07/2017

Numero di sbarchi in Italia nel 2017: 22.339 al 28 giugno, secondo dati ufficiali del Ministero dell’Interno. 181.436 in tutto il 2016. Sono questi i numeri dell’“invasione” in nome dei quali il nostro Paese e l’Europa stanno abdicando ai fondamenti stessi della concezione illuminista dei diritti umani, un tempo, almeno a livello teorico, specificità dell’Occidente. La mera evidenza delle cifre svela la natura strumentale della campagna martellante che da mesi alimenta la sindrome emergenziale e fa crescere intolleranza e paura. Una paura “liquida, mobile”, diffusa, che ormai permea la società e che, con le parole di Baumann, «è un ottimo capitale per tutti coloro che la vogliono utilizzare per motivi politici o economici» perché «produce uno stato mentale politicamente esplosivo», contro il quale nulla possono le analisi razionali o i richiami umanitari. Uno stato mentale che spiega la passività, anzi il drammatico consenso a misure un tempo considerate degne dell’orrore dei regimi totalitari. Un esempio per tutti: «Obbligo per le navi umanitarie di tenere le luci spente di notte», in un mare dove sicuramente ci sono centinaia di persone che rischiano di annegare. Qualcosa di irrazionale deve aver colto gli stessi vertici istituzionali, della UE e dei singoli Paesi: un incomprensibile panico “identitario” sembra attraversare il continente, che non pensa altro che a blindare tutti i suoi confini, con tutti i mezzi possibili. Se i treni piombati per migranti del governo dichiaratamente razzista di Orban un paio di anni fa ancora suscitavano scandalo, oggi a regimi sanguinari come quelli libico e turco si affida ufficialmente, attraverso corposi finanziamenti, il compito – sporco – di bloccare comunque i migranti a est e a sud. Nessuno può far finta di non sapere cosa accade nei centri di detenzione di quei Paesi. La storia condannerà senza appello l’Europa per questo, sarà come per la Shoah… Il mondo solidale cerca disperatamente di risvegliare le coscienze, ma per adesso la linea resta chiara. Le ultime decisioni disegnano un piano organico, che ha un solo scopo: fermarli, a qualunque costo. L’aumento dei morti non è una preoccupazione. E viene il dubbio che sia un obiettivo.

Inascoltati gli appelli ad aprire vie sicure che consentano ai migranti di arrivare in condizioni dignitose, difficoltà a far partire un piano ampio di accoglienza solidale e al tempo stesso razionale, orientata a un inserimento positivo e autonomo a breve/medio termine: in questo quadro l’Italia accetta – nonostante alcune apparenti divergenze – le attuali linee guida della UE, ribadite da Juncker anche dopo l’ultimo vertice – «enormi progressi», «serio impulso» alle politiche sull’immigrazione –. L’obiettivo finale è il «ricollocamento», oltre che nella stessa Libia, in Egitto, Niger, Etiopia e Sudan, Paesi ad hoc promossi “sicuri”! Ad essi e agli altri Paesi del Maghreb si affida inoltre il compito di maggiori controlli alle frontiere e si chiede di collaborare per i rimpatri dei “migranti economici”. «Aiutiamoli a casa loro», insomma. Semplicemente: non devono venire. Non possiamo accoglierli tutti. Aumentare i rischi del viaggio come deterrente.

Per la rotta del Mediterraneo, la Libia si conferma al centro della strategia di contenimento – ancora 46 milioni di Euro dalla UE e larga parte dei 35 milioni di Euro assegnati all’Italia per l’emergenza –: deve trattenere chi vuole partire o intercettare in mare e riportare indietro chi si è imbarcato. Con questi fondi, e i milioni di Euro – diverse centinaia – promessi o già dati a Erdogan si sarebbe potuta organizzare un’accoglienza degna e economicamente vantaggiosa anche per i Paesi europei. Ma non è questo che si vuole, evidentemente. Come in tutti i settori del sociale oggi, bisogna innanzi tutto affermare forte che non è vero che non ci sono fondi.

C’è un punto critico in questo disegno: le navi umanitarie delle Ong. Fanno due cose intollerabili: salvano vite (migliaia e migliaia) e soprattutto sono testimoni del comportamento delle motovedette – tra cui quelle regalate dall’Italia – della Guardia costiera libica. Scrive Amnesty International: «Gli intercettamenti della Guardia costiera libica mettono spesso a rischio le vite dei migranti e dei rifugiati. Le procedure impiegate non corrispondono agli standard minimi e possono causare attacchi di panico e capovolgimenti delle imbarcazioni con conseguenze catastrofiche. Vi sono inoltre gravi denunce di collusione tra membri della Guardia costiera libica e trafficanti nonché di maltrattamenti nei confronti dei migranti. Le motovedette libiche aprono il fuoco contro altre imbarcazioni e, secondo le Nazioni Unite, sono state “direttamente coinvolte, con l’impiego di armi da fuoco, nell’affondamento di imbarcazioni con migranti a bordo”». La campagna diffamatoria contro le Ong impegnate nei salvataggi – sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana – ha preparato la strada a una serie di misure concrete volte a paralizzarle: arretramento dei limiti entro cui possono agire, ostacoli burocratici di ogni tipo per gli sbarchi, fino all’idea di chiudere loro i porti. Misura che violerebbe tutte le Convenzioni del mare. Del resto, la criminalizzazione della solidarietà è un tassello importante del quadro: da Lesbo a Ventimiglia, gli attivisti che danno da mangiare, aiutano ai confini, forniscono tende sono costantemente a rischio di denuncia. In Italia il Decreto Minniti offre molti strumenti anche in questa direzione. Un capitolo a parte, il più tragico: i minori non accompagnati. Soggetti fragili per eccellenza, avrebbero diritto a protezione e sostegno. Ormai è normale respingerli alle frontiere, tenerli di fatto in stato di detenzione o semplicemente abbandonarli a rischi e abusi. Solo in Italia ne “spariscono” in media una trentina al giorno.

Una deriva davvero pericolosa, che solo la solidarietà dal basso e un tenace lavoro culturale e di informazione possono tentare di contrastare.

* Foto di Irish Defence Forces tratta da Wikipedia Commons, immagine originale e licenza

 

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i ‘due esodi’ alleati in fuga da due ‘sud’ creati dalle nostre ingiustizie – il popolo della speranza

la dura omelia del vescovo di Palermo sull’«alleanza dei due esodi» 

in “il manifesto” del 16 luglio 2017

dura e coraggiosa omelia del vescovo di Palermo Corrado Lorefice durante la messa per la patrona della città, santa Rosalia, su migranti e migrazioni

“abbiamo costruito e stiamo costruendo un mondo senza giustizia, dove in maniera insopportabile i poveri impoveriscono e aumentano, mentre i ricchi si arricchiscono e sono sempre di meno”

«Le pesti, le grandi, dilaganti emergenze siciliane del nostro tempo si presentano stasera davanti ai nostri occhi. La prima, la più importante credo, è il rischio diffuso della mancanza di futuro. Rischiamo di essere una Città e una Regione senza futuro, il futuro – ricordiamolo – di una storia gloriosa, perché la mancanza endemica di lavoro rischia non solo di gettare in una crisi irreversibile la nostra economia, ma soprattutto rischia di sottrarre la speranza di un domani ai nostri giovani». «L’esodo dalla Sicilia sta diventando una necessità storica terribile, che priva la terra del suo nutrimento decisivo. E ad alimentare un territorio, una Città, sono i desideri, i progetti, la voglia di fare, le idee e le aspirazioni delle giovani generazioni che si avvicendano nel corso dei decenni e dei secoli. Senza la linfa ideale e rinnovata di questo ardore, senza il sapore di questo sogno, non c’è domani – dice il vescovo – Ma senza lavoro vero, dignitoso, costruttivo, teso a cambiare il mondo, non c’è domani».

E ancora:

«Mentre si compie quest’esodo doloroso, Palermo e la Sicilia tutta sono il porto ideale di un altro esodo, di dimensioni planetarie, quello dei popoli del Sud del pianeta – dei nostri fratelli africani e del Medio Oriente – che giungono in Europa in cerca di rifugio e di opportunità di vita – prosegue – Non dobbiamo nasconderci però dietro i luoghi comuni o le visioni distorte di molta politica. La molla ultima di questo esodo biblico, al di là di ogni consapevolezza di chi parte, è il desiderio di giustizia. Perché abbiamo costruito e stiamo costruendo un mondo senza giustizia, dove in maniera insopportabile i poveri impoveriscono e aumentano, mentre i ricchi si arricchiscono e sono sempre di meno. Un mondo in cui il Nord – gli Stati Uniti, l’Europa -, tutti i cosiddetti paesi sviluppati, possono sfruttare e depredare le ricchezze dei popoli del Sud – dell’Africa, dell’Asia – senza alcuno scrupolo e senza alcun ritegno. È da questo squilibrio che affama miliardi di persone, da questo ordine politico che accetta e fomenta la guerra e quindi la fuga disperata dei civili, è da questo modo di ordinare (o di disordinare) il mondo che viene l’esodo disperato di milioni di persone che in definitiva vengono a chiederci giustizia e diritti. E Palermo e la Sicilia rappresentano la meta privilegiata di questi viaggi, il porto ideale dell’Occidente».

Poi:

«Care Palermitane, Cari Palermitani, sarebbe un grave errore contrapporre i due esodi, quello dei nostri giovani e quello dei popoli del Sud. Chi ha una responsabilità politica ed è purtroppo miope e ignorante può farlo. Noi no. Noi no. Pensare che sia l’arrivo di tanti fratelli dal Sud del mondo a togliere il lavoro ai nostri giovani è una totale idiozia. Al contrario: l’esodo epocale dall’Africa attraverso il Mediterraneo è l’appello, e soprattutto l’opportunità che la storia ci offre, per ribaltare il perverso assetto del mondo e della sua economia; per creare nuove possibilità e nuove speranze proprio grazie all’accoglienza e all’integrazione dei tanti che giungono e che già oggi sono un polmone del lavoro e dello stato sociale in Italia. L’alleanza tra i due esodi, e non la contrapposizione, è il vero orizzonte che ci può consentire un passaggio nuovo. I migranti e i giovani in Sicilia non sono reciprocamente nemici, ma sono il popolo del futuro, il popolo della speranza».

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