mezzo millennio di ‘riforma protestante’: ai cattolici sembra non interessare!

a proposito della ‘riforma protestante’

nulla da celebrare per i cattolici!

non c’è nessuna ragione, per un cattolico, per celebrare l’inizio della Riforma protestante

questa è l’opinione espressa dal Prefetto della Congregazione della Fede, il card. Gerhard Müller

terribile sentire di essere in mano di gente fuori del mondo e del vangelo!
marco tosatti
non c’è nessuna ragione, per un cattolico, per celebrare l’inizio della Riforma protestante. Questa è l’opinione espressa dal Prefetto della Congregazione della Fede, il card. Gerhard Müller, in una lunga intervista-libro “Informe sobre la Esperanza”. I cattolici, ha detto il porporato “non hanno nessuna ragione per celebrare” l’inizio della Riforma.

Il 31 ottobre 1517 è la data, normalmente considerata l’inizio del movimento protestante; l’anniversario verrà celebrato con particolare solennità quest’anno. “Noi cattolici non abbiamo nessuna ragione per celebrare il 31 ottobre 1517 la data che è considerata l’inizio della Riforma che avrebbe condotto alla rottura della cristianità occidentale”. Fu allora che Martin Lutero rese pubbliche le sue 95 tesi, affisse alla porta della chiesa di Wittemberg. In esse non veniva proposta una separazione dalla Chiesa, ma le tesi ne furono certamente il punto di inizio.

Afferma il card. Müller: “Se siamo convinti che la divina rivelazione è custodita intera e immutata nella Scrittura e nella Tradizione, nella dottrina della Fede, nei sacramenti, nella costituzione gerarchica della Chiesa per diritto divino, fondato sul sacramento dei sacri ordini, non possiamo accettare che esistano ragioni sufficienti per separarsi dalla Chiesa”.

E’ probabile che le sue affermazioni faranno rumore, dal momento che fra qualche mese verrà celebrato il primo mezzo millennio dalla Riforma. Fra l’altro, il Pontefice si recherà in Svezia a ottobre per una commemorazione ecumenica insieme con i rappresentanti della Federazione Luterana mondiale e altre confessioni cristiane. Il cardinale ricorda che molti esponenti della Riforma definirono il papa come Anticristo per “giustificare la separazione” dalla Chiesa cattolica.

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la letterina che ha commosso: “per il giudice dei minori, che ascolti bene”

il bimbo che commuove la Francia

“voglio andare a scuola qui”

  “per il giudice dei minori, che ascolti bene”
letterina

poche righe in un’incerta calligrafia per spiegare la sua storia: così Ibrahim, 8 anni, arrivato dalle Comore, è riuscito a guadagnarsi l’accoglienza in Francia

al settimo giorno chiuso in aeroporto, Ibrahim si è stufato. Prima un’occhiata a “Ben 10”, il supereroe dei cartoni animati stampato sul suo zainetto, poi uno sguardo a quelle orrende sbarre alle finestre. Un foglio bianco. Una matita. La forza invincibile dei suoi 8 anni.

« Pour le juge des enfants
», scrive. Per il giudice dei minori, che ascolti bene. «Sono venuto in Francia per abitare con la zia perché mia madre non ce la fa più a mantenermi. Non ha più soldi per mandarmi a scuola. Io, ci voglio andare a scuola. Mio padre è partito e non l’ho più visto. Voglio stare in Francia con mia zia, non voglio tornare alle Comore». Firmato: Ibrahim, piccolo profugo.
E supereroe.
A volte i miracoli si scrivono in corsivo e bastano 4 righe che vanno dritte dritte al punto. Grazie a quel pezzo di carta, l’inflessibile giudice dei minori Marie-Francoise Verdun che non voleva Ibrahim in Francia, ha cambiato idea. «Può restare, è libero». E non poteva che finire così, questa storia iniziata il 21 marzo, un lunedì mattina.
Quel mattino alle 8.50 atterra al Charles de Gaulle un aereo proveniente dalle Comore. Tra i passeggeri c’è un bimbo di 8 anni, senza genitori, con lo zainetto sulle spalle e due sacchetti di plastica. Dentro ha dei panini e qualche maglietta. Ha anche una lettera scritta da sua madre, nella quale si dice di affidarlo alla zia che lo sta aspettando al terminal. I doganieri però non lo fanno passare, perché ha un passaporto che non è il suo. È del cugino di secondo grado, che ha 5 anni, gli somiglia molto ma è cittadino francese. Il ragazzino è sveglio, ricciolo, occhi grandi e curiosi, ma è comunque un sans- papiers. Va messo nella Zapi, la Zone d’attente pour personne en instance:
una struttura a lato della pista di atterraggio, dove i clandestini attendono il rimpatrio.
Ibrahim è furioso. Nell’appartamento riservato ai minorenni senza genitori — 80 metri quadrati con due camere da letto, lettini blu, due bagni — ci sono sì i giocattoli, la tv, la playstation. Ma anche le finestre con le sbarre, il filo spinato e i vetri sigillati. È deluso, non comunica. Sua madre dalle Comore lo chiama al telefono in continuazione, lui non le vuole più parlare.
Gli assistenti sociali intanto ricostruiscono, grazie all’associazione La voix de l’enfant, il suo passato familiare. La madre è stata abbandonata dal marito e aveva intenzione di provare con Ibrahim la traversata su un barcone dall’isola Anjouan a quella di Mayotte, che dal 2011 è dipartimento francese. Tra loro e la nuova vita, però, ci sono 70 chilometri di Oceano Indiano. Negli ultimi 30 anni in quelle acque agitate sono affogati dai 10mila ai 50mila profughi. Allora è intervenuta la zia di Parigi. Ha convinto la donna a mandargli il figlio con il passaporto del cugino.
Dopo 4 giorni alla Zapi, Ibrahim viene portato al Tribunale dei minori. Il magistrato Verdun sostiene che, nonostante la zia abbia i mezzi per crescerlo, «l’interesse maggiore è stare con la madre». Va imbarcato sul primo aereo per le Comore entro 8 giorni, altrimenti tornerà dal giudice. La famiglia assume l’avvocato Catherine Daoud: Ibrahim, al settimo giorno di “detenzione”, scrive la lettera.
Si arriva a ieri. Ibrahim è svegliato presto al mattino da un poliziotto. «Mi ha detto che mi avrebbe portato in tribunale, invece siamo andati all’aereo — racconta — quando sono salito non c’era nessun altro passeggero. Ho capito che mi stavano riportando a casa». Ma Ibrahim è pur sempre un supereroe, non può perdere mai. «Urlavo, piangevo, mi dimenavo come un matto ». Tant’è che il capitano dell’aereo lo ha fatto scendere, 5 minuti prima del decollo. Alle 10.50.
Viene trasferito a Bobigny a mezzogiorno, di nuovo al cospetto della severa Verdun. Ha un’arma in più, stavolta: la lettera. «Ibrahim è traumatizzato: può rimanere dalla zia», sentenzia il giudice. Ci sono voluti 12 giorni: il tempo durante il quale un bambino con il sogno di andare a scuola è stato lasciato a fissare le sbarre alle finestre.
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per far pace in tempo di guerra

dopo le stragi di Bruxelles
7 idee per fare pace in tempo di guerra
di Flavio Lotti
Lotti
1. La morte non ci deve mai trovare indifferenti. Non importa chi sia la vittima, la sua nazionalità, la sua religione, il colore della sua pelle, il luogo dell’accadimento. Non possiamo piangere solamente le “nostre” vittime. Ogni vittima è un nostro fratello o una nostra sorella. Non abituiamoci mai all’orrore. L’abitudine nasconde la rassegnazione. L’abitudine e la rassegnazione alle stragi, alle uccisioni, alla morte, alla violenza ci tolgono la dignità e uccidono la nostra umanità.
2. Il problema che dobbiamo affrontare è complesso. Il che non significa che sia irrisolvibile. Ma (di fronte ad ogni problema complesso) dobbiamo rifiutare le semplificazioni. Le cose da fare per vincere il terrorismo sono molte e ci coinvolgono tutti, collettivamente e individualmente. Richiedono tempo, pazienza, conoscenza, determinazione, costanza. Serve un’accelerazione in tanti campi ma fuggiamo dallo slogan facile e da tutti quelli che puntano il dito e innalzano muri contro gli altri, l’Islam, gli islamici, i migranti, le donne e gli uomini in fuga dalla guerra e dal terrore…
3. Agire con intelligenza. La componente “militare” del terrorismo va combattuta, fermata, neutralizzata con l’intelligenza, le indagini di polizia, la collaborazione tra i servizi di sicurezza, la lotta alla criminalità e ai traffici di droga e di armi, i sistemi di prevenzione. Servono unità, volontà politica, condivisione, cooperazione e coordinamento delle informazioni, delle politiche, risorse economiche adeguate. Cosa vuol dire “siamo in guerra!”? Per questa “guerra” bombe e cacciabombardieri, missili e portaerei sono inutili e inutilizzabili. Ogni volta che li usiamo estendiamo e radicalizziamo le basi del terrorismo. Quindici anni di “guerra al terrorismo” hanno prodotto risultati disastrosi. Dobbiamo smettere di buttare i nostri soldi per fare cose sbagliate e inconcludenti. E’ ora di cambiare decisamente strada. Smettere di fare la guerra non è un moto di pace ma la vittoria del buon senso.
4. Fermare le guerre. Il terrorismo ha molte radici ma la storia ci dice che le guerre in corso lo alimentano. Per questo è nostro interesse lavorare attivamente per fermarle. La loro continuazione e proliferazione non solo allunga la scia dell’orrore e del dolore ma fomenta il terrorismo, lo foraggia, lo estende. Giustificare una guerra col pretesto della lotta al terrorismo è pura ipocrisia. Fermare le guerre è un dovere di tutti i responsabili della politica internazionale. E’ il primo passo di chi ha il dovere e la responsabilità di costruire pace e sicurezza. Per andare alle radici del problema occorre inoltre contrastare con fermezza i traffici legali e illegali delle armi e la loro produzione.
5. Disertare la guerra delle parole. Lo possiamo fare tutti. Le parole uccidono. Prima delle bombe le parole della guerra seminano il terrore, fomentano l’odio, distruggono la ragione. E’ urgente costruire un argine a quelli che speculano sulle paure e sull’indignazione dei cittadini, che vogliono sostituire il buonismo con la cattiveria, che approfondiscono le divisioni, creano nuovi nemici ed erigono sempre nuove barriere. In televisione, nel web, alla radio e sulla carta stampata chi vuole sinceramente la pace deve disertare la guerra delle parole. La grammatica della pace getta acqua sul fuoco della discordia, spegne le polemiche, isola i malvagi, unisce le donne e gli uomini onesti in un fronte comune.
6. Bonificare le periferie intossicate. Combattere la disoccupazione, sradicare la povertà, lottare contro l’esclusione sociale e l’emarginazione, ridurre le disuguaglianze, promuovere il riconoscimento delle diversità, il dialogo interculturale e interreligioso, favorire l’integrazione, educare alla cittadinanza globale, alla solidarietà e all’accoglienza devono essere tra le priorità di chi vuole sradicare il terrorismo dalle nostre città, dall’Europa e dal mondo intero. Il radicalismo si nutre del malessere sociale, economico e morale, dell’ignoranza e dei fenomeni di esclusione dilaganti. Le politiche sociali, culturali ed educative sono strumenti essenziali di una efficace strategia di lotta al terrorismo.
7. Vincere il male con il bene. Non è una sciocca utopia. E’ la via più concreta, costruttiva ed efficace per uscire dal circolo vizioso del male. Il male non conosce limiti né confini. L’illusione di poterlo sconfiggere con gli stessi mezzi alimenta una escalation di violenza senza fine, limiti e confini. Alla teoria della guerra infinita noi dobbiamo contrapporre la volontà di disertare la guerra ovvero la volontà di interrompere la spirale del terrore per non venire stritolati. Con lucida consapevolezza dobbiamo constatare che la violenza non risolve mai i problemi ma li aggrava. Vincere il male con il bene richiede un lungo e impegnativo lavoro a tutti i livelli, esige una larga assunzione di responsabilità e la ricerca costante del bene comune. La violenza divide. La ricerca del bene comune unisce. La violenza paralizza. La ricerca del bene comune mobilita.

Flavio Lotti
Coordinatore Tavola della pace

Perugia, 25 marzo 2016

 

Tavola della pace
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dicono che credere in Dio cambia il cervello … e in meglio

credi in Dio?

ecco come cambia il tuo cervello

Credi in Dio? Ecco come cambia il tuo cervello
in parole povere si dice che “chi crede in Dio è più buono”. Convinzione che ora pare suffragata anche da uno studio scientifico pubblicato sulla rivista Plos One riportata dal quotidiano britannico The Indipendent

I ricercatori hanno condotto otto esperimenti su un numero di persone-cavia variabile tra 159 e 527 e hanno riscontrato che le persone che si dichiarano convintamente religiose sono più empatiche rispetto a quelle che non credono. Ossia tendono a reprimere un’area usata per il pensiero analitico e ad attivare quella responsabile dell’empatia, cioè del “sentire sociale” che consente una maggiore comprensione e accettazione dell’altro. Secondo gli autori dello studio, il cervello umano usa abitualmente due diverse “reti” di neuroni: una “analitica”, che permette di pensare in modo critico, e una “Rete” sociale, che invece permette una maggior comprensione delle cose dal punto di vista emotivo.

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il commento al vangelo della domenica

OTTO GIORNI DOPO VENNE GESU’ cristo risorto

commento del vangelo della seconda domenica di pasqua (3 aprile 2016) di P. Alberto Maggi:

maggi

Gv 20, 19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il
Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Non si può credere che Gesù è risuscitato perché c’è un sepolcro vuoto, ma perché lo si incontra vivo, vivente e vivificante nella propria esistenza e nella propria esperienza.
E’ quanto ci scrive l’evangelista Giovanni nel capitolo 20 dal versetto 19. Scrive l’evangelista:  La sera di quel giorno, il primo della settimana, si richiama il primo giorno nel libro del Genesi, il giorno della creazione. Con Gesù risuscitato c’è una creazione nuova che non vedrà la fine e la morte, ma continuerà la sua esistenza.
Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, ricordiamo che l’ordine di cattura era per tutto il gruppo di Gesù, non soltanto per Gesù. Non era pericoloso  soltanto il maestro, era pericolosa la sua dottrina, quindi l’ordine di cattura era stato per tutto il gruppo. E’ stato Gesù che, in una posizione di forza, ha barattato la salvezza dei suoi discepoli. Ha detto: “Se cercate me lasciate che questi se ne vadano”. Ma il timore rimane.
 Venne Gesù, stette in mezzo. E’ una caratteristica importante che gli evangelisti ci danno dell’incontro con Gesù. Gesù si pone al centro. Gesù non si pone né davanti, né in alto. Non c’è una gerarchia di persone che sono più o meno vicine a lui. Ma Gesù si pone in centro così tutti hanno la stessa relazione con lui.
 E disse loro: «Pace a voi!». Questo di Gesù non è un invito, infatti non dice “La pace sia con voi”, cioè un augurio, ma è un dono. Quando Gesù si manifesta al centro della sua comunità dona la pace, cioè tutto quello che concorre alla felicità dell’uomo.
Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. Secondo la cultura ebraica la pace doveva essere sempre accompagnata da qualcosa di concreto. Allora Gesù quando dona questa pace fa vedere anche il motivo perché mostra le mani e i fianchi, i simboli della sua tortura e della sua passione. Vuole dire “Ecco l’amore che mi ha spinto a dare la vita per voi e a morire in croce, questo continua a rimanere”. Quindi “non vi preoccupate di nulla”. E’ questo il dono della pace che Gesù fa.
E i discepoli, che erano chiusi per timore dei Giudei, adesso gioiscono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi!” Di nuovo questo dono della pace, “Come il Padre ha mandato me … il Padre ha mandato il figlio a dimostrare un amore totale, incondizionato per tutti gli uomini …, “anche io mando voi”. Quindi Gesù manda i suoi discepoli a dimostrare lo stesso amore incondizionato del Padre per l’umanità. Detto questo, soffiò. E c’è il richiamo alla creazione, del primo uomo quando Dio soffiò e mise la vita nella sua creatura. E disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo”, cioè la stessa forza, la potenza e la capacità d’amare di Dio. “A coloro a cui perdonerete (letteralmente cancellerete) i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Gesù li invita a prolungare nel tempo l’offerta di vita che lui ha fatto. Quello che Gesù sta dicendo in questo momento, le azioni che sta facendo, non sono la concessione di un potere ad alcuni, ma una capacità e una responsabilità per tutto il gruppo dei discepoli: portare un’offerta di vita che, se accolta, cancella immediatamente il passato peccatore.
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo … Didimo significa “gemello”. Perché è chiamato gemello? Perché è l’unico che aveva capito al tempo della risurrezione di Lazzaro, dicendo “andiamo a morire con lui” … è colui che ha gli stessi sentimenti di Gesù. Ma non era con loro quando venne Gesù. Perché Didimo non è chiuso a chiave a chiave con loro? Perché lui non ha paura di fare la stessa fine di Gesù. Lui non è pauroso come gli altri discepoli che stanno chiusi.
Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Quella di Tommaso non è una negazione, è il desiderio e l’impossibilità di credere a qualcosa di meraviglioso. L’espressione di Tommaso va intesa un po’ come quando ci viene data una  bellissima, inaspettata notizia. Qual è la nostra reazione? Diciamo: “no, non è vero!” Non è che neghiamo la notizia, è che è talmente bella che ci sembra impossibile. Oppure quando diciamo: “no, non ci posso credere!” Non è che non ci vogliamo credere, ma è una notizia talmente bella … E’ questo l’atteggiamento di Tommaso.
Otto giorni dopo … Di nuovo ritorna il rito dell’eucaristia, dell’incontro con Gesù …  i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo … ecco di nuovo la caratteristica di Gesù dello stare in mezzo e dice per la terza volta in questo brano: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Qui l’evangelista presenta la più grande manifestazione, attestato di fede di tutti i vangeli. Gli altri discepoli attraverso Pietro erano arrivati a credere che Gesù era il figlio di Dio, il figlio del Dio vivente, ma Tommaso è l’unico che, rivolto a Gesù, gli dice: “Mio Signore e mio Dio!”
L’evangelista nel prologo aveva detto che Dio nessuno lo ha mai visto e il figlio ne era la rivelazione, ed ecco che ora Tommaso manifesta la pienezza della fede. Quindi Tommaso, passato stranamente alla storia come il discepolo incredulo, in realtà è quello proclama ed esplode nella più alta manifestazione di fede dei vangeli.
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». E’ l’ultima beatitudine, ce ne sono due nel vangelo di Giovanni. La prima è la beatitudine del servizio, e ora è la beatitudine della fede. Il servizio, liberamente e volontariamente esercitato per amore verso gli altri, rende possibile nella propria vita l’esperienza del Cristo risorto.
Gesù qui proclama beati quelli che credono senza bisogno di vedere, a quanti vogliono dei segni per vedere, per credere, Gesù propone: “No, credi e tu diventi un segno che gli altri possono vedere”!
E poi conclude l’evangelista: Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. E’ un invito che l’evangelista fa: scrivete il vostro libro, scrivete il vostro vangelo, noi vi trasmettiamo la nostra esperienza, voi fatela vostra e poi scrivete il vostro vangelo. Era quello che succedeva almeno fino al IV secolo nelle primitive comunità cristiane.
Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. La fede in Gesù dona una vita di una qualità tale da superare la morte. L’evangelista usa per il termine “vita” ciò che indica la vita eterna, una vita che si chiama eterna non tanto perché per la durata indefinita, ma per la qualità indistruttibile. Accogliere Gesù nella propria esistenza significa realizzarla pienamente.

 

 

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