La situazione delle comunità Rom dell’Europa centro-orientale è oggetto di interesse per Bruxelles dagli anni del processo di avvicinamento dei Paesi dell’area all’Unione europea. In quel periodo la Commissione europea ha infatti più volte rivolto un appello ai Paesi interessati per fare di più contro l’emarginazione sociale dei membri di questa minoranza. Qualcosa è stato fatto ma evidentemente mai abbastanza e i problemi continuano a esistere.
La minoranza Rom in Ungheria conta, secondo diverse stime, da 600mila a 800mila membri. Le valutazioni sono approssimative ma mettono in luce il fatto che si tratta di una comunità ben numerosa. La maggiore minoranza etnica del Paese dal punto di vista numerico. Il grosso dei suoi appartenenti vive nelle regioni nord-orientali, quelle più depresse dal punto di vista economico. Disoccupazione, abbandono scolastico, tassi di mortalità più alti della media, caratterizzano la situazione di questa realtà che lamenta oltretutto lo stato di discriminazione in cui si trova da tempo.
Un fenomeno che a quanto pare inizia negli anni della scuola: diverse sono infatti le storie che raccontano di classi separate per i bambini Rom nelle scuole ungheresi, slovacche, ceche, romene. Si tratta di storie tristi che accomunano il vissuto di queste comunità nei vari Paesi dell’area. A queste si aggiungono i resoconti riguardanti la situazione delle donne Rom ancora più alle prese con i problemi legati alla disoccupazione e all’emarginazione sociale.
Ma c’è in particolare un fenomeno che mette in causa il problema di un certo tipo di violenza subita da diverse donne Rom e denunciata in questi anni dalle medesime e da organizzazioni per i diritti umani. Una violenza fisica e psicologica che nega qualsivoglia diritto alla dignità. Quella riguardante casi non infrequenti di donne Rom sterilizzate contro la loro volontà. A questo proposito si può menzionare l’inchiesta intitolata “Corpo e anima: casi di sterilizzazione forzata e altri attentati alla libertà riproduttiva dei Rom in Slovacchia” che è stata realizzata nel 2003 dal Centro per il diritto alla riproduzione e servizio di consulenza per i diritti civili e umani di New York.
Da questa indagine risulta che a partire dal 1989 a oggi ci sono stati ben oltre cento casi di sterilizzazione forzata di donne Rom in ospedali pubblici della Slovacchia orientale. Nel novembre del 2012 la Corte europea per i diritti umani ha affermato in una sentenza che diversi medici operanti in ospedali slovacchi hanno violato il diritto di donne Rom alla riproduzione e alla possibilità di creare una famiglia. Risale a quell’anno una ricerca sulla discriminazione e sui soprusi ai danni di cittadini Rom slovacchi realizzata da diverse Ong che hanno messo in evidenza il problema delle sterilizzazioni forzate.
Secondo diversi osservatori si tratta di un problema trattato con poca attenzione dalla stampa slovacca. Un problema irrisolto dal momento che, secondo il Comitato dell’Onu per l’eliminazione delle discriminazioni razziali, non vi sono indagini vere e proprie disposte dal governo su questo fenomeno né vi è una situazione soddisfacente sul piano degli indennizzi malgrado due sentenze emesse negli anni scorsi dalla Corte europea per i diritti umani contro Bratislava.
La situazione dei Rom è peggiorata dalla caduta dei regimi, ma sembra che alcuni fenomeni come quello in questione avvenissero anche a quell’epoca. Secondo diversi attivisti dei diritti umani tale pratica ha resistito e il suo scopo sarebbe quello di controllare le nascite. A volte alle donne Rom vengono offerti soldi o regali, come sacchi di carbone o elettrodomestici oppure ancora dei bonus che vengono definiti premi di sterilizzazione. Ma in diversi casi, donne di questa comunità affermano di essere state sterilizzate senza che venisse loro chiesto il consenso. Negli anni scorsi donne Rom ungheresi, slovacche, ceche, romene e bulgare hanno denunciato questi soprusi alle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. In effetti non se ne parla tanto e non solo in Slovacchia, ma questo non significa che la cosa non avvenga più.
Figlio del Concilio Vaticano II, precursore di Papa Francesco, di quella “Chiesa del grembiule contro la Chiesa delle Stole” per usare una metafora a lui cara, don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta che non si fece mai chiamare Monsignore, è nato ad Alessano, a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca, lembo estremo del Salento dove i due Mari, Adriatico e Ionio, si separano dando vita a uno spettacolo imperdibile.
Consumato dal cancro: aveva soltanto 58 anni
E qui è stato sepolto a 58 anni, consumato dal cancro. A dare l’ultimo saluto al Vescovo, Presidente di Pax Christi, nel porto di Molfetta, arrivarono 60 mila persone. Malattia che non gli impedì, solo quattro mesi prima, di partecipare alla “marcia dei 500” pacifisti che violarono il divieto di entrare nella Sarajevo assediata. “Il seme della nonviolenza attecchirà?”, si chiede nel diario da Sarajevo. “Sarà possibile cambiare il mondo col gesto semplice dei disarmati quando le istituzioni non si muovono? E il popolo si potrà organizzare per conto suo e collocare spine nel fianco a chi gestisce il potere? ”. E qual è “il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie?”. Domande che irrompono nella drammatica attualità, definita da Papa Francesco: “La terza guerra mondiale a pezzi”.
Qui nella Piazza di Alessano che porta il suo nome c’è la sede della Scuola della Pace e la casa di famiglia trasformata in Fondazione. Leggendo il librone all’ingresso si capisce che, giovani e meno giovani, non arrivano fin qui, da ogni parte d’Italia, spinti da un retorico esercizio della memoria ma dal bisogno di condividere i suoi valori, oggi più che mai, oggi, faro in questa eclissi permanente di umanità.
“Caro Don Tonino, mi sforzo di assomigliarti”, scrive Paola, 18 anni di Napoli, mentre Luca, 50 anni: “Mi manchi”. Mancano gli esempi: quando la parola è credibile perché impastata con la coerenza. “Cari fratelli, solo se avremo servito potremo parlare e saremo creduti…” leitmotiv delle sue omelie.
A farci da Cicerone, Stefano Bello, nipote del Vescovo di Molfetta che lavora in un centro di riabilitazione psichiatrica, papà di Tonino, un bimbo di 5 anni, ancora ignaro di essere unico erede di tanto nome. Varchiamo l’ingresso del cimitero, sulla destra, un anfiteatro in miniatura, al centro, un’aiuola dove è adagiata una grande pietra con su una piccola scritta: don Tonino Bello, terziario francescano, vescovo di Molfetta- Ruvo-Terlizzi-Giovinazzo.
Nato ad Alessano il 18 marzo 1935, morto a Molfetta il 20 aprile 1993”. Intorno grandi massi dove sono state scolpite alcune delle frasi più significative del Vescovo visionario che scriveva preghiere poetiche sul molo, mentre il sole scompariva all’orizzonte: “Ama la gente, i poveri soprattutto. E Gesù Cristo”…”. In piedi, costruttori di pace”. Quella Pace che campeggia anche sullo striscione appeso a due alberi, per don Tonino non era solo assenza di guerra, ma ricerca costante di verità e giustizia sociale.
Come il ritornello della canzone che, in una sera di pioggia scrosciante, intonavano i bimbi di Kiseljak, e che don Tonino aveva registrato: “Mir, do neba, do moga naroda, kada se probude da rata ne bude…”.
(Pace fino al cielo, fino al mio popolo, affinché al risveglio non trovi la guerra).
Un figlio della guerra nato senza camicia
Nato da una famiglia povera aveva provato il dolore per la perdita degli affetti più cari morti in guerra. La mamma Maria, rimasta sola, sfamava lui e i suoi due fratelli, Marcello e Trifone, con le verdure che raccoglieva nei campi e con quei pochi denari che racimolava ricamando e facendo la domestica. Tonino per studiare fu mandato in seminario a soli 10 anni. Quando, terminati gli studi a Bologna tornò a Tricase come parroco scrisse: “Grazie terra mia, piccola e povera che mi hai fatto nascere povero come te e mi hai dato la ricchezza di capire i poveri e di potermi oggi disporre a servirli”. Divenuto Vescovo, a chiunque bussasse alla porta, credenti e non, offriva “una parola e una frisa”. Con l’avvento dell’equo canone molte famiglie povere vennero sfrattate “Zio le ospitò nell’ Arcivescovado” racconta Stefano. Non perdeva occasione di criticare i politici
“Ero un bambino, ma ricordo benissimo un giorno, dopo tre ore di auto, arrivammo a Molfetta per cenare con lo zio e ripartire l’indomani mattina ma lui ci rispedì a casa, dicendoci con un sorriso che lì non c’era posto e noi un tetto dove dormire l’avevamo”.
Non perdeva occasione per bacchettare i politici di non fare nulla o, di fare poco, contro la povertà. Tant’è che smisero di partecipare al consueto appuntamento per gli auguri natalizi per non “subire” le sue prediche-ramanzine. Ma don Tonino non si arrese, le registrò e inviò loro le cassette. Così come non lasciò soli gli operai delle acciaierie di Giovinazzo, sfilò accanto a loro contro la chiusura dello stabilimento. E dal palco spiegò: “La Chiesa ha il compito di schierarsi con gli ultimi. E in questo momento gli ultimi siete voi. Stare con voi significa anche condividere la vostra protesta contro una politica che non ha salvaguardato i livelli occupazionali attraverso le necessarie riconversioni e ristrutturazioni….”. Ma fece di più, per sostenerli, prelevò undici milioni di lire dal fondo per la costruzione delle chiese. Non aveva alcun timore reverenziale. Da poco eletto Presidente di Pax Christi, non esitò a scrivere una lettera di fuoco a Indro Montanelli, direttore de “Il Giornale”, che in un articolo di fondo aveva ridicolizzato monsignor Bettazzi accusandolo di invitare all’evasione fiscale, anziché all’obiezione fiscale (non pagare tasse finalizzate all’acquisto delle armi).
Polemiche scomode, mal digerite anche all’interno della Chiesa.
A sostenerlo David Maria Turoldo: “Caro don Tonino, mi dicono che sei stato richiamato perché parli troppo contro le armi… dì pubblicamente che sei stato richiamato perché di questo hanno paura. Sono anche vili, come sappiamo: forti con i deboli e deboli coi forti. Per amore dei poveri e della verità; e cioè per amore della Chiesa e della pace, non scoraggiarti, caro fratello vescovo! Di vescovi in cui confidare ce ne sono così pochi!”.
E, forse, nessuno, che nel cuore della notte, alla guida della cinquecento, andava alla stazione a raccogliere i barboni o che scriveva ad un immigrato parole di fratellanza, la grande assente alla tavola della modernità: “Dimmi,fratello marocchino ma sotto quella pelle scura hai un’anima pure tu? Quando rannicchiato nella macchina consumi un pasto veloce, qualche volta versi anche tu lacrime amare nella scodella?… Perdonaci se, pur appartenendo a un popolo che ha sperimentato l’amarezza dell’emigrazione, non abbiamo usato misericordia verso di te. Anzi ripetiamo su di te, con le rivalse di una squallida nemesi storica, le violenze che hanno umiliato e offeso i nostri padri in terra straniera. Perdonaci, se non abbiamo saputo levare coraggiosamente la voce per forzare la mano dei nostri legislatori… Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha il colore della tua pelle. P.S. Se passi da casa mia, fermati”. L’unico riferimento è sempre stato il Vangelo
La chiave del suo operato, come spiega efficacemente il Vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli, è “mettere in pratica il Vangelo sine glossa e sine modo”, cioè senza aggiunte o menomazioni. “Ma anche senza confini e senza misura”. E così la sua utopia resiste oltre la morte e vive nelle viscere della terra oltraggiata e nel sangue dolente degli ultimi.
papa Francesco sostenuto da Kasper si sta preparando a deludere i tradizionalisti
per il cardinale Walter Kasper l’esortazione apostolica nella quale papa Francesco tirerà le somme del doppio sinodo sulla famiglia “sarà il primo passo di una riforma che farà voltar pagina alla Chiesa al termine di un periodo di 1700 anni”.
le difficoltà che papa Francesco trova comunque nell’aprire la chiesa a posizioni più evangeliche e ‘misericordiose’ sono enormi: un saggio di questi ostacoli che trova in questo sforzo lo troviamo nelle posizioni rigide e integralistiche di uno dei pesi massimi del vaticano, nientemeno che il card. Muller, prefetto dell’ex s. Uffizio, quello che decide anche le virgole sull’ortodossia sapendo per filo e per segno come è fatto Dio, anzi isponendone totalmente essendo proprietà sua, avendolo ‘in tasca’ : di seguito le posizioni del card. Muller riportate da S. Magister nel suo blog
il vaticanista tradizionalista Magister sostiene l’ala intransigente e pubblica sul suo blog “Settimo Cielo” le tesi dell cardinale tedesco Gerhard L. Müller (testo a seguire):
da “Informe sobre la esperanza” di Gerhard L. Müller
“CHI SONO IO PER GIUDICARE?”
Proprio quelli che fino ad oggi non hanno mostrato alcun rispetto per la dottrina della Chiesa si servono di un frase isolata del Santo Padre, “Chi sono io per giudicare?”, tolta dal contesto, per presentare idee distorte sulla morale sessuale, avvalorandole con una presunta interpretazione del pensiero “autentico” del papa al riguardo.
La questione omosessuale che diede spunto alla domanda posta al Santo Padre è già presente nella Bibbia, tanto nell’Antico Testamento (cfr. Gen 19; Dt 23, 18s; Lev 18, 22; 20, 13; Sap 13-15) quanto nelle lettere paoline (cfr. Rom 1, 26s; 1 Cor 6, 9s), trattata come soggetto teologico, sia pure con i condizionamenti propri inerenti alla storicità della divina rivelazione.
Dalla Sacra Scrittura si ricava il disordine intrinseco degli atti omosessuali, poiché non procedono da una vera complementarietà affettiva e sessuale. Si tratta di una questione molto complessa, per le numerose implicazione che sono emerse con forza negli ultimi anni. In ogni caso, la concezione antropologica che si ricava dalla Bibbia comporta alcune ineludibili esigenze morali e nello stesso tempo uno scrupoloso rispetto per la persona omosessuale. Queste persone, chiamate alla castità ed alla perfezione cristiana attraverso la padronanza di sé e a volte con l’aiuto di un’amicizia disinteressata, vivono “una autentica prova. Perciò devono essere accolte con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione” (Catechismo della Chiesa cattolica, 2357-2359).
Tuttavia, oltre al problema suscitato della decontestualizzazione della citata frase di papa Francesco, pronunciata come segno di rispetto per la dignità della persona, mi sembra sia evidente che la Chiesa, con il suo magistero, ha la capacità di giudicare la moralità di certe situazioni. Questa è una verità indiscussa: Dio è il solo giudice che ci giudicherà alla fine dei tempi e il papa ed i vescovi hanno l’obbligo di presentare i criteri rivelati per questo giudizio finale che oggi già si anticipa nella nostra coscienza morale.
La Chiesa ha detto sempre “questo è vero, questo è falso” e nessuno può interpretare in modo soggettivista i comandamenti di Dio, le beatitudini, i concili, secondo i propri criteri, il proprio interesse o persino le proprie necessità, come se Dio fosse solo lo sfondo della sua autonomia. Il rapporto tra la coscienza personale e Dio è concreto e reale, illuminato dal magistero della Chiesa; la Chiesa possiede il diritto e l’obbligo di dichiarare che una dottrina è falsa, precisamente perché una tale dottrina devia la gente semplice dalla strada che porta a Dio.
A partire dalla rivoluzione francese, dai successivi regimi liberali e dai sistemi totalitari del secolo XX, l’obiettivo dei principali attacchi è sempre stato la visione cristiana dell’esistenza umana ed del suo destino.
Quando non si poté vincere la sua resistenza, si permise il mantenimento di alcuni dei suoi elementi, ma non del cristianesimo nella sua sostanza; il risultato fu che il cristianesimo cessò di essere il criterio di tutta la realtà e si incoraggiarono le suddette posizioni soggettiviste.
Queste hanno origine in una nuova antropologia non cristiana e relativista che prescinde del concetto di verità: l’uomo odierno si vede obbligato a vivere perennemente nel dubbio. Di più: l’affermazione che la Chiesa non può giudicare situazioni personali si basa su una falsa soteriologia, cioè che l’uomo è il suo proprio salvatore e redentore.
Nel sottomettere l’antropologia cristiana a questo riduzionismo brutale, l’ermeneutica della realtà che da ciò deriva adotta soltanto gli elementi che interessano o sono convenienti all’individuo: alcuni elementi delle parabole, certi gesti benevoli di Cristo o quei passaggi che lo presentano come un semplice profeta del sociale o un maestro in umanità.
E al contrario si censura il Signore della storia, il Figlio di Dio che invita alla conversione o il Figlio dell’Uomo che verrà a giudicare i vivi ed i morti. In realtà, questo cristianesimo semplicemente tollerato si svuota del suo messaggio e dimentica che il rapporto con Cristo, senza la conversione personale, è impossibile.
CHI PUÓ FARE LA COMUNIONE
Papa Francesco dice nella “Evangelii gaudium” (n. 47) che l’eucaristia “non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli”. Vale la pena analizzare questa frase con profondità, per non equivocarne il senso.
In primo luogo, bisogna notare che questa affermazione esprime il primato della grazia: la conversione non è un atto autonomo dell’uomo, ma è, in se stessa, un’azione della grazia. Tuttavia da ciò non si può dedurre che la conversione sia una risposta esterna di gratitudine per ciò che Dio ha fatto in me per conto suo, senza di me. Nemmeno posso concludere che chiunque possa accostarsi a ricevere l’eucaristia sebbene non sia in grazia e non abbia le dovute disposizioni, solo perché è un alimento per i deboli.
Prima di tutto dovremmo chiederci: che cos’è la conversione? Essa è un atto libero dell’uomo e, nello stesso tempo, è un atto motivato dalla grazia di Dio che previene sempre gli atti degli uomini. È per questo un atto integrale, incomprensibile se si separa l’azione di Dio dall’azione dell’uomo. […]
Nel sacramento della penitenza, per esempio, si osserva con tutta chiarezza la necessità di una risposta libera da parte del penitente, espressa nella sua contrizione del cuore, nel suo proposito di correggersi, nella sua confessione dei peccati, nel suo atto di penitenza. Per questo la teologia cattolica nega che Dio faccia tutto e che l’uomo sia puro recipiente delle grazie divine. La conversione è la nuova vita che ci è data per grazia e nello stesso tempo, anche, è un compito che ci è offerto come condizione per la perseveranza nella grazia. […]
Ci sono solo due sacramenti che costituiscono lo stato di grazia: il battesimo e il sacramento della riconciliazione. Quando uno ha perso la grazia santificante, necessita del sacramento della riconciliazione per ricuperare questo stato, non come merito proprio ma come regalo, come un dono che Dio gli offre nella forma sacramentale. L’accesso alla comunione eucaristica presuppone certamente la vita di grazia, presuppone la comunione nel corpo ecclesiale, presuppone anche una vita ordinata conforme al corpo ecclesiale per poter dire “Amen”. San Paolo insiste sul fatto che chi mangia il pane e beve il vino del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore (1 Cor 11. 27).
Sant’Agostino afferma che “colui che ti creò senza di te non ti salverà senza di te” (Sermo 169). Dio chiede la mia collaborazione. Una collaborazione che è anche regalo suo, ma che implica la mia accoglienza di questo dono.
Se le cose stessero diversamente, potremmo cadere nella tentazione di concepire la vita cristiana nel modo delle realtà automatiche. Il perdono, per esempio, si convertirebbe in qualcosa di meccanico, quasi in una esigenza, non in una domanda che dipende anche da me, poiché io la devo realizzare. Io andrei, allora, alla comunione senza lo stato di grazia richiesto e senza accostarmi al sacramento della riconciliazione. Darei per scontato, senza nessuna prova di ciò a partire dalla Parola di Dio, che mi è concesso privatamente il perdono dei miei peccati tramite questa stessa comunione. Ma questo è un falso concetto di Dio, è tentare Dio. E porta con sé anche un concetto falso dell’uomo, col sottovalutare ciò che Dio può suscitare in lui.
Strettamente parlando, noi cattolici non abbiamo alcun motivo per festeggiare il 31 ottobre 1517, cioè la data considerata l’inizio della Riforma che portò alla rottura della cristianità occidentale.
Se siamo convinti che la rivelazione divina si è conservata integra ed immutata attraverso la Scrittura e la Tradizione, nella dottrina della fede, nei sacramenti, nella costituzione gerarchica della Chiesa per diritto divino, fondata sul sacramento del sacro ordine, non possiamo accettare che esistano ragioni sufficienti per separarsi dalla Chiesa.
I membri delle comunità ecclesiali protestanti guardano a questo evento da un’ottica diversa, poiché pensano che sia il momento opportuno per celebrare la riscoperta della “parola pura di Dio”, che presumono sfigurata lungo la storia da tradizioni meramente umane. I riformatori protestanti arrivarono alla conclusione, cinquecento anni fa, che alcuni gerarchi della Chiesa non solo erano corrotti moralmente, ma avevano anche travisato il Vangelo e, di conseguenza, avevano bloccato il cammino di salvezza dei credenti verso Gesù Cristo. Per giustificare la separazione accusarono il papa, presunto capo di questo sistema, di essere l’Anticristo.
Come portare avanti, oggi, in modo realistico, il dialogo ecumenico con le comunità evangeliche? Il teologo Karl-Heinz Menke dice il vero quando asserisce che la relativizzazione della verità e l’adozione acritica delle ideologia moderne sono l’ostacolo principale verso l’unione nella verità.
In questo senso, una protestantizzazione della Chiesa cattolica a partire da una visione secolare senza riferimento alla trascendenza non soltanto non ci può riconciliare con i protestanti, ma nemmeno può consentire un incontro con il mistero di Cristo, poiché in Lui siamo depositari di una rivelazione sovrannaturale alla quale tutti noi dobbiamo la totale ubbidienza dell’intelletto e della volontà (cfr. “Dei Verbum”, 5).
Penso che i principi cattolici dell’ecumenismo, così come furono proposti e sviluppati dal decreto del Concilio Vaticano II, sono ancora pienamente validi (cfr. “Unitatis redintegratio”, 2-4). D’altra parte, il documento della congregazione per la dottrina della fede “Dominus Iesus”, dell’anno santo del 2000, incompreso da molti e ingiustamente rifiutato da altri, sono convinto che sia, senza alcun dubbio, la magna carta contro il relativismo cristologico ed ecclesiologico di questo momento di tanta confusione.
SACERDOZIO FEMMINILE
La domanda se il sacerdozio femminile sia una questione disciplinare che la Chiesa potrebbe semplicemente cambiare non tiene, poiché si tratta di una questione già decisa.
Papa Francesco è stato chiaro, come anche i suoi predecessori. Al riguardo, ricordo che san Giovanni Paolo II, al n. 4 dell’esortazione apostolica “Ordinatio sacerdotalis” del 1994, rafforzò con il plurale maiestatico (“declaramus”), nell’unico documento nel quale quel papa utilizzò questa forma verbale, che è dottrina definitiva insegnata infallibilmente dal magistero ordinario universale (can. 750 § 2 CIC) il fatto che la Chiesa non ha autorità per ammettere le donne al sacerdozio.
Compete al Magistero decidere se una questione è dogmatica o disciplinare; in questo caso, la Chiesa ha già deciso che questa proposta è dogmatica e che, essendo di diritto divino, non può essere cambiata e nemmeno rivista. La si potrebbe giustificare con molte ragioni, come la fedeltà all’esempio del Signore o il carattere normativo della prassi multisecolare della Chiesa, tuttavia non credo che questa materia debba essere discussa di nuovo a fondo, poiché i documenti che la trattano espongono a sufficienza i motivi per respingere questa possibilità.
Non voglio mancare di segnalare che c’è una essenziale uguaglianza tra l’uomo e la donna nel piano della natura ed anche nel rapporto con Dio tramite la grazia (cfr. Gal 3, 28). Ma il sacerdozio implica una simbolizzazione sacramentale del rapporto di Cristo, capo o sposo, con la Chiesa, corpo o sposa. Le donne possono avere, senza nessun problema, più incarichi nella Chiesa: al riguardo, colgo volentieri l’occasione di ringraziare pubblicamente il numeroso gruppo di donne laiche e religiose, alcune della quali con qualificati titoli universitari, che prestano la loro indispensabile collaborazione nella congregazione per la dottrina della fede.
D’altra parte non sarebbe serio avanzare proposte in merito partendo da semplici calcoli umani, dicendo per esempio che “se apriamo il sacerdozio alle donne superiamo il problema vocazionale” o “se accettiamo il sacerdozio femminile daremmo al mondo un’immagine più moderna”.
Credo che questo modo di porre il dibattito è molto superficiale, ideologico e soprattutto antiecclesiale, perché omette di dire che si tratta di una questione dogmatica già definita da chi ha il compito di farlo, e non di una materia meramente disciplinare.
CELIBATO SACERDOTALE
Il celibato sacerdotale, così contestato in certi ambienti ecclesiastici odierni, ha le sue radici nei Vangeli come consiglio evangelico, ma ha anche un rapporto intrinseco con il ministero del sacerdote.
Il sacerdote è più di un funzionario religioso al quale sia stata attribuita una missione indipendente dalla sua vita. La sua vita è in stretto rapporto con la sua missione evangelica e pertanto, nella riflessione paolina come anche nei Vangeli stessi, chiaramente il consiglio evangelico appare legato alla figura dei ministri scelti da Gesù. Gli apostoli, per seguire Cristo, hanno lasciato tutte le sicurezze umane dietro di loro e in particolare le rispettive spose. Al riguardo, san Paolo ci parla della sua esperienza personale in 1 Cor 7, 7, ove sembra considerare il celibato come un carisma particolare che ha ricevuto.
Attualmente, il vincolo tra celibato e sacerdozio in quanto dono peculiare di Dio attraverso il quale i ministri sacri possono unirsi più facilmente a Cristo con un cuore indiviso (can. 277 § 1 CIC; “Pastores dabo vobis”, 29), si trova in tutta la Chiesa universale, anche se in forma diverso. Nella Chiesa orientale, come sappiamo, riguarda solo il sacerdozio dei vescovi; ma il fatto stesso che per loro lo si esiga ci indica che tale Chiesa non lo concepisce come una disciplina esterna.
Nel suddetto menzionato ambiente di contestazione al celibato, è molto diffusa la seguente analogia. Alcuni anni fa sarebbe stato inimmaginabile che una donna potesse fare il soldato, mentre oggi, invece, gli eserciti moderni contano su un gran numero di donne soldato, pienamente atte a un compito considerato, tradizionalmente, come esclusivamente maschile. Non succederà lo stesso con il celibato? Non è un inveterato costume del passato che bisogna rivedere?
Tuttavia la sostanza dell’attività militare, a parte alcune questioni di tipo pratico, non esige che chi la esercita appartenga a un determinato sesso; mentre il sacerdozio è invece in intima connessione con il celibato.
Il Concilio Vaticano II e altri documenti magisteriali più recenti insegnano una tale conformità o adeguazione interna tra celibato e sacerdozio che la Chiesa di rito latino non sente di avere la facoltà di cambiare questa dottrina con una decisione arbitraria che romperebbe con lo sviluppo progressivo, durato secoli, della regolamentazione canonica, a partire dal momento in cui è stato riconosciuto questo vincolo interno, anteriormente alla suddetta legislazione. Noi non possiamo rompere unilateralmente con tutta una serie di dichiarazioni di papi e di concili, come neppure con la ferma e continua adesione della Chiesa cattolica all’immagine del sacerdote celibe.
La crisi del celibato nella Chiesa cattolica latina è stato un tema ricorrente in momenti specialmente difficili nella Chiesa. Per citare qualche esempio, possiamo ricordare i tempi della riforma protestante, quelli della rivoluzione francese e, più recentemente, gli anni della rivoluzione sessuale, nei decenni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Ma se qualcosa possiamo imparare dallo studio della storia della Chiesa e delle sue istituzioni è che queste crisi hanno sempre mostrato e consolidato la bontà della dottrina del celibato.
“Teoria del gender e matrimonio gay sono una deviazione”
Sarah, che molti indicano come possibile primo Papa nero e africano, contro cardinali e vescovi che “attaccano la famiglia dall’interno della Chiesa”
“a tutti va riconosciuta la libertà di amare: chi vieta agli altri la libertà di amare è più tiranno di chi vieta la libertà di parola”
(che differenza rispetto alla saggia, rispettosa e realistica posizione di E. Bianchi, priore di Bose!)
Il prossimo 8 aprile sarà pubblicata la “Amoris Laetitia”, con la posizione ufficiale del Papa su unioni gay e comunione ai divorziati
di Michele M. Ippolito
“La teoria del gender, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la negazione delle differenze tra uomo e donna sono una deviazione e non capisco come la cultura europea, impregnata di cristianesimo, sia arrivata a questo punto. In Francia mi hanno corretto, mi hanno detto che non posso usare la parola ‘deviazione’, ma non saprei quale altra parola usare. Noi non possiamo dimenticare che Dio ha creato uomo e donna”
In uno dei suoi rari interventi pubblici per la presentazione del suo libro “Dio o niente”, un vero e proprio bestseller della stampa cattolica, il cardinale guineano Robert Sarah, prefetto della Congregazione del Culto Divino e della Disciplina dei Sacramenti, si è espresso a Portici, in provincia di Napoli a pochi giorni dalla pubblicazione del testo “Amoris Leatitia” di papa Francesco, che affronterà anche i temi delle unioni gay e della comunione ai divorziati risposati. “Anche gli scemi – ha continuato Sarah senza giri di parole – riconoscono che tra uomo e donna c’è differenza e complementarietà. L’uomo non è niente senza la donna e viceversa. Questa non è la mia posizione, è la posizione della Chiesa e contro questa deviazione tutti i cristiani, tutte le famiglie devono lottare.” Il cardinale Sarah, nativo della Guinea, da molti viene considerato come il principale punto di riferimento dei tradizionalisti nella Curia romana e, secondo alcuni osservatori, potrebbe diventare in futuro il primo Papa nero ed africano della storia. Nel corso dell’incontro, a cui hanno partecipato oltre cinquecento persone, Sarah ha riferito che, dopo il plauso giuntogli da Benedetto XVI, al termine della messa per la Domenica delle Palme, papa Francesco gli ha detto ‘ho finito di leggere il suo libro, mi è piaciuto molto’. Parole che possono essere messe a confronto con quelle, simili, usate due anni da dal Papa per commentare il principale esponente dell’area progressista, il cardinale Walter Kasper, che, in suo scritto sulla misericordia, aveva aperto alla possibilità di riammettere ai sacramenti i divorziati che avessero contratto una nuova unione civile. Una tesi che, per Sarah, va contro l’istituto della famiglia “attaccata dall’interno della Chisa, una cosa che rappresenta il peccato più grave. Dobbiamo solo sperare che la Chiesa riprenda il suo compito di essere luce. Siamo noi stessi i responsabili del senso di insicurezza che si è creato dopo il Sinodo sulla Famiglia.” Il primo Sinodo, quello del 2014, che sancì una profonda spaccatura tra tradizionalisti e progressisti, per Sarah “è stato una catastrofe: abbiamo fatto uscire un documento inqualificabile. Se noi stessi non siamo sicuri di quello che dobbiamo insegnare, il mondo non può considerare la famiglia come il tesoro della società.” Dopo il secondo Sinodo sul tema delle nuove sfide della famiglia, tenutosi a Roma lo scorso ottobre, ci si aspettava che il Papa rendesse noto in tempi rapidi un documento a sua firma in cui prendeva posizione sulle questioni più spinose. Il documento papale è molto atteso perché finalmente sarà chiara qual è la posizione di Francesco su temi sui quali il pontefice spesso si è espresso in modo non del tutto chiaro, e soprattutto, è necessario perché i padri sinodali, proprio per non creare ulteriori spaccature, al termine dell’assemblea avevano redatto un testo ambiguo proprio sui temi considerati più spinosi. Era stato anche detto che il pontefice avrebbe “battuto il ferro finchè era caldo”. Invece sono passati oltre sei mesi, in cui le bozze dell’esortazione post-sinodale sono stato oggetto di più stesure e continue riscritture, al punto che anche la Congregazione per la Dottrina della Fede, l’ex Santo Uffizio, avrebbe chiesto numerose modifiche al testo originale. Lo stesso Kasper, che pochi giorni fa aveva parlato di un “documento rivoluzionario”, nelle scorse ore ha fatto marcia indietro chiarendo che non ci sarà nessuna rivoluzione, ma, al massimo, qualche riforma.
continua su: http://www.fanpage.it/il-cardinale-sarah-teoria-del-gender-e-matrimonio-gay-sono-una-deviazione/ http://www.fanpage.it/
“L’uomo è fatto per la donna. La donna è fatta per l’uomo. Nel mio libro lo dico chiaramente, perché in fondo è un concetto molto chiaro di per sé: l’uomo è niente senza la donna, e viceversa. Ma soprattutto, tutti e due non sono niente senza un terzo elemento che è il frutto che nasce dal loro amore: una nuova vita, un bambino. Il cosiddetto “matrimonio omosessuale” è egoismo puro. Nessun frutto. Un amore che non fa nascere niente non può che distrugge la vera felicità, la vera complementarietà. Un uomo non può completare un altro uomo; per quanto può provarci, non ci riuscirà mai. È la natura. Anche gli uccelli lo sanno”
che differenza e disumanità rispetto a questa considerazione di E. Bianchi, priore di Bose:
“a tutti va riconosciuta la libertà di amare: chi vieta agli altri la libertà di amare è più tiranno di chi vieta la libertà di parola”
“’Sono la Via, la Verità, e la Vita’. È questo che è stabile. È questo che io cerco di testimoniare”. L’Occidentale ospita una intervista al Cardinale Robert Sarah, uomo dalla fede ardente, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, e autore del libro“Dio o niente”.
Il Cardinale Burke, tempo fa ha detto: “Se per fondamentalista si intende qualcuno che insiste sulle cose fondamentali, sono un fondamentalista.” Rispondeva ad una provocazione data la sua nota e ripetuta opposizione a ogni mutamento della prassi pastorale in discussione al Sinodo. Si sente di sposare questo stesso sentire?
Papa Benedetto XVI ha sottolineato senza sosta il problema della dittatura del relativismo. Oggi tutto è possibile. Non abbiamo più radici. Niente di stabile. Eppure noi una Dottrina stabile l’abbiamo, abbiamo una Rivelazione. Far sì che la gente torni alle radici delle cose, della Rivelazione è un dovere per noi Vescovi. Non possiamo lasciare la gente senza una strada sicura. Senza una roccia su cui appoggiarsi. Nella parrocchia la roccia su cui appoggiarsi è il parroco, nella diocesi è il Vescovo, nella Chiesa universale, è il Papa. E noi cerchiamo di aiutare il Santo Padre ad assicurare la gente che una stabilità esiste. Che c’è una strada. E la strada è Gesù Cristo. Lo ha detto chiaramente: “Sono la Via, la Verità, e la Vita”. È questo che è stabile. È questo che io cerco di testimoniare. Abbiamo davvero una roccia, abbiamo una strada, abbiamo una Verità che ci salva. È inutile spostarsi da lì.
Quindi è anche lei un “fondamentalista”, nel senso che ha attribuito Burke al termine?
Sì, sicuramente. (Sorride di gusto)
La parola ‘fondamentalismo’ è ormai associata all’islam. Tema che ha invaso le nostre conversazioni quotidiane. L’islam identifica il mondo politico e quello religioso, convinto che solo il potere politico possa moralizzare l’umanità. Qui si rende manifesta tutta la differenza e la novità del cristianesimo, il cui Dio non è il Re di un banale regno temporale. In quest’ottica, non è forse vero, quanto diceva, quando era ancora Cardinale, il Papa Emerito? “Nella pratica politica il relativismo è il benvenuto perché ci vaccina della tentazione utopistica”. La Chiesa Cattolica del 2016 ha conservato questo stesso atteggiamento nei confronti della politica, oppure è convinta che in fondo, il Paradiso in terra si possa sempre realizzare?
Penso che dall’inizio noi dobbiamo dividere l’uomo. Separare cioè la sua identità propria e il suo lavoro, la sua politica. Non dobbiamo mischiare la religione con la politica. Però, allo stesso tempo, l’uomo è uno. Non puoi essere un cristiano in chiesa, e fuori un’altra persona. E come dunque radicare il Vangelo nel mio operare, nella politica, nell’economia? Questo è il problema fondamentale. Perché se divido, cosa succede? Sono un cristiano in chiesa, ma un passo fuori dalla chiesa e il mio comportamento è da pagano, da uomo che non crede a niente. Un uomo che crede solo nel suo avere, nel potere. Ma la vera fede opera nella carità. La vera fede si manifesta nella carità, cioè nella concretezza delle azioni. E dunque penso che il problema stia tutto nell’essere ‘cristiani veramente veri’ nell’attualità, nell’economia nella politica, nell’arte, nella cultura, nella vita familiare. È impossibile dire sono cristiano e poi non mi sposo in chiesa, per esempio. (Sorride). È difficile dire sono un cristiano però non vado a messa. L’esser cristiano deve riflettersi per forza nella vita pratica. E ognuno di noi è immerso nella società. Dobbiamo vedere nella nostra vita il Vangelo. C’è una trasparenza che deve vedersi nella vita quotidiana, e questo è la vera cristianità.
Nel suo libro lei ha ampiamente affrontato l’argomento “teologia della liberazione”. Quella teologia che ha trasformato, e continua a farlo, il Vangelo in ricetta politica, con l’assolutizzazione di una posizione per cui solo questa sarebbe la ricetta per liberare e dare progresso. Convinti, in questo modo, che lo stato sia l’ultimo potere. Crede che il pensiero marxista stia tornando in svariate altre forme nel nostro tempo?
Quando si concepisce la cristianità in modo orizzontale, come se solo nell’azione umanitaria, sociale, politica ci sia quel che conta, è lì che sbagliamo. E si sbaglia perché prima di fare, devo attingere dall’alto per trovare il giusto modo di agire. Cioè devo essere ispirato da Dio. La “teologia della liberazione” voleva solo fare una ‘teologia dell’azione’ che non ispira al Vangelo e che, soprattutto, non si ispira dal Vangelo. E dunque penso che anche oggi siamo tentati di vedere la nostra opera cristiana come un’opera sociale. Non critico nessuno, non dico che è male fare … Ma, per esempio. Insistiamo tanto nell’accogliere i rifugiati, bene. Non dovremmo farlo soltanto per dare loro cibo, lavoro, una casa. Loro hanno un bisogno più alto, cioè Dio. Pensiamo a questo? O è soltanto un discorso ‘orizzontale’ il nostro? Questo è il problema. La “teologia della liberazione” sta rientrando di nuovo nella pratica della vita sociale della Chiesa. Non dico che non dobbiamo occuparci materialmente della gente povera. Però l’ingiustizia più grave è di dare soltanto cibo ai poveri, loro hanno bisogno del Vangelo. Hanno bisogno di Dio. Lo dice anche Papa Francesco.
In effetti, pare che la povertà sia diventata il centro di tutto l’apostolato nel cattolicesimo. Almeno è quello che percepiscono i fedeli. Una volta Benedetto XVI ha detto: “La povertà puramente materiale non salva, […] il cuore della persone che non posseggono niente può essere indurito, avvelenato, malvagio – colmo all’interno di avidità di possesso, dimentico di Dio e bramoso solo di beni materiali.” Lei ha raccontato l’episodio della rimozione del baldacchino dalla Cattedrale di Conakry. In un’ottica malsana e ipocrita, le chiese, oggi, si preferisce ‘spogliarle’ piuttosto che ‘vestirle’. Perché?
Perché abbiamo perso la maestà, la dignità, la Grandezza di Dio. Dio ora è niente. (Sorride con ironia. Gioca da solo con il titolo del suo libro). E siccome è niente dobbiamo spogliare la sua casa. Il che è mera ingiustizia. È davvero ingiusto! Ognuno di noi desidera abitare in una casa bella. Perché ci permettiamo di privare Dio della bellezza? Abbiamo perso il senso della sacralità, della bellezza. Dio che è Bello, che ha il Bello, merita una casa bella. Non è povertà spogliare la chiesa. (Sorride ancora. ‘Spogliare la Chiesa’ gli suona ridicolo) È solo segno di desacralizzazione, di disprezzo di Dio. Proprio per questa ragione, per questo rischio latente, che Benedetto XVI ha prestato tanta cura nella Liturgia. A partire dal “vestimento” del sacerdote, fino alla bellezza dell’altare e della chiesa tutta. Questo è segno della religiosità, della sacralità. Pensiamo a come era bello il tempio di Gerusalemme, eppure erano poverissimi a quel tempo. Oppure pensiamo a quando in Campania avete costruito queste meravigliose chiese, la gente non era povera, era poverissima. Eppure hanno voluto dare tutto per Dio. Perché niente è troppo ricco per Dio.
Il cattolico fervente del ventunesimo secolo è tacciato continuamente di essere un retrogrado e nemico della libertà. Della libertà arbitraria ed individualista. La Chiesa si lascerà percuotere dal mito condito della libertà d’amore? Tutto sarà sottomesso al principio di maggioranza perché si cancellerà la differenza tra bene e male?
Io spero che la Chiesa rimanga sempre la Luce. La Luce e la Verità. Cristo ha detto la Verità ci libererà. La vera libertà è la Verità. Cioè, una libertà che mi permette di fare tutto ciò che mi piace, non è vera libertà. È solo schiavitù. La vera libertà è quella che impegna a cercare il Vero, il Bello, la Giustizia, ciò che è in grado di far progredire ognuno di noi. Essere liberi è possibile solo in Cristo. Solo Lui ci libera. Non ha niente a che fare con ciò che mi piace. E la Chiesa deve mantenere questa strada. La più autentica libertà è fuggire ciò che ci tiene in schiavitù. Siamo schiavi del danaro, del potere, di un’infinità di cose che non sono il nostro bene. Chi può illuminare l’uomo a cercare la vera libertà? Penso solo il Vangelo. La Libertà viene dal Figlio di Dio. E la Verità purtroppo non è più considerata. Ciascuno ha la sua verità e quindi la sua libertà. Oggi verità è ‘ciò che mi conviene’. Ma la libertà è una cosa oggettiva. E mi lega a volere la libertà che è Dio. Senza amore non c’è libertà. L’amore è rispettare l’altro. Dio è libertà, è amore. L’amore è incapace di imporre e Dio è l’origine della libertà perché è incapace di imporre. E Dio è l’origine della libertà perché è incapace di imporre una sua visione, ma ci lascia scegliere per amore. Questo è amore.
Un po’ di tempo fa lei ha detto l’Africa in materia di omosessualità, potrebbe diventare la punta di lancia della Chiesa nella sua opposizione alla decadenza occidentale; continua ad essere dello stesso avviso?
Il futuro è nelle mani di Dio. Però l’Africa lotterà in modo energico per non accettare questa deviazione. Perché è contro natura. Nessun pagano può pensare e credere davvero ciò che vediamo qui in occidente. Nessuno. L’uomo è fatto per la donna. La donna è fatta per l’uomo. Nel mio libro lo dico chiaramente, perché in fondo è un concetto molto chiaro di per sé: l’uomo è niente senza la donna, e viceversa. Ma soprattutto, tutti e due non sono niente senza un terzo elemento che è il frutto che nasce dal loro amore: una nuova vita, un bambino. Il cosiddetto “matrimonio omosessuale” è egoismo puro. Nessun frutto. Un amore che non fa nascere niente non può che distrugge la vera felicità, la vera complementarietà. Un uomo non può completare un altro uomo; per quanto può provarci, non ci riuscirà mai. È la natura. Anche gli uccelli lo sanno.
Un’ultima domanda. Se potesse fare lei un’intervista ad un personaggio del passato, con chi si siederebbe a parlare?
Sceglierei forse, Sant’Agostino. Agostino è l’uomo che ha vissuto una vita difficile da ragazzo. Forse oggi tutti noi viviamo la stessa esperienza. Proprio lui ci saprebbe dare una lezione, a partire dalle sue vicende esistenziali. Come l’uomo possa cambiare la rotta della propria esistenza, uscire dall’errore e convertirsi, solo Sant’Agostino, per me, può indicarlo alla perfezione. Ma la conversione, dirà lui, non avviene senza la preghiera. La sua mamma ha pregato tanto, ed è riuscita a cambiare la sua vita. Agostino è per me un modello dell’uomo moderno.
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