la ‘parrhesia’ di p. E. Bianchi

‘parrhesia’ di un monaco

colloquio con Enzo Bianchi

Bianchi

a cura di Luigi Guglielmoni
in “Settimana” n. 36 del 18 ottobre 2015

Enzo Bianchi, 72 anni, laico, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, è noto per le sue conferenze, i suoi articoli e i suoi libri. Prima papa Benedetto e ora papa Francesco lo hanno convocato in importanti eventi e organismi di Chiesa. Gli abbiamo sottoposto alcune domande:

Caro priore, lei è stato invitato da papa Benedetto XVI a ben due sinodi mondiali dei vescovi, sulla parola di Dio e sulla nuova evangelizzazione. Cosa le è rimasto di quella esperienza? E cosa è passato di quelle proposte nel popolo di Dio? Non le pare che la scadenza biennale sia troppo ravvicinata e rischi l’inconcludenza pastorale?

Papa Benedetto XVI, che mi aveva conosciuto, quando era ancora cardinale, in occasione di seminari sul concilio Vaticano II, per due volte mi ha voluto come “esperto” ai sinodi mondiali dei vescovi, su due temi molto correlati tra loro. Ho seguito i lavori con convinzione e dando il mio contributo non solo nella discussione all’interno dei circoli linguistici (avevo scelto il gruppo francese), ma anche preparando tracce per gli interventi di alcuni padri sinodali che volevano prendere la parola pubblicamente nel dibattito. È stata per me un’esperienza molto importante: ho potuto ascoltare le diverse voci delle Chiese locali e mi sono persuaso che, sempre di più, le regioni culturali e linguistiche mostreranno nella Chiesa la loro diversità e ricchezza. Ricordo, inoltre, che gli interventi puntuali di Benedetto XVI, espressi al mattino in forma di lectio divina, erano vere “perle” per un rinnovamento della teologia della Parola e della sua “corsa nel mondo” (cf. 2Ts 3,1). Misurare quanto questi sinodi abbiano inciso sulla vita delle Chiese locali non è facile, e in ogni caso richiede una risposta diversificata. Sono testimone, per fare solo un esempio, che, nella Chiesa francese, essi hanno avuto notevoli ricadute: in diverse diocesi si è presa la decisione di formare alla lectio divina i cattolici “quotidiani”, quelli coinvolti nella sequela nella vita ordinaria, e si è aperta una profonda ricerca su forme e stili possibili in vista di una nuova evangelizzazione. In Italia mi sembra che non vi sia stato un particolare impegno in una recezione dei sinodi che rinnovasse la pratica di fede e raggiungesse i cattolici ordinari, quelli che frequentano la chiesa la domenica, e neanche sempre. Certamente occorrerebbe valutare la frequenza dei sinodi, soprattutto se i temi sono molto diversi e non direttamente coniugabili tra loro. Si ha l’impressione che l’anno della vita consacrata sia stato “contratto” dal sinodo sulla famiglia, dall’annuncio del giubileo sulla misericordia, dall’ostensione della sacra sindone, dai programmi pastorali delle singole Chiese locali… Va riconosciuto che, negli ultimi decenni, la Chiesa sembra temere l’ordinarietà della vita cristiana, e per questo si decidono iniziative diverse e frequenti, si vogliono “eventi” sempre nuovi. Si assiste ad una sorta di bulimia di “assemblee al lavoro”, che certamente sono anche necessarie, ma a condizione di essere “assimilabili” dal popolo di Dio. Questa tendenza va in parallelo a quella che si manifesta nella vita liturgica: inventare giornate o domeniche (della misericordia, del ringraziamento, della pace ecc.), come se si avesse timore della vita ordinaria. A me, monaco, viene da pensare ai padri del deserto che, a volte, vivevano la sequela di Cristo, addirittura per lunghi periodi, senza vita sacramentale, come è avvenuto per sant’Antonio e san Benedetto: sorriderebbero al vedere l’attuale moltiplicazione di iniziative, alle quali i cristiani non riescono neppure a stare dietro… L’anno della vita consacrata ha fatto le spese di questa situazione. È ormai alla fine, e pochi se ne sono accorti, anche tra i religiosi: vi è stato qualche incontro specifico, e nemmeno in tutte le diocesi, ma nessuna meditazione sul fatto che la vita religiosa sta scomparendo, con un conseguente mutamento profondo della vita della Chiesa cattolica. Ormai le suore sono una presenza rarissima, con un’età media molto alta che non consente loro di incidere in modo significativo sulla vita ecclesiale, e le vocazioni religiose sono quasi scomparse per certe forme di vita. Eppure, nessuno sembra preoccuparsene, come se questa fosse la volontà di Dio di fronte alla quale c’è solo la nostra impotenza.

L’enfasi retorica e l’apologetica sono tutte dedicate  alla famiglia, ma quale messaggio la Chiesa dà oggi a quanti sono chiamati a lasciare la famiglia in vista del regno di Dio (cf. Mc 10,29- 30 e par.)?

Confesso che, a volte, piango nel pensare a questa diminutio della vita religiosa e a questa quasi scomparsa dei monaci. Ho creduto e credo in questa forma di sequela, non migliore della sequela ordinaria, ma necessaria come segno escatologico, come memoria evangelica nella storia. Ma vedendo che oggi la Chiesa non presta attenzione ad essa, confesso che me ne vado da questo mondo nella sofferenza… L’invecchiamento del clero e la scarsità di vocazioni nei seminari, la crescente presenza di clero di altri paesi e l’avvio delle unità pastorali, i cambiamenti sociali e culturali… ripropongono la centralità della preparazione spirituale-culturale-pastorale dei futuri presbiteri e della formazione permanente degli attuali pastori. Sì, mancano i preti, e le vocazioni, almeno nelle regioni del nord e del centro Italia (come nel mio Piemonte), sono crollate e ormai rarissime: ci sono diocesi che non ordinano più nemmeno un presbitero all’anno! Vi è poi un problema di qualità dei candidati, non solo dal punto di vista culturale e intellettuale ma soprattutto di umanità. A causa dell’angoscia pastorale dettata dalla mancanza di presbiteri, si ordinano troppo facilmente candidati che non hanno una postura di saldezza, una capacità di discernimento, una maturità umana, a volte neppure una capacità di parola, tutti doni essenziali per essere pastori nel popolo di Dio. È vero che l’attuale società mostra molte fragilità, ma si faccia attenzione: i candidati sono presi dalla società, ma poi occorre farli crescere, prepararli e, alla fine, compiere un discernimento assolutamente necessario. In caso contrario, avremo una Chiesa con un numero considerevole di pastori senza qualità umana per stare in medio populi Dei, pastori funzionari con indole impiegatizia, e a volte pastori affetti da un pericoloso narcisismo clericale. Qui occorre una svolta. Ripeto, innanzitutto in termini di discernimento dei candidati, poi nella loro preparazione integrale, umana e cristiana. Occorre, inoltre, fortemente incoraggiare e dare forma a vite comuni di presbiteri, non forgiate sul modello monastico ma compatibili con una vita pastorale, in mezzo al gregge. Troppi presbiteri sono soli e ciò li induce spesso a compensazioni affettive che li pongono in gravi e patologiche contraddizioni con la vocazione e gli impegni assunti davanti alla Chiesa. Si arrivi poi alla convinzione dell’importanza di una formazione continua, lungo tutta la vita, perché occorre non smettere mai di cercare, studiare e pensare in un lavoro non solipsistico ma fatto “insieme”, in una situazione sinodale, con il vescovo, gli altri presbiteri e l’intera comunità cristiana. La vita del presbitero, pur nella necessità di portare la croce dietro al Signore Gesù, deve essere una vita umanamente bella, una vita buona, segnata dal bene, e una vita che conosca la beatitudine, dunque beata.

Papa Francesco viene sempre più percepito come il “parroco del mondo”. In alcune interviste e articoli, lei pare preoccupato della notevole popolarità del papa. Ce ne può spiegare il motivo?

Papa Francesco è un grande dono del Signore alla Chiesa cattolica e alle altre Chiese, perché si è fatto semplicemente voce del Vangelo con parrhesía, convinzione, simpatia verso l’umanità. In realtà, la sua parola si mostra, ogni giorno di più, dotata di una teologia vera, profonda, per nulla debole, anche se semplice nella formulazione, in modo che tutti possano ascoltarla e comprenderla. Ogni giorno incontro gente che mi dice con semplicità: “Siamo contenti che ci sia papa Francesco!”. Si tratta di donne e uomini cattolici, ma anche di cristiani non cattolici e sovente di persone che si definiscono non religiose. Devo riconoscere che ascolto critiche al papa più negli ambienti clericali che tra i non praticanti… La sua notorietà lo ha reso un leader mondiale, soprattutto dopo il suo viaggio a Cuba e negli Stati Uniti. Sembra che tutti possano fare riferimento a lui. Ma io mi sento di dire che, anche se questa approvazione è buona, non si deve essere sicuri che ciò possa continuare. La folla, come ci ricorda anche il Vangelo, muta repentinamente il suo atteggiamento! Oggi ci sono molti adulatori del papa, che millantano rapporti con lui, lo esaltano in pubblico e lo denigrano in privato. E poi molti, pur di conservare la posizione e il posto che avevano nella Chiesa prima di Francesco, con ipocrisia si proclamano fedeli a un papa che dice esattamente il contrario di quello che essi dicevano e imponevano agli altri, a costo di censurare  voci diverse dalla loro. È uno degli spettacoli più tristi: mancanza di libertà nel cristiano, mancanza di parrhesía, di franchezza e di coerenza, mancanza di una postura che obbedisca in primo luogo alla parola di Dio, e quindi alla coscienza dove essa si rivela. Io vado dicendo che, se il papa continua per questa strada, in cui dà il primato al Vangelo, si troverà presto di fronte a un’opposizione, perché le potenze demoniache si scatenano con più forza quando nella vita di un cristiano appare la croce di Cristo. Non può essere diversamente perché – come ha affermato Gesù – «non c’è discepolo che sia più del maestro» (Mt 10,24; Lc 6,40), non c’è vero cristiano che non segua Gesù fino al rigetto, all’opposizione, alla persecuzione. Ad alcuni il tema della carità pare preponderante oggi nella vita della Chiesa, forse a discapito dell’identità di fede, dell’appartenenza ecclesiale e dell’evangelizzazione. Qual è la sua valutazione? No, il tema della carità non può essere mai ritenuto negativamente preponderante nella vita della Chiesa, a meno che la carità non sia un “fare nostro agitato”, perché la carità è il fine della vita cristiana. La carità è un lasciare che l’amore di Cristo effuso nei nostri cuori diventi amore reale, concreto, pratico nella vita. Papa Francesco ha detto recentemente che «è amando gli altri che si impara ad amare Dio» (veglia di preghiera per la famiglia in preparazione al sinodo, 3 ottobre 2015), e io ho sempre detto e scritto che solo chi ha fede nell’umanità, nei fratelli e nelle sorelle che vede, può ricevere il dono della fede in Dio e che «solo chi ama il fratello che vede può amare Dio che non vede» (cf. 1Gv 4,20). Amare Dio, infatti, significa innanzitutto fare la sua volontà (cf. Gv 14,15; 1Gv 5,3), cioè osservare “il comandamento nuovo” (cf. Gv 13,34; 15,12), che non chiede neppure di amare Cristo, ma di amarci gli uni gli altri del suo stesso amore.

Lei collabora da trent’anni con il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, di cui è anche consultore e membro del Consiglio del comitato cattolico per la collaborazione culturale con le Chiese ortodosse e orientali. Quali strade si stanno percorrendo oggi?

Collaboro da decenni con il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e l’anno scorso ne sono stato nominato consultore da papa Francesco. È un organismo in cui si lavora bene, con un desiderio di percorrere vie di comunione con le altre Chiese e comunità cristiane; è un luogo privilegiato per conoscere la vita reale e i problemi delle altre confessioni cristiane. Oggi per il Consiglio è determinante l’impulso ecumenico dato da papa Francesco, il quale ha messo in pratica l’ecumenismo anche verso comunità cristiane così lontane dalla forma della Chiesa cattolica che sovente non erano tenute sufficientemente in considerazione. Il Consiglio lavora per i dialoghi bilaterali tra le Chiese, soprattutto per il dialogo tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, e per la preparazione dell’anniversario dei cinquecento anni della Riforma (2017), affinché sia per cattolici e riformati un’occasione per interrogarsi sul primato del Vangelo nella vita delle Chiese e per vivere gesti di riconciliazione in vista dell’unità. Certo, l’ecumenismo si è fatto complesso, perché molti non lavorano più per una comunione reale e visibile tra le Chiese, ma solo perché le Chiese riconoscano le diversità attuali: ma questo sarebbe vivere in una separazione resa “indifferente”, dal punto di vista teologico e sacramentale!

Cosa si aspetta dal giubileo sulla misericordia, tema non facile nella pratica cristiana quotidiana e nella cultura odierna?

Sono intervenuto più volte sul tema della misericordia, nelle diverse diocesi italiane dove i vescovi mi hanno chiamato in occasione di assemblee diocesane o di incontri in preparazione al giubileo. D’altronde, credo di essere stato il primo a scrivere lo scorso anno sull’Osservatore romano, prima ancora dell’annuncio dell’anno santo straordinario, un articolo sul primato della misericordia che intravedevo come continuità tra il papato di Francesco e quello di Giovanni XXIII. Sì, la misericordia vissuta dalla Chiesa è decisiva per sradicare dalle nostre menti e dai nostri cuori l’immagine di un Dio perverso e ridargli la sua vera immagine, quella da lui rivelata a Mosè con la proclamazione del suo Nome santo (cf. Es 34,6-7) e quella che di lui ci ha rivelato definitivamente Gesù Cristo (cf. Gv 1,18). Gesù Cristo è l’immagine visibile dell’invisibile misericordia divina: egli ha sempre fatto misericordia, non ha mai giudicato, castigato, e a tutti quelli che andavano da lui ha concesso la remissione dei peccati. In questo la Chiesa deve conformarsi a lui, imitarlo, perché tutti  vedano il volto di Dio, un Padre con il cuore di Madre. Il vero problema è che la misericordia scandalizza, e scandalizza innanzitutto noi cristiani. Quante volte, leggendo nei vangeli gli incontri di Gesù e l’annuncio della sua misericordia, io stesso sono stato tentato di dire: «Così è troppo!». Davvero, noi siamo scandalizzati dalla misericordia di Gesù, mostrata senza se e senza ma, e ci dimentichiamo che egli è morto non perché si opponeva alla Legge di Mosè, non perché aveva commesso crimini, né perché si era opposto al potere imperiale romano, ma è stato condannato per la sua misericordia verso i peccatori pubblici, verso le prostitute, gente di scarto.

Come inserire nel vissuto quotidiano delle comunità cristiane il convegno ecclesiale nazionale di Firenze? Cosa si attende?

Quanto al convegno ecclesiale nazionale di Firenze, mi sento di dire che non ho visto molta convinzione nella sua preparazione, almeno nelle Chiese del nord Italia. I più non sanno che cosa in esso si farà, ma ne sono a conoscenza solo pochi degli addetti ai lavori e gli invitati possibili o reali. Difficile dire che cosa mi attendo. Mi pare che assomigli tanto agli ultimi due convegni nazionali (Palermo 1995, Verona 2006), dai quali mi chiedo cosa sia uscito per la Chiesa in Italia. Anche papa Francesco ne ha criticato la formula, dicendo che sono sempre le stesse persone a intervenire e che non c’è quel confronto, quel dialogo che oggi si richiede in ogni istituzione che voglia essere sinodale. Vorrei appunto che la Chiesa italiana entrasse in uno stato sinodale, che magari celebrasse un sinodo anche solo per interrogarsi sul primato del Vangelo nelle vite delle nostre Chiese e delle nostre comunità. Non abbiamo bisogno di nuovi documenti, di una relazione di un teologo accompagnata da quella di un sociologo, che saranno dimenticate subito dopo… Abbiamo bisogno di poco: di chiederci che cos’è il Vangelo per noi, per le nostre comunità, di interrogarci su quale Vangelo narriamo agli altri con la nostra vita. In ogni caso io e la mia comunità preghiamo perché ogni assemblea cristiana sia attenta allo Spirito Santo che, secondo la promessa, aleggia ed è presente dove i cristiani sono riuniti nello stesso luogo (cf. Lc 24,49; At 1,8; 2,1-11): è responsabilità dei cristiani ascoltarlo e lasciare che trasformi la loro mente, oppure farlo aleggiare inutilmente sopra le loro teste.

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primato di Pietro da rivedere

sinodo della famiglia 2015

papa Francesco: “rivediamo il primato di Pietro”

 papa-francesco

parole forti e dal sapore rivoluzionario per gli annunci quelle che Papa Francesco ha tenuto nell’Aula Paolo VI dove si sta celebrando l’anniversario dell’istituzione, cinquant’anni fa, del Sinodo dei Vescovi: proprio mentre si tiene in Vaticano il Sinodo sui temi della Famiglia, il Papa prende posizione riguardo il cammino della Chiesa, il suo ruolo nel mondo e anche la sua organizzazione interna: il tutto mentre continuano i lavori dell’assise che la prossima settimana dovrà affrontare i temi più spinosi all’attenzione dei vescovi: omosessualità, divorziati risposati

 PAPA FRANCESCO: “RIVEDIAMO IL PRIMATO DI PIETRO”

Il discorso di Papa Francesco è dirompente e va a colpire le fondamenta stessa dell’organizzazione ecclesiastica: “Nella Chiesa è necessario che qualcuno si abbassi per mettersi al servizio dei fratelli durante il cammino. La sinodalità, come dimensione costitutiva della Chiesa, ci offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico”, dice il Papa, citando San Giovanni Crisostomo, e poi aggiunge: “Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il Collegio episcopale come vescovo tra i vescovi, chiamato al contempo, come Successore dell’apostolo Pietro, a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiesa”. Le parole del Pontefice aprono – e ribadiscono chiaramente – la disponibilità della Cattedra a rivedere il ruolo del Pontefice, all’interno della Chiesa. Le parole del Pontefice in questo senso sono chiarissime.

Quale Vescovo di Roma so bene che la comunione piena e visibile di tutte le comunità, nelle quali in virtù della fedeltà di Dio abita il suo Spirito, è il desiderio ardente di Cristo. Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l’aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova

Usa la parola “conversione” per definire il compito della Cattedra di Pietro nella chiesa di oggi: “Serve una conversione del Papato”, dice Papa Francesco, definendolo un compito “necessario e urgente” per la vita della Chiesa. La missione che Francesco sente sulle spalle è quella dell’edificazione di una “Chiesa Sinodale”.

E una Chiesa Sinodale, continua Papa Francesco, è quella in cui tutti camminano come fratelli, senza differenze gerarchiche di importanza, solo di funzioni e comunque nella piena comunione reciproca. Proprio questo, dice il Papa, questo modo di fare Chiesa, è stato alla base dell’organizzazione del Sinodo sulla Famiglia, preceduto dai questionari inviati alla Chiesa locale. Le parole del Papa, sul ruolo dei laici nell’Ecclesia sinodale, appaiono clamorose.

Il sensus fidei impedisce di separare rigidamente tra Ecclesia docens ed Ecclesia discens, giacché anche il Gregge possiede un proprio fiuto per discernere le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa. E’ stata questa convinzione a guidarmi quando ho auspicato che il Popolo di Dio venisse consultato nella preparazione del duplice appuntamento sinodale sulla famiglia. Certamente, una consultazione del genere in nessun modo potrebbe bastare per ascoltare il sensus fidei. Ma come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce?

Ogni battezzato è “un soggetto attivo di evangelizzazione”, sarebbe inadeguato pensare ad uno schema in cui ci sono “degli attori qualificati” e il resto del popolo fedele è “recettivo delle loro azioni”. Questo cammino di ascolto, in cui tutti i fedeli della Chiesa sono soggetti attivi e non passivi, culmina nel Sinodo dei Vescovi in cui i porporati sono “congiunti con il Vescovo di Roma dal vincolo della comunione episcopale (cum Petro) e sono al tempo stesso gerarchicamente sottoposti a lui quale Capo del Collegio (sub Petro)”. E il Papa è, continua Francesco, “chiamato a pronunciarsi come ‘Pastore e Dottore di tutti i cristiani’: non a partire dalle sue personali convinzioni, ma come supremo testimone della fides totius Ecclesiae, ‘garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa’”, ha spiegato il Pontefice, che ha poi continuato sostenendo come, se davvero sinodale debba essere, la Chiesa Cattolica non possa basarsi solo su quanto deciso a Roma: “Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessita’ di procedere in una salutare ‘decentralizzazione’”

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la ‘chiesa missionaria’ dice la sua per il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze

 

BuonSamaritano

 

IL CONTRIBUTO DELLA CHIESA MISSIONARIA CHE E’ IN ITALIA PER FIRENZE 2015

la Chiesa missionaria che è in Italia, raggruppata nelle sigle della Fondazione Missio, la Fondazione CUM, la FOCSIV, la CIMI, il SUAM in occasione del 5° Convegno Ecclesiale Nazionale che si svolgerà a Firenze dal 9 al 13 novembre prossimi dal titolo “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo” lancia un appello alla Chiesa Italiana

Il tavolo degli organismi missionari italiani dice: “Alla nostra chiesa italiana che ha inviato figlie e figli in ogni angolo della terra chiediamo, nonostante le fatiche di questo momento storico, di restare fedele al mandato missionario di Gesù. Sicuri che l’incontro e lo scambio tra chiese sorelle potrà aiutarla e sostenerla nella sua ricerca di un nuovo umanesimo e di vie nuove per annunciare il vangelo in questo nostro tempo”. Il contributo si delinea in cinque punti:
1- I missionari sono uomini e donne in uscita: uscita da se stessi, dai tanti propri mondi, dalle proprie visioni, per incontrare l’altro;
2- Il cammino missionario abita le frontiere dove l’umano è messo alla prova, abita le periferie;
3- Il nostro umanesimo, dicono i missionari, parte dai poveri e si realizza con i poveri. In un mondo sempre più colmo di disumanità;
4- Vivere nelle periferie dei continenti ci ha fatto sperimentare modi diversi di essere chiesa: una chiesa che veste il grembiule, che apre le sue porte all’accoglienza e alla partenza, una chiesa laboratorio di fraternità, di incontro fra popoli e religioni, dove si sperimenta la carità e la solidarietà, dove l’impegno è dei diversi ministeri;
5- Nel proporre un nuovo umanesimo i missionari sentono impellente la necessità di tornare all’uomo Gesù, rimettendo al centro della comunità la Parola di Dio;

Una chiesa in uscita è una chiesa discepola. Una chiesa seduta ai piedi di Gesù, in ascolto della Parola, che annuncia il Regno e progetta vita piena per tutti.

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la bibbia sovversiva di Desmond Tutu

la bibbia è un libro sovversivo

di Desmond Tutu

 

Tutu
in “la Repubblica” del 17 ottobre 2015

“bisogna che vi racconti questa vecchia storiella, anche se forse la sapete già. Veniva narrata, a volte, dai neri quando discutevano sulla loro dolorosa situazione di vittime dell’ingiustizia e dell’iniquità del razzismo. «Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro avevano la Bibbia. Dissero: “Preghiamo!”. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: “Amen”. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia”

“La storiella, però, non è corretta nei confronti dei missionari. Qualche volta possono essere stati l’avanguardia che spianava la strada ai loro compatrioti colonizzatori, ma io voglio rendere omaggio alla maggioranza dei missionari occidentali. Quasi tutti noi che facciamo parte della comunità nera dobbiamo la nostra istruzione a quegli indomiti europei che costruirono eccellenti istituzioni educative come Lovedale, Healdtown e l’Università di Fort Hare nella provincia del Capo orientale, che serviva non solo il Sudafrica ma anche altri paesi del continente africano ed era uno dei pochi atenei che offrivano il livello più alto di istruzione anche ai neri. Nelson Mandela ha compiuto quasi tutto il suo corso di studi in questi istituti. Senza gli ambulatori e gli ospedali costruiti dai missionari, molti di noi non sarebbero sopravvissuti alle malattie che affliggevano le famiglie povere e analfabete. Non si può calunniare degli esseri umani che sono stati tra i più generosi e altruisti che abbiano mai camminato sulla faccia della terra. Come si giustifica, dunque, lo sdegno evocato dalla storiella? Veramente racconta un cattivo affare? Uno perde la propria terra e tutti gli annessi e connessi in cambio di che cosa? Della Bibbia. Davvero i missionari avrebbero ingannato i neri così creduloni? Io voglio affermare nella maniera più netta e inequivoca possibile che non è così. In realtà noi neri non abbiamo fatto un cattivo affare. I missionari hanno messo nelle mani dei neri una cosa che sovvertiva profondamente l’ingiustizia e l’oppressione. […] Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. È più rivoluzionaria, più sovversiva di qualunque manifesto o ideologia politica. Perché? Perché la Bibbia afferma che ciascuno di noi, senza eccezioni, è creato a immagine di Dio (l’ Imago Dei ). Che sia ricco o povero, bianco o nero, istruito o analfabeta, maschio o femmina, ciascuno di noi è creato a immagine di Dio e questo è meraviglioso, entusiasmante. Il nostro valore è intrinseco; lo troviamo, per così dire, già confezionato in noi stessi. Tutte le discriminazioni si basano su qualche attributo: la razza, il genere, l’orientamento sessuale, il grado di istruzione, il livello di reddito. Ma questi attributi sono estrinseci; possono essere variegati e noi restiamo umani; siamo umani con qualunque combinazione dei precedenti attributi. La Bibbia dichiara esplicitamente e con forza che il fatto che ci riempie di valore, di un valore infinito, è uno solo: che siamo creati a immagine di Dio. Il nostro valore ci viene fornito con il nostro stesso essere. È intrinseco e universale. Appartiene a tutti gli esseri umani, indifferentemente. Nel mondo antico il re, non potendo essere presente nello stesso tempo in tutte le parti del suo territorio, collocava nelle diverse province le sue immagini, che dovevano essere riverite come il monarca in persona. I sudditi del re dovevano inchinarsi o fare una riverenza davanti alla statua come avrebbero fatto dinanzi al sovrano in carne e ossa. Quindi, per la Bibbia, dire che siamo l’immagine di Dio significa fare un’affermazione importante e decisamente sovversiva. Gran parte dell’ingiustizia nel mondo avviene perché delle persone sono discriminate in base ad attributi estrinseci, spesso considerati di natura biologica. Così è accaduto con la Shoah perpetrata dai nazisti, quando sei milioni di ebrei furono uccisi dagli ariani che si autoproclamavano «superiori», insieme a cinque milioni di altre persone «diverse ». In Sudafrica i neri furono sottoposti all’aberrante sistema dell’apartheid. Noi neri eravamo, sì, considerati umani, ma non quanto i nostri compatrioti bianchi. Era eloquente vedere avvisi pubblici che dichiaravano spudoratamente: «Vietato l’ingresso ai nativi (cioè ai neri) e ai cani». La classe dirigente spesso
trattava i suoi cani molto meglio di come trattava i neri. Se credessimo veramente a quello che abbiamo affermato, che ogni essere umano senza alcuna eccezione è creato a immagine di Dio, e quindi è un portatore di Dio, allora qualunque maltrattamento di un altro essere umano ci farebbe inorridire, perché è non solo ingiusto, ma anche oltraggiosamente blasfemo. È davvero come sputare in faccia a Dio. Ecco dunque ciò che i missionari ci hanno portato: un libro che è più radicale e più rivoluzionario di qualunque manifesto politico. San Paolo dice ai cristiani di Corinto che ciascuno di loro è un tabernacolo, un tempio dello Spirito Santo ( 1Cor 6,19). Nella tradizione anglo-cattolica, ci genuflettiamo per riverire il Santissimo Sacramento, di cui riconosciamo la presenza per mezzo della lampada, bianca o rossa, accesa davanti o sopra al tabernacolo. Se credessimo veramente che ciascuno di noi è un portatore di Dio e un tempio dello Spirito Santo, allora quando ci salutiamo non ci limiteremmo a stringerci la mano, ma ci inchineremmo profondamente come fanno i buddhisti, o ci inginocchieremmo gli uni davanti agli altri: «Il Dio che è in me saluta il Dio che è in te». Noi non possiamo restare indifferenti di fronte alle ingiustizie patite da tanti nostri fratelli e sorelle, fi gli dello stesso Dio e Padre. Tutti gli altri, portatori di Dio, sono creati a immagine di Dio proprio come noi. Non abbiamo scelta. Noi che crediamo di essere creati a immagine di Dio, noi che siamo portatori di Dio, non possiamo restare in silenzio o indifferenti quando altri sono trattati come se fossero una razza diversa e inferiore. Noi dobbiamo opporci all’ingiustizia. Non abbiamo scelta. Nelle situazioni di ingiustizia e oppressione, non portate la Bibbia; altrimenti, se viene compresa correttamente, essa sovvertirà quell’ingiustizia e quell’oppressione.

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anche la grande teologia ha qualcosa da dire …

Solo il Vangelo è definitivo. 18 teologi scrivono al Sinodo

solo il Vangelo è definitivo

18 teologi scrivono al Sinodo

 
Tratto da: Adista Notizie n° 36 del 24/10/2015

«Il Sinodo è già in corso e assistiamo alla reazione di un settore ecclesiale contrario a qualsiasi intenzione di apertura, come se il rinnovamento mettesse in discussione non solo alcuni presupposti dell’insegnamento tradizionale, quanto la fedeltà e la dottrina autentica della Chiesa, nonché lo stesso Vangelo. In questo senso, con rispetto e dopo aver riflettuto, il presente documento intende fondamentalmente presentare la legittimità di un cambiamento»

Nasce da questa esigenza un lungo e argomentato documento inviato al Sinodo, nella persona del card. Oscar Maradiaga, e all’Osservatore Romano, da un gruppo di 18 teologi: Ariel Alvarez, Raul Lugo, Xabier Alegre, Juan Masia, José Arregi, Antonio Monclus, Fernando Bermudez, Guillermo Mugica, Frei Betto, Jesús Pelaez, Nicolás Castellanos, Xabier Pikaza, Benjamín Forcano, Manuel Reyes Mate, Manuel Fraijo, Julián Ruiz Diaz, Joan Godayol e Manuel Suances. Per questioni di urgenza – il Sinodo è, appunto, in corso – prima di diffondere il documento (intitolato “Gruppo teologico pastorale appoggia papa Francesco nella sua apertura e nelle soluzioni dei problemi urgenti”) non si sono attese le adesioni di altri teologi e, spiegano i firmatari, anche il confronto con alcune teologhe non è stato possibile.

Le premesse

Due le premesse da cui parte il documento-appello: in primo luogo, il fatto che, come si legge nell’Instrumentum laboris, «il fondamento dell’annuncio della Chiesa sulla famiglia è radicato nella predicazione e nella vita di Gesù». La sequela di Gesù, «norma semplice e universale, porta con sé valori propri che però oggi si sono diluiti nella marea ingovernabile di un neoliberismo consumista. Tale sequela presuppone l’adesione al progetto di Gesù, che è quello della fratellanza, del servizio agli altri, della dignità e della priorità degli “ultimi” rispetto ai “primi”. In secondo luogo, la sequela di Gesù comprende «l’etica umana fondata sulla dignità della persona, che «ci permette di camminare uniti condividendo valori, criteri e comportamenti vincolanti per tutti». In particolare, il fatto «innegabile della famiglia umana», fondata sul rispetto della «persona totale umana». Questa unità, tuttavia, «non nega le differenze tra i popoli», senza peraltro che si sovrappongano al valore fondamentale della dignità della persona.

Quello sfasamento tra dottrina e mondo

Come coniugare queste due premesse di fronte alle sfide poste dai problemi della famiglia di oggi è il passo successivo della ricerca dei teologi. Nel corso dei secoli, infatti, si sono aggiunte ad esse numerose altre norme, elaborate «a partire da circostanze e ragioni storiche concrete», molte delle quali, però, «divenute obsolete e impugnate perché ormai controcorrente, al margine della scienza, del sentire della gente, delle nuove proposte di teologi e moralisti e soprattutto del Vangelo». Cambiati i paradigmi culturali, la Chiesa ha il dovere di «condividere la verità del Vangelo sulla famiglia con la verità della scienza e della ricerca biblico-teologica». Invece, questa collaborazione non c’è stata, portando la Chiesa a «idolatrare spesso il proprio magistero pensando di avere il possesso di ogni verità». Da questo punto di vista, largamente disattese sono state le acquisizioni del Concilio Vaticano II e ampiamente sottovalutato il compito dei teologi, tanto da creare uno sfasamento tra dottrine e norme da un lato e relazione con il mondo attuale. Alla luce di tutto ciò, i teologi ritengono che si possano «trovare soluzioni a problemi finora ritenuti risolti in virtù di norme tradizionali inamovibili senza tenere in considerazione l’apporto delle scienze né i cambiamenti richiesti dal progresso dell’esegesi e della teologia (omosessualità, aborto, celibato opzionale per i preti, ordinazione sacerdotale femminile, divorziati nella Chiesa)». Papa Francesco «si muove in questo atteggiamento di rispetto, collaborazione e integrazione del sapere».

Omosessualità

È a partire dal XIII secolo che l’omosessualità «va rivestendo un carattere di vizio, orribile (nefandum, innominabile)», quale non è riconosciuto a delitti come il matricidio, il genocidio o l’incesto. La «costruzione biblico-teologica morale che giustifica la gravità di questo peccato», sostengono i teologi, «oggi si è dimostrata prescientifica e opposta al contesto e al senso dei testi biblici». L’Organizzazione mondiale della Sanità ha ormai depennato l’omosessualità dalle malattie e il Consiglio d’Europa ha sollecitato i governi a combattere le discriminazioni sessuali: non si può contrapporre a queste indicazioni «l’esistenza di un’etica cristiana che le contraddice e qualificherebbe l’omosessualità come disordinata e intrinsecamente perversa». Da un punto di vista teologico, «è ben fondata la posizione di coloro che sostengono che la sessualità umana non ha come modello naturale esclusivo l’eterosessualità ma che l’omosessualità esiste come variante naturale legittima, minoritaria». E se è positivo raccomandare rispetto per le persone omosessuali, tale raccomandazione «è carente laddove continua a ritenere che l’omosessualità e la relazione tra omosessuali siano deviate, intrinsecamente perverse».

Aborto

Benché sia un tema estremamente complesso, sull’aborto «riteniamo possibile un accordo comune su punti etici di valore universale», affermano i 18 teologi. In primo luogo: il diritto di ogni essere umano alla vita. Attenzione, però: «Difendere il diritto alla vita non significa difendere il processo embrionale dal suo inizio». Si tratta infatti di una questione aperta, scientificamente parlando. Se nella tradizione cristiana sono sempre esistite posizioni diverse sulla questione (San Tommaso, Sant’Alberto Magno, fino alla teologia postridentina), le teorie più moderne affermano «che l’embrione non è propriamente individuo umano se non dopo alcune settimane dal concepimento»: che i geni non siano una persona in miniatura, lo ha dimostrato la biologia molecolare. Dunque, «chi segue tale teoria può sostenere ragionevolmente che l’interruzione dell’embrione prima dell’ottava settimana non può essere considerata attentato alla vita umana, né possono essere considerati abortivi i metodi che impediscono lo sviluppo embrionale prima di quella data». Questa teoria, che «modifica notevolmente molti punti di vista e stabilisce un punto di partenza comune per capirci, per orientare la coscienza dei cittadini, per fissare il momento del diritto alla vita prima della nascita e per legiferare con un minimo di intelligenza, consenso e obbligatorietà per tutti di fronte al conflitto posto da una situazione concreta», pone le basi di un cammino comune, di una convivenza che nasce dall’accordo «tra il meglio e il più etico».

Celibato opzionale 

Perché tanta acrimonia verso i preti sposati? Secondo la dottrina cattolica, il celibato non è una legge divina ma disciplinare della quale solo a partire dal XII secolo si stabilisce l’obbligatorietà. La sua continuità non è una prova di un carattere valido in assoluto e immutabile. Oggi si assiste alla crisi di questa forma storica perché, se il celibato continua a essere ritenuto uno stile di vita cui dedicarsi completamente, «legittimo e persino umanizzante», è e deve essere «un’opzione libera, assolutamente volontaria, che non parte da alcuna carenza, coazione o impotenza fisica, ma da una decisione morale, cosciente e gratuita». Oggi ad essere in discussione non è infatti il celibato in sé quanto la sua obbligatorietà, fondata su ragioni che oggi sono superate: la minore dignità della vita fisica e sessuale, ragioni «prettamente maschili e maschiliste», ma soprattutto l’ansia di «dominio e potere» che si esprime attraverso un sacerdozio maschile e celibe. Ma qui ci si allontana dal Vangelo: ciò che è fondamentale è seguire Gesù nel dono totale della vita, che prescinde dal celibato o meno dei suoi discepoli.

Ordinazione femminile 

La “porta chiusa” alle donne per quanto riguarda il sacerdozio è un dato di fatto. E lo è da più di 20 secoli. Tuttavia, oggi «è il momento di chiedersi perché è chiusa e continua a esserlo». «Le differenze tra uomo e donna – scrivono i teologi – non sono ragioni per giustificare la sottomissione della donna al dominio maschile e per la sua esclusione da alcuni compiti ecclesiali». La lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis di Giovanni Paolo II del 1994 «non porta nulla di nuovo» e quindi «non ha potuto essere proposta come una verità di fede né di magistero infallibile o ex cathedra». I suoi argomenti «sono più che deboli: il fatto che Gesù abbia scelto a quel tempo solo maschi non vuol dire che lo abbia fatto in modo esclusivo e per sempre. Questa esclusione perpetua non può essere inclusa nell’azione di Gesù. Molte teologhe e molti teologi hanno dimostrato che non ci sono obiezioni dogmatiche per l’ammissione della donna all’ordinazione sacerdotale». I teologi concludono la loro riflessione sul tema citando il teologo Domiciano Fernández, cui non fu permesso di pubblicare un libro sull’argomento, e che pervenne a queste stesse conclusioni: «Molti anni di studio non sono riusciti a convincere né i teologi né i biblisti che sia espressa volontà di Cristo escludere le donne dal ministero ordinato. I ministeri li ha creati la Chiesa secondo le necessità dei tempi e secondo la cultura dell’epoca. Che sono cambiate e stanno cambiando».

Divorziati nella Chiesa

Il tema dei divorziati risposati è forse quello che più di altri sta riscaldando il dibattito nel Sinodo in corso. Il matrimonio, osservano i teologi dal canto loro, «come realtà umana, esistenziale, può presentare difficoltà, crisi, incompatibilità, fino alla rottura». Gesù propone «il progetto del matrimonio indissolubile, come progetto ideale, una meta da raggiungere, la migliore. Ma senza perdere di vista la condizione umana che, per la sua fragilità e incorreggibilità, può in certi casi rendere impossibile il raggiungimento di questo ideale». «In tal caso, non si può continuare ad affermare – così i teologi – che l’indissolubilità è una norme sempre inderogabile. La situazione di migliaia e migliaia di cattolici divorziati e risposati civilmente, è un grido contro certe norme che li condanna a vivere fuori dalla Chiesa. La connaturale libertà e il rischio che accompagnano ogni matrimonio fanno sì che non lo si possa considerare assolutamente indissolubile e che, nel caso di un fallimento serio, lo si possa correggere iniziando un nuovo cammino». È un diritto «ovvio, benché relativo e condizionato. E, in questo caso, la Chiesa non può limitarsi a fornire una soluzione eccezionale per esseri eccezionali».

Già nel 1980 nove teologi spagnoli (tra cui alcuni dei firmatari dell’attuale documento) elaborarono un testo intitolato “Domande di alcuni teologi ai loro vescovi”, in risposta alle “Istruzioni” sul divorzio civile pubblicate dall’episcopato spagnolo, in cui affrontavano anche il tema dei divorziati risposati. In esso, ricordano i 18 teologi, osservavano che i vescovi «non avevano tenuto in considerazione il sentire reale della comunità cattolica; si erano preoccupati solo del divorzio come se si trattasse di una legge meramente politica e civile; avevano dato a intendere che per i cattolici non vi è nessuna possibilità di divorzio e che si trattava di una dottrina che doveva restare immutabile». E aggiungevano di non mettere in dubbio la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio proposta da Gesù, sottolineando però che «tale dottrina deve proporre un ideale e una meta verso la quale ogni coppia deve avvicinarsi, senza escludere rischi, equivoci e fallimenti e non come legge assoluta con cui ogni coppia, per il fatto stesso di sposarsi, si identifica automaticamente, senza possibilità di vivere rotture o incompatibilità o almeno incompatibilità che rendano impercorribile questa legge». Di qui le domande, ancora attualissime, che i teologi si ponevano già 35 anni fa: «Credete personalmente, ognuno di voi, che l’attuale disciplina della Chiesa su questo punto sia proprio quella del Vangelo, quella che risponde alla vita e all’insegnamento di Gesù? Non vi pare che la Chiesa dovrebbe qui fare i conti radicalmente con se stessa?». «Dobbiamo guardare – concludevano i nove teologi, ma anche i 18 di oggi – a ciò che accade nella nostra Chiesa, con la realtà di tanti matrimoni falliti, senza speranza di recupero, e perciò già passati attraverso il divorzio nella pratica, ma condannati dal punto di vista canonico».

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il futuro? cambiare o morire – intervista a L. Boff

La Chiesa e il mondo al bivio: o si cambia o si muore. Intervista a Leonardo Boff

la chiesa e il mondo al bivio: o si cambia o si muore

intervista a Leonardo Boff

una vita intera al servizio della causa della liberazione: quella dei poveri e quella del “grande povero” che è il nostro pianeta devastato e ferito. È il loro duplice -– e congiunto – grido, infatti, a occupare il centro della riflessione di Leonardo Boff, tra i padri fondatori della Teologia della Liberazione e massimo esponente del nuovo paradigma ecoteologico, di quel percorso, cioè, che si sviluppa nell’ascolto del nuovo racconto sacro trasmesso dalla scienza, con la sua rivelazione della natura profondamente olistica e relazionale del cosmo (un cammino di ricerca di cui i libri Grido della Terra, grido dei poveri e Il Tao della Liberazione rappresentano indiscutibilmente le espressioni più alte, ma che è possibile seguire anche in molti suoi interventi settimanali, disponibili ogni venerdì nel portale Servicios Koinonia: http://www.servicioskoinonia.org/boff/).

Una riflessione, quella di Boff, che, nell’attento ascolto della profezia contenuta nella stessa voce dell’universo, prende enormemente sul serio le tante minacce di distruzione lanciate contro Gaia, il pianeta vivente che è la nostra casa comune, ma nello stesso tempo è attraversata da un potente soffio di speranza: la speranza che l’evoluzione sia plasmata in modo tale da convergere verso livelli di complessità e di autocoscienza sempre maggiori e che dunque il caos attuale sia generatore di nuove possibilità, l’annuncio di un livello più elevato nella storia dell’essere umano e del pianeta, di quell’unica entità indivisibile Terra-umanità che gli astronauti per primi hanno colto, con emozione e reverenza, guardando il nostro pianeta azzurro e bianco dallo spazio esterno. Cosicché lo scenario attuale, pur così drammatico, non sarebbe una tragedia, ma una crisi, una crisi che mette alla prova, purifica e spinge al cambiamento, annunciando un nuovo inizio per l’avventura umana.

Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Leonardo Boff, in visita in Italia per un ciclo di incontri, a partire dalle prospettive della Chiesa sotto il pontificato di Francesco, su cui il teologo brasiliano, tra i più duramente perseguitati dal Vaticano, ha scommesso fin dalla sua nomina (v. Adista Documenti, n. 18/13), considerandolo l’espressione di un nuovo progetto di mondo e di un nuovo progetto di Chiesa. Di seguito l’intervista.

Una buona novella per i nuovi tempi

intervista a Leonardo Boff

Qual è la tua lettura dell’attuale fase della Chiesa?

Penso che papa Francesco rappresenti un progetto di mondo e un progetto di Chiesa. Rappresenta un progetto di mondo che è antitetico rispetto alla parola d’ordine imperiale “un solo mondo, un solo impero”, a cui l’enciclica Laudato si’ risponde con la sua proposta di “un solo mondo e un solo progetto collettivo”, esprimendo la possibilità di dialogo, di incontro tra i popoli, di rinuncia all’uso della violenza come strumento per la risoluzione dei conflitti (perché non basta essere a favore della pace, bisogna essere anche contro la guerra). E rappresenta un progetto di Chiesa che è riconducibile a Francesco d’Assisi, caratterizzato dalla rivoluzione della tenerezza, dalla misericordia, dalla vicinanza agli esseri umani. Un progetto le cui opzioni di base non sono date, fondamentalmente, dalla dottrina, ma dall’incontro personale, sia con Cristo che con le persone. Si tratta di una visione di Chiesa assolutamente diversa da quella di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i quali concepivano la Chiesa come una fortezza assediata dai nemici, contro i quali era necessario difendersi: è la visione di una Chiesa come casa aperta, ospedale da campo, impegnata ad accogliere tutti, indipendentemente dalle loro connotazioni morali, con misericordia e con comprensione, riscattando con ciò la tradizione di Gesù che è anteriore ai vangeli e che è fatta di amore incondizionato. Penso che questo rappresenti una novità nella Chiesa, una rottura. Roma non ama questa parola. Ma è una realtà: papa Francesco ha de-paganizzato la figura del papa, considerato finora un faraone (è significativo che abbia rinunciato alla mozzetta, il simbolo del potere assoluto dell’imperatore). E ha affermato di voler guidare la Chiesa nell’amore e non nel potere. Con il potere, l’amore svanisce. Quando c’è l’amore, c’è vicinanza, comprensione, misericordia. Questa, per me, è la grande rottura operata da questo papa.

E intorno al papa cosa si sta muovendo?

Papa Francesco si trova dinanzi a due tipi di opposizione. Il primo è quello della vecchia cristianità di cultura europea, con tutti i simboli del potere sacro. Il papa si è spogliato dei simboli del potere, se ne è andato ad abitare a S. Marta, si mette in fila per mangiare (così, come ha detto scherzando a un’amica comune, Clelia Luro, è più difficile avvelenarlo!). Il secondo tipo è dato dall’opposizione laica di chi, specialmente negli Stati Uniti, non vuole saperne niente di dialogo o di ecologia, sposando la prospettiva della dominazione occidentale, quella dell’attuale globalizzazione, che in realtà è l’occidentalizzazione del mondo secondo lo stile di vita nordamericano, una sorta di hamburgerizzazione di tutte le culture.

Il papa inaugura un altro modello di cristiano. Io credo che la sua visione sia centrata sulla consapevolezza che Gesù non è venuto per creare una nuova religione, ma è venuto per insegnare a vivere. A vivere nell’amore e nella misericordia. Il nucleo del messaggio di Gesù, la sua intenzione originaria, è l’unione del “Padre nostro” e del “pane nostro”. Il Padre nostro, Abbà, è un volo verso l’alto, l’insopprimibile fame di trascendenza, e il pane nostro esprime la fame reale di milioni di persone, quella che occorre saziare perché abbia senso parlare di Padre nostro e di Regno di Dio. È a questo messaggio che si oppongono quanti vogliono un cristianesimo dottrinario, dogmatico, sistematizzato, tutto disciplina e ordine e potere.

La rottura di cui parli si esprime soprattutto su un piano simbolico. Sul terreno della dottrina, però, non si vedono né si prevedono molte novità…

Io penso che anche su questo terreno il papa abbia operato una rottura. Prima, ad esempio, i temi legati alla morale familiare erano tabù: nessuno poteva parlarne, né i vescovi, né i teologi. E uno dei criteri per le nomine episcopali era dato proprio dall’assenza di una qualsiasi critica relativa al celibato o alla dottrina morale. La novità è che Francesco ha aperto il dibattito su questi temi: non era mai successo che un papa consultasse le basi. Inoltre, sta dando molto valore alla collegialità. Nella sua enciclica, per esempio, egli cita diversi episcopati, anche privi di una grande tradizione teologica, come quelli del Paraguay o della Patagonia. Ed è un fatto estremamente singolare e rivoluzionario che egli abbia invitato a Roma i rappresentanti dei movimenti popolari di tutto il mondo – riunendosi poi nuovamente con loro a Santa Cruz, in Bolivia – per analizzare le cause delle attuali sofferenze: non ha chiamato sociologi, politologi, scienziati, ma quanti sentono il dolore sulla propria pelle. E ha evidenziato due aspetti essenziali: la centralità della terra, del lavoro e della casa e il fatto che non bisogna aspettare che i cambiamenti vengano dall’alto, perché, ha spiegato il papa, la salvezza viene dal basso: sono i poveri organizzati i veri profeti del cambiamento. Tutto ciò era inimmaginabile a Roma prima di papa Francesco.

Non c’è il rischio che tutto questo finisca con il prossimo pontificato?

Il rischio esiste. Ma la mia tesi è che, dal momento che in Europa vive solo il 25% dei cattolici e che la parte restante si trova nel Terzo Mondo, questo papa inaugurerà una genealogia di papi del Sud del mondo, dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, provenienti, cioè, da altri ambienti culturali ed ecclesiali, più liberi dal peso delle tradizioni e più legati alle esperienze popolari di lotta per i diritti umani, per la terra, per la dignità. Io penso che si sia chiuso il ciclo della Chiesa europea e occidentale e che sia cominciato quello di una Chiesa planetaria. E ora la Chiesa è chiamata a de-occidentalizzarsi, a de-patriarcalizzarsi, a decentrarsi. Poiché il mondo è uno solo, io sostengo che i ministeri dovrebbero essere collocati in diverse regioni del pianeta: quello per i diritti umani in America Latina, quello per l’inculturazione in Africa, quello per il dialogo interreligioso in Asia. E che qui debba restare solo un piccolo gruppo incaricato dell’amministrazione generale, lasciando che tutto si svolga attraverso skype, per teleconferenza. Perché la Chiesa deve adeguarsi alla nuova fase dell’umanità. Questa esigenza di decentramento è uno dei due punti che ho evidenziato in una lettera che ho scritto al papa. L’altro punto è la richiesta di convocazione di un’assemblea delle religioni con l’obiettivo di comprendere quale debba essere il contributo delle diverse tradizioni spirituali per la salvezza della vita sul pianeta e della civiltà umana. Ma, per prima cosa, occorre realizzare una riforma interna della Chiesa.

Su questo terreno, tuttavia, non si registrano molti passi avanti…

Penso che il papa non abbia voluto adottare un approccio frontale. A questo proposito, credo che sia stato un errore scegliere per il Sinodo un tema controverso come quello della morale familiare. Perché è un tema che divide. Sono cause universali come l’ecologia, la pace, la lotta alla fame e alla devastazione della biodiversità che possono unire la Chiesa. Questo tema, invece, sembra fatto apposta per mettere il papa alle corde. Quello che Francesco sta facendo è conservare la dottrina tradizionale, ma aprendo il dibattito e lanciando segnali rispetto alla possibilità che questa dottrina cambi. E io, nella lettera che gli ho scritto, gli chiedo di usare a favore dei diritti e della giustizia quella «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa» che gli riconosce il Codice di Diritto Canonico.

Ma come può conciliarsi questo con una dimensione di collegialità?

L’obiettivo è il cambiamento della Chiesa. Non bastano le riforme, ci vuole una vera rivoluzione. La collegialità è un ottimo strumento per governare la Chiesa, ma non per cambiarla. La funzione del papa è quella di essere il grande protagonista del cambiamento: dispone degli strumenti necessari, se vuole può usarli. E sarà forse obbligato a farlo, per far capire ai cardinali ribelli che lo stanno sfidando che la Chiesa sarà diversa, perché è chiamata a fare i conti con la nuova fase della Terra e dell’umanità. Il tempo delle nazioni è giunto al termine. Inizia il tempo dell’umanità “planetizzata”, della casa comune. E per questo tempo la Chiesa non è preparata. Perché è eccessivamente occidentale, eccessivamente clericale, eccessivamente dottrinaria, eccessivamente centrata su un paradigma ellenistico. Quello che serve è il modello di una Chiesa veramente globalizzata, un’immensa rete di comunità che si incarnano in molte culture e assumono molti volti e in cui il ruolo del papa è quello del pellegrino che anima le Chiese alla fede e alla speranza, strumento di comunione e non di governo, il quale dovrà essere invece affidato alle Conferenze episcopali nazionali e continentali.

Cosa è possibile attendersi dal Sinodo sulla famiglia?

Penso che il Sinodo sarà un fallimento e aumenterà la polarizzazione tra le diverse posizioni. Probabilmente il papa lascerà aperta la discussione, perché, se la chiudesse, dividerebbe la Chiesa. Penso che sia necessario includere le persone che sono più toccate da questi temi, cioè i laici, uomini e donne. Perché il Sinodo è fatto appena da una frazione clericale e celibataria della Chiesa: finché non saranno coinvolte le persone direttamente interessate, non potrà esserci convergenza. E una delle riforme che il papa ha annunciato, ma che fino ad ora non ha realizzato, è proprio l’inclusione delle donne nei centri decisionali. Non si tratta di incrementarne la partecipazione: questa c’è sempre. Si tratta del fatto che siano loro a decidere. Le donne nella Chiesa non contano. E ciò malgrado vi siano a loro favore tre aspetti che sono più forti degli argomenti episcopali: non hanno mai tradito Gesù (gli uomini lo hanno fatto); sono state le prime testimoni dell’evento più grande della fede, che è la resurrezione; e senza una donna non ci sarebbe stata l’incarnazione. E se la Chiesa non ha mai preso sul serio questa centralità, le donne devono lottare per ottenerla e noi teologi dobbiamo dare il nostro aiuto.

Una delle più avanzate frontiere teologiche è quella impegnata nel compito di riformulare la fede cristiana in un linguaggio che sia più accessibile agli uomini e alle donne contemporanei e più compatibile con tutte le recenti acquisizioni scientifiche. Non credi che tra ciò che accettiamo come verità scientifica e ciò che afferma la dottrina tradizionale della Chiesa si sia aperto un fossato che rischia di essere incolmabile?

Io penso che sia necessario tradurre la fede in un nuovo paradigma, perché la Bibbia e l’intera teologia sono state elaborate all’interno di un paradigma occidentale che oggi non è più adeguato alle esigenze planetarie. E il paradigma che oggi sta guadagnando più terreno è quello della nuova cosmologia. Ho tentato di portare avanti questo compito nel mio libro Cristianismo. O mínimo do mínimo (apparso in italiano con il titolo Al cuore del Cristianesimo, Emi, 2013; ndr), pensando il cristianesimo all’interno del processo evolutivo e riformulando il messaggio cristiano in un linguaggio che dovrebbe divenire coscienza collettiva, il linguaggio quotidiano del nuovo paradigma. È questo il grande compito che la Chiesa intera è chiamata a svolgere, coscientemente e collegialmente. Un grande lavoro collettivo di traduzione della fede nel nuovo paradigma che viene dalla fisica quantistica, dalle scienze della vita e della Terra. È la sfida che ho cercato di cogliere scrivendo insieme al cosmologo Mark Hathaway il libro The Tao of Liberation: Exploring the Ecology of Transformation (tradotto in italiano con il titolo Il Tao della Liberazione, Fazi Editore, 2014; ndr): un libro che ha richiesto 13 anni di ricerca e di riflessione e che è il tentativo di utilizzare questa base scientifica per ripensare il concetto di Dio, i concetti di Spirito, di Grazia, di Resurrezione.

Qual è il principale messaggio di speranza che ci trasmette la nuova cosmologia?

Che tutto ha a che vedere con tutto, in tutti i momenti e in tutte le circostanze: tutto è in relazione, come ha riconosciuto lo stesso papa nell’enciclica. La materia non esiste, è solo energia altamente condensata, e tutti abbiamo lo stesso cammino e lo stesso destino. E malgrado tutte le crisi, tutte le traversie, tutte le devastazioni, l’universo va sempre auto-organizzandosi e autocreandosi in direzione di una sempre maggiore complessità. Teilhard de Chardin è stato profetico: esistono tante contraddizioni, si passa attraverso tanta devastazione e a volte sembra che il male prevalga, eppure la vita non è mai stata distrutta. Come ha evidenziato Edward Wilson, la vita non è né materiale, né spirituale: la vita è eterna ed è immersa nel processo dell’evoluzione. Ed è quello che afferma il cristianesimo: che tutto è relazionato e che esiste un fine buono per l’umanità e per l’universo. In altre parole, non andremo incontro alla morte termica, ma a forme sempre più complesse e più alte.

Eppure la teoria della morte termica dell’universo, lo scenario in cui l’espansione accelerata provocherebbe un universo troppo freddo per sostenere la vita, è sostenuta da molti fisici e cosmologi…

Io penso che questa tesi sia stata superata da Ilya Prigogine, il quale ha vinto il Premio Nobel per la chimica per le sue scoperte sulle strutture dissipative, mostrando come l’evoluzione si realizzi nello sforzo di creare ordine nel disordine e a partire dal disordine, cioè come il caos si riveli altamente generativo, trasformandosi in un fattore di costruzione di forme sempre più alte di complessità e di ordine. In contraddizione con la visione lineare propria della fisica classica, ci si muove qui sul terreno della fisica quantistica, con il suo procedere per salti, per accumulazioni di energia. Oggi, pertanto, disponiamo delle basi scientifiche per elaborare una visione che è più adeguata al messaggio di speranza del cristianesimo, quella di un universo come corpo della divinità, un universo che non terminerà con una grande catastrofe, ma con un nuovo cielo e una nuova terra, un salto immenso nella linea di Theilard de Chardin, un’implosione ed esplosione all’interno di Dio. Non un’altra terra, ma questa stessa terra trasfigurata. È come la morte umana, che non è la fine della vita, bensì un luogo alchemico in cui la vita si trasforma e passa a un altro livello, fuori dallo spazio-tempo, ma restando vita.

Al tentativo di articolare Teologia della Liberazione ed ecologia hai dedicato trent’anni di lavoro: un lavoro condotto per tanto, troppo tempo in pressoché totale solitudine, davvero vox clamans in deserto, finché la gravità della crisi ambientale non ha costretto anche la teologia latinoamericana ad assumere la questione tra le proprie priorità. Com’è ti appare ora la situazione?

Negli anni ’80, ho preso consapevolezza della questione ecologica nei seguenti termini: il marchio registrato della TdL è l’opzione per i poveri, contro la povertà e a favore della liberazione e della giustizia sociale. E chi è, oggi, il grande povero? È la Terra! Pertanto, all’interno dell’opzione per i poveri, occorre collocare la Terra, devastata e aggredita. Ma bisogna pensare la Terra non secondo il vecchio paradigma, come una cosa inerte e inanimata, bensì all’interno della nuova cosmologia, come un superorganismo vivo, come Gaia, secondo la teoria di James Lovelock, come la Madre Terra, secondo quanto hanno riconosciuto le stesse Nazioni Unite, che hanno proclamato il 22 aprile come Giornata internazionale della Madre Terra. Mi sono allora dedicato, per alcuni anni, allo studio della cosmologia e ne è nato il libro Ecología: grito de la Tierra, grito de los pobres (tradotto in italiano con il titolo Grido della terra grido dei poveri. Per una ecologia cosmica, Cittadella, 1996). Un’opera che all’epoca non ha praticamente suscitato alcuna reazione tra i teologi, anche se, più tardi, alcuni l’hanno considerata ancor più importante del libro Teologia della liberazione di Gustavo Gutierrez, l’opera che ha segnato l’inizio della TdL, ma che è ancora legata al vecchio paradigma. Io penso che la grande maggioranza dei teologi della liberazione si muovi ancora all’interno del vecchio paradigma. Le difficoltà, è vero, sono molte, perché bisogna studiare le scienze della vita, la fisica quantistica, la nuova antropologia, ma in questo modo si può fare una teologia molto migliore dell’altra, e comprendere assai più in profondità il messaggio cristiano. Io penso che questo sia un compito che va anche oltre la nostra generazione: è il cammino che il cristianesimo è chiamato a percorrere per essere una buona novella per i nuovi tempi. Vino nuovo, otri nuove. Musica nuova, orecchie nuove.

Come ti spieghi che in Brasile molti movimenti popolari, pur facendo propria la lotta contro il riscaldamento globale, difendano progetti ecologicamente devastanti come il pre-sal, l’enorme giacimento di petrolio e gas al largo delle coste brasiliane?

È una contraddizione legata ai Paesi in via di sviluppo. I Paesi del Nord del mondo, infatti, potrebbero mirare alla prosperità rinunciando alla crescita e approfondendo maggiormente dimensioni come quella della spiritualità, dell’arte, ecc. I nostri Paesi, invece, hanno ancora bisogno di crescita, perché il livello di vita dei nostri popoli è molto basso: manca l’acqua, la casa, l’elettricità; occorre investire nella salute e nell’educazione. Così, in Brasile, c’è molta attenzione per questi temi, mentre si trascura la problematica ecologica. Esistono solo piccoli gruppi di ecologisti. Eppure il Brasile potrebbe prescindere totalmente dal petrolio sfruttando l’immensa energia prodotta dal sole. E invece si punta a un progetto come il pre-sal che avrà un impatto devastante sull’oceano, in termini di contaminazione delle acque e di distruzione della biodiversità. Ho discusso varie volte con Lula di tutto questo, ma a suo giudizio è sufficiente che piova due giorni di seguito perché tutto rifiorisca nuovamente. In realtà, però, è il sistema globale che è in crisi e che rischia il collasso. Forse la nostra coscienza si risveglierà quando sentiremo sulla nostra pelle le conseguenze della catastrofe. Come diceva Hegel, l’essere umano non apprende niente dalla storia, ma impara tutto dalla sofferenza. Anche se preferisco Sant’Agostino, il quale riteneva che fossero due le scuole: la sofferenza, che ci offre severe lezioni, e l’amore, che produce gioia e trasformazione. Io penso che trarremo insegnamento dall’amore e dalla sofferenza. Di fronte a noi ci sono solo due strade: o cambiamo o moriremo. Quella che stiamo attraversando è una grande crisi, ma la crisi purifica, obbliga a cambiare strada, prepara forse il terreno per l’avvento di una nuova civiltà centrata sulla vita umana e sulla vita della Terra, una biociviltà, la Terra della buona speranza.

Ma sarà necessario passare per quella che è stata già definita come la sesta estinzione di massa…

Siamo nel pieno dell’Antropocene, l’era in cui l’essere umano – e non un meteorite, né un qualche cataclisma naturale di dimensioni colossali – è diventato la più grande minaccia contro la vita. Edward Wilson ha calcolato che stiamo perdendo ogni anno da 20mila a 100mila specie viventi. È davvero la sesta estinzione di massa e potrebbe anche colpire una buona porzione dell’umanità, soprattutto quella povera e sofferente. In questo caso, spetterà ai sopravvissuti riorganizzare il pianeta su nuove basi. Mikhail Gorbacev, il coordinatore delle attività della Carta della Terra, paragona la situazione della Terra e dell’Umanità a quella di un aereo sulla pista di decollo: arriva un momento critico in cui l’aereo deve decollare, se non vuole schiantarsi in fondo alla pista. E, a suo giudizio, abbiamo già oltrepassato il punto critico e non ci siamo alzati in volo. Ma gli esseri umani sono sorprendenti e capaci di cambiamento. L’evoluzione non è lineare, procede per salti, ed è possibile che l’umanità acquisti consapevolezza e operi il salto necessario, abbracciando una nuova visione che abbia al centro l’intera comunità di vita, anche le piante e gli animali che sono nostri compagni nella casa comune. Dopotutto, l’essere umano ha in sé energie divine, di quel Dio che è sovrano e amante della vita e che non permetterà che la vita scompaia.

Come interpreti l’attuale situazione del Brasile? Ritieni che il governo di Dilma avrà la forza di superare la crisi?

È una situazione molto critica. Strappando alla povertà 40 milioni di brasiliani, il Pt ha commesso l’errore di trasformarli appena in 40 milioni di consumatori, trascurando quel lavoro di coscientizzazione necessario per restituire loro il senso di cittadinanza. Il consumatore, si sa, mira a consumare sempre di più. E se non è possibile si genera un grande malessere collettivo. E questo è un errore che viene sfruttato dall’opposizione. La nostra disgrazia è che non esiste un’alternativa. Nessuno tra le fila dell’opposizione possiede autorità morale e un progetto diverso dal neoliberismo e dall’allineamento agli Stati Uniti. E purtroppo il governo Dilma, venendo meno alle promesse della campagna elettorale, sta scaricando sugli operai e sui pensionati i costi della crisi, risparmiando le grandi imprese e le banche. Occorre tener presente che il Brasile, in virtù dei suoi immensi spazi geografici e delle sue grandi ricchezze naturali, è uno dei luoghi del pianeta che fa più gola al capitale. Siamo in un vicolo cieco. Non esiste in questo momento alcuna soluzione ragionevole. L’unica speranza viene dalla nascita di una grande articolazione dei movimenti di base, i quali si sono recentemente incontrati con Dilma con l’obiettivo di creare una base non parlamentare, ma popolare, per far fronte all’offensiva dell’opposizione, in maniera che su tale base Dilma possa portare avanti progetti sociali in una prospettiva realmente educativa, creando una nuova coscienza di cittadinanza. Ciò permetterebbe al governo di andare avanti, in attesa forse di una nuova candidatura di Lula nel 2018. Anche se per il Pt sarebbe meglio restare un po’ di tempo fuori dal potere, per fare autocritica e riformulare un progetto di Paese.

È difficile pensare che Lula possa rappresentare il futuro del Brasile…

Lula immagina il Brasile come un’immensa fabbrica da sud a nord in cui tutti lavorano, consumano, comprano casa e macchina. Ma si tratta di un progetto più adatto al XIX secolo che al XXI. Lula è un grande leader, ma la storia ha oggi bisogno di un’altra forma di leadership. E purtroppo non c’è alcuna figura che esprima questa coscienza nuova. A mio giudizio, il Brasile è sia espressione della tragedia dell’umanità – basti pensare all’assassinio sistematico dei giovani neri (ne vengono assassinati 60 al giorno) e alla devastazione della natura – sia laboratorio di speranza, promessa di un’altra forma di abitare il pianeta, secondo una prospettiva bioregionalista – la vera alternativa ecologica alla globalizzazione omogeneizzante – che integra e valorizza i beni e i servizi di ogni ecosistema insieme alla sua popolazione e alla sua cultura.

* immagine di Valter Campanato

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il commento al vangelo della domenica

IL FIGLIO DELL’UOMO E’ VENUTO PER DARE LA PROPRIA VITA IN RISCATTO PER MOLTI

commento al vangelo della ventinovesima domenica del tempo ordinario (18 ottobre 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Mc  10, 35-45

[In quel tempo], si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole  diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Il nemico di Dio secondo i vangeli non è tanto il peccato, da cui il Signore può liberare, ma il potere. Mentre Dio è amore che si mette a servizio degli uomini, il potere è un dominio che li sottomette. E’ quanto emerge in questo brano del vangelo, il capitolo 10 di Marco dal versetto 35 al 45. C’è stato il terzo, cioè il definitivo annunzio della morte e passione di Gesù a Gerusalemme.
Ma i discepoli sono sordi e ciechi. Animati dall’ambizione e dalla vanità non comprendono le parole di Gesù. Scrive l’evangelista, Si avvicinarono a Gesù … il fatto che gli si avvicinano significa che questi discepoli sono lontani, lo accompagnano ma non sono capaci di seguirlo.
Giacomo e Giovanni, ecco sono i due discepoli definiti “i figli del tuono”, autoritari, i figli di Zebedeo, dicendogli: “Maestro …”, Maestro significa uno da cui si apprende, ma loro non lo ascoltano perché non lo seguono. “Vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”. Dopo il secondo annunzio della passione Gesù aveva detto: “Se uno vuole essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”.
Ebbene qui questi discepoli vogliono farsi primi senza essere ultimi. “Che cosa volete che io faccia per voi?” Gli risposero: “Concedici di sedere, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”.
Pensano che Gesù vada a Gerusalemme, conquisti il potere e vogliono i posti d’onore, i posti più importanti, uno a destra e uno a sinistra per governare insieme a lui. Quindi non hanno compreso assolutamente nulla di quello che Gesù per la terza e definitiva volta ha annunziato. Ed ecco la risposta di Gesù: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo…” il calice è immagine della sorte, della morte che Gesù affronterà. “Ed essere battezzati …” e qui diverse volte si usa il verbo battezzare che non ha naturalmente il significato sacramentale che poi prenderà, ma significa “essere immersi” quindi con questo significato si comprende meglio. “Ed essere immersi nell’immersione in cui io sono immerso”.
Quindi Gesù viene travolto dagli avvenimenti, proprio come un’immersione che lo travolge. Con tanta presunzione, gli risposero: “Lo possiamo”. Di fatto, scriverà poi l’evangelista, che tutti i discepoli al momento della prova, al momento dell’immersione del battesimo, fuggiranno.
E Gesù disse loro: “Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati”, quindi anche loro andranno incontro alla persecuzione e alla morte, ma “sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”.
Chi sono coloro per cui è stato preparato? Coloro che al momento della prova saranno capaci di seguirlo. E tra questi non ci sono questi discepoli. Coloro che sono capaci di caricarsi la croce e seguire Gesù. La richiesta dei due discepoli provoca lo sdegno degli altri dieci. Scrive Marco: “Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni”. Non è che si scandalizzano, è che hanno tutti quanti la stessa aspirazione di essere i primi, i più importanti. Allora si arrabbiano con questi due discepoli, loro compagni, che li hanno preceduti.
Il fatto che l’evangelista ricordi il numero dieci allude al grande scisma che portò poi alla fine di Israele quando alla morte di Salomone il figlio Roboamo, di fronte ai capi delle tribù che gli chiedevano di essere meglio del padre, rispose con tracotanza e prepotenza e da quel momento dieci tribù abbandonarono il regno di Israele che restò soltanto con due tribù. Quindi fu lo scisma e la rovina della popolazione.
E quindi l’evangelista allude al fatto che l’ambizione, la vanità che causano la divisione nella comunità cristiana, possono portarla alla rovina. Allora Gesù li chiamò a sé … se li chiama è perché sono lontani … e disse loro: “voi sapete che coloro i quali sono considerati”… sono considerati non è detto che lo siano … “ … i governanti delle nazioni dominano su di esse”. Gesù ha una brutta immagine dei capi, sono dei tiranni. “E i loro capi le opprimono”, spadroneggiano su di loro. E per tre volte Gesù dirà: “Tra voi però non è così”. Nessuna imitazione delle strutture di potere vigente all’interno della società è possibile all’interno della comunità cristiana. Al suo interno non esistono dinamiche di potere, dove c’è chi comanda e chi obbedisce, ma dinamiche familiari dove gli uni vivono per il bene e la felicità degli altri.
Allora Gesù per tre volte lo sottolinea “Tra voi però non è così, ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore”, il servitore è colui che liberamente e volontariamente, per amore, si mette a servizio degli altri. E Gesù non esclude la possibilità di essere primi. Dice: “E chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”, cioè al livello più infimo della società. Perché questo? Perché Gesù è il figlio di Dio, Dio lui stesso, e Dio è amore che si mette a servizio degli uomini.
E Gesù lo conferma dicendo: “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”, cioè in liberazione per molti. Con Gesù Dio non chiede di essere servito ma si mette a servizio degli uomini. Quanti vogliono essere in comunione con questo Dio devono avere come distintivo il servizio liberamente esercitato per amore.

tra voi però non è così, ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore

il commento di p. Agostino dall’ ‘inferno’ di una situazione di violenza istituzionale, di repressione di diritti, di disumanizzazione in nome di norme fissate per tutelare sempre noi stessi

agostino

Abbassarsi, farsi piccoli. Per noi discepoli di Gesù dovrebbe essere la “strada maestra”, non dico scontata, non lo è per nessuno, quella di accettare anche la logica della “sconfitta” per amore.      E’ impegnativo per tutti, perché sappiamo bene quanto è innato in ognuno di noi il desiderio di primeggiare, di vincere, del riconoscimento, dell’ebbrezza del successo, del potere.  Questo non solo nelle sfere alte, ma anche nei contesti normali della vita: famiglia, lavoro, scuola, società, associazionismo, volontariato, chiesa, comunità religiose. Nessuno spazio umano è immune da questa tentazione. Per noi cristiani, però la logica del Vangelo è l’antidoto perché il nostro servizio sia almeno più sano, attento..dovremmo avere gli anticorpi in grado di capire e seguire lo Spirito del “servitore”.

Due settimane fa circa, un rappresentante dei Centri Sociali di Pisa (ateo dichiarato), mi ha rispolverato una bella lezione, come un flash che mi illumina questa pagina del Vangelo di oggi. 

Eravamo insieme quei giorni dello sgombero del campo della Bigattiera, giorni intensi e turbolenti, cupi, a volte con tensioni come è facile immaginare, di forte sofferenza perché decine di famiglie Rom rischiavano di finire in strada, senza un tetto sicuro. Abbiamo toccato con mano l’arroganza di chi amministra: “ i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono.”
I Rom, gli amici dei Centri Sociali, tutti eravamo più o meno consapevoli che sarebbe stato molto difficile riuscire a bloccare o rimandare lo sgombero, ma ciò non ha impedito di tentare l’impossibile, eravamo appesi tutti ad un fragile filo di speranza. Ma lo sgombero, alla fine è arrivato.
A fine giornata il commento di questo mio amico è stato: “ Stare dalla parte dei Rom significa accettare di essere perdenti.” Che sintesi perfetta dei Vangeli di questi domeniche.
Noi credenti accettiamo di stare con i perdenti?
Ho apprezzato la presenza di questi giovani dei Centri Sociali, discreta a fianco dei Rom, silenziosa e attenta. Chi cercava di intercedere o mediare con le Forze dell’Ordine, chi intratteneva i bambini con dei giochi, mentre le ruspe (targate PD) demolivano le loro povere baracche e roulotte..sì, una presenza “perdente ed inefficace” ma quanta “simpatia”. Una mamma Rom piangeva davanti la sua baracca, in attesa della sua demolizione e l’abbraccio silenzioso di una ragazza di un centro sociale, non credo solo per consolarla, mi ha commosso quell’abbraccio nella medesima sconfitta: il tuo dolore è anche il mio, siamo sconfitti insieme!
“Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza.” (1° lettura di Isaia).
Oggi sono tanti i gruppi ecclesiali che propongono e organizzano conferenze, convegni, dibattiti sui temi che papa Francesco affronta con la sua semplicità francescana e con coraggio: sui poveri, sui migranti, sulle periferie, sulla Chiesa in uscita, sulla Pace.. ma nessuno era presente in quei giorni di timore e di sgombero. Perché? Nessuna presenza di Chiesa, neanche di quella cosi detta “impegnata”. I Rom soli con i ragazzi dei Centri Sociali e con soli due esponenti politici locali che hanno tentato anche loro di impedire lo sgombero di queste famiglie con tantissimi bambini.
Da anni, anche con altri amici, riflettiamo su questo silenzio, sulla distanza che ancora c’è tra la Chiesa e il mondo dei Rom. Le ragioni possono essere differenti e molteplici, e in gran parte anche vere, ma ce n’è una riconducibile al Vangelo di questa domenica: temiamo di apparire perdenti! I discepoli stanno con Gesù, ma lo seguono a distanza perché hanno timore di perdere il loro onore, la Croce è una minaccia troppo vergognosa e deludente.
Gesù chiede l’abbassamento, i discepoli vogliono essere innalzati, cercano il piedistallo a fianco del Padre..noi oggi non siamo così sfacciati, ci siamo fatti un po’ più furbi: sì, stiamo con i deboli (gli scarti della società, i poveri, i migranti..), ma da forti. Accettiamo di soccorrerli, di aiutarli a condizione che imparino la nostra lezione, che cambino secondo quel copione che i “capi” ci mettono in mano e che poi pone noi sul piedistallo dei buoni e dei bravi.
Gesù invece insegna ai suoi di non aver paura di stare con i perdenti, di non preoccuparsi di perdere la faccia, ma di credere e abbracciare (anche se ci tremano a volte le ginocchia) che il suo Vangelo è veramente un annuncio di vita nuova..ma vista con gli occhi dei perdenti.

 

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il bimbo e l’ostia a papà e mamma

un vescovo racconta al Papa:

“un bimbo spezzò l’ostia per darne ai genitori risposati”

l’intervento in aula commuove l’assemblea del sinodo che entra nel vivo del dibattito sui sacramenti ai divorziati: “Nella Chiesa non siamo ‘ufficiali di immigrazione’, che devono controllare perennemente l’integrità di chi si avvicina”. Il Papa: “Guardarsi dai dottori della legge”

di ANDREA GUALTIERI

 La storia, raccontata davanti al Papa durante l’assemblea plenaria del Sinodo, ha commosso molti dei presuli impegnati nel dibattito sulla famiglia. È stato proprio un vescovo, del quale non è stato riportato il nome, a riferire l’esperienza vissuta: stava celebrando la messa delle prime comunioni in una parrocchia e un bambino, arrivato all’altare per ricevere sulla mano l’ostia consacrata, l’ha spezzata e ne ha dato un pezzetto ciascuno ai due genitori che, essendo entrambi divorziati risposati, non avrebbero potuto riceverla.
Il racconto è stato rivelato durante la conferenza stampa quotidiana sui lavori del sinodo da don Manuel Dorantesed, collaboratore per la lingua spagnola di padre Federico Lombardi, ed è significativo delle istanze portate da chi chiede una riforma della norma che impedisce l’accesso alla comunione a coloro che hanno divorziato e avviato una nuova relazione. Dopo i primi dieci giorni, il dibattito del sinodo è arrivato proprio ad affrontare la terza parte dell’Instrumentum laboris, quella relativa alle ferite della famiglia. E il tema dei risposati è uno dei cardini più difficili della discussione, insieme a quella dell’accoglienza degli omosessuali e alla contraccezione.

Tra le ipotesi di lavoro che saranno affrontate nei prossimi giorni per superare la prassi attuale, c’è quella del “cammino di discernimento” e di una “via penitenziale”. Percorso, quest’ultimo, che è del resto un prerequisito fondamentale per l’accesso di chiunque alla comunione e che, si è evidenziato, richiede di ribadire l’insegnamento sul peccato. La strada più battuta da chi sostiene le tesi della riammissione dei risposati sembra essere quella di “valutare storia per storia”, ponendo limitazioni per i casi particolarmente significativi.

IL PAPA: “GUARDARSI DAI DOTTORI DELLA LEGGE”

Esclusa invece l’ipotesi di soluzioni diverse a seconda del contesto geografico: “Io vengo dalla lontana Australia, come viviamo noi la nostra fede è ben diverso dalla Chiesa in Africa, in Sud America e in Asia. Ma sui punti essenziali della dottrina e sui sacramenti, specialmente la comunione, ovviamente l’unità, dal punto di vista dell’insegnamento, è essenziale”, ha dichiarato in un’intervista alla Radio Vaticana il cardinale  George Pell, prefetto della segreteria per l’Economia e considerato uno degli artefici della lettera consegnata al Papa in apertura del Sinodo per contestare le procedure. Nelle sue parole c’è una sottolineatura: “È ovvio che il Santo Padre dica che la dottrina non sarà toccata. Siccome noi parliamo della dottrina morale, sacramentale, in questa ovviamente c’è un elemento essenziale della prassi, della disciplina”. Dagli stessi microfoni, però, monsignor Bruno Forte, segretario speciale del Sinodo, fa notare: “Credo che una via pastorale molto concreta sia quella che si articola anzitutto nello stile dell’accompagnamento, che significa accoglienza di tutti, compagnia della vita e della fede, dunque vicinanza, ascolto, condivisione”. E spiega che la “via” lungo la quale trovare una risposta è quella di “camminare in profonda comunione con papa Francesco” e con “la gradualità dell’accompagnamento e dell’integrazione”. In mattinata, tra l’altro, il pontefice celebrando la messa nella cappelladi Casa Santa Marta aveva ammonito di “guardarsi dai dottori della legge che accorciano gli orizzonti di Dio e rendono piccolo il suo amore”.

UNA “RICCHEZZA DI PROPOSTE CONCRETE”

Per il resto, in assemblea si è auspicato un cambio di mentalità delle comunità ecclesiali, con una riorganizzazione delle parrocchie attorno alla pastorale familiare e con la creazione di piccole comunità stabili di famiglie locali che accompagnino altre famiglie aiutandole anche nei momenti di difficoltà. Su tutto, sembra prevalere la richiesta unanime di una maggiore formazione nella preparazione al matrimonio e nell’accompagnamento agli sposi e di nuove metodologie di catechesi, per le quali qualcuno ha chiesto di abbandonare il linguaggio attuale, ritenuto troppo “scolastico”. “C’è una grande ricchezza di proposte pastorali concrete”, ha rilevato padre Lombardi.

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lettera al papa di sapore golpista?

tredici cardinali hanno scritto al papa

ecco la lettera

ma Francesco ha respinto in blocco le loro richieste 

e intanto dal programma del sinodo è sparita la “Relatio finalis”

di Sandro Magister


lunedì 5 ottobre, all’inizio dei lavori del sinodo sulla famiglia, il cardinale George Pell ha consegnato a papa Francesco una lettera, firmata da lui e da altri dodici cardinali, tutti presenti in quella stessa aula sinodale.

i tredici firmatari ricoprono ruoli di prima grandezza nella gerarchia della Chiesa. Tra di essi vi sono, in ordine alfabetico:

– Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, Italia, teologo, già primo presidente del Pontificio istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia;
– Thomas C. Collins, arcivescovo di Toronto, Canada;
– Timothy M. Dolan, arcivescovo di New York, Stati Uniti;
– Willem J. Eijk, arcivescovo di Utrecht, Olanda;
– Gerhard L. Müller, già vescovo di Ratisbona, Germania, dal 2012 prefetto della congregazione per la dottrina della fede;
– Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban, Sudafrica, presidente delegato del sinodo in corso come già della precedente sessione dell’ottobre 2014;
– George Pell, arcivescovo emerito di Sydney, Australia, dal 2014 prefetto in Vaticano della segreteria per l’economia;
– Robert Sarah, già arcivescovo di Konakry, Guinea, dal 2014 prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti;
– Jorge L. Urosa Savino, arcivescovo di Caracas, Venezuela.

nella lettera, concisa e chiarissima, i tredici cardinali sottoponevano all’attenzione del papa le serie “preoccupazioni” loro e di altri padri sinodali circa le procedure del sinodo, a loro giudizio “configurate per facilitare dei risultati predeterminati su importanti questioni controverse”, e riguardo all'”Instrumentum laboris”, ritenuto inadeguato come “testo guida e fondamento di un documento finale”

ecco qui di seguito il testo della lettera, tradotto dalla stesura originale in inglese:

 

Santità,

mentre ha inizio il sinodo sulla famiglia, e con il desiderio di vederlo fruttuosamente servire la Chiesa e il Suo ministero, rispettosamente Le chiediamo di prendere in considerazione una serie di preoccupazioni che abbiamo raccolto da altri padri sinodali, e che noi condividiamo.

Il documento preparatorio del sinodo, l'”Instrumentum laboris”, che pure ha degli spunti ammirevoli, ha anche sezioni che trarrebbero vantaggio da una sostanziale riflessione e rielaborazione. Le nuove procedure che guidano il sinodo sembrano assicurare un’influenza eccessiva sulle deliberazioni del sinodo e sul documento sinodale finale. Così com’è, e poste le preoccupazioni che abbiamo già raccolto da molti dei padri sulle sue varie sezioni problematiche, l'”Instrumentum” non può adeguatamente servire da testo guida o da fondamento di un documento finale.

Le nuove procedure sinodali saranno viste in alcuni ambienti come mancanti d’apertura e di genuina collegialità. Nel passato, il processo di presentare proposizioni e di votarle serviva allo scopo prezioso di misurare gli orientamenti dei padri sinodali. L’assenza di proposizioni e delle relative discussioni e votazioni sembra scoraggiare un dibattito aperto e confinare la discussione ai circoli minori; quindi ci sembra urgente che la redazione di proposizioni da votare dall’intero sinodo dovrebbe essere ripristinata. Il voto su un documento finale arriva troppo tardi nel processo di completa revisione e di aggiustamento del testo.

Inoltre, la mancanza di una partecipazione dai padri sinodali alla composizione della commissione di redazione ha creato un notevole disagio. I suoi membri sono stati nominati, non eletti, senza consultazione. Allo stesso modo, chiunque farà parte della redazione di qualsiasi testo a livello dei circoli minori dovrebbe essere eletto, non nominato.

A loro volta, questi fatti hanno creato il timore che le nuove procedure non siano aderenti al tradizionale spirito e finalità di un sinodo. Non si capisce perché questi cambiamenti procedurali siano necessari. A un certo numero di padri il nuovo processo sembra configurato per facilitare dei risultati predeterminati su importanti questioni controverse.

Infine, e forse con più urgenza, vari padri hanno espresso la preoccupazione che un sinodo progettato per affrontare una questione pastorale vitale – rafforzare la dignità del matrimonio e della famiglia – possa arrivare ad essere dominato dal problema teologico/dottrinale della comunione per i divorziati risposati civilmente. Se così avverrà, ciò solleverà inevitabilmente questioni ancora più fondamentali su come la Chiesa, nel suo cammino, dovrebbe interpretare e applicare la Parola di Dio, le sue dottrine e le sue discipline ai cambiamenti nella cultura. Il collasso delle chiese protestanti liberali nell’epoca moderna, accelerato dal loro abbandono di elementi chiave della fede e della pratica cristiana in nome dell’adattamento pastorale, giustifica una grande cautela nelle nostre discussioni sinodali.

Santità, offriamo questi pensieri in uno spirito di fedeltà, e La ringraziamo per la loro presa in considerazione.

Fedelmente suoi in Gesù Cristo.

 

un attacco di sapore golpista

commenti sulla lettera dei cardinali al papa

«Con il desiderio di vedere fruttuosamente il Sinodo sulla famiglia servire la Chiesa, rispettosamente le chiediamo di prendere in considerazione una serie di preoccupazioni». Così recita la lettera di alcuni cardinali consegnata a papa Francesco, il 5 ottobre scorso, il giorno di inizio del Sinodo, secondo quanto riportato dal giornalista Sandro Magister sul suo blog il 12 ottobre, che ne ha pubblicato la trascrizione del testo. La lettera, che suscita dubbi di vario genere – dei firmatari originari cinque si sono dissociati – e che sarebbe stata consegnata dal card. George Pell, uno dei sottoscrittori, esprime gravi dubbi circa la correttezza delle procedure sinodali, sospettate di essere «configurate per facilitare dei risultati predeterminati su importanti questioni controverse», e riguardo all’Instrumentum laboris, giudicato «inadeguato come testo guida e fondamento di un documento finale».

I misteri sulla lettera non sono pochi, riguardano in primo luogo i firmatari, ma anche le circostanze in cui è stata redatta. Come osserva lo storico Massimo Faggioli sull’Huffington Post (13/10), «al momento la lista dei firmatari oscilla: quella pubblicata lunedì sera (ora americana) dal settimanale dei gesuiti statunitensi America riportava i nomi di Caffarra (Bologna), Collins (Toronto), DiNardo (Houston), Dolan (New York), Eijk (Utrecht), Müller (prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede in Vaticano), Napier (Durban, Sudafrica), Njue (Nairobi, Kenia), Pell (prefetto del Segretariato per l’economia in Vaticano), Rivera Carrera (Città del Messico), Sarah (prefetto della Congregazione per la liturgia e i sacramenti in Vaticano), Sgreccia (già prefetto della Pontificia Accademia per la vita in Vaticano), e Urosa Savino (Caracas, Venezuela). Ma è possibile che vi siano lettere in parte diverse o versioni diverse della stessa lettera, altri firmatari, e perfino (non è da escludere) firmatari a loro insaputa (quattro altri firmatari – i cardinali Erdö, Scola, Piacenza, e Vingt-Trois – hanno smentito ieri)» e un quinto si è sfilato oggi, il card. Rivera Carrera, affermando di non aver mai sottoscritto la missiva.

Tuttavia, a prescindere dai suoi contenuti, la lettera, commenta Faggioli, «va considerata per quello che è. Non è una questione di merito o di metodo circa i lavori del Sinodo, ma un attacco alla legittimità della direzione impressa alla Chiesa da papa Francesco e quindi un attacco al papa stesso»: «Il fatto che la lettera sia stata consegnata al papa il 5 ottobre, primo giorno del Sinodo – spiega lo storico – è prova che si tratta di un’iniziativa coordinata ben prima dell’inizio dell’assemblea a Roma (ed è a questa iniziativa che Francesco rispose col discorso sulla “ermeneutica cospirativa” del 6 ottobre in aula sinodale). È anche chiaro che mentre Francesco era in visita negli Usa, alcuni vescovi americani, tra un abbraccio e l’altro al papa, stavano preparando contro Bergoglio un attacco che non si sarebbero mai sognati di fare contro i “sinodi per finta” di Wojtyla e Ratzinger». Il problema più grave, insomma, è che i cardinali in questione accusino il papa «di manipolare l’assemblea di vescovi».

Ma la lettera, continua Faggioli, svela le «ipocrisie dei firmatari»: «La critica a un Sinodo già predeterminato si poteva rivolgere ai Sinodi precedenti, quelli di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, ma non a quello di Francesco. La vera critica della lettera è in realtà a una teologia che su alcuni punti è legittimamente diversa da quella di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ai quali i firmatari della lettera riconoscono legittimità teologica al contrario di quello che fanno per papa Francesco». In secondo luogo, la critica alle regole del Sinodo di papa Francesco fa finta di ignorare che il Sinodo dei Vescovi ha «degli elementi fissi (per esempio, il tipo di membership del Sinodo) e degli elementi che possono cambiare (in particolare, circa i documenti finali). Infatti il Sinodo è per definizione, dalla sua fondazione nel 1965 ad oggi, uno strumento del primato pontificio, in cui la collegialità dei vescovi si esprime ma senza mai varcare la funzione consultiva (almeno fino ad oggi: in futuro potrebbe cambiare)». Insomma, la lettera non sarebbe altro che «un pronunciamento di vago tenore golpista che vorrebbe mettere sotto ipoteca il primato papale», su temi che quest’ultimo ha riaperto quando i conservatori speravano fossero ormai archiviati.

«I nemici del papa, e ve ne sono a vari livelli nella Chiesa e nei media – scrive il vaticanista Robert Mickens sul settimanale statunitense National Catholic Reporter (12/10) – hanno colto al volo l’isteria reale e presunta dei vescovi per creare la narrazione secondo cui il pontificato di Francesco, al suo trentunesimo mese, corre ora il rischio di andare completamente in rovina. Ma c’è un altro intreccio che riguarda ciò che sta emergendo in questi primi giorni» del sinodo, ossia, spiega Mickens, «per la prima volta in cinquant’anni di esistenza del Sinodo c’è un papa che, sempre più chiaramente, sembra intenzionato a sviluppare, finalmente, il potenziale di questo organismo permanente e di renderlo un elemento costitutivo del governo della Chiesa universale». Ciò, evidentemente, «allarma molti vescovi e spaventare a morte la vecchia guardia nella Curia romana. Almeno quelli che sono stati attenti».

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