politica delinquenziale e razzista a sostegno di Salvini

svaligiavano ville travestiti da Rom per sostenere la campagna elettorale di Salvini

arrestati

Anorak011-720x440

 

Rozzo Lombardo – E’ stata ribattezzata ‘Gipsy King’ la clamorosa operazione con la quale i Carabinieri hanno sgominato un’organizzazione criminale che si era resa protagonista di una serie di rapine avvenute in alcune ville (anche in quelle abusive!) della Brianza, seminando panico e rinfocolando l’odio razziale.
I sospetti erano subito caduti sugli zingari del vicino campo di Fregazzate, specie dopo un’esaustiva foto doppia Boldrini/Rom felici con una sobria didascalia “I Rom ringraziano la bOldracca di Roma”, diffusa in paese, ma dopo circa 2 mesi di indagini i militi dell’Arma hanno potuto constatare che in realtà gli autori erano sostenitori della Lega Nord della vicina sezione di Chienge.
Il travestimento adottato dai criminali era quasi da manuale, salvo per un errore che si rivelerà fatale: Audi A5 nera con vetri oscurati e assetto ribassato, barba alla Joaquín Cortés, capelli impomatati, camicia di raso ed un italiano alquanto incerto, particolare che li camuffava perfettamente tra i locali.
A mettere sulla buona strada gli investigatori è stata la deposizione dello stalliere siculo di un noto imprenditore della zona, trovatosi nel bel mezzo della rapina, e ora unico e imprescindibile testimone oculare, che in genere non vede, non sente e non dice niente, tranne quando gli fanno girare lu cugghiuni. L’uomo ha infatti dichiarato: “Quando me li trovai davanti esclamai un sonoro và rumpiti i cuorna zingheru ‘mmierda e per tutta risposta il più giovane, (poi identificato come Benzo Rossi, detto ‘il Torta’) rispose “zingara è tua sorella, terùn, allora lo guardai in bocca e notai che dall’incisivo non proveniva alcun riflesso da brillantino. Così capii che quelli non erano veri rom”.
 
I quattro quasi scaltri padani travestiti da gitani contavano con questo diabolico sotterfugio di prendere due fave con un piccione: rifornire di ‘benzina’ il motore dell’intolleranza avviato nella campagna elettorale di Matteo Salvini per mantenerlo al massimo dei giri ed allo stesso tempo trovare i soldi necessari per finanziare le batterie destinate ad alimentare la nuovissima felpa leghista hi-tech a cristalli liquidi, su cui compare automaticamente il nome della città in cui ci si trova, già collaudata dal segretario del Carroccio e che gli ha regalato una grande ed inaspettata soddisfazione in seguito alla calorosa accoglienza con tanto di standing ovation conquistata durante il comizio nella cittadina umbra di Bastardo.
 
 
 
 Marco Paolini e Vittorio Lattanzi
 

 
image_pdfimage_print

a proposito della beatificazione di Oscar Romero

Romero e quelli che non applaudono

intervista a Jon Sobrino

Sobrino

a cura di Alver Metalli
in “La Stampa-Vatican Insider” del 21 maggio 2015

Nel «Centro monsignor Romero» nel cuore dell’Università Cattolica Jon Sobrino si muove come se danzasse. L’ha fondato dopo il massacro dei suoi confratelli gesuiti – «non ho fatto la loro fine solo perché ero in Tailandia» ricorda – e vi ci si dedica come se fosse l’ultima missione della sua vita, giunta alle soglie dei 77 anni. Una ventina di anni in più, in media, di quanto abbiano vissuto Ignacio Ellacuria e compagni, caduti sotto i colpi dei killer il 16 novembre del 1989. Le resistenze, le accuse di sinistrismo e filo-guerriglierismo riversate su Romero come piombo fuso, partite dal Salvador e con orecchie condiscendenti anche a Roma, Jon Sobrino le conosce bene. Ergo la beatificazione non può che rallegrarlo. Ma non è così, o, perlomeno, ha molte cose da precisare in proposito. Gli chiediamo se avesse immaginato, anni fa, che si sarebbe arrivati al giorno di oggi, di dopodomani per l’esattezza, sabato 23 maggio. Caracolla la sua magrezza nella sala principale del mausoleo ai «martiri della Uca» e lascia uscire un provocatorio «non mi è mai interessato». Lo ripete nel timore che non avessimo capito bene. «Sul serio… lo dico sul serio: non mi è mai interessata la beatificazione di Romero». Aspettiamo chiarimenti. Ci devono essere, quelle appena pronunciate non possono essere le sue ultime parole. «Quando l’hanno ammazzato, la gente di qui – non gli italiani e nemmeno in Vaticano – ma i salvadoregni, i nostri poveri, hanno detto subito: “È santo!”. Pedro Casaldaliga quattro giorni dopo ha scritto un gran poema: “¡San Romero de América, pastor y mártir nuestro!”». Ricorda che anche Ignacio Ellacuria, abbattuto a pochi metri da qui, «tre giorni dopo l’assassinio di Romero ha detto Messa in un aula della Uca, e nell’omelia ha detto: “Con monsignor Romero Dio è passato per El Salvador”». Tira il fiato come se avesse bisogno di ossigeno. «Quello che non avrei immaginato questo sì, è che ci fosse qualcuno che potesse dire una cosa così. Che lo beatifichino va bene, hanno tardato 35 anni ma non è la cosa più importante». Si assicura che l’interlocutore abbia ricevuto il colpo. «Capisci quello che ti sto dicendo?» esclama allargando in un sorriso indulgente le sue labbra sottili. Per tutta risposta riceve una nuova richiesta di spiegazioni. «Si capisce che c’è qualcosa che non la convince in quello che sta avvenendo…». Attorno a noi stanno scaricando i pacchi freschi di stampa dell’ultimo numero di Carta a las Iglesias, la rivista che dirige. «Va bene che lo beatifichino, non dico di no, ma mi sarebbe piaciuto che fosse in un altro modo… e ancora non so cosa dirà il cardinale Angelo Amato dopodomani, non so, non so se quello che dirà mi convincerà o no». Ma Sobrino non la sentirà l’omelia del Prefetto venuto da Roma, o non lo vuole sentire. «Sappiamo che se ne andrà, che ha un viaggio programmato e che sabato non sarà in piazza con gli altri. L’ha fatto a proposito?». Tarda a rispondere, come se si stesse chiedendo come l’ho saputo. Poi la precisazione arriva: «Vado in Brasile, perché a Rio de Janeiro si celebrano i cinquant’anni della rivista Concilium. Ho lavorato in questa rivista gli ultimi 16 anni. Devo fare un discorso, e mi ritiro dalla Rivista. La beatificazione coincide con questo incontro. Non è che me ne vado, vedrò in televisione la Cerimonia di beatificazione e un po’ prima di mezzogiorno me ne andrò all’aeroporto». 16 anni a Concilium, e Sobrino che si ritira il giorno della beatificazione di Romero. È una notizia anche questa. Sulla parete davanti a noi i «Padri della Chiesa latinoamericana» ascoltano compunti. La carrellata inizia con monsignor Gerardi, assassinato in Guatemala nel 1998 e prosegue con il colombiano Gerardo Valente Cano, l’argentino Enrique Angelelli assassinato nel 1976, Hélder Pessoa Câmara, brasiliano in odore di beatificazione, il messicano Sergio Mendez Arceo con di fianco un altro messicano, don Samuel Ruíz e l’ecuadoriano Leonidas Proano, seguiti da monsignor Roberto Joaquín Ramos (Salvador 1938-1993) e don Manuel Larrain, il cileno fondatore del Celam, per finire con il successore di Romero, il salesiano Arturo Rivera y Damas, figura chiave nella storia di Romero e ingiustamente ignorato nelle celebrazioni di questo periodo.
Sabato a mezzogiorno, secondo il cronogramma diffuso dal comitato per la beatificazione, dovrebbe essere letto il decreto che porterà formalmente il servo di Dio Oscar Arnulfo Romero y Galdámez nel novero dei beati della Chiesa cattolica. Jon Sobrino, forse, non avrà tempo di ascoltarlo. Ma non se ne dispiace. Le ragioni le distende un po’ di più presentando il materiale di Carta a las Iglesias anno XXXIII, numero 661, con in copertina un frammento variopinto di un murales in cui Romero tiene per mano la figlia di un contadino che ha appena tagliato con il falcetto un casco di banane. «Due articoli sono critici. Padre Manuel Acosta critica l’attuazione della commissione ufficiale di preparazione della beatificazione. Luis Van de Velde è più critico con la gerarchia. Si chiede se monsignor Romero si riconoscerebbe nel giorno della sua beatificazione. Da tempo abbiamo messo in guardia che non beatifichino un monsignor Romero annacquato. Il pericolo c’è; speriamo che si beatifichi un monsignor Romero vivo, più tagliente di una spada a doppio filo, giusto e compassionevole». Le vesti che indossavano i sei Gesuiti suoi amici e colleghi l’ultimo giorno della loro vita sono appese nella teca della stanza di fianco, come fossero in un armadio. La vestaglia marrone di Ellacuria, un accappatoio, un paio di mutandoni un po’ ingialliti, tutti perforati dai proiettili che i militari che hanno fatto irruzione non si sono curati di risparmiare. Viene da pensare a loro, e al processo di beatificazione iniziato da poco. «Nemmeno questo mi preoccupa» esclama Sobrino. «Ero in Tailandia quel giorno e per questo non mi hanno ucciso, ho visto correre il sangue di molta gente nel Salvador, non mi interessano le beatificazioni, spero che le mie parole aiutino a conoscere di più e meglio Ellacuria, vediamo se seguiamo il suo cammino, questo è quello che mi interessa». Nemmeno un applauso per il Papa argentino che ha spinto la causa di Romero verso la conclusione? «No, non mi interessa applaudire, e se applaudo non è per il fatto che è Papa, che è argentino né che è gesuita ma per quello che dice, per come si è comportato a Lampedusa per esempio. Quello che mi interessa è che ci sia chi dica che i fondali del Mediterraneo sono pieni di cadaveri. Io non ho applaudito la Resurrezione di Gesù. Applaudire non fa per me». Il pensiero adesso va spedito a dopodomani. «Ho visto orrori che non sono stati denunciati, come li denunciava monsignor Romero. Vediamo se sabato risuoneranno le sue parole». Per essere sicuro di non venir frainteso Jon Sobrino le recita a memoria: «“In nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente, vi chiedo, vi prego, vi ordino in nome di Dio che finisca la repressione”. Questo l’ho sentito da lui e mi è rimasto scolpito in testa». Il resto del suo pensiero su Romero, un Romero «non edulcorato», il Romero «reale» è nell’articolo che ha scritto per la rivista latinoamericana di teologia dell’Università cattolica, nel cui comitato di direzione siedono tra gli altri Leonardo Boff, Enrique Dussel, e il cileno Comblin. «Mostro quel che monsignor Romero sentì e disse nell’ultimo ritiro spirituale che fece un mese prima di essere assassinato; poi offro tre spunti che ritengo importanti. Ricordo che un contadino disse: “Monsignor Romero ci ha difesi, noi poveri; non solo ci ha aiutati, non solo ha fatto la scelta dei poveri, questo oramai è qualcosa di sloganistico. È uscito a difenderci, noi poveri. E se qualcuno viene a difendere è perché c’è chi ha bisogno di essere difeso, e ha bisogno di difesa chi è attaccato. È per questo – ha detto con sicura certezza questo contadino – l’hanno ucciso”. Madre Teresa che era buona e non dava fastidio a nessuno ha ricevuto il premio Nobel, monsignor Romero che ha dato fastidio il premio Nobel non l’ha ricevuto».

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print