bufale pur di alimentare odio contro i rom

 

 

 

se una bufala alimenta l’odio verso i rom

I rom fanno audience: poco importa che la notizia sia una bufala. Verrebbe da pensarla così davanti alla “non notizia” che nelle scorse ore ha fatto il giro d’Italia, pubblicata dai più importanti quotidiani nazionali: alcuni rom alla guida di un’auto, probabilmente rubata, della polizia. La “non notizia” trae origine da un video postato su Youtube in cui si vedono alcune persone, divertite, guidare una volante della polizia nell’area del campo rom della Massimina.

Sui siti web e sui social network dei quotidiani la “non notizia” fa subito il boom di visualizzazioni, like e condivisioni. E, come era facile prevedere, di commenti:  negativi, disprezzanti, astiosi nei confronti dei rom. Dei rom tutti, in generale. Dei rom come entità indistinta, collettiva. Come se gli autori del sacrilegio – rubare l’auto della polizia e riderci sopra – non fossero stati gli autori del gesto in sé. Ma tutti, tutti i rom di Roma, d’Italia, d’Europa.

Ma non sono i commenti degli utenti a rappresentare il lato più sinistro dell’intera vicenda. Quanto la modalità che ha portato la quasi totalità dei media italiani e dei giornalisti a diffondere la notizia, senza alcun tipo di previa verifica e accertamento dei fatti. Basandosi, forse, semplicemente sull’effetto virale che il video stava ottenendo sui social.

Sarebbero bastate meno di un paio di telefonate per rendersi conto che la notizia da migliaia e migliaia di condivisioni era una non notizia. Già, perché quella non era una vera auto della polizia. Ma una finta volante utilizzata per la realizzazione di una fiction televisiva girata all’interno di un campo rom (la fiction Rai “È arrivata la felicità” con l’attrice Claudia Pandolfi, a quanto si apprende). Auto che, per esempio,  quelle persone avrebbero potuto chiedere e ottenere di guidare in un momento di rilassatezza e convivialità con la gente della produzione televisiva.  Per scherzo, per gioco, per divertimento. Un momento che successivamente, come capita a ognuno di noi, hanno voluto postare e condividere sui social network.

La notizia dei rom che avrebbero sottratto una volante ha messo in grande imbarazzo la Polizia, che ha dovuto affrettarsi a smentire l’accaduto ribadendo categoricamente, attraverso un comunicato, che quella non era una vera auto della polizia ma un’auto di scena.  La Polizia, del resto, sta indagando per chiarire se vi siano responsabilità quali l’eventuale negligenza nella gestione delle auto di scena da parte dei titolari della produzione.

Subito dopo gli stessi media che avevano diffuso la “non notizia” hanno dovuto fare un passo indietro e smentire che si trattava di vera volante. E così i titoli sono diventati: “Auto della polizia rubata dai nomadi: era una bufala”; “Nomadi rubano auto della polizia, ma è un veicolo usato per un film”; “Svelato il giallo dei nomadi visti sfrecciare sull’auto della polizia”.

Un giallo che i media avrebbero potuto svelare da loro, con una piccola verifica dei fatti, evitando di correre dietro alle notizie rilanciate dai media concorrenti e di gettare ulteriore benzina sul fuoco sul clima d’intolleranza nei confronti di rom e sinti.

Per concludere, ecco le parole postate oggi sul suo profilo Facebook da Paolo Ciani, responsabile rom e sinti della Comunità di Sant’Egidio: «Quindi se una ragazzina mette un video su Fb, nessun giornale si prende la briga di verificare di che si tratta: “auto della polizia in mano ai nomadi!”. Alè il gioco è fatto. Come si potrà mettere fine a tutto ciò? Come non si capisce l’irresponsabilità di tali comportamenti? Su un quotidiano romano a questa bufala si dà più spazio che alla Libia, alla Grecia o a ciò che accade in Ucraina… Com’è possibile? L’antigitanismo è un tarlo pericolosissimo: perché farlo proliferare e alimentarlo continuamente? Ora attendiamo tweet di Salvini… ».

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a proposito della quaresima e delle ceneri

 

 

tre riflessioni sul senso della quaresima e delle ceneri come preparazione alla pasqua: p. Maggi, A. Zarri, p. E, Bianchi

il grido disperato di Davide

 

QUARESIMA
Istruzioni d’uso
di padre Alberto Maggi

maggi

Con il mercoledì delle ceneri inizia la quaresima. Per comprendere il significato di questo periodo occorre esaminare la diversa liturgia pre e post-conciliare.
  Prima della riforma liturgica, l’imposizione delle ceneri era accompagnata dalle parole “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”, secondo la maledizione del Signore all’uomo peccatore contenuta nel Libro della Genesi (Gen 3,19). E con questo lugubre monito iniziava un periodo caratterizzato dalle penitenze, da rinunzie e sacrifici e dalle mortificazioni.
  Oggi l’imposizione delle ceneri è accompagnata dall’invito evangelico “Convertiti e credi al vangelo” (Mc 1,15). Le prime parole pronunciate dal Cristo non sono un invito alla conservazione, ma al cambiamento. Gesù non viene a mantenere la situazione così com’è, ma a trasformarla: il cambiamento deve essere il motore della vita del credente, orientando la propria esistenza al bene dell’altro e dando adesione alla buona notizia di Gesù.
  L’uomo non è polvere e non tornerà polvere, ma è figlio di Dio, e per questo ha una vita di una qualità tale che è eterna, cioè indistruttibile, e capace di superare la morte.
  In queste due diverse impostazioni teologiche sta il significato della quaresima.
 Mai Gesù nel suo insegnamento ha invitato a fare penitenza, a mortificarsi, e tanto meno a fare sacrifici. Anzi, ha detto il contrario: “MISERICORDIA IO VOGLIO E NON SACRIFICI” (Mt 12,7). La misericordia orienta l’uomo verso il bene del fratello. I sacrifici e le penitenze centrano l’uomo su se stesso, sulla propria perfezione spirituale e nulla può essere più pericoloso e letale di questo atteggiamento. Paolo di Tarso, che in quanto fanatico fariseo era un convinto assertore di queste pratiche, una volta conosciuto Gesù, arriverà a scrivere nella Lettera ai Colossesi: “Nessuno dunque vi condanni in fatto di cibo o di bevanda, o per feste, noviluni e sabati… Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché come se viveste ancora nel mondo, lasciarvi imporre precetti quali: Non prendere, non gustare, non toccare? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti umani, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne” (Col 2,16.20-23).  
  Paolo aveva compreso molto bene che queste pratiche dirigono l’uomo verso un’ impossibile perfezione spirituale, tanto lontana e irraggiungibile quanto grande è la propria ambizione. Per questo Gesù invita invece al dono di sé, che è immediato e concreto tanto quanto è grande la propria capacità di amare.
  La quaresima, pertanto, non è orientata al venerdì santo, ma alla Pasqua di risurrezione. Per questo non è tempo di mortificazioni, ma di vivificazioni. Si tratta di scoprire forme inedite, originali e creative di perdono, di generosità e di servizio, che innalzano la qualità del proprio amore per metterlo in sintonia con quello del Vivente, e così sperimentare la Pasqua come pienezza della vita del Cristo e propria.

  Per questo oggi c’è l’imposizione delle ceneri. Pratica che si rifà all’uso agricolo dei contadini che conservavano tutto l’inverno le ceneri del camino, per poi, verso la fine della brutta stagione, spargerle sul terreno, come fattore vitalizzante per dare nuova energia alla terra.
> Ed è questo il significato delle ceneri: l’accoglienza della buona notizia di Gesù (“Convertiti e credi al vangelo”), è l’elemento vitale che vivifica la nostra esistenza, fa scoprire forme nuove originali di amore, e fa fiorire tutte quelle capacità di dono che sono latenti e che attendevano solo il momento propizio per emergere. Creati a immagine di Dio (Gen 1,27), il Creatore ha posto in ogni uomo la sua stessa capacità d’amare. La Quaresima è il tempo propizio perché questo amore fiorisca in forme nuove, originali, creative.
  Auguri!

croce

Il deserto, le Ceneri e la Risurrezione

una riflessione di Adriana Zarri

Nel primo giorno di quaresima mi giungono tra le mani alcune sollecitazioni interiori sulla preghiera di Adriana Zarri, raccolte una trentina d’anni fa ma pubblicate lo scorso anno da Rubbettino con il felice titolo di Nostro Signore del deserto. Meditazioni sulla preghiera. La Zarri, scrittrice, teologa ed eremita, voce originale e profetica del panorama cattolico scomparsa nel 2010, una vita spesa sul crinale di una fede sempre limpida e di una critica alle incrostazioni temporali che avvolgono lo Spirito, ci riporta, con questo libro, all’essenza stessa della fede e della mistica cristiana. Non c’è zavorra estetica nel suo pregare, né richieste petulanti o obblighi da assolvere, né tantomeno strizza l’occhio a riti o pratiche religiose.

In realtà, nell’universo mistico della Zarri, c’è quel connubio, sempre felicissimo laddove riuscito, tra cielo e terra. La fede, per mezzo della preghiera, si rafforza nel verso degli uccelli, nel ritmo della natura e delle stagioni che fa sbocciare i fiori e crescere i frutti, nell’amicizia tra gli uomini che sfocia in baci e abbracci. Perfino il pudore gestuale, il linguaggio gestuale, i messaggi espressivi del corpo, sono anticamera del sacro, dove il pregare non è chiedere le cose, ma è il chiedere il regno e il pane.Una preghiera quasi “carnale”, quella che ci viene proposta, quasi un erotismo della preghiera che non ammette ostacoli mistici e anzi, lascia al lettore e al cercatore di silenzi dell’anima, quel senso di approdo verso un desiderio di deserto, tipicamente femminile, perché la Zarri è fortemente teologa donna, dove l’amore (al femminile) contagia e rende liberi.

La preghiera è una questione ontologica, cioè del nostro essere, del nostro stare al mondo. E quindi è un fatto d’amore. Fede, amore e preghiera si confondono e si distanziano, si toccano e si lasciano, prendono forma insieme e si nutrono a vicenda. Su tutti, l’amore viscerale per Gesù di Nazareth, l’uomo figlio di Dio che ha saputo abbracciare l’umanità in una follia collettiva e individuale d’amore puro.

Le Ceneri di questo duemilaquindici dopo la Sua venuta, ci dicono che l’urgenza di tornare alle piccole cose della vita quotidiana hanno in sé qualcosa di divino. L’ultima goccia di amore del buon Dio che riversa su di noi, il popolo traditore, non meritevole di atto di fiducia sacra.Qui, di nuovo, parte la sfida. Una Quaresima che ci appare lontana, per consuetudini legate alla velocità e alla frammentazione del vivere, diventa anche per noi, umanità allo sbando, una possibilità concreta di appartenere al sacro. Per poche ore, per un attimo, per quaranta giorni.

Respirare con esso, sentirsi consumato da esso, e gioire con lo Spirito che pure è legato a frammenti di vita, rafforza, talvolta allieta la nostra anima e la spinge verso i territori più ardui e difficili della Risurrezione.

riflessioni politico-religiose indotte dalla morte di Andreotti

QUARESIMA

Mercoledì delle ceneri 
“Alla ricerca della verità del proprio essere”
di Enzo Bianchi  
“Ogni anno ritorna la quaresima, un tempo pieno di quaranta giorni da vivere da parte dei cristiani tutti insieme come tempo di conversione, di ritorno a Dio. Sempre i cristiani devono vivere lottando contro gli idoli seducenti, sempre è il tempo favorevole ad accogliere la grazia e la misericordia del Signore, tuttavia la Chiesa – che nella sua intelligenza conosce l’incapacità della nostra umanità a vivere con forte tensione il cammino quotidiano verso il Regno – chiede che ci sia un tempo preciso che si stacchi dal quotidiano, un tempo “altro”, un tempo forte in cui far convergere nello sforzo di conversione la maggior parte delle energie che ciascuno possiede. E la Chiesa chiede che questo sia vissuto simultaneamente da parte di tutti i cristiani, sia cioè uno sforzo compiuto tutti insieme, in comunione e solidarietà. Sono dunque quaranta giorni per il ritorno a Dio, per il ripudio degli idoli seducenti ma alienanti, per una maggior conoscenza della misericordia infinita del Signore.
La conversione, infatti, non è un evento avvenuto una volta per tutte, ma è un dinamismo che deve essere rinnovato nei diversi momenti dell’esistenza, nelle diverse età, soprattutto quando il passare del tempo può indurre nel cristiano un adattamento alla mondanità, una stanchezza, uno smarrimento del senso e del fine della propria vocazione che lo portano a vivere nella schizofrenia la propria fede.

Il mercoledì delle Ceneri segna l’inizio di questo tempo propizio della quaresima ed è caratterizzato, come dice il nome, dall’imposizione delle ceneri sul capo di ogni cristiano. Un gesto che forse oggi non sempre è capito ma che, se spiegato e recepito, può risultare più efficace delle parole nel trasmettere una verità. La cenere, infatti, è il frutto del fuoco che arde, racchiude il simbolo della purificazione, costituisce un rimando alla condizione del nostro corpo che, dopo la morte, si decompone e diventa polvere: sì, come un albero rigoglioso, una volta abbattuto e bruciato, diventa cenere, così accade al nostro corpo tornato alla terra, ma quella cenere è destinata alla resurrezione.
Simbolica ricca, quella della cenere, già conosciuta nell’Antico Testamento e nella preghiera degli ebrei: cospargersi il capo di cenere è segno di penitenza, di volontà di cambiamento attraverso la prova, il crogiolo, il fuoco purificatore. Certo è solo un segno, che chiede di significare un evento spirituale autentico vissuto nel quotidiano del cristiano: la conversione e il pentimento del cuore contrito. Ma proprio questa sua qualità di segno, di gesto può, se vissuto con convinzione e nell’invocazione dello Spirito, imprimersi nel corpo, nel cuore e nello spirito del cristiano, favorendo così l’evento della conversione. … ” (Enzo Bianchi)
Leggi tutto:
http://pietrevive.blogspot.it/…/quaresimamercoledi-delle-ce…

 

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un invito al sinodo ad una maggiore audacia e discernimento

 

 

“Osate discernere con noi”

lettera aperta ai “Padri” sinodali

lettera del giornalista René Poujol pubblicata sul sito renepoujol (Francia) il 6 febbraio 2015

Cari Padri, eccoci ancora agli inizi di questo anno 2015 che conoscerà il completamento del sinodo sulla famiglia voluto dal nostro papa Francesco. Ne ho applaudito l’intuizione, felice di ritrovarvi la generosità dello sguardo del Concilio Vaticano II che ha segnato la mia giovinezza. Ho seguito da vicino i preparativi poi i lavori della prima sessione, applaudito alla franchezza dei dibattiti, tremato per le tensioni suscitate dalla relazione intermedia del cardinale Peter Erdo, mi sono disperato per il ripiegamento timoroso testimoniato dalla redazione finale dei Lineamenta che vi sono stati inviati in vista della sessione dell’ottobre 2015. So quanto saranno decisivi i prossimi mesi. Come invita a fare la Lettera del cardinal Baldisseri, segretario generale del sinodo, mi prendo quindi la libertà di inviarvi questa “lettera aperta” (1).Sono nato cattolico, da una famiglia molto credente, e lo sono rimasto fino ad oggi, non avendo mai trovato motivi sufficienti per rimettere in discussione questa appartenenza e scardinare la mia fede in Cristo. Cos’altro dire che, senza rischiare di cadere in una forma di esibizionismo, esprima tuttavia il mio impegno costante all’interno della Chiesa da mezzo secolo (2) e precisi quindi il luogo da cui vi parlo? Perché è proprio da questo mio profondo attaccamento ecclesiale che vorrei esprimervi, per il passato recente, la mia delusione, e per il futuro, che è nelle vostre mani, la mia fiducia e la mia speranza. .

Ho amato e apprezzato lo spirito della “relazione intermedia”

Della relazione intermedia, tanto criticata, ho amato e apprezzato proprio quello spirito di libertà che portava la Chiesa a decentrarsi da se stessa come la invita a fare papa Francesco. Sicura della Buona Notizia di cui è portatrice, per la coppia e la famiglia, poteva offrirsi uno sguardo ottimista e generoso sul mondo. Il testo ci invitava a “percepire le forme positive della libertà individuale”, a “riaffermare il valore e la consistenza propria del matrimonio naturale” e “riconoscere elementi positivi nelle forme imperfette” del matrimonio civile, della coabitazione e del concubinaggio, tipi di unioni in cui si potevano “vedere valori familiari autentici” quando vi trovavano spazio: “la stabilità, l’affetto profondo, la responsabilità verso i figli, la capacità di resistere nelle prove” (2). Ho trovato bella, a proposito dei divorziati risposati, l’idea che un approfondimento teologico possa aiutarci a superare la solo apertura fatta a quelle coppie di una “comunione spirituale”; così come ho apprezzato il riconoscimento che “le persone omosessuali hanno dei doni e delle qualità da offrire alla comunità cristiana” e l’invito a “prendere atto che esistono (tra loro) casi di sostegno reciproco fino al sacrificio”… (3). Come giornalista, ne ero stato testimone, negli anni 80 in cui molti malati di aids, abbandonati dalla loro famiglia (magari anche cattolica), morivano nella solitudine, avendo, nel momento di rendere il loro ultimo respiro, il solo sguardo amante di quell’uomo o di quella donna che condivideva la loro vita.

. Quando guardo attorno a me…

Ed ecco che la sintesi finale, adottata dai partecipanti al Sinodo romano, che oggi serve da documento preparatorio al Sinodo ordinario dell’ottobre 2015, a cui siete chiamati a partecipare,rivedeva le espressioni coraggiose della relazione intermedia. Come se, al termine dei lavori: “i padri sinodali (volessero) invece trovare i mezzi per riproporre la bellezza del matrimonio cristiano piuttosto che insistere sugli aspetti positivi delle situazioni problematiche”(4). Al punto da tornare a concentrarsi sull’uno rinunciando all’altro.

Cari Padri, quando guardo attorno a me: i miei stessi figli e figlie, nipoti, figliocci e figliocce, tutti in età per vivere in coppia, osservo una bella diversità di matrimoni religiosi o civili, di pacs (ndr.: unioni civili) o di semplice convivenza. Tra di loro, ce n’è perfino uno che ha osato la scelta radicale di una vita monastica… ortodossa! Dei loro figli, alcuni sono battezzati, altri no, alcuni hanno ricevuto in municipio un battesimo repubblicano. Quando guardo nella mia famiglia e tra i miei amici, vi scopro vecchie coppie sposate, come noi, ma anche persone sole, o in seconda unione dopo un divorzio. E, tra i nostri parenti o conoscenti omosessuali: coppie libere da qualsiasi legame giuridico, altre con un pacs, altre recentemente sposate. È in mezzo a loro che vivo. Con felicità e riconoscenza. Alla domenica, a messa, li presento tutti indifferentemente nella mia preghiera. Vedo ciò che testimoniano: fedeltà nella loro coppia, affetto reciproco e sostegno, responsabilità verso i loro figli, capacità di resistere nelle prove della vita, apertura agli altri… insomma, quelle qualità percepite come costitutive del matrimonio cristiano da coloro che accettano che Dio abbia qualcosa a che vedere con il loro amore! Sanno che provo per loro: rispetto, stima e affetto. E vorrei tanto farli partecipi della mia Chiesa.

. Quelle “periferie” in cui sembra che si voglia dissuadervi dall’avventurarvi

Sicuramente sono accampati in quelle “periferie” che papa Francesco ci invita a visitare e in cui, improvvisamente, sembra che si voglia dissuadervi dall’avventurarvi. A meno che non ci sia qualche anima da riportare all’ovile. “Bisogna accogliere le persone con la loro esistenza concreta, sapersostenere la loro ricerca, incoraggiare i l loro desiderio di Dio e la loro volontà di fare pienamente parte della Chiesa”(5). “Tutte queste situazioni devono essere affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in occasioni di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo…”(6). Ma, vedete, cari Padri, coloro di cui vi parlo, non esprimono necessariamente, oggi, un desiderio di Dio che li porterebbe a voler fare pienamente parte della Chiesa. Vivono e sono felici di vivere, apparentemente senza Dio e senza Chiesa. Eppure, come laico credente, camminando accanto a loro da molto tempo, per alcuni da sempre, ho il desiderio di continuare ad incarnare presso di loro quell’“arte dell’accompagnamento” costitutiva del mio battesimo, che presuppone “di imparare sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro” (7), quale che sia la sua appartenenza e il suo progetto di vita.

. Quando la Chiesa si rifiuta di vedere Dio all’opera nel cuore degli uomini

Della situazione dei divorziati risposati, osservo che vi è ora proposto “un approfondimento ulteriore” (8) e della situazione delle persone omosessuali, la ricerca di un’attenzione pastorale che si riferisca all’insegnamento della Chiesa secondo il quale: “Non c’è nessun fondamento per assimilare o stabilire delle analogie, anche lontane, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio su matrimonio e famiglia”(9). Il che ci porta al paradosso che la Chiesa si rifiuta di vedere Dio all’opera nel cuore delle persone quando ciò non corrisponde al suo modo di intendere il piano di Dio, senza neanche chiedersi se tale modo di intendere continui ad essere pertinente!

Cari Padri, a pochi mesi dall’evento che segnerà sicuramente la vita della nostra Chiesa, sento quanto è grande la vostra responsabilità e non dubito neanche per un attimo della vostra determinazione a volerla assumere in fedeltà alla Parola di Dio. So quanti e quali cambiamenti di civiltà abbiano effetti sulle nostre società e le lacerazioni che nascono dai nostri desideri contraddittori di libertà individuale e di servizio del Bene comune. Comprendo la vostra preoccupazione di ricordare alle giovani generazioni quanto il cammino d’amore, di fedeltà e di fecondità che viene loro proposto risponda al più profondo delle loro attese e che Dio può aiutarli ad assumerlo attraverso le prove della vita. Aderisco allo sguardo pastorale a cui invitano i Lineamenta affinché, nelle nostre comunità cristiane, nessuno si senta escluso, emarginato, disprezzato a causa del suo fallimento, della sua sofferenza, della sua differenza e del suo semplice desiderio di ritrovare la felicità.

. Trasformeremo il mondo se non lo amiamo? Ma gli altri, cari Padri? Tutti quegli altri che, per ragioni che sfuggono sia a voi che a me, si trovano oggi indifferenti alla Chiesa e alla sua religione? Tutti quegli altri in mezzo ai quali viviamo nel quotidiano perché sono i nostri figli, amici, vicini… non avremmo null’altro da offrire loro se non un impossibile invito alla conversione? Trasformeremo il mondo se non lo amiamo già così com’è, se non gli diciamo che è amato da Dio, se non sappiamo già rallegrarci con lui di più umanità, di più solidarietà, se decidiamo di riservare il nostro sguardo e il nostro cuore solo alle persone suscettibili di giungere nel grembo della santa Chiesa cattolica, apostolica e romana? E saremmo allora ancora fedeli al Vangelo di Matteo 25, allo spirito delle Beatitudini? Cari Padri, non voglio abusare del vostro tempo che è prezioso. La XIV Assemblea generale ordinaria del sinodo a cui siete invitati a partecipare ha come oggetto: “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”. Osate discernere con noi, generosamente, in questo mondo contemporaneo tanto denigrato, la moltitudine e la diversità dei semi del Verbo, per farli crescere insieme, sapendo che spetta solo a Dio decidere le condizioni per entrare nel Regno. _______________

1. Un amico mi fa osservare che l’invito del cardinale è di rispondere ad alcune delle 46 domande formulate nei Lineamenta, non a “fare petizioni per far pressione” sul sinodo. È vero, ma non è questo il mio intento. 2. Ho presieduto, in gioventù, l’associazione degli studenti cattolici di Tolosa, prima di entrare come giornalista, dal 1974 al 2009, nel gruppo editoriale Bayard, anch’esso cattolico, di cui ho diretto per dieci anni la testata Pèlerin. Sono stato barelliere a Lourdes, catechista nella mia parrocchia, capo scout, responsabile dipartimentale poi membro dell’équipe nazionale degli Scout di Francia. Oggi membro del Consiglio delle Settimane sociali francesi, e della Conférence catholique des baptisés francophones (CCBF), sono oggi amministratore dell’Abbazia di Sylvanès (Aveyron), insieme origine della Liturgie chorale du peuple de Dieu, e centro del dialogo tra fede e cultura. Ho dedicato dei libri a tre preti, l’incontro con i quali ha profondamente segnato la mia vita: Mons. Jacques Delaporte, arcivescovo di Cambrai, il mio amico fratel André Gouzes op. e l’abbé Pierre. Mentre, ancora per due anni, partecipo alla missione del Segretariato generale del sinodo diocesano di Créteil, cerco di preservare un po’ di tempo per la scrittura di un blog dove mi presento come “giornalista, cittadino e ‘catho en liberté’”, blog essenzialmente dedicato alla vita della mia Chiesa e al suo dialogo con la società, e dove la presente lettera è inserita. 3. Relazione intermedia § 5, 18, 38 e 22 4. ibid.§ 48, 50 e 52 5.Imedia, ripreso il 16 ottobre sul sito di Famille Chrétienne 6. Lineamenta § 11 7. ibid § 43 8. ibid § 46 9. ibid domanda n° 38 10. ibid § 55

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il commento al vangelo della domenica

 LA LEBBRA SCOMPARVE DA LUI ED EGLI FU PURIFICATO

commento al vangelo della sesta domenica del tempo ordinario (15 febbraio 2015) di p. Alberto Maggi: 

maggi

Mc 1,40-45

In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

La buona notizia che Gesù comunica all’umanità è che Dio non emargina alcuna persona. E’ la religione che divide le persone tra puri e impuri, meritevoli e no, ma non Dio. Come dirà Pietro negli Atti degli Apostoli, “Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun individuo”. E’ questo il tema che ci presenta l’evangelista Marco nel capitolo primo con l’episodio del lebbroso. “Venne da lui un lebbroso”, il personaggio è anonimo. E quando nei vangeli un personaggi è anonimo significa che è un personaggio rappresentativo, cioè un individuo nel quale chiunque vive una situazione simile ci si può identificare. La lebbra a quel tempo era considerata un castigo da Dio per determinati peccati e non si guariva dalla lebbra. In tutto l’Antico Testamento si narrano soltanto due guarigioni dalla lebbra, una di Maria, la sorella di Mosè, ad opera di Dio stesso, e l’altra di Eliseo verso la mano di un pagano. Quindi soltanto due guarigioni. La lebbra è considerata un castigo di Dio per determinati peccati, per cui il lebbroso non destava compassione, doveva vivere lontano dai villaggi, emarginati. Era in pratica un cadavere vivente e soprattutto non può né avvicinare, né essere avvicinato. Ebbene qui il lebbroso invece trasgredisce la legge. Va verso Gesù e lo supplica in ginocchio. Lo supplica in ginocchio perché non sa quale potrà essere la reazione di Gesù. “gli diceva: «Se vuoi puoi purificarmi!»” Non chiede di essere guarito, perché si sapeva che dalla lebbra non si poteva guarire. Lui chiede di essere purificato. In tutto il brano mai apparirà il verbo “curare o guarire”, ma sempre per tre volte, il che indica la completezza, il verbo “purificare”, cioè lui vuole almeno il contatto con Dio. Ha perso tutto, la famiglia, gli affetti, gli amici, e ha perso anche Dio, si sente veramente un fallito, un abbandonato. Allora chiede almeno il contatto con Dio, perché la religione lo ha posto in una situazione disperata. E’ impuro, l’unico che può togliergli l’impurità è Dio, ma siccome lui è impuro, non può rivolgersi a Dio. Quindi la disperazione più totale. La reazione di Gesù verso quest’uomo peccatore – secondo la cultura dell’epoca che continua a peccare trasgredendo la legge – è di compassione. Il termine “compassione” indica un sentimento divino con il quale si restituisce vita a chi vita non ce l’ha. “Tese la mano”. Ecco qui crea un po’ allarme questa espressione perché l’evangelista la prende dal libro dell’Esodo, dall’elenco delle dieci piaghe, dove stendere la mano è sempre un’azione di Dio o di Mosè contro i nemici del suo popolo, per castigarli. Allora non sapendo come va a finire l’episodio il lettore, l’ascoltatore si chiede: Cosa fa, lo castiga? Perché è un peccatore che continua a trasgredire la legge. E poi lo tocca. Non era necessario toccare un ammalato, un lebbroso. Quante volte Gesù ha guarito soltanto con la potenza della sua parola. Qui perché lo tocca? Lo tocca perché era proibito. E cosa succede? “Gli disse: «Lo voglio»”. La volontà di Dio è l’eliminazione di ogni emarginazione attuata in nome suo, cancellando così definitivamente per sempre la categoria degli impuri. Non esistono persone impure per il Signore. “«Lo voglio, sii purificato!»”. E Gesù, toccandolo, trasgredisce anche lui la legge e da quel momento, ritualmente, giuridicamente, lui diventa impuro. “E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato”. Per la terza volta appare il verbo “purificare”. Che meriti aveva il lebbroso per essere purificato? Nessuno, anzi ha continuato a trasgredire la legge. L’evangelista sta presentando la novità di Gesù: che l’amore di Dio non è attratto dai meriti delle persone – questo lebbroso non ha alcun merito – ma dai loro bisogni. E soprattutto la grande novità: non è vero, come insegna la religione, che l’uomo deve purificarsi per avvicinarsi e accogliere il Signore, ma è vero il contrario, accogliere il Signore è ciò che purifica l’uomo. Questa è la buona notizia portata da Gesù. Ma qui sembra che Gesù improvvisamente cambi umore .”E”, non è “ammonendolo”, ma “rimproverandolo severamente, lo cacciò via”. Perché? Casomai Gesù lo avrebbe dovuto rimproverare prima, quando quest’uomo peccatore ha trasgredito la legge e gli si è avvicinato. Perché adesso lo rimprovera? E soprattutto da dov’è che lo caccia? Lo rimprovera per aver creduto che Dio lo avrebbe escluso dal suo amore. E lo caccia via dal luogo simbolico, dalla sinagoga, dall’istituzione religiosa, che invece insegnava quest’immagine terribile di un Dio che minacciava, castigava e allontanava le persone da lui. Ecco perché Gesù lo rimprovera. Come hai potuto credere che tu fossi abbandonato da Dio, lontano da Dio? E poi gli dice: “«Guarda di non dire niente a nessuno»”, perché prima deve prendere coscienza di quello che gli è accaduto, “«Va invece a mostrarti al sacerdote»”. Perché “«Mostrati al sacerdote E offri per la tua purificazione quello che Mosè»”, non Dio, “« ha prescritto»”? La lebbra è un termine generico col quale si indicavano altre malattie della pelle o del cuoio capelluto. E da queste si poteva guarire. Allora per poter rientrare nel villaggio, nella famiglia, occorreva farsi esaminare dai sacerdoti che certificavano che la persona era sana. E naturalmente questa visita non era gratuita, ma si dovevano pagare ben tre agnelli, o uno se la persona era povera. Cioè Gesù lo invita a paragonare due modi di Dio, il Dio dei sacerdoti, un Dio esoso, un Dio che abbandona, un Dio che emargina, e il Padre di Gesù il cui amore viene dato gratuitamente. E infatti Gesù dice “«come testimonianza»”, non “per loro”, ma il testo dice “«contro di loro»”. L’evangelista si rifà al libo del Deuteronomio, cap. 31, vers. 26, in cui Mosè dice: “«Prendete questo libro della legge, vi rimanga come testimone contro di te»”, come trasgressione della legge, della volontà di Dio. Ebbene il lebbroso ha capito e non va più dai sacerdoti. E infatti “Quello uscì”, abbandona quest’istituzione che lo aveva reso impuro, “e si mise a predicare”. L’evangelista adopera per quest’individuo lo stesso verbo adoperato per l’insegnamento di Gesù. “E a divulgare”, non “il fatto”, come è tradotto qui. E’ il termine greco “logos” che significa parola, il messaggio. Cioè quello che annunzia non è tanto il fatto che gli è accaduto, ma va ad annunziare la novità: Dio non emargina, Dio non esclude, Dio non lascia che le persone stiano lontane da lui, ma il suo amore è rivolto a tutti quanti. Questo è il messaggio che l’ex lebbroso va a testimoniare. “Tanto che”, e qui l’evangelista non pone il soggetto Gesù, perché identifica Gesù e il lebbroso come se fossero la stessa persona. Il messaggio che il lebbroso sta divulgando è che Dio non è come i sacerdoti gli hanno fatto credere. Non discrimina, non emargina gli uomini, ma a tutti offre il suo amore. “Tanto che non poteva più entrare pubblicamente in una città”. Naturalmente l’evangelista si riferisce a Gesù. Gesù, toccando il lebbroso, è diventato anche lui impuro e quindi non può entrare pubblicamente in una città, perché dovrebbe prima sottoporsi anche lui ai riti di purificazione. “Ma rimaneva fuori”, esattamente come un lebbroso, “in luoghi deserti”, i luoghi dove dovevano stare le persone impure. Ma, come venne, il lebbroso all’inizio di questo brano, ecco che “venivano a lui da ogni parte”. Tutte le persone che si sono sentite emarginate, tutte le persone che si sono sentite rifiutate, tutte le persone che si sono sentite disprezzate, ecco accorrono a Gesù. E’ un Dio che ha purificato la persona, l’ha resa pienamente in comunione con lui. E’ questa la buona notizia che la gente aspettava, specialmente i più lontani, i più abbandonati, i più emarginati e disprezzati dalla religione.

ne ebbe compassione e lo toccò

una riflessione in proposito da parte di p. Agostino Rota Martir :

p. agostino

 

Domenica scorsa, terminata la Messa, una signora mi chiede se posso confessarla. Accetto e ci accomodiamo su una panca della Chiesa, ormai deserta e silenziosa.  Confessa i suoi peccati, poi iniziamo a riflettere sul vangelo di questa domenica e da subito mi accorgo che alcuni passaggi della mia predica, l’avevano lasciata un pochino dubbiosa e perplessa.

La signora sa che vivo con i Rom: “ma come è possibile avere compassione dei rom, dei clandestini quando questi se ne approfittano, sfruttano i loro stessi bambini..rubano, fanno razzie nelle nostre case? Ormai ci dobbiamo difendere da costoro! Ma come farlo da cristiani?”  

Il vangelo di questa domenica è il racconto del lebbroso che incontra Gesù: “Se vuoi puoi purificarmi!”, è la sua sola richiesta. Non domanda per sè la guarigione dalla lebbra, cosa del tutto comprensibile, chiede di essere purificato, condizione essenziale per riprendere il rapporto con Dio, interrotto a causa del contagio della lebbra, anzi castigato da Dio stesso. Era un impuro, e proprio per questo “messo fuori” dalla città, al margine, uno scarto della stessa società, condannato a gridare questa sua condizione lungo la strada, a non toccare anima viva e pura. Regole imposte dai puri, dai sani per difendersi e tutelarsi. Ieri come oggi. Quante regole, quante ordinanze emanate per salvaguardare i buoni e distinguersi dai cattivi e creano altre esclusioni, le fomentano, invece di combatterle.

I migranti oggi sono visti spesso come portatori di malattie, raccolti in veri centri di detenzione, quante le associazioni incaricate a controllare gli “scarti”, anche per tenerli a debita distanza di sicurezza..sì, è vero toccano le loro vite, ma senza compassione.

Quanti accampamenti di Rom fuori le nostre città, visti con diffidenza e sospetto e esclusi da ogni possibile compassione, anzi, guai a mostrare compassione verso di loro.  Mentre Dio non scarta proprio nessuno, neanche il lebbroso che in nome di una obbedienza “sacra”, scandalosamente è messo fuori dalla comunità dai sacerdoti stessi: in nome di una falsa fedeltà a Dio.

Ne ebbe compassione, tese la mano e lo toccò..”

È questa la Buona Notizia che Gesù racconta e rivela..grazie anche alla disobbedienza di questo lebbroso che contagia lo stesso Gesù a fare un’altro gesto, decisamente disobbediente: muoversi a compassione e toccarlo con la mano, gesto proibito e scandaloso. A volte Dio può rivelare la sua Volontà più attraverso un gesto di trasgressione, che ad una fedeltà fredda, meschina e distante. Un’obbedienza priva di compassione non apre cammini nuovi, a differenza della compassione (patire-con) che arriva a superare barriere e steccati di ogni genere. Sappiamo essere “compassionevoli disobbedienti”?  Mi affascina questo Dio capace di trasgressioni feconde..si ripete spesso quando ci confessiamo: Dio ha compassione di ognuno di noi, non si schifa delle nostre lebbre, ma continua a stendere la sua mano e ci tocca..è un Dio che per amore trasgredisce la legge dei “buoni e puri”, ancora oggi pronti a rinchiudere il suo Vangelo negli steccati del buon senso e della sicurezza. Costoro sarebbero capaci anche di emanare ordinanze per obbligare Dio a non mischiarsi troppo e a tenere le dovute distanze con chi disturba la tranquillità, non si integra a modino alle regole..

”Tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti..”  Pericolo, non toccare! 

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il mini sinodo di Bolzano

Bolzano, mini Sinodo dice sì a preti sposati e donne sacerdote


 

bolzno

 
abolizione del celibato per i sacerdoti, sì alle donne prete e alla comunione ai divorziati. I tabù saltano nella diocesi di Bolzano-Bressanone, che ha indetto un mini sinodo, voluto dal vescovo Ivo Muser, in cui i fedeli sono stati coinvolti e hanno potuto esprimere la loro opinione

Paolo Rodari su Repubblica spiega che il mini sinodo presenterà i suoi risultati alla Chiesa nazionale, risultati che parlano di apertura alla modernità e alla società di oggi:

“Il punto che afferma che «il sacramento dell’eucaristia è aperto a tutti i battezzati» ha raccolto il 67 per cento dei consensi (26% i contrari, 7% gli astenuti). Mentre il 79 per cento dei presenti ha votato a favore della somministrazione del sacramento dell’unzione «indipendentemente dal sacramento della riconciliazione».

Uomini e donne «che accompagnano malati possono somministrare l’unzione degli infermi su incarico» (contrari il 18% dei presenti e 3% gli astenuti). Per la comunione ai divorziati risposati, dopo un processo di maturazione in cui la persona impara dai suoi fallimenti, ammette le proprie responsabilità e s’impegna per una conclusione riconciliata del rapporto fallito, «si è detto favorevole l’85 per cento dei presenti (contrari l’11%, astenuti 4%).

Di fronte alla visione in cui si prevede che l’ordine è aperto a tutti i battezzati e cresimati, donne e uomini, si è espresso a favore il 62 per cento dei presenti (contrario il 33%, astenuto 5%). Non solo: è desiderio del 62 per cento dei sinodali altoatesini che l’ordine non sia legato a una forma di vita vincolante, ossia che i sacerdoti non siano vincolati al celibato ma che possano scegliere se sposarsi o meno (contrario si è detto il 33% e si è astenuto il 4%). A favore del diaconato femminile si è espresso il 79 per cento dei presenti, contrario il 14%, astenuto il 7%”.

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l’anatema contro i giornali di alcuni giovani sinti e rom

 

 “chiediamo verità, chiediamo dignità”

 giovani rom e sinti italiani scrivono ai mass media: “Il vostro modo di informare ci fa paura”

di Giovanni Maria Bellu

L’innesco sono stati i servizi giornalistici e i talk show dei giorni caldi dei fatti di Tor Sapienza, a Roma, e dell’inchiesta “Mafia capitale”. A margine delle notizie sul colossale giro d’affari illeciti cresciuto attorno alle cooperative sociali, spesso si parlava di rom. Capitava di sentire frasi come “loro non sono come noi”. Ci fu una consigliera comunale di Motta Visconti, un centro dell’hinterland milanese, che sulla sua pagina Facebook auspicò il ripristino dei forni crematori “per gli zingari”. E trovò qualcuno disposta a starla a sentire.
Tutte le sere di quei giorni Fiorello Miguel Lebbiati, 33 anni, lucchese di famiglia rom e sinta, operatore della Caritas, era come sempre nella sua casa, davanti al televisore, con la figlia, una bambina di 10 anni. “Sentivo queste cose pesanti e mi domandavo che effetto potevano produrre sugli ascoltatori visto che io stesso, davanti a quel martellamento mediatico, avevo difficoltà a trovare le parole giuste per spiegare a mia figlia che era fondato sui pregiudizi e sull’ignoranza. Per molte persone quello che dicono i mass media è comunque vero e, se anche hanno qualche dubbio, a forza di sentirsi ripetere le stesse cose alla fine ci credono”.
Fiorello
E’ stato così che Lebbiati – dopo aver più di una volta cambiato canale per proteggere la figlia da quel mucchio di fango – ha deciso di reagire. Ha preso contatto con altri giovani rom e sinti che tempo prima avevano seguito con lui un corso sui diritti umani e poi ha preso in mano la penna per scrivere una lettera aperta agli operatori dell’informazione. Una lettera nella quale ricorre la parola “paura”. L’hanno firmata tutti. E val la pena di leggere la lista dei loro nomi con accanto l’indicazione della nazionalità: Joselito Lebbiati, rom, sinto, 32 anni, S. Alessio (Lucca), italiano; Damiano Cavazza, sinto, 32 anni, Nave (Lucca), italiano; Gladiola Lacatus Lacramioara, rom, 21 anni, Roma, romena; Husovic Nedzad, rom, 24 anni, Roma, nato in Italia ma senza cittadinanza; Serena Raggi, sinta, 26 anni, Bologna, italiana; Dolores Barbetta, rom, 29 anni, Melfi, italiana; Ivana Nikolic, rom, 23 anni, Torino, serba e croata; Sead Dobreva, rom, 32 anni, Rovigo, serbo; Sabrina Milanovic, rom, 25 anni, San Nicolo D’Arcidano (Oristano); Pamela Salkanovic, rom, 17 anni, nata a Roma, ma senza cittadinanza.
A leggere la lista con attenzione, si ricava una prima informazione importante quanto poco conosciuta: è tecnicamente sbagliato associare questo argomento a quello dell’immigrazione irregolare perché circa la metà dei 170mila rom e sinti presenti in Italia sono cittadini italiani. Anche da molte generazioni. Al punto tale che vivono con fastidio gli stessi richiami alla “integrazione”. Esattamente come lo vivrebbe negli Stati Uniti il nipote di un italiano sbarcato a Ellis Island ai primi del Novecento. Altri sono giunti in epoca più recente, in particolare dopo la crisi della ex Jugoslavia, ed ecco le nazionalità presenti nella lista e i casi (analoghi a quelli di tutti i figli di stranieri) di giovani rom nati in Italia ma ancora privi della cittadinanza.
“Siamo un gruppo di ragazze e ragazzi, rom e sinti – così comincia la lettera aperta -. Alcuni di noi sono italiani, altri provengono da vari paesi europei, altri ancora sono nati in Italia, ma di fatto sono sempre stranieri grazie all’accoglienza burocratica del nostro paese. Tutti noi crediamo nell’onestà, nella giustizia, nei diritti e nei doveri di ogni essere umano; noi ci stiamo impegnando e formando come attivisti per dare voce al nostro popolo, fin ora rimasto legato e imbavagliato. Vogliamo esprimervi una sensazione che stiamo vivendo in questo periodo, la sensazione si chiama PAURA. Sì paura, perché sono giorni, forse oramai mesi, che tv e giornali ci bombardano con messaggi che sostanzialmente dicono: i rom e i sinti rubano, sono TUTTI delinquenti, vogliono vivere ai margini della società in baracche fatiscenti, non vogliono lavorare e nessuno di loro vuole studiare ecc”.
La “paura” è che l’opinione pubblica cominci a credere a queste semplificazioni. E che cresca ulteriormente, diventando maggioritario, l’odio verso gli “zingari”. “Il nostro pensiero – si legge ancora nella lettera – va a tutti quei bambini che direttamente o indirettamente assimilano concetti senza alcun filtro, tramite i vari talk show, programmi d’intrattenimento e tg, che quotidianamente accompagnano alcuni momenti della giornata dei nostri figli”.
Da operatore nel sociale, Lebbiati vive con particolare amarezza il fatto che, quando si parla di rom, alcune coordinate interpretative fondamentali, ormai comunemente riconosciute, vengono messe da parte. Per esempio quella che individua un collegamento stretto tra le condizioni in cui una comunità vive e la frequenza di alcuni tipi di reato. Si tratta, d’altra parte, della stessa rimozione che in anni nemmeno tanto lontani portava a individuare come “tendenti al crimine” gli immigrati meridionali confinati nei quartieri ghetto. E che induceva a ridurre, quando andava bene, a puro folklore tradizioni culturali di secoli.
“Sono cittadino italiano da generazioni – spiega – e sono anche orgoglioso e fiero della storia del mio popolo. Sono orgoglioso della nostra lingua che ha in sé radici di sanscrito e di aramaico, che sono tra le lingue più antiche del mondo. Il mio popolo non è quello che viene raccontato. Certo, c’è chi ruba, chi chiede l’elemosina. Ma alla base di questo ci sono delle ragioni che conducono a un meccanismo malato. Mio nonno era un bravissimo artigiano, sapeva lavorare l’oro, sbalzare il rame, realizzava lavori di pregio. E i rom e i sinti avevano i loro mestieri. Se molti di loro si trovano nelle condizioni attuali è perché sono stati privati di tutto”.
“La nostra paura – si legge ancora nella lettera – è che da un semplice pregiudizio cresca nel cuore della gente l’ODIO. Questo è un fatto grave, che non deve succedere, sarebbe da irresponsabili non fermarlo. Quindi chiediamo a tutti i professionisti della comunicazione, di non macchiarsi di questa grave colpa, di non essere complici e artefici dell’istigazione all’ODIO, della PAURA e della distanza tra la gente. Chiediamo di non essere usati dai vari politici nelle loro finte campagne elettorali, ma chiediamo a loro di agire insieme a “noi” rom e sinti per politiche di vera inclusione sociale. (…) Chiediamo di non essere usati dai vari giornalisti di turno scatenatori di ODIO e PAURA, per fare audience o vendere qualche copia in più”.
L’appello sarà ascoltato? Difficile che abbia effetti immediati. Di certo segna una svolta importante: il tentativo dei diretti interessati di parlare in modo diretto, senza filtri né mediatori, della loro condizione e anche della loro rabbia: “Chiediamo verità, chiediamo dignità”, dicono alla fine della loro lettera i giovani rom e sinti. La parola ora torna, come sempre, agli operatori dell’informazione.
 
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è solo tattica pastorale quella di papa Francesco o dietro c’è un pensiero teologico?

 

La Teologia di Francesco

di José María Castillo
in “www.religiondigital.com” del 3 febbraio 2015

 

Castillo

 

 

Come è ben noto, non tutti i cattolici sono in accordo con il papa Francesco. E si sa anche che tra coloro che si oppongono a questo papa sono molti quelli che, in un modo o nell’altro, si lamentano del fatto che l’attuale Sommo Pontefice della Chiesa cattolica non è un papa “teologo”, ma un papa “pastore”. Cioè, secondo il parere di coloro che fanno queste serie obiezioni a papa Francesco, in questo momento la Chiesa si vede governata non dalla teologia, ma dalla pastorale. Ma dove va una Chiesa senza teologia? In questo consiste una delle accuse più forti che non pochi oppositori di questo papa fanno e ci pongono. Che dire su questo problema fondamentale? Il professore Gerhard Ludwig Müller, che ha scritto il suo enorme trattato di Dogmatica nell’università di Monaco ed attualmente è il cardinale prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, afferma che “la teologia è sempre l’illuminazione scientifica della confessione e della prassi di fede che Dio è presente nella creazione e si autocomunica nella sua parola, nella storia e nella persona di Gesù Cristo” (2ª ed., Barcelona, Herder, 2009, p. 20 [trad. it., Dogmatica cattolica. Per lo studio e la prassi della teologia, San Paolo Edizioni, Alba, 1999]). È evidente che nè la persona nè la parola di papa Francesco si accordano a questa definizione di teologia presentata dalla Dogmatica del cardinale Müller. Se un bel giorno la gente ascoltasse Francesco parlare in questo modo, sicuramente saremmo in molti a chiederci: “Che gli succede?”. È evidente che, dal punto di vista della “dogmatica” di Müller (e di quello che questa “dogmatica” rappresenta), Francesco non è un papa teologo. Ma questo vuol dire che Francesco è un papa senza teologia? La domanda che ho appena posto si potrebbe formulare in altro modo chiedendosi: Gesù è stato – per quello che riferiscono su di lui i vangeli – un profeta senza teologia? Sembra che la cosa più ragionevole sia rispondere che la saggia ed ampia definizione del cardinale Müller si realizza nel Gesú terreno che troviamo nella teologia narrativa dei vangeli. Questo ci porta direttamente ad una conclusione: esiste una teologia speculativa, che ci propone idee, teorie, concetti. Come esiste una teologia narrativa, che presenta una maniera di vivere. Entrambe le teologie si trovano già nel Nuovo Testamento. Quella speculativa nell’apostolo Paolo; quella narrativa nei vangeli. Certo, è importante conoscere, accettare ed avere le idee molto chiare sulle verità teologiche che sono a fondamento della religione di redenzione presentataci da Paolo. Ma è certo che ci serviranno a poco i profondi “insegnamenti teologici” di Paolo, se non facciamo nostro “il modo di vivere” che ci presenta il Vangelo, la maniera di vivere di Gesù che troviamo in ogni racconto dei vangeli. È evidente che papa Francesco, nei suoi insegnamenti e nel suo stile di esercitare il papato, sembra – a prima vista – più un papa pastore che un papa teologo. Ma non è meno certo che lo stile segnatamente pastorale di papa Francesco, senza mettere in discussione la dogmatica della Chiesa, sta evidenziando, con la sua vita e la sua parola, la necessità e l’urgenza che incombe su tutti noi, di assumere e mettere in primo piano nella vita della Chiesa quella che è stata la maniera di vivere che ci presenta ogni pagina del Vangelo. Quello che in definitiva è, nè più nè meno, rendere visibile e tangibile la maniera di vivere di Gesù. Non è questa la “teologia implicita” che non può mai mancare nelle nostre vite? In questo, io credo, consiste l’apporto geniale che papa Francesco sta dando alla Chiesa ed al mondo. ____________________________________________
articolo pubblicato nel Blog dell’Autore in Religión Digital (www.religiondigital.com ) il 3.2.2015 Traduzione a cura di Lorenzo TOMMASELLI

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gli ostacoli vaticani alla beatificazione di Romero

perché non tutti in Vaticano volevano Oscar Romero beato

Matteo Matzuzzi

Perché non tutti in Vaticano volevano Oscar Romero beato

la causa di beatificazione di Oscar Romero giaceva in Vaticano da quasi vent’anni, rimpallato tra le congregazioni per la Dottrina della fede e quella per le Cause dei Santi. Ora il Papa ha impresso un’accelerazione e ieri – come da tempo era nell’aria – ha autorizzato il dicastero guidato dal cardinale Angelo Amato a promulgare il decreto riguardante il martirio dell’arcivescovo di San Salvador, assassinato nel marzo del 1980 mentre celebrava la messa.

“PARERI UNANIMI DEI TEOLOGI E DEI CARDINALI”

Il postulatore della causa, mons. Vincenzo Paglia, si è detto “commosso” in una breve intervista concessa a Radio Vaticana: “Dopo tanti anni, finalmente, giunge la conclusione di questo lungo processo, di questa lunga causa, e la gioia è doppia. Non solo perché i pareri sono stati unanimi, sia da parte dei teologi che dei cardinali, ma anche perché c’è un quid provvidenziale nel fatto che Romero venga dichiarato Beato dal primo Papa sudamericano della storia”. Stamattina, prendendo la parola nella Sala stampa della Santa Sede, Paglia ha detto che “la gratitudine va anche a Benedetto XVI che ha seguito la causa fin dall’inizio e che il 20 dicembre del 2012 – poco più di un mese dalla sua rinuncia – ne ha deciso lo sblocco perché proseguisse il suo itinerario ordinario”.

GLI OSTACOLI NELLA CURIA ROMANA

Ricorda Gianni Valente su Vatican Insider che il gesto di Francesco “fa contrasto con le lentezze, i sabotaggi e i mezzi insabbiamenti che hanno accompagnato la causa di beatificazione di colui che da tempo i cattolici latinoamericani invocano come ‘San Romero de America’”. Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, osserva Valente, “a Roma operava una influente fazione di alti prelati che ispiravano sotterranee resistenze alla canonizzazione di Romero. Un episodio rivelatore – aggiunge – capitò al cardinale Francesco Saverio Nguyen Van Thuan: proprio nel 2000, predicando gli esercizi spirituali al Papa e alla Curia romana”, “aveva ricordato anche Romero tra i grandi testimoni della fede del nostro tempo. E per questo, alla fine della meditazione era stato aspramente rimproverato da alcuni porporati latinoamericani, che lo accusavano di aver esaltato davanti al Papa una figura che ai loro occhi appariva come controversa e ‘sovversiva’.  Quando, qualche mese dopo, venne pubblicato il libro di quelle meditazioni quaresimali, il nome di monsignor Romero non compariva, neanche in citazioni fugaci, in nessun capitolo”.

IL RUOLO FONDAMENTALE DEL GESUITA RUTILIO GRANDE

“La vita di Romero fu complessa, dividendosi in due parti. Prima, quella di sacerdote e vescovo poco incline alle lotte verso il suo popolo. Poi, quella da lui stesso definita una conversione, con la nomina a primate della Chiesa cattolica del Salvador, e con l’uccisione del gesuita Rutilio Grande ad opera di sicari per il suo impegno verso gli ultimi. Fu la veglia a al confratello sacerdote, nel marzo del 1977, a cambiargli la vita”, scrive su Repubblica Marco Ansaldo.

“NON ERA MARXISTA, MA VICINO A PAOLO VI”

Monsignor Paglia aveva chiarito ad Avvenire come il pensiero teologico di Romero fosse “uguale a quello di Paolo VI definito nell’esortazione Evangelii Nuntiandi, come rispose egli stesso nel 1978 a chi gli chiedeva se appoggiasse la Teologia della liberazione. E che, in sostanza, in un contesto storico caratterizzato da estrema polarizzazione e da cruenta lotta politica, si scambiò per connivenza con l’ideologia marxista la difesa concreta dei poveri, che Romero sosteneva non per vicinanza alle idee socialiste ma per fedeltà alla Tradizione”.

I RAPPORTI NON IDILLIACI CON GIOVANNI PAOLO II

Andrea Riccardi, sul Corriere della Sera, fa luce sui rapporti che intercorrevano tra il vescovo salvadoregno e Giovanni Paolo II: “Nel 1983 il Papa volle andare sulla sua tomba e disse ‘Romero è nostro’. I rapporti tra i due non erano stati idilliaci: Wojtyla, però, s’inchinò di fronte al martire. Romero, definito ‘indimenticabile’ dal Papa, fu inserito da lui tra i caduti del Novecento, dopo esserne stato escluso”. A giudizio dello storico italiano, “Romero non era un teologo della liberazione”. Lui, aggiunge Riccardi, “non accettava che i salvadoregni fossero massacrati nella sanguinosa polarizzazione tra guerriglia e destra, e che fossero condannati alla miseria da un’oligarchia retriva”.

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la crisi fa crescere il razzismo

 

 

razzismo

“la crisi fa aumentare la xenofobia”

rom, ebrei e migranti i più discriminati

 

il “Terzo Libro bianco sul razzismo in Italia”, che l’associazione Lunaria ha presentato a Milano, mette in luce l’aumento degli atti discriminatori in Italia. Tra le violenze: aggressioni verbali e fisiche, ma anche danneggiamenti a luoghi simbolici o di proprietà di migranti

di Elisa Murgese 

7 febbraio 2015

 

Gli italiani sono sempre più tolleranti di fronte alle discriminazioni razziali. Gli atti di razzismo (verbali e fisici) sono passati da 156 nel 2011 a 998 nel 2014. Tra le motivazioni, la crisi economica che “rende agli italiani insostenibile supportare politiche che favoriscano gli immigrati”. A dirlo è il “Terzo Libro bianco sul razzismo in Italia”, rapporto che l’associazione Lunaria ha presentato a Milano giovedì 5 febbraio. A distanza di quasi tre anni dal Secondo Libro bianco, l’ong ripercorre “le cronache di ordinario razzismo” – come sono definite dal titolo – che attraversano la vita pubblica e sociale nel nostro paese, “questa volta, allungando lo sguardo verso l’Europa – si legge sul report – di cui le elezioni svolte nel maggio scorso hanno svelato le pulsioni nazionaliste, xenofobe e populiste”. Evento trainante, secondo la presidente di Lunaria Grazia Naletto, è stata proprio la crisi economica che “ha permesso di legare, tanto in Italia quando in Europa, al tema dell’euroscetticismo quello della xenofobia. Un meccanismo – racconta Naletto a ilfattoquottidiano.it – che in Italia ha determinato un aumento di consenso per Lega Nord”.

 Tra il 1 settembre 2011 e il 31 luglio 2014 sono stati registrati 2.566 casi discriminatori, documentati in un database online “creato dalle segnalazioni che riceviamo dalla nostra rete di associazioni, ma anche monitorando quotidianamente giornali e siti d’informazione, nonché tenendo d’occhio i social network – precisa la presidente dell’associazione – che oggi sono l’arma più usata per veicolare messaggi razziali”. Tra le violenze: aggressioni verbali (2110 in quattro anni) e fisiche (195), ma anche 242 episodi di discriminazione e 19 danneggiamenti a luoghi simbolici o di proprietà di migranti, cittadini stranieri stabilmente residenti e profughi. Tra i gruppi bersaglio delle violenze in prima linea i rom (con un forte aumento degli episodi di razzismo, da 11 casi nel 2011 a 171 nel 2014). Seguono le persone di fede ebraica. E mentre nel 2013 gli episodi a danno degli ebrei costituivano un numero maggiore rispetto a quelli contro i musulmani (rispettivamente 64 e 40 casi), nel 2014 si è avuta un’inversione di tendenza, con 78 casi a danno di membri della comunità musulmana rispetto ai 34 subiti dalla realtà ebraica.

Sono i politici i responsabili di più del 30% delle discriminazioni, ed è Lega Nord a guadagnarsi la maglia nera in tutti e quattro gli anni del rapporto (dai 23 episodi nel 2011, fino ad arrivare ai 200 nel 2013 e 396 nel 2014), seguita da Pdl (83 casi dal 2011 al 2014) e Pd (17 in totale). “In un periodo di crisi alcuni messaggi di certi politici hanno una chiara presa sull’opinione pubblica”, racconta Naletto, sottolineando come “la retorica della Lega, ad esempio, con gli anni sia passata dall’offesa rozza ad un lavoro più sofisticato che cerca di legittimarsi utilizzando i dati. Se non fosse che i dati spesso sono manipolati”.

Per quanto riguarda le tifoserie, nell’8% dei casi i responsabili sono proprio personaggi dello sport e tifosi, che comunque “fanno meno danni” dei giornalisti cui dal 2011 al 2014 sono attribuiti 399 episodi discriminatori. Tra i moventi delle violenze, al primo posto le origini nazionali o etniche della vittima: 801 casi nel 2014, in netto aumento rispetto ai 92 episodi del 2011. Al secondo posto l’appartenenza religiosa, 117 casi nel 2014 mentre quattro anni prima gli episodi registrati sono stati 19.

Episodi di razzismo che secondo Lunaria non accennano a diminuire. “Si corre il rischio che ci sia un processo di legittimazione del razzismo sempre più forte”, racconta la presidente dell’ong. Tra le cause, la rappresentazione mediatica dei migranti. “I media in molti casi si limitano a riprodurre le dichiarazioni dei politici – è precisato nella seconda parte del report – Gli immigrati appaiono sui media soprattutto in articoli di cronaca (in particolare nera) e di politica interna. In quest’ultimo caso sono oggetto del dibattito, quasi sempre senza voce, mentre nella cronaca diventano soggetti attivi, in chiave prevalentemente negativa”. Quotidiani che riportano la nazionalità di chi compie reati come prassi ordinaria per rimodulare la notizia in maniera “sensazionalistica e voyeuristica”, secondo l’ong in linea con le logiche di mercato: “La cronaca vende di più”.

 

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la fede che talvolta si deve fare ‘politica’

la fede ha poco a che fare con le sagrestie soprattutto quando fuori vampa l’incendio
il giudizio di oggi sul martirio e la santificazione di O. Romero equivale alla dichiarazione che è talvolta necessario che la fede sia politica… È anche un’implicita critica di quei capi della Chiesa in America Latina e altrove che permisero a dei poteri corrotti e crudeli di continuare ad imporsi senza alcuna opposizione… la lotta per i diritti umani, per la libertà e per la dignità è parte della liberazione dal peccato promessa da Cristo

 

Romero,il martire che morì per i poveri

editoriale The Tablet
in “www.thetablet.co.uk” del 5 febbraio 2015

Romero

Stare dalla parte dei poveri anche a rischio della propria vita è parte essenziale della fede cattolica? L’arcivescovo Romero lo pensava. Fu ucciso da uno squadrone della morte del governo mentre celebrava la messa a San Salvador nel 1980. Papa Francesco evidentemente è dello stesso avviso. Ha confermato l’opinione dei cardinali della Congregazione per le Cause dei Santi, che ratifica le conclusioni di un comitato di teologi, secondo cui l’arcivescovo deve essere considerato un martire cattolico. Il movente della sua morte fu “odio alla fede” – per le sue instancabili proteste, in nome di Cristo, contro l’oppressione dei poveri. Questo significa che Romero sarà subito beatificato, che è un passo verso la santificazione.
È l’inizio della fine di un lungo e tortuoso processo, che ha incontrato continue resistenze. Le motivazioni di quelle resistenze spiegano il significato importantissimo del giudizio di oggi, in quanto i suoi oppositori lo accusavano di politicizzazione della fede. Etichettavano il suo interessamento per i poveri come marxismo. Il giudizio di oggi equivale alla dichiarazione che è talvolta necessario che la fede sia politica – quando un vero uomo o donna di fede non ha altra scelta. È anche un’implicita critica di quei capi della Chiesa in America Latina e altrove che permisero a dei poteri corrotti e crudeli di continuare ad imporsi senza alcuna opposizione. Alcuni furono anche collaboratori di regimi militari violenti per difendere privilegi delle élite agiate, e spesso gli interessi degli affari nordamericani.
Le generazioni precedenti di vecchi ledader della Chiesa sudamericana erano tristemente noti per essersi posti dalla parte degli oppressori piuttosto che degli oppressi. Dopo il Concilio Vaticano II, le cose cominciarono a cambiare, ma anche a provocare reazioni. L’arcivescovo Romero fu nominato quando si tentava all’interno della Chiesa cattolica di tenere a freno uomini coraggiosi come i cardinali Evaristo Arns e Aloisio Lorscheider, l’arcivescovo Helder Camara ed altri. Molti di loro furono sostituiti da quelli che il Vaticano considerava uomini più sicuri – il che significava meno politicizzati. Fu in questo contesto che la diffusione della teologia della liberazione fu criticata e alcuni dei suoi difensori furono obbligati al silenzio.
L’arcivescovo Romero aveva una certa simpatia per la teologia della liberazione, una teologia che sostiene che non c’è un luogo neutrale, né al di fuori né al di sopra della politica e della storia, dove la Chiesa possa mettersi stando da parte. O si è con i poveri o si è contro di loro. La proclamazione del suo martirio è la conferma che questo modo di vedere è stato alla fine considerato corretto. È risaputo che perfino il cardinale Gerhard Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha un atteggiamento positivo nei confronti della teologia della liberazione.
Come diceva l’arcivescovo Romero, la lotta per i diritti umani, per la libertà e per la dignità è parte della liberazione dal peccato promessa da Cristo. “La Chiesa sa che salva il mondo quando si impegna a parlare anche di tali cose”. Quindi, un arcivescovo a cui hanno sparato per impedirgli di continuare a parlare di tali cose è stato ucciso per la fede. Milioni di cattolici latinoamericani si rallegreranno del fatto che un papa latinoamericano abbia confermato ciò che loro già credevano: che Oscar Romero è con i santi in paradiso, alla presenza di Dio.

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