il prete che fa a gara con gli islamisti incendiari

 

 

 


il prete chok: “arrivano i rom, avete un fiammifero?”

Il sacerdote prova a giustificarsi: “Ho scritto quel post per invitare i fedeli a non aggiungere benzina sul fuoco. E in chiesa mancano fiammiferi”
una frase choc, che ha lasciato di sasso tutti i fedeli. A un post su Facebook in cui si annunciava la presenza di “due o tre famiglie di rom“, un sacerdote della parrocchia di San Francesco in Tirrenia, in Toscana, ha risposto con un un incauto “avete un fiammifero?”.

Una frase a cui un altro utente ha risposto “Per la benzina offro io”. Nonostante sul social network non siano mancati commenti anche violenti nei confronti dei nomadi, la comunità parocchiale ha preso le distanze dal religioso. Il commento incriminato, racconta La Nazione, è stato segnalato alla polizia municipale, che ha contattato il sacerdote.

E proprio al quotidiano fiorentino il prete ha spiegato le ragioni di quel commento, che ha peraltro cancellato e modificato in poche ore: “Ho scritto quel post perché nella nostra chiesa mancano i fiammiferi nei candelieri e anche per invitare a stare attenti i miei parrocchiani a non aggiungere benzina sul fuoco – diceva ieri il sacerdote che otto anni fa è arrivato dalla Romania e conosce molto bene le difficilisituazioni legate alla convivenza con gli zingari –. I nostri frati, nel mio Paese, lavorano nei centri di accoglienza e accanto agli zingari. Non ho scritto niente di male, né di razzista. Ognuno capisce quello che vuole e può fraintendere. Nella mia coscienza non ho niente contro alcuno. Ho solo voluto dare un messaggio.”

Nel frattempo in paese monta la polemica per le segnalazioni della presenza dei nomadi nell’area abbandonata di Ciclilandia. Dopo il ritrovamento di alcuni buchi nella rete del parco, la polizia municipale di Tirrenia ha portato a termine un sopralluogo, dal quale non è emersa però alcuna presenza anomala.

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a proposito di evoluzionismo e fede in Dio creatore

LA CREAZIONE NON È FINITA

DIALOGO TRA SCIENZA E FEDE

una bella analisi di C. Molari:

molari

 

 

 

 

di Carlo Molari

Evoluzionismo e fede in Dio creatore 
Proprio per queste discussioni è importante precisare i concetti relativi all’azione creatrice di Dio e mostrare che l’evoluzione corrisponde alla condizione delle creature non ancora compiute. La creazione infatti è ancora in corso. Per chiarire il problema, occorre evitare diverse ambiguità.
a) La prima confusione riguarda i termini. S’identifica spesso creazionismo con la dottrina della fede in Dio creatore. Occorre inoltre distinguere bene tra la convinzione che il mondo sia creato da Dio e l’interpretazione letterale del racconto del libro della Genesi, oggi esclusiva dei fondamentalisti tra cui i creazionisti. Costoro ripudiano ogni evoluzione e interpretano i racconti della Genesi senza tenere in alcun conto le attuali acquisizioni delle scienze bibliche. Il loro principale errore riguarda l’uso delle Scritture. Essi pensano che il libro della Genesi contenga notizie comunicate miracolosamente da Dio agli uomini circa l’origine del mondo e la storia degli uomini. I racconti della creazione che si trovano nella Genesi, invece, non intendono descrivere le modalità dell’origine dell’universo né le tappe della sua evoluzione. Essi vogliono piuttosto trasmettere un messaggio religioso, cioè spiegare il senso della condizione creata. Che questa fosse l’intenzione dei redattori appare con chiarezza dal fatto che nello stesso libro sono posti, uno di seguito all’altro, due racconti completamente diversi. Nel cap. 1 è descritta la creazione come realizzata da una Parola divina, pronunciata in sette giorni e l’uomo, maschio e femmina, è presentato come ultima creatura. Nel cap. 2, invece, più antico, l’uomo è creato dal fango all’inizio di tutte le cose e solo alla fine di tutto il processo gli viene data come compagna la donna. Nessuno dei due racconti intende descrivere come di fatto sia avvenuta l’origine delle cose che i redattori non conoscevano.
La fede in Dio creatore non nasce dalle acquisizioni della scienza, ma si sviluppa dall’esperienza della ricchezza di vita che fiorisce nella creatura quando essa si affida senza riserve a quella forza più grande che sostiene il processo della storia e che si esprime come Amore. La stragrande maggioranza dei cristiani, perciò, pur professando la fede nella creazione divina, non ha difficoltà alcuna ad accettare i dati relativi all’età del nostro universo, all’evoluzione della vita sulla terra e alle leggi che la regolano secondo le convinzioni diffuse tra gli scienziati del nostro tempo. Occorre quindi distinguere chiaramente tra la fede in Dio creatore e il creazionismo.

b) La seconda ambiguità riguarda il concetto di azione divina e creazione. Per chiarire questo punto, mi richiamo alle riflessioni di Teilhard de Chardin che ha esercitato un influsso notevole nella teologia recente.
Teilhard parte dalla constatazione che la concezione scolastica dell’azione divina «si scontra con molte inverosimiglianze storiche e con antipatie intellettuali». Per questo, accanto alle due categorie della tradizione scolastica – la creazione dal nulla (creatio ex nihilo) e l’attuazione delle potenzialità delle creature o trasformazione (eductio ex potentia subiecti) – Teilhard introduce una terza modalità di azione divina che chiama trasformazione creatrice. Con questa formula Teilhard indica l’energia divina che opera in «una creatura già esistente, la trasforma in un essere del tutto nuovo ». Teilhard considera l’energia divina sempre identica nel suo operare, anche se gli effetti sono diversi nello sviluppo evolutivo della realtà. Scriveva nel 1920: «Non c’è un momento in cui Dio crea e un momento nel quale le cause seconde si sviluppano. C’è sempre un’unica azione creatrice che solleva continuamente le creature verso un “più essere” in favore della loro attività seconda e dei loro perfezionamenti anteriori. La creazione così intesa non è una intrusione periodica della Causa prima: è un atto coestensivo a tutta la durata dell’universo. Dio crea dall’origine dei tempi, e vista dal di dentro la sua creazione ha la figura di una trasformazione. L’essere partecipato non è posto per blocchi che si differenziano ulteriormente grazie a una modificazione non creatrice: Dio immette continuamente in noi dell’essere nuovo».
Teilhard in questo modo applica l’idea di creazione continua, già nota in teologia dal medioevo, ad un contesto culturale caratterizzato dall’orizzonte dinamico ed evolutivo. L’azione divina, pur restando sempre creatrice, trova possibilità diverse di esprimersi secondo l’ambito più o meno complesso nel quale si esercita e quindi secondo il tempo trascorso. San Tommaso affermava che la creazione è costituita dalla relazione delle cose al primo principio e «non è altro che tale relazione».
Non esistono atti successivi di creazione dato che una sola e medesima azione divina crea e conserva nell’essere le creature che esistono solo in forza del loro rapporto costante con Dio.
In questa prospettiva l’azione divina non deve essere intesa in senso predicamentale, cioè come l’azione delle creature che si svolge nella superficie del tempo, bensì come quella forza continua che dal di dentro della realtà fa in modo che essa sia e operi. Dio infatti agisce sempre e solo come creatore e rende possibile l’esistere e il divenire delle creature. Perciò Teilhard osserva: «Là dove Dio opera, a noi è sempre possibile (restando a un certo livello) di cogliere solo l’opera della natura. Così, dunque, a volte per eccesso di estensione, a volte per eccesso di profondità, il punto di applicazione della forza divina è, per natura sua, extrafenomenale. La causa prima non si mescola agli effetti: egli opera sulle nature individuali e sul movimento d’insieme. Dio propriamente parlando non fa, ma fa che si facciano le cose».
Se Dio operasse come le creature, opererebbe fratture nelle dinamiche create, mentre la rete delle causalità mondana e storica resta intatta. La sua azione non è causalità efficiente o finale, ma creatrice: non fa le cose ma concede ad esse di svilupparsi; non impone leggi ma suscita movimenti che si strutturano secondo regole costanti; non costringe all’azione ma offre varie possibilità alle creature.
E dove questa offerta, come nell’uomo, trova spazi adeguati, diventa libertà.
A livello categoriale o predicamentale (rilevabile dalla scienza) l’azione divina è inattingibile per cui nell’esame dei fenomeni è sempre necessario ricercare l’azione di creature. L’azione creatrice resta trascendente rispetto alle realizzazioni create e anche rispetto alle capacità percettive dell’uomo, che possono cogliere solo le dinamiche limitate e imperfette delle creature. Lo scienziato è in grado di esaminare solo le dinamiche interne dei fenomeni anche quando giunge al loro inizio o alla loro fine: «Per l’universo essere creato vuol dire trovarsi, rispetto a Dio, in quella relazione trascendentale che lo rende secondario, partecipato, sospeso al divino per le fibre stesse del suo essere. Noi abbiamo preso l’abitudine (malgrado le nostre affermazioni reiterate che la creazione non è un atto nel tempo), di collegare tale condizione di essere “partecipato” all’esistenza di uno zero sperimentale nella durata, cioè di un inizio temporale registrabile. Ma questa pretesa esigenza dell’ortodossia si spiega solo attraverso una illegittima contaminazione del piano fenomenico con quello metafisico».
Nel processo evolutivo non è l’azione divina in sé a specificare i salti qualitativi, bensì la capacità di accoglienza delle creature, che grazie alla maggiore complessità delle strutture sono in grado di accogliere ed esprimere l’energia creatrice in modo più ricco e profondo. L’azione di Dio viene quindi concepita come energia fondante (anche se il senso pieno di questa formula analogica ci sfugge) e non come atto singolo o puntuale. Vi sono però delle situazioni nelle quali essa appare dominante rispetto all’azione delle creature coinvolte nel processo in quanto la novità emergente non può essere prevista dalle semplici condizioni precedenti. Anche in questo caso tuttavia, essa «si appoggia su un soggetto, su qualcosa in un soggetto». Potremmo dire che l’azione divina per essere efficace deve diventare azione delle creature stesse in modo che la novità fiorisca dal di dentro delle loro strutture. In questa prospettiva, affermare che Dio è creatore non significa esigere particolari interventi divini per spiegare le sue diverse tappe. Significa bensì affermare la dipendenza continua delle creature da una Forza più grande, da un Amore che avvolge la storia, da una Presenza che abita l’interiorità umana. Non è esatto perciò opporre creazione ed evoluzione quasi fossero incompatibili.
L’atto creativo divino nel tempo appare come la «faticosa» azione – in se stessa sempre uguale e piena, ma varia e limitata nelle sue manifestazioni dalle strutture create – con la quale i molti frammenti, che esplodono quando il nulla è investito dall’energia divina, pervengono ad unità e attraverso la quale la realtà materiale è condotta in tappe successive dallo stato uniforme e disperso delle origini a forme elevate e distinte di perfezione, fino ad un compimento spirituale, che non ci è dato conoscere se non in parziali anticipazioni.

Un’altra ambiguità legata al concetto di creazione deriva dal legame con l’origine. Si pensa spesso che creare voglia dire dare origine alla realtà e quindi che essere creati significhi avere avuto un inizio. In realtà il senso proprio del termine è un altro. Creare significa costituire e alimentare continuamente un essere nella sua esistenza e nella sua azione. Essere creato conseguentemente significa dipendere totalmente nel proprio essere e nel proprio operare. Di per sé quindi è possibile pensare ad un universo da sempre esistente. Se Dio infatti è eterno, nulla vieta che egli possa sempre creare. In senso proprio la creazione non è l’origine delle cose, (che potrebbero anche essere sempre esistite in una certa modalità) ma il loro divenire: l’attività creatrice fonda e alimenta tutto il processo. Già san Tommaso affermava che di per sé uno potrebbe sostenere, pur affermando la fede in Dio creatore, che le creature sono da sempre. Infatti, se Dio è creatore da sempre, perché la creazione non può essere da sempre?
L’esperienza di essere creature è l’esperienza del nostro divenire dipendenti da cause che non possiamo dominare. Siamo creature non perché siamo nati e prima non esistevamo, ma per il fatto che dipendiamo totalmente, continuamente dalle forze che ci sostengono e che alimentano il nostro processo. Coloro che ammettono l’evoluzione non debbono ricorrere a Dio per spiegare i salti qualitativi, perché nello sviluppo dell’evoluzione tutti i fenomeni della creazione e dell’evoluzione hanno delle cause create. Esse sono all’interno dei processi che la scienza deve indagare nel loro divenire.
L’esperienza di essere creature poi, vissuta in un orizzonte di fede, conduce alla scoperta di Dio Creatore. In tale prospettiva acquista una grande importanza il tempo, il fatto cioè che la creatura è strutturata temporalmente. Il secolo scorso è stato un secolo di analisi profonda sul tempo. Il fattore tempo è apparso come componente essenziale delle creature, ragione della loro progressiva diversificazione. Oggi lo comprendiamo molto meglio: noi siamo tempo, non solo siamo nel tempo. Il tempo cioè non è qualcosa che si svolge fuori di noi nel quale noi siamo immersi. No, noi siamo strutturalmente tempo. Non siamo in grado di accogliere la ricchezza che ci investe, la forza creatrice che ci attraversa, la ricchezza della vita che ci viene consegnata in un solo istante completamente, ma sempre solo a piccoli frammenti in una lunga successione di eventi.
Spesso percepiamo questa condizione come una maledizione, perché vorremmo uscire dal tempo, essere come Dio. La prima tentazione che viene presentata nella Scrittura è diventare come Dio. Concretamente significa che desideriamo essere tutto subito, la pienezza nell’istante, mentre come creature possiamo accogliere il dono solo a piccoli frammenti, nella lunga successione di esperienze, che costituiscono la trama della nostra esistenza. (La creazione non è finita)

CASUALITÀ E FEDE IN DIO

Un ultimo ambito di confusione dottrinale è relativo alla casualità di alcuni processi. Si pensa spesso che se la realtà è frutto di una causa trascendente, tutto debba procedere secondo un ordine già prefissato e secondo regole assolute. Il male, perciò, e il caos non dovrebbero esistere nel mondo. Questo è uno dei punti su cui maggiormente si è fermato il card. Schönborn nel già citato articolo del 7 luglio 2005. Certamente la casualità riflette un certo disordine, una incompletezza delle creature, per cui una causa può avere effetti diversi e molti fenomeni non possono essere previsti con certezza. Non esamino l’aspetto scientifico della casualità, ma vorrei indicare i riflessi sulla dottrina della fede. Nella prospettiva di fede la casualità non è l’espressione di una carenza da parte della Causa, bensì l’espressione di una sovrabbondanza di offerte nei confronti di creature ancora incompiute, incapaci di accogliere tutto il dono in un istante e quindi ancora imperfette. Dalla inadeguatezza della creatura investita da un forza sovrabbondante consegue che le offerte sono molteplici. Per cui la casualità non è l’espressione di una debolezza della forza creatrice, ma di una sua ricchezza. Essa offre infatti molte possibilità, per cui in alcune situazioni fiorisce in un particolare modo, in altre circostanze si esprime in modo diverso. I credenti difensori della casualità non negano perciò la causalità creatrice, ma si richiamano invece alla sovrabbondanza della medesima in quanto offre molteplici possibilità e si esprime nel gioco imperfetto e casuale delle dinamiche create. Quello che per noi è importante, da un punto di vista della fede, è che la casualità non si deve spiegare necessariamente con la nostra ignoranza dei fenomeni. In realtà l’azione creatrice, nella pienezza della sua perfezione, offre molte possibilità e non ne impone una sola. La creatura, d’altra parte, non può accogliere l’offerta divina completamente in un istante solo, ma solo a frammenti in una lunga serie di eventi. Ne consegue che il processo evolutivo è sempre accompagnato dalla imperfezione e dal male finché non perviene a conclusione. Il processo si svolge perciò attraverso tentativi spesso fallimentari e con involuzioni ed errori. Il caso non dipende dalle insufficienze della causa creante, o dalle sue scelte, bensì dalla sovrabbondanza delle offerte e dai limiti della creatura, che di fronte alla molteplici possibilità offerte non è in grado di scegliere sempre in modo coerente e perfetto. La fede in Dio creatore perciò non esclude processi casuali in molti eventi del creato, anzi li esige. Lo stato incompiuto e imperfetto delle creature, infatti, implica una causalità parziale e inadeguata, per cui la ricchezza delle offerte contenute nell’energia creatrice si esprime in una varietà di effetti anche quando parte dalle stesse condizioni. Dio non è ingegnere o architetto, bensì creatore. La sua causalità è sovrabbondante: nella complessità e nell’intreccio delle cause offre molte possibilità.
Gli eventi casuali perciò non sono espressione di Causa debole e incerta bensì ricca e sovrabbondante. Il punto in questione non è tanto la presenza o meno di un progetto intelligente, quanto la modalità della sua eventuale attuazione. Il problema non è se esista o meno una finalità intrinseca all’evoluzione dei viventi, bensì in che modo, per quali vie e con quali mezzi esso venga realizzato. Per il credente ciò che è in gioco non è tanto la fede in Dio creatore quanto il compito che Egli affida alle creature nel processo evolutivo. Esse debbono solo seguire un percorso già segnato nei minimi dettagli, oppure devono invece aprirsi varchi nuovi nella struttura complessa della realtà? Nella concezione tradizionale che il card. Schönborn difende e in nome della quale respinge la visione neodarwiniana, il progetto divino sarebbe già formulato nei minimi particolari e i mezzi sarebbero predisposti secondo dati già iscritti in modo deterministico, nelle strutture embrionali dei viventi. Sostenere invece la casualità dei processi e l’imprevedibilità dei loro sviluppi nelle varie tappe dell’evoluzione significherebbe negare la causalità di Dio e togliere ogni fondamento alla Sua provvidenza. Questa convinzione spiega il tono apodittico delle affermazioni di Schönborn. Il neodarwinismo, invece, pur ammettendo l’evidente progettualità nelle funzioni e nelle dinamiche dei viventi, sostiene che essa non è stata fissata e si evolve anche attraverso eventi casuali. Con un termine introdotto da Jacques Monod tale progettualità, per evitare i termini connessi alle cause finali, viene chiamata teleonomia.
Anche i credenti che accettano la prospettiva neodarwiniana sostengono che l’azione di Dio non si sviluppa secondo le modalità delle creature. Dio cioè non opera con azioni create modificando le opere degli esseri viventi e adattandole alle diverse circostanze. Egli è sempre e solo creatore, offre cioè con la propria presenza l’energia necessaria al processo facendo sì che le cose siano in grado di
essere e di operare. L’azione creatrice, perciò, non traccia la strada dell’evoluzione, bensì conferisce ai viventi la forza perché loro stessi siano in grado di aprirsi un varco attraverso le strutture spesso resistenti e ostili della natura. Ad essi, secondo le circostanze e le varie influenze ambientali, spetta il compito di trovare la strada della propria evoluzione e di creare i mezzi per percorrerla. L’azione creatrice accompagna sempre il processo evolutivo nel senso che ne alimenta lo sviluppo offrendo possibilità, ma non determinando le forme che esso dovrà assumere di volta in volta. La tensione, ad esempio, verso il rapporto necessario con altre creature che abita ogni vivente, può avere numerosissimi sbocchi anche partendo dagli stessi presupposti. Che questa esigenza giunga ad esprimersi con organi visivi o uditivi o tattili o di altro genere dipende a volta da circostanze fortuite e imprevedibili. In alcune specie viventi questa necessità ha assunto una forma assai diversa da altre. La natura, una volta scoperta una strada, la sviluppa adattandola a situazioni molto varie.
Per chiarire l’idea, porto un esempio ipotetico che mette in luce la differenza fondamentale di prospettiva tra le due visioni all’interno della stessa fede in Dio creatore e provvidente. Nel caso in cui i dinosauri non fossero stati eliminati da eventi esterni (come la caduta di un grosso meteorite sessanta milioni circa di anni or sono o fenomeni di altro tipo secondo le varie ipotesi), e se quindi i mammiferi non avessero avuto la possibilità di quella libera evoluzione di cui hanno di fatto goduto successivamente, come si sarebbe realizzata la volontà divina di creare una immagine terrena della sua perfezione? Che forma avrebbe assunto l’ambito della intelligenza e della libertà? Che modalità avrebbe acquistato l’eventuale figliolanza divina sulla terra? Che tipo di umanità (se vogliamo usare questo termine in senso generico) sarebbe sorta? Molto diversa dall’attuale.
La tensione che la forza creatrice induce nei processi evolutivi verso le forme più elevate avrebbe aperto nuove vie attraverso i dinosauri i cui discendenti dopo diversi milioni di anni avrebbero espresso quella complessità cerebrale che invece è emersa nell’evoluzione dei mammiferi ed è giunta ad esprimersi nella straordinaria complessità del cervello umano. Il principio antropico avrebbe avuto un nome diverso, ma avrebbe ugualmente riconosciuto l’importanza delle condizioni iniziali per il futuro di quella particolare forma di vita intelligente che è stata impedita ai successori dei dinosauri da un evento fortuito, mentre invece è stata resa possibile ai mammiferi, divenuti padroni della terra.
Per la nostra sensibilità, sviluppata nella illusione millenaria di essere il centro dell’universo, una riflessione di questo tipo è sconvolgente, ma rispetta tutti i dati della fede in Dio creatore. Il risultato risponde infatti ad un progetto di Dio nel senso che la forza creatrice introduce nel processo la tensione verso una figliolanza divina. Ma che essa assuma una forma o l’altra è secondario, anche perché importante è solo la modalità definitiva che la figliolanza divina assumerà quando Dio sarà tutto in tutti. Modalità certamente molto diversa da quella raggiunta sulla terra dagli umani.
Anche il disordine della creazione in questa luce è comprensibile: l’azione creatrice non riesce ad esprimersi adeguatamente essendo le realtà incompiuta ed il processo ancora in corso. Solo al termine l’ordine sarà stabilito e la perfezione sarà realizzata in uno stato definitivo. Il teologo quindi pensa che l’esistenza umana in quanto ordinata ad una dimensione spirituale, che ha una carattere superiore, possa essere ragione sufficiente di tutto il disordine dei processi in corso. Vale la pena portare una situazione caotica imperfetta se essa consente l’emergere di una dimensione definitiva e compiuta, quale è quella dei figli di Dio.
Questa acquisizione della fede può diventare luce per vedere il mondo in una prospettiva diversa, ma non può mai interferire con il lavoro degli scienziati il cui sguardo resta a livello dei fenomeni.
È quindi opportuno che il teologo utilizzi il linguaggio dello scienziato quando descrive i fenomeni della natura. Il caos, infatti, e il disordine caratterizzano tutti i processi, anche quelli orientati verso un qualche traguardo loro fissato dalla acquisizioni accumulate nel lungo processo evolutivo e registrate nelle memorie della natura. La tensione a forme più complesse non si esprime sempre in processi ordinati e compiuti, bensì in fenomeni a volte imperfetti e caotici. L’uomo tuttavia è in grado di vivere tutte le situazioni in modo da conferire loro una ragione superiore. In tale modo egli introduce un ordine nuovo nel corso dei processi storici e ne può rivelare l’intelligenza profonda che li ispira. L’uomo diventa così componente attiva, strumento dell’amore che «muove il sole e l’altre stelle».

ONNIPOTENZA DIVINA, PREGHIERA E MIRACOLO

Poiché l’azione creatrice non appare mai distinta dall’azione delle creature, non si aggiunge e non si sovrappone, ma la rende possibile alimentandola dal di dentro, si possono analizzare tutti i processi della vita e della storia senza mai cogliere un’azione diversa da quella delle creature. Anche i salti qualitativi dei processi evolutivi, a livello dei fenomeni, non richiedono altre forze che quelle delle creature in azione. L’azione creatrice contiene da sempre le ricchezze vitali che emergono nella successione del tempo, ma esse possono essere accolte solo a frammenti secondo la complessità delle strutture create. Ne consegue che l’azione divina nella creatura è sempre limitata.
Dio non è onnipotente nella creatura. Dio è onnipotente in sé perché tutta la perfezione divina viene comunicata e accolta nelle dinamiche della Trinità santa. Dio esprimerà la sua onnipotenza nel compimento della storia umana «quando sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,28). Ma nella fase attuale Egli non può esprimere tutta la sua perfezione nelle creature e nella storia.
In questa prospettiva anche la preghiera acquista nuova luce Dio. Pregando non diciamo a Dio quello che deve fare, ma consentiamo a Lui di realizzare in noi ciò che possiamo compiere per gli altri. La preghiera così è l’anelito dello Spirito o della Vita, che in noi si esprime in stati d’animo, in attese, in tensioni interiori. Non sono le formule umane a costituire la preghiera cristiana, bensì la Parola di Dio e l’azione dello Spirito, che in noi fioriscono. Da parte dell’orante, quindi, la preghiera è sintonia vitale, ascolto, accoglienza della Potenza divina che nelle persone assume forma creata.
È un atteggiamento interiore ed è coinvolgimento corporale.
La prima condizione della preghiera è il silenzio. Il nostro spirito infatti, se è invaso dai rumori degli eventi transitori o dal rimbombo alienante delle cose, non può percepire il leggero soffio dell’azione divina che si insinua nelle fibre più profonde della nostra realtà. Dio non si pone di fronte alla creatura dall’esterno, come le altre persone e le cose, bensì traspare dall’interno della nostra struttura creata come la sorgente e la fonte indefettibile della vita. Pregare non è quindi recitare formule, né compiere riti sacri, ma è fare silenzio per sintonizzarsi con la parola creatrice e armonizzarsi con le dinamiche profonde della vita. Per giungere al silenzio può essere utile anche recitare formule o compiere gesti, e a volte, anzi, è necessario, ma la preghiera come tale consiste in atteggiamenti che consentono la sintonia con la parola di Dio e fioriscono soprattutto nel silenzio interiore. Pregando, perciò non dobbiamo pensare che Dio stia di fronte a noi in ascolto delle nostre lodi, dei nostri ringraziamenti e delle nostre richieste. Egli è alla radice di tutto ciò che desideriamo e pensiamo. Egli è il termine verso cui siamo irresistibilmente attratti. Non possiamo, però, ritenere di essere capaci di ascoltare parole divine nella loro forma trascendente. Noi ascoltiamo sempre e solo parole umane. Non possiamo dire che cosa sia Dio e neppure pretendere di chiuderlo nei nostri concetti, come quello di persona. Solo nel rapporto vissuto cogliamo la sua presenza in noi, presenza che trascende la nostra possibilità di comprensione e di espressione. Il rapporto che si stabilizza e si sviluppa nella preghiera è di carattere eminentemente personale perché termina alla Realtà suprema e alla fonte della nostra struttura di creature. Non c’è alcun rischio di confusione: la creatura non è Dio. Nella preghiera Dio è colto eminentemente più eccelso e grande di tutte le sue creature. Rientrare nel tempio interiore per cogliere la realtà di Dio, però, non significa chiudersi in se stessi. Dio incontrato nella preghiera apre a tutta la creazione e alla storia intera. Soprattutto per il cristiano, che si riferisce a Dio rivelato da Cristo, nella preghiera risuona il pianto dei sofferenti e l’invocazione dei poveri, le gioie, gli amori e le speranze di cui gli uomini sono soggetti.
La preghiera, in questa prospettiva, è l’esercizio quotidiano per aprirsi alle forme nuove di esistenza, per accogliere la forza creatrice in modo da esserne sempre pieni. Gli altri, le esperienze e i rapporti sono l’ambito di questa rivelazione e di questa offerta. La crescita della dimensione spirituale dell’uomo è resa possibile dalle offerte continue di vita che gli altri ci fanno ed è condizionata dall’atteggiamento di accoglienza, di cui la preghiera è un continuo alimento.
In questa luce si comprende anche il significato del miracolo. Il miracolo è comunemente pensato come un intervento straordinario di Dio. In realtà il miracolo è sempre un’azione di creature: «La tua fede ti ha salvato», dice di solito Gesù a chi viene guarito. Il miracolo è una più perfetta accoglienza e interiorizzazione dell’azione creatrice attraverso la quale Dio fa operare la creatura. È la fede che consente il miracolo, è la preghiera che mette la persona in sintonia con Dio in modo che essa permetta all’azione creatrice di dispiegarsi più pienamente. Ci sono giorni in cui si è più disposti a fare un buon lavoro, e altri giorni in cui tutto sembra essere obnubilato e non si riesce a fare nulla. L’umore può limitare le nostre capacità e possibilità. Allo stesso modo l’azione di Dio può essere limitata dalle nostre cattive disposizioni. Quando invece ci trova completamente disponibili, essa è in grado di esprimersi anche in forme straordinarie.

 

 

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il vangelo della domenica

 

GESU’, TENTATO DA SATANA, E’ SERVITO DAGLI ANGELI

commento al Vangelo della prima domenica di quaresima (22 febbraio 2015) di p. Alberto Maggi:

maggi

 

Mc 1,12-15
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

 

Stupisce la sobrietà dell’evangelista Marco nel descrivere le tentazioni di Gesù nel deserto. Infatti scrive Marco: E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato dal Satana. Secondo Marco Gesù non prega, non digiuna. E Marco neanche elenca il numero delle tentazioni come invece fanno nei loro vangeli Matteo e Luca. Cosa ci vuol trasmettere l’evangelista?
Il “subito”  mette in relazione le tentazioni con l’episodio del battesimo quando Gesù ha ricevuto lo spirito, cioè l’amore di Dio. La risposta di Gesù all’amore del padre è l’amore per gli uomini che lui viene a liberare. Questo spirito lo sospinge, il verbo ha un’immagine di forza, di violenza quasi nei confronti di Gesù. Lo sospinge nel deserto per quaranta giorni. Il deserto e i quaranta giorni richiamano i quaranta anni che il popolo di Israele stette nel deserto prima di entrare nella terra promessa.
Quindi l’evangelista ci vuole indicare che tutta la vita di Gesù è stata un cammino, una traversia nel deserto verso la pienezza della liberazione. Quello che l’evangelista ci sta descrivendo non è un episodio della vita di Gesù, ma una sintesi di tutta la sua esistenza.
Ebbene in questo deserto per quaranta giorni fu tentato dal Satana. E’ la prima volta che in questo vangelo compare il termine “Satana”, poi scompare per riapparire poi nel capitolo 8 in bocca a Gesù rivolto a uno dei suoi discepoli, a Simon Pietro, che Gesù chiamerà “Satana”. “Vattene Satana, torna a metterti dietro di me!”
E’ quindi la prima e l’ultima volta che compare il Satana. Nell’episodio in cui Gesù rifiuta Pietro e lo definisce Satana, Pietro non accetta la morte di Gesù, Pietro vuole il potere di Gesù. Il Satana poi ricompare nella parabola dei quattro terreni come immagine degli uccelli che raccolgono il seme appena seminato e l’evangelista indica che è il potere.  Chi ha un’ideologia di potere è refrattario e ostile all’annunzio di Gesù. Poi riapparirà nella polemica di Gesù quando dichiarerà che “un Satana che è diviso contro se stesso è destinato alla fine”.
Quindi il Satana compare pochissime volte. Ma quello che l’evangelista ci aiuta a comprendere, l’azione di questo Satana e il suo significato è soprattutto il verbo “tentare” comparirà ancora tre volte in questo vangelo, da parte di chi non ci saremmo aspettati, cioè i Farisei.
Queste persone tanto pie, tanto devote, tanto zelanti, tanto osservanti di ogni dettaglio della legge, l’evangelista li identifica invece come diavoli, come strumenti del Satana, perché sono loro che tentano Gesù, e tutte e tre le volte che tentano Gesù sono all’insegna della divisione. Satana, il diavolo, è colui che divide. Ebbene i Farisei che si credevano tanto vicini a Dio, in realtà sono strumenti del diavolo per dividere.
La prima volta che compaiono, e compare di nuovo il verbo “tentare”, è quando Gesù ha condiviso i pani non solo il terra d’Israele, ma anche in terra dei pagani, per indicare che l’amore di Dio è per tutta l’umanità. Questo era inaccettabile. Scrive l’evangelista al capitolo 8, versetto 11, Vennero i Farisei e si misero a discutere con lui chiedendogli un segno dal cielo per tentarlo.
Quello che sta facendo Gesù è assurdo, l’amore di Dio anche per i pagani. Allora vogliono un avvallo da parte di Dio. Loro vogliono dividere Dio dai pagani, ma l’amore di Dio è per tutta l’umanità. Poi la volta sarà quando alcuni Farisei, avvicinatisi per tentarlo, gli chiedono se è lecito a un uomo ripudiare la propria moglie. Vogliono dividere l’uomo dalla donna.
L’uomo ha una superiorità, dei diritti che la donna non ha. E Gesù invece si richiama al disegno della creazione e riafferma l’unità tra l’uomo e la donna e la perfetta uguaglianza. Infine la terza volta, forse la volta più subdola, sarà Gesù che chiederà “Perché volete tentarmi?” Gli hanno chiesto lecito o no pagare il tributo, la tassa a Cesare e Gesù non cadrà nella loro trappola e dirà che sia Cesare che i Farisei hanno occupato il posto di Dio.
I Farisei hanno diviso Dio dagli uomini. E Gesù dirà: “Restituite a Dio quello che è di Dio”, cioè restituitegli il suo popolo. Quindi i Farisei, questi leader spirituali, questi rappresentanti della spiritualità, della massima santità, che la gente guardava con ammirazione, l’evangelista sin dalle prime battute del suo vangelo, li denuncia come strumenti del diavolo. Il diavolo è colui che divide, colui che crea fenomeni di divisione.

 

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