gli ‘scarti’, gli ‘esclusi’… la peggiore povertà: essere considerati un niente

Wresinski, l’apostolo degli esclusi

in prossimità del processo di beatificazione di Joseph Wresinski è interessante leggere dalle sue stesse parole la sofferenza che ha colto in tanti ‘volti’ e persone cui era ed è da sempre proibito ‘abitare il mondo degli altri’, perché ‘inesistenti’ pur viventi:

Joseph Wresinski

di Joseph Wresinski

in “Avvenire” del 25 febbraio 2015

Dai tempi più lontani cui risalgono i miei ricordi d’infanzia fino a oggi, i più poveri mi sono apparsi come delle famiglie – in sostanza tutto un popolo – alle quali era vietato abitare il mondo degli altri; abitare la città, il paese, la terra. Come si poteva infatti definire «abitare» questo modo di ammassarsi, nascondersi, ripararsi con mezzi di fortuna, al margine del quartiere dove la mia stessa famiglia viveva in un tugurio? Popolazione relegata nella città bassa di Angers, in mansarde, in qualche locale sul cortile dove il sole non entrava mai, in uno stanzino senza finestre, in fondo a un corridoio, in uno scantinato non destinato ad abitazione. Popolazione che per il fatto stesso di abitare la terra in questo modo, era ritenuta indegna di abitare accanto a famiglie meno sventurate. Più tardi, parroco di campagna, invitato a desinare la domenica dall’uno o l’altro dei proprietari agricoli della mia parrocchia, trovavo seduti alla stessa tavola dei lavoratori agricoli stagionali. Provenivano da alloggi privi di comodità, prestati loro per il tempo del contratto di lavoro. Sedevano all’estremità della tavola dove veniva servita soltanto una minestra, mentre gli invitati che circondavano il proprietario ricevevano un pasto completo. Lavoratori che abitavano in luoghi diversi uno dopo l’altro, sempre provvisoriamente, e per i quali anche la qualità di invitati della domenica era conforme alla qualità di uomini poveri da alloggiare e nutrire al minor costo possibile, per il tempo del loro servizio. Uomini, famiglie che, venuto l’inverno, avrebbero dovuto rifugiarsi in una capanna nascosta nel sottobosco, in un riparo fatto di terra e rami, scavato in un pendio di collina per non bagnarsi, in un granaio abbandonato… Infine arrivai al campo dei senzatetto a Noisy-le-Grand, terra fuori del mondo dove centinaia di famiglie abitavano in «igloo» di fibro-cemento che altrove erano destinati ai maiali; e anche questo solo provvisoriamente, chi infatti poteva ammettere a lungo una «lebbra» del genere alle porte di Parigi? Qui di nuovo trovavo famiglie trattate come oggetto di provvedimenti, di aiuti e di controlli, più che come soggetti di diritti. Famiglie che avevano come sola identità una denominazione negativa: ‘asociali’, «disadattate», «pesanti», «famiglie con problemi »; la sola etichetta più o meno neutra di «senza tetto» era stata a poco a poco soppressa. Vennero poi gli anni in cui, con la diramazione nel mondo del Movimento ATD Quarto Mondo, il mio cammino mi condusse attraverso l’Europa e in tutti i continenti. Per ritrovare sempre, nei confronti dei più poveri, questo stesso divieto di abitare la terra e di esistere rispetto agli altri. Famiglie sul lastrico nelle grandi città dell’America del Nord, la loro identità familiare annullata per essere stipate, i bambini e le madri da un lato, i padri dall’altro, nei ricoveri del sistema di assistenza. Famiglie dell’America latina che hanno lasciato la campagna e la fame per arroccarsi ai bordi di un precipizio vicino alla capitale. Nell’ambito di queste famiglie, le nascite e le morti non vengono registrate, perché non dovrebbero trovarsi in luoghi dove è vietato abitare. Quando la pioggia tropicale trascina una capanna nel precipizio, questo significa che dei bambini avranno vissuto e saranno morti senza mai essere esistiti per le amministrazioni, come non esistono nei registri e nelle statistiche nazionali e internazionali le famiglie stabilite su un terreno paludoso, ai bordi di una baia, in qualche località delle Antille. Esse vi si trovano illegalmente e, dopo il passaggio del bulldozer per spianare il terreno in vista di un’altra utilizzazione, nessuno avrà mai notizia delle centinaia di ricoveri, delle misere suppellettili ridotti in polvere. Nessuno saprà dove vanno errando, dove si nascondono queste famiglie ovunque indesiderate. Che dire pure dei bambini che vivono nella strada, in tutti i continenti in via di sviluppo, guadagnandosi il pane da soli, mendicando e rubando per nutrirsi e talvolta per nutrire tutta la famiglia? Che dire dei bambini sdraiati la notte accanto a un mattatoio e che all’alba rovistano nei rifiuti della città? È il risultato inevitabile dell’inumano divieto fatto ai più poveri del diritto di abitare la terra. Risultato di cui non sempre ci riconosciamo sufficientemente corresponsabili, nei paesi ricchi. La fine del cammino è soprattutto il passaggio da una identità già negativa a questa specie di non identità, di non esistenza amministrativa, a questa cancellazione da ogni registro, da ogni statistica. Degli esseri umani, delle famiglie appaiono allora solo come dei fantasmi: sono stati visti, ma non si sa più dove e quanti siano. È la fine di ogni speranza di fare ancora parte di coloro che un giorno proclamarono «Noi, popoli delle Nazioni Unite», questa comunità internazionale che aveva scelto come obiettivo la realizzazione dei Diritti dell’uomo. È anche la fine di ogni speranza – perché si esisterebbe ancora agli occhi del mondo – di poter unire le proprie forze a quelle degli altri, per combattere insieme per la conquista dei diritti. Più gli uomini sono poveri, privati del diritto di abitare la terra, più avrebbero bisogno di unire le loro forze attraverso il mondo. E invece, sfortunatamente, meno diritti hanno e meno sono liberi e in grado di unirsi per una qualsiasi lotta comune. Infatti, senza identità presente sono anche privi di storia e fuori della storia del proprio popolo. Sono interdetti di appartenere (come un prodigo viene «interdetto») a una collettività che, in nome della storia passata e presente, persegua un progetto di avvenire comune. Questi sono i fatti. Ma ciò che conta maggiormente non è forse la sofferenza che si cela dietro di essi? La grande povertà, nel pregiudicare l’insieme dei Diritti dell’uomo, rappresenta uno spreco inaccettabile d’intelligenza, inventiva, speranza e amore. È lo spreco di un capitale incalcolabile rappresentato da uomini, donne, bambini esclusi dal diritto, dall’amministrazione, dalla comunità e dalla democrazia. E soprattutto, dietro il silenzio dei nostri registri e delle nostre statistiche, sussiste un’infanzia mutilata, giovani abbandonati alla disperazione, adulti ridotti a dubitare della loro condizione di uomini e della loro dignità. I più poveri infatti ce lo ricordano spesso: la fame, l’analfabetismo, la stessa disoccupazione non sono la peggiore sventura per l’uomo. La peggiore sventura è sapersi considerati un niente, al punto che persino le proprie sofferenze vengono ignorate. La cosa peggiore è il disprezzo dei vostri concittadini, poiché è il disprezzo che vi esclude da ogni diritto, che fa sì che il mondo ignori ciò che voi vivete, che vi impedisce di essere riconosciuti degni e capaci di responsabilità. La più grande disgrazia dell’estrema povertà è di essere come un morto vivente per tutta la vita.

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il commento al vangelo domenicale

 

QUESTI E’ IL FIGLIO MIO, L’AMATO

commento al vangelo della seconda domenica di avvento (1 marzo 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Mc 9,2-10

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

L’episodio della trasfigurazione  è la risposta di Gesù all’incomprensione dei discepoli per i quali la morte è la fine di tutto.
Sentiamo cosa dice Marco. “Sei giorni dopo”. E’ un’indicazione preziosa, il sesto  giorno è quello che indicava la manifestazione della gloria di Dio sul Sinai e il giorno della  creazione.  Allora, ponendo questa cifra  – i numeri nella Bibbia  hanno sempre valore figurato , simbolico – l’evangelista vuole raffigurare  il fatto che Gesù è la realizzazione piena  della gloria di Dio.
E la gloria di Dio, cone vedremo, si manifesta in una vita capace di superare la morte. Quindi “Sei giorni dopo Gesù prese con sé Pietro”. Il discepolo che si chiama Simone è presentato solo con il suo soprannome negativo che indica la testardaggine, di questo discepolo, la sua caparbietà, lo stare sempre in opposizione.
Precedentemente Gesù  si era rivolto a Simone chiamandolo “Satana.”, diavolo. Quindi “prese con sé Pietro” e gli altri due discepoli difficili, “Giacomo e Giovanni” che in questo vangelo sono stati soprannominati  “boanerghes”, cioè figli del tuono per il loro carattere autoritario e violento. “Li   condusse  su un alto monte”, il monte è il luogo della manifestazione  della condizione divina, “in disparte”. Questa espressione “in disparte” è una chiave di lettura preziosa. Ogni volta che l’evangelista colloca questa  espressione  indica l’incomprensione o addirittura l’ostilità da parte dei discepoli. 
“Fu trasfigurato”, letteralmente “ebbe  una metamorfosi davanti a loro”, “le sue vesti divennero splendenti, bianchissime “. E l’evangelista fa un paragone,  “Nessun lavandaio sulla terra  potrebbe renderle così bianche”. Vuole indicare che questa trasfigurazione di Gesù, questa trasformazione,  non è frutto dello sforzo umano, ma è frutto dell’azione divina, in risposta all’impegno di Gesù a favore dell’umanità.
L’evangelista dimostra che la morte non distrugge la persona,  ma la potenzia. La morte non è un limite per la persona, ma il suo massimo sviluppo.  “E apparve loro”, quindi a questi discepoli,  “Elia con Mosè”. Quindi il personaggio importante è Mosè poiché viene posto in risalto. E’ il personaggio principale, l’autore della legge , ed Elia il profeta è colui che, con il suo zelo,  l’ha fatta osservare.
“Conversavano con Gesù”. Elia  e Mosè, cioè la legge e i profeti, non hanno nulla più da dire, ai discepoli, conversano con Gesù.  Sono gli uomini  che nell’Antico Testamento  hanno parlato con Dio e ora parlano con Gesù, che è Dio. “Prendendo la parola”, letteralmente reagì, o rivoltosi a, quindi è una reazione quella  del discepolo. “Pietro”, di nuovo con il suo soprannome  negativo, “disse a Gesù: ꜙ«Rabbì». Solo due personaggi chiamano Gesù “Rabbì” che era il titolo che si dava agli scribi, cioè coloro che insegnavano e imponevano l’osservanza della legge, e sono i due traditori, Pietro e Giuda.
Questo dimostra quale fosse la comprensione di Gesù che Simone aveva. “«Rabbì è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne» ”. Qual è il significato? C’era nell’attesa dell’epoca la speranza che il messia si sarebbe rivelato durante la festa più importante di tutte. C’era una festa in Israele, talmente importante che non aveva bisogno di essere nominata.  Bastava dire “la festa”.
La festa per eccellenza era la festa delle capanne, che era un ricordo della liberazione dalla schiavitù egiziana e per una settimana si viveva sotto delle capanne. Ebbene si credeva che il nuovo liberatore sarebbe arrivato nel ricordo dell’antica liberazione. Quindi la festa delle capanne è la festa della liberazione. Allora Pietro vuole che Gesù si manifesti come messia durante questa festa, ecco il fatto di fare tre capanne, “«Una per te, una per Mosè, una per Elia»”.Dei tre personaggi quello al centro è sempre il più importante. Per Pietro non è importante Gesù, ma Mosè.
Gesù ancora non è riuscito a far comprendere la novità che lui è venuto a portare e i discepoli sono rimasti a questa mentalità antica in cui c’è la centralità della legge con la violenza di Elia. Elia è il profeta che scannò personalmente 450 sacerdoti di un’altra divinità. Allora  Pietro continua nella sua azione di Satana, è il tentatore. “Questo è il messia che io voglio, quindi manifestati come messia osservando la legge di Mosè e imponendola con lo zelo profetico e violento di Elia.
“Non sapeva infatti cosa dire perché erano spaventati”, letteralmente terrorizzati. Perché? Pietro s’è scontrato già con Gesù, che l’ha chiamato Satana, e di fronte alla manifestazione della divinità in Gesù teme un suo castigo. “Venne una nube”, la nube è segno della presenza divina, e in particolare segno di liberazione da parte di Dio, “Che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce”, e quindi è la voce 
di Dio, “«Questi è il figlio mio, l’amato»”, l’amato significa il figlio primogenito che è l’erede di tutto. “«Lui ascoltate!»” L’ordine è imperativo. Non devono ascoltare né Mosè né Elia. E’ soltanto Gesù che va ascoltato. Quello che ha scritto Mosè e quello che ha fatto e scritto Elia vanno reintrerpretati e messi in relazione con l’insegnamento di Gesù. Gesù va ascoltato. Tutto quello che lo precede e che coincide con lui va accolto, tutto quello che si distanzia o è contrario non sarà norma di comportamento per la comunità dei credenti.
“E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro”. Cercano ancora Mosè ed Elia cercano ancora la sicurezza della tradizione. Ma se prima Mosè e Elia non avevano niente da dire ai discepoli, ora scompaiono dalla loro azione.
“Mentre scendevano dal monte ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti”. Perché? Abbiamo visto qual è la condizione dell’uomo che passa attraverso la morte, quindi non è una condizione di distruzione, ma di potenza divina, ma non sanno ancora che questa condizione divina passerà attraverso la morte più infamante, la morte di croce. Quindi potrebbero avere dei falsi sentimenti di trionfalismo.
“Essi tennero per loro la cosa chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti”. Continuano ad escludere la morte di Cristo, non riescono a capire come il messia possa andare incontro alla morte. Secondo la tradizione il messia non poteva morire

 

 

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