preghiera per i bambini di Gaza

 

“risparmiali, proteggili, guariscili”

preghiera del rabbino Levi Weiman-Kelman di Kol HaNeshama, Gerusalemme

 

Gaza

 

 

Se c’è mai stato un tempo per la preghiera, questo è quel tempo.

Se c’è mai stato un luogo abbandonato, Gaza è quel luogo.

 

Signore che sei il creatore di tutti i bambini, ascolta la nostra preghiera in questo giorno maledetto.

Dio che noi chiamiamo Benedetto, volgi il tuo volto verso questi, i bambini di Gaza, affinché possano conoscere le tue benedizioni, e il tuo rifugio, affinché possano conoscere la luce e il calore, dove ora c’è soltanto oscurità e fumo, e un freddo che taglia e stritola la pelle.

 

Onnipotente che fai eccezioni, che noi chiamiamo miracoli, fa’ un’eccezione per i bambini di Gaza.

Proteggili da noi e dai loro.  Risparmiali.  Guariscili. Fa’ che stiano al sicuro.

Liberali dalla fame e dall’orrore e dalla furia e dal dolore.

Liberali da noi e liberali dai loro.

Restituisci loro l’infanzia rubata, il diritto alla nascita,

che è una promessa di paradiso.

 

Ravviva nella nostra memoria, o Signore, le sorti del bambino Ismaele, padre di tutti i bambini di Gaza. Come il bambino Ismaele è stato senz’acqua e lasciato a morire nel deserto di Beer-Sheba, talmente privato di ogni speranza che sua madre non poteva sopportare di vedere la sua vita perdersi via nella sabbia.

Sii quel Signore, il Dio del nostro consanguineo Ismaele, che ha udito il suo grido e ha mandato il Suo angelo a confortare sua madre Agar.

Sii quel Signore, che fu con Ismaele quel giorno, e tutti i giorni a seguire.

Sii quel Dio, il Misericordioso, che aprì gli occhi di Agar quel giorno, e le mostrò il pozzo dell’acqua, cosicché ella poté dare da bere al bambino Ismaele e salvargli la vita.

 

Allah, che noi chiamiamo Elohim, tu che doni la vita, che conosci il valore e la fragilità di ogni vita, invia i tuoi angeli a questi bambini.

 

Salvali, i bambini di quel luogo,

 di Gaza la più bella, di Gaza la dannata

 

In questo giorno, quando la trepidazione e la rabbia e il lutto che è chiamato guerra afferra i nostri cuori e li ricuce in cicatrici, noi ci rivolgiamo a te, Signore, il cui nome è Pace:

Benedici questi bambini, e tienili lontano dal male.

Volgi lo sguardo verso di loro, Signore.

Mostra loro, come se fosse per la prima volta, la luce e la bontà,

e la tua benevolenza travolgente.

Guardali, Signore. Permetti loro di vedere il tuo volto.

E, come se fosse per la prima volta, dona loro la pace.

 

(preghiera del rabbino Levi Weiman-Kelman di Kol HaNeshama, Gerusalemme,a cura di Bradley Burston, del quotidiano Haaretz)

 

 

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sangue e morte a Gaza

Gaza

 

Israele. “Le nostre mani sono sporche di sangue”

Alcuni cittadini israeliani scrivono una lettera aperta alla famiglia di Mohammed Abu Khadr, il giovane palestinese arso vivo da un gruppo di coloni. Sfidando il pensiero dominante nella società, e nel tentativo di fermare l’ultima offensiva su Gaza.

  Le nostre mani grondano di sangue. Le nostre mani hanno dato fuoco a Mohammed. Le nostre mani hanno soffiato sulle fiamme. Viviamo qui da troppo tempo perché si possa dire “non lo sapevamo, non lo abbiamo capito prima, non eravamo in grado di prevederlo”. Siamo stati testimoni dell’enorme macchina di incitamento al razzismo e alla vendetta messa in moto dal governo, dai politici, dal sistema educativo e dai mezzi di informazione.

Abbiamo visto la società israeliana diventare povera e in stato di abbandono, fino a quando la chiamata alla violenza è diventata uno sfogo per molti, adulti e giovani senza distinzioni, in tutte le sue forme.

Abbiamo visto come l’essere “ebreo” sia stato totalmente svuotato di significato, e radicalmente ridotto a nazionalismo, militarismo, una lotta per la terra, odio per i non-ebrei, vergognoso sfruttamento dell’Olocausto e dell’“Insegnamento del Re (Davide, ndt)”.

Più di ogni altra cosa, siamo stati testimoni di come lo Stato di Israele, attraverso i suoi vari governi, ha approvato leggi razziste, messo in atto politiche discriminatorie, si è adoperato per custodire con forza il regime di occupazione, preferendo la violenza e le vittime da ambo le parti ad un accordo di pace.

Le nostre mani sono impregnate di questo sangue, e vogliamo esprimere le nostre condoglianze e il nostro dolore alla famiglia Abu Khadr, che sta vivendo una perdita inimmaginabile, e a tutta la popolazione palestinese.

Ci opponiamo alle politiche di occupazione del nostro governo, e siamo contro la violenza, il razzismo e l’istigazione che esiste nella società israeliana.

Ci rifiutiamo di lasciare che il nostro ebraismo venga identificato con questo odio, un ebraismo che include le parole del rabbino di Tripoli e di Aleppo, il saggio Hezekiah Shabtai che ha detto: “Ama il tuo prossimo come te stesso” (Levitico, XVIII).

Questo amore reciproco non si riferisce soltanto a quello di un ebreo verso un altro, ma anche verso i nostri vicini che non sono ebrei. E’ un amore che ci insegna a vivere con loro e insieme a loro perseguire il benessere e la sicurezza. Non è soltanto il buonsenso che ce lo richiede, ma è la Torah stessa, che ci ha ordina di condurre la vita in modo armonioso, nonostante e contro le azioni dello Stato e le parole dei nostri rappresentanti di governo.

Le nostre mani grondano di sangue.

Per questo ci impegniamo a continuare la nostra battaglia all’interno della società israeliana – ebrei e palestinesi –  per cambiare la società dal suo interno, per lottare contro la sua militarizzazione e per diffondere una consapevolezza che oggi risiede soltanto in una esigua  minoranza.

Lotteremo contro la scelta di muovere ancora guerre, contro l’indifferenza nei confronti dei diritti e delle vite dei palestinesi, e il continuo favorire gli ebrei in tutto questo ciclo di violenza.

Dobbiamo combattere per offrire un legame umano – un legame che sia anche politico, culturale, storico, israelo-palestinese ed arabo- ebraico; un legame che può essere raggiunto attraverso la storia di molti di noi che hanno origini ebraiche ed arabe, e per questo, fanno parte del mondo arabo.

La nostra scelta è quella della lotta per l’uguaglianza civile e il cambiamento economico, in nome dei gruppi emarginati e oppressi nella nostra società: arabi, etiopi, mizrahim (di discendenza araba), donne, religiosi, lavoratori migranti, rifugiati, richiedenti asilo e molti altri. 

Di fronte a questa situazione il lato più forte è quello che ha la capacità di usare la nonviolenza per abbattere il regime razzista e il vortice di violenza. Di fronte alla compiacenza di molti israeliani, cerchiamo e scegliamo la nonviolenza, mentre gli altri preferiscono permettere al regime di ingiustizia di rimanere saldo al proprio posto, e aspettano soluzioni che in qualche modo fermino la spirale infinita di violenza – che mostra la sua faccia ora in questa nuova guerra contro Gaza – soltanto per avere nuove morti e appelli alla vendetta da ambo le parti e allontanando un possibile accordo sempre più lontano.

Le nostre mani grondano di sangue, e il nostro desiderio è quello di creare una lotta congiunta con qualsiasi palestinese che voglia unirsi a noi contro l’Occupazione, contro la violenza del nostro regime, contro il disprezzo dei diritti umani.

Questa sarà una lotta per mettere fine all’Occupazione, o con l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente o attraverso la creazione di uno Stato unico in cui tutti saremo cittadini di pari diritti e dignità.

Le nostre mani sono piene di questo sangue. Affermandolo così forte nella nostra società saremo sempre accusati dalla propaganda nazionalista di essere unilaterali, e di condannare soltanto i crimini israeliani e non quelli commessi dai palestinesi.

A queste persone noi rispondiamo così: colui che sostiene o giustifica l’uccisione dei palestinesi, supporta e incoraggia di conseguenza anche l’uccisione degli israeliani ebrei. E viceversa. La giostra della violenza è grande e si muove velocemente, ma noi ci opponiamo ad essa, e crediamo che l’unica soluzione sia la nonviolenza.

Andare contro i metodi di Netanyahu non significa necessariamente sostenere Hamas: la realtà non è dicotomica. Altre opzioni esistono nell’asso tra questi due. Allora sottolineiamo ancora di più che siamo cittadini israeliani e il centro della nostra vita è Israele. Per questo la nostra più grande critica è rivolta alla società israeliana, che cerchiamo di cambiare.

Questi assassini si nascondono tra di noi, fanno parte di noi. Ci sono, ovviamente, spazi in cui si possono criticare anche le altre società. Ma crediamo, ciononostante, che il dovere di ogni persona sia di esaminare prima da vicino e in modo critico la propria società, e solo dopo si possa permettere di approcciarsi alle altre (…).

Le nostre mani grondano di questo sangue, e sappiamo che la maggior parte dei palestinesi innocenti uccisi negli ultimi 66 anni da noi israeliani ebrei non hanno mai ricevuto giustizia.

I loro assassini non sono stati arrestati, neanche processati, a differenza dei ragazzi sospettati per l’omicidio di Mohammed. La maggior parte di questi innocenti è morta per mano di uomini in uniforme mandati dal governo, dai militari, dalla polizia o dallo Shin Bet.

Questi omicidi, avvenuti per mezzo di aerei, artiglieria o di persona vengono definiti come “errori umani” o “problemi tecnici”. E quando ci si riferisce ad essi a volte si include soltanto una fiacca scusa. La maggior parte dei casi viene raramente posta sotto inchiesta e quasi tutti finiscono senza rinvii a giudizio, dissolvendosi nell’aria. Tanti, troppi sono ignorati dai media, dalle agenzie giudiziarie, dall’esercito.

La ragione per cui i sospettati della morte di Mohammed sono stati arrestati è semplice: non portavano un’uniforme. 

Ad eccezione dei soldati condannati per il massacro di Kafr Qasam nel 1956 e rimasti in prigione per non più di un anno, raramente ci sono stati altri processi nelle Corti israeliane contro uomini dello Stato, anche per la maggior parte degli odiosi massacri a cui questa terra ha assistito.

Le nostre mani sono impregnate di quel sangue. Quando Benjamin Netanyahu esprime le sue condoglianze e condannare l’omicidio di Mohammed, lo fa con lo stesso respiro di sempre, comunicando una rivendicazione pericolosa e razzista sulla superiorità morale di Israele nei confronti dei suoi vicini.

Non c’è posto per simili assassini nella nostra società. In questo noi ci distinguiamo dai nostri vicini. Nelle loro società questi assassini sono visti come eroi e hanno delle piazze dedicate ai loro nomi. Ma questa non è l’unica differenza. Noi perseguiamo coloro che incitano all’odio, mentre l’Autorità Palestinese, i loro media ufficiali e sistema educativo fanno appello alla distruzione di Israele”.

Netanyahu ha dimenticato che diverse persone sospettate di essere criminali di guerra hanno servito in vari governi israeliani, alcuni sotto la sua stessa leadership, e che il numero di persone innocenti assassinate negli ultimi 66 anni di conflitto dipinge un quadro molto diverso.

Quando guardiamo il numero di ebrei israeliani e di palestinesi uccisi, vediamo che il numero dei palestinesi è molto più elevato.

Netanyahu dimentica anche, o cerca di farci dimenticare, l’incitamento diffuso propagato dal suo governo nelle ultime settimane, e le sue parole di vendetta dopo la scoperta dei corpi dei tre ragazzi ebrei rapiti – Gilad Shaar, Naftali Fraenkel ed Eyal Yifrah – quando tutti noi eravamo in stato di profondo shock: “Satana non ha ancora inventato una vendetta per il sangue di un bambino, né per il sangue di questi ragazzi giovani e puri” (…).

Le nostre mani hanno sparso questo sangue, e invece di dichiarare giorni di digiuno, lutto e pentimento, il governo ha ora deciso di lanciare un’operazione militare a Gaza, che ha chiamato “Operazione Bordo Protettivo”.

Chiediamo al governo di fermare questa operazione subito e di lottare per una tregua e per un accordo di pace, a cui il governo israeliano si è sempre opposto negli ultimi anni.

Gaza è la storia di tutti noi; è anche l’oblio della nostra storia. E’ il posto più segnato dal dolore in Palestina e in Israele (…). Gaza è la nostra disperazione.

Le nostre origini comuni sembrano essere state spazzate via sempre più lontano: dopo 40 anni di possibilità di un compromesso storico doloroso tra i due movimenti nazionali, quello palestinese e quello sionista, questa opzione è gradualmente evaporata. Il conflitto viene reinterpretato in termini mitologici e teologici, in termini di vendetta, e tutto ciò che ora possiamo promettere ai nostri figli sono molte altre guerre per le generazioni a venire, nuove uccisioni tra entrambi i popoli, e la costruzione di un regime di apartheid che richiederà ancora più decenni per essere smantellato.

Le nostre mani hanno sparso questo sangue (…), cerchiamo di lavorare contro questa tendenza. Lo facciamo attraverso le varie comunità della nostra società: ebrei e palestinesi, arabi e israeliani, Mizrahi e Ashkenazi, tradizionalisti, religiosi, laici e ortodossi.

Abbiamo scelto di opporci ai muri, alle separazioni, alle espropriazioni e deportazioni, al razzismo e alla colonizzazione, per offrire un futuro comune come alternativa all’attuale stato depressivo, oppressivo e violento della nostra società.

Vogliamo costruire un avvenire che non si arrenda al ciclo di violenza e di vendetta, ma che al suo posto offra la giustizia, la riparazione, la pace e l’uguaglianza; un futuro che attinge agli elementi comuni della nostra cultura, umanità e tradizioni religiose in modo che le nostre mani non serviranno più a spargere sangue, ma a ricongiungerci l’uno con l’altro in pace, con l’aiuto di dio, Insha’Allah.

 

*Traduzione dall’ebraico all’inglese di Idit Arad and Matan Kaminer. La lettera, pubblicata originariamente sul sito Haokets , è stata pubblicata in inglese sul magazine israeliano +972mag , che ringraziamo per la gentile concessione. Al link originale la lista dei cittadini israeliani firmatari della lettera. La traduzione in italiano è a cura di Stefano Nanni e Anna Toro. La foto pubblicata è di Lia Tarachansky, e mostra una manifestazione anti-militarista a Tel Aviv nei giorni scorsi. 

 

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il vangelo commentato da p. Maggi

maggi

“LASCIATE CHE L’UNA E L’ALTRO CRESCANO INSIEME FINO ALLA MIETITURA”

Commento al Vangelo della sedicesima domenica del tempo ordinario (20 giugno) di p. Alberto Maggi

Mt 13,24-43

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”». Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo». Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

Gesù propone ai suoi discepoli tre parabole che riguardano le tre grandi tentazioni della comunità:

– la tentazione di essere una comunità di eletti

– la tentazione della grandezza

– la tentazione dello scoraggiamento

Per queste parabole Gesù prende tre elementi della natura, il grano, la senape e il lievito, che richiedono un processo di crescita paziente; ogni accelerazione può essere nefasta. Queste parabole servono per far comprendere cosa sia il regno dei cieli. Questa espressione tipica di Matteo non indica il regno nei cieli, ma il regno di Dio, cioè l’alternativa di società che Gesù è venuto a proporre. La prima parabola parla di un uomo che ha seminato del buon seme, ma di notte il nemico gli semina la zizzania. La zizzania è una pianta i cui grani sono tossici e hanno un effetto narcotico. Ebbene i servi si meravigliano che nel campo del signore ci sia la zizzania e mettono in dubbio la bontà della sua semina e gli chiedono: “«Non hai seminato del buon seme?»” E il padrone risponde: “«Un nemico ha fatto questo!»” Ed ecco pronto lo zelo dei servi: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?»La loro azione rischia di essere più pericolosa della zizzania. Lo zelo dei servi è più pericoloso del danno che può fare la zizzania. E l’uomo risponde: «No, perché non succeda che raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano»”. Poi verrà il momento della maturazione e là sarà palese quello che è grano, che offre la vita, e quello che è zizzania, che invece è tossica e produce la morte. Nella seconda parabola Gesù prende le distanze dall’immagine grandiosa del regno che era stata descritta dal profeta Ezechiele nel capitolo 17 del suo libro. Il profeta immaginava un altissimo monte e sopra a questo altissimo monte un cedro. Il cedro è la pianta più bella, l’albero più bello, chiamato “il re degli alberi”, quindi qualcosa che anche da lontano attira l’attenzione. Ebbene Gesù prende le distanze da tutto questo, “il regno è come un chicco di senape “, che è l’elemento più piccolo, quasi microscopico, “che viene gettato nel campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi, ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto”. Attenzione a questo particolare. Non è una pianta che cresce nell’alto di un monte, ma nell’orto di casa. L’arbusto della senape – perché nemmeno si può parlare di albero – anche nel momento del suo massimo sviluppo raggiunge 2 metri e mezzo, tre al massimo. E’ una pianta comune che non attira l’attenzione. Il regno di Dio, anche nel momento del suo massimo

sviluppo, non attirerà l’attenzione degli uomini per la sua grandiosità, per la sua magnificenza. Ma, essendo questi semi piccolissimi, il vento li porta ovunque ed è una pianta infestante. Infine la terza parabola che riguarda il regno, dice: «Il regno è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina finché non fu tutta lievitata»”. Perché l’evangelista adopera questa unità di misura? Tre misure di farina sono circa 40 Kg. e questa unità si ritrova in tre episodi dell’Antico Testamento che riguardano la realizzazione di quello che veniva ritenuto impossibile. E’ quello che offrono Abramo e Sara quando viene loro annunziato che avranno un figlio nonostante la loro tarda età. E’ la stessa di Gedeone che si sente abbandonato da Dio e crede che le promesse di liberazione del Signore ormai non si possano realizzare, ed è quella di Anna, la madre del profeta Samuele che era sterile e invece avrà un figlio. Quindi si tratta di situazioni in cui quello che sembrava impossibile diventa realtà. Allora Gesù assicura che la forza del suo messaggio è tale che sarà capace di fermentare il mondo intero. Tre parabole, l’unica nella quale i discepoli chiedono spiegazioni è quella della zizzania, ma non perché non l’abbiano capita; è proprio perché l’hanno capita che non sono d’accordo. Loro sono animati da sentimenti di superiorità, di ambizione, di rivalità tra di loro, e quindi non sono d’accordo su questo fatto di non essere una comunità di giusti, una comunità di eletti. Si avvicinano a Gesù e, in maniera imperativa, gli dicono: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo»”. Quindi il tono è di chi non è d’accordo. E Gesù la spiega. «Colui che semina il buon seme è il Figlio

dell’uomo»”, Figlio dell’uomo indica Gesù nella sua condizione divina, «Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno.»Figli del Regno sono coloro che hanno accolto le condizioni perché il regno diventi realtà. E la condizione perché il regno diventi realtà è la conversione, la sostituzione di falsi valori che reggono la società, per accogliere i nuovi proposti da Gesù, cioè la condivisione, il servizio, e l’amore universale. «La zizzania sono i figli del Maligno»”, con il termine “figlio” si indica colui che assomiglia al padre, e questo nemico Gesù lo individua nel diavolo, che è il potere, il dominio, l’apparenza. «La mietitura è la fine di quest’epoca»”, non la fine del mondo, “«e i mietitori sono gli angeli»”, cioè gli inviati del Signore. E Gesù aggiunge, spiegando: «Come dunque si raccoglie la zizzania»”, quello che è tossico «e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine di questo tempo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali»”. L’espressione scandalo ricorre nello scontro tra Gesù e Pietro, quando Gesù gli dirà: “Allontanati da me che sei causa di scandalo”. Lo scandalo è dovuto all’idea di un messia trionfante, di un messia di successo, che non sarà quello che si manifesterà in Gesù. Quindi qui si riferisce a tutti quelli che vogliono il trionfo, «E tutti quelli che commettono iniquità»”. L’espressione è apparsa per quei discepoli che sono costruttori del nulla, aveva detto Gesù, perché annunziano il messaggio, ma non come espressione della loro vita, bensì come uso del nome del Signore. Convertono gli altri, ma non hanno convertito se stessi. Questi Gesù li considera come coloro che commettono iniquità, cioè coloro che costruiscono il nulla. E qui Gesù prende in prestito l’immagine del profeta Daniele e dice: «Li getteranno nella  ardente»”, che significa la distruzione completa, simbolo di morte, «Dove sarà pianto e stridore di denti»”. Questa è un’immagine che indica la disperazione per il  fallimento. Nella nostra lingua italiana possiamo usare l’espressione “strapparsi i capelli”, ha lo stesso significato, segno di disperazione e di fallimento. Allora, sempre usando espressioni del libro di Daniele, «I giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro»”. Chi sceglie la vita ha la vita. E’ questo il significato di questa parabola: chi produce la vita entra nella pienezza di vita; chi è morto e ha prodotto morte sprofonda nella pienezza della morte.

 

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Israele sta uccidendo anche con le nostre armi

Armi e sistemi bellici, Italia primo fornitore Ue di Israele. Rete Disarmo: “La smetta”

“Nel 2012 rilasciate autorizzazioni per 470 milioni di euro per l’esportazione di sistemi militari verso lo Stato israeliano”, spiega Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa: più del doppio di quanto totalizzato insieme da Germania e Francia. L’organizzazione: “Vendiamo armi a una delle parti in conflitto, come possiamo essere mediatori?”. Appello dei deputati Pd: “Serve un embargo immediato”
Armi

mentre tutto il mondo si dice preoccupato dei morti nella Striscia di Gaza – hanno già superato i 200, la maggior parte dei quali civili, con tanti bambini e donne – emerge da un’inchiesta di G. Beretta sull’export di armi italiane verso Israele che l’Italia ne è il primo fornitore Ue

di seguito il servizio in proposito uscito su ‘il fatto quotidiano’ del 16 luglio per la penna di G. Baioni:
 L’Italia supera Francia e Germania messe insieme nell’export di armi verso Israele: tra i paesi dell’Ue siamo di gran lunga il primo fornitore di sistemi militari dello Stato israeliano, con un volume di vendite che è oltre il doppio di quello totalizzato da Parigi o Berlino. Anzi, da soli quasi eguagliamo Francia, Germania e Regno Unito. Lo dicono i dati dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa. Numeri eloquenti, tanto più in questi giorni di guerra. Ed è per questo che la Rete Italiana Disarmo chiede un embargo immediato sulla vendita di sistemi d’arma a Israele: lo fa con un appello al presidente del consiglio Matteo Renzi e al ministro degli Esteri Federica Mogherini, che proprio ora si trova in missione in Medio Oriente. Appello a cui ieri hanno aderito alcuni deputati Pd guidati da Pippo Civati (Davide Mattiello, Luca Pastorino, Giuseppe Guerini, Paolo Gandolfi, Veronica Tentori) e la senatrice democratica Lucrezia Ricchiuti.

“L’Italia – spiega Giorgio Beretta, analista dell’Opal – è il maggiore esportatore dell’Unione europea di sistemi militari e di armi leggere verso Israele: si tratta di oltre 470 milioni di euro di autorizzazioni per l’esportazione di sistemi militari rilasciate nel 2012 (dati del Rapporto UE) ed oltre 21 milioni di dollari di armi leggere vendute dal 2008 al 2012 (dati Comtrade)”. In percentuale, oltre il 41% degli armamenti regolarmente esportati dall’Europa verso Israele sono italiani. Secondo l’Osservatorio, solo negli ultimi tre anni si parla di 3,4 milioni di euro, a cui vanno aggiunti oltre 11,2 milioni di armi leggere non militari (difesa personale, sport, caccia), prodotte ed esportate per l’82% (cioè 9,2 milioni di euro) dal distretto armiero di Brescia e Val Trompia. Nel corso degli ultimi tre anni le vendite autorizzate di armamento verso il governo di Tel Aviv hanno riguardato in particolare armi di calibro superiore ai 12,7 mm e aeromobili, sistemi d’arma ad energia diretta e apparecchiature elettroniche. Tra le imprese coinvolte figurano Simmel Difesa, Beretta, Northrop Grumman Italia, Galileo Avionica, Oto Melara ed Elettronica spa.

«Nel maggio 2005, durante il terzo governo Berlusconi – prosegue Beretta – l’Italia ha ratificato un “Accordo generale di cooperazione tra Italia e Israele nel settore militare e della difesa”. Come altri accordi simili, anche quello con lo Stato di Israele definisce la cornice della cooperazione militare in diversi aspetti (misure gli scambi nella produzione di armi, trasferimento di tecnologie, formazione ed addestramento, manovre militari congiunte e ‘peacekeeping‘), ma l’intento principale è quello di facilitare la collaborazione dell’industria per la difesa italiana con quella israeliana. A tale accordo ne ha fatto seguito un altro: si tratta dell’accordo firmato nel 2012 – durante il governo Monti – “per la fornitura ad Israele di velivoli per l’addestramento al volo e dei relativi sistemi operativi di controllo del volo, ed all’Italia di un sistema satellitare ottico ad alta risoluzione per l’osservazione della Terra (OPTSAT -3000) e di sottosistemi di comunicazione con standard Nato per alcuni velivoli dell’AMI”.

L’ultimo esempio in ordine di tempo della nostra “collaborazione strategica” con Israele risale a pochi giorni fa: mentre era già in corso l’offensiva israeliana su Gaza, il gruppo italiano Alenia-Aermacchi (gruppoFinmeccanica) consegnava a Tel Aviv due M-346: “Sono due aerei addestratori – ci spiega Francesco Vignarca, coordinatore nazionale di Rete Disarmo – e come tali sono stati venduti e acquistati, ma sappiamo dalle loro schede tecniche che possono essere anche configurati come bombardieri leggeri“. In Israele li hanno già soprannominati “lavi”, che significa “leone”. Sul sito ufficiale della Israeli Air Force, se ne annuncia l’arrivo salutandolo come l’inizio di “una nuova era”: “I nuovi aerei porteranno un cambio significativo nell’addestramento delle future generazioni di piloti dell’IAF e dei sistemi d’arma ufficiali, nonché nelle procedure di formazione di tutta l’aviazione”. La consegna dei due velivoli è la prima trance di una commessa di 30 aerei: la vendita si iscrive nell’accordo di cooperazione militare siglato nel 2005 sotto il governo Berlusconi.

Le implicazioni politiche, secondo gli osservatori, sono evidenti: “Noi vendiamo sistemi d’arma a una delle due parti in conflitto, quindi non siamo equidistanti e la nostra posizione come mediatori ne è inficiata”, prosegue Vignarca. Ma non è tutto. Ai dati certi si aggiungono altre considerazioni: “Abbiamo venduto anche molte armi leggere ai paesi dell’area mediorientale. Nel caso della Siria, come abbiamo denunciato mesi fa, sappiamo che molte di queste armi sono confluite all’interno del paese. Lo stesso possiamo pensarlo per la Palestina. Non abbiamo prove in questo momento, ma in passato le abbiamo avute: le armi leggere hanno una circolazione carsica, sono molto meno controllabili. E finiscono dove c’è richiesta. Come in Iraq, quando i terroristi sparavano contro i nostri carabinieri con delle beretta”.

“Non va dimenticato – conclude Beretta – che l’Italia non solo esporta, ma anche importa armi da Israele, che negli ultimi due anni hanno superato il valore complessivo di 50,7 milioni di euro, la qual cosa ne fa il quarto fornitore del nostro ministero della Difesa. La Simmel, ad esempio, importa componenti per bombe e la Beretta componenti per armi automatiche, come particolari modelli di pistole e di mitragliatori”. Per queste ragioni la Rete Italiana Disarmo chiede con forza “la sospensione dell’invio di sistemi militari e di armi nella zona. Il nostro Governo, che in questo semestre ha l’incarico di presiedere il Consiglio dell’Unione europea, si faccia subito promotore di un’azione a livello comunitario per un embargo europeo di armi e sistemi militari verso tutte le parti in conflitto, per proteggere i civili inermi e riprendere il dialogo tra tutte le parti”. Secondo loro, inoltre, tutto ciò avviene in aperto contrasto con la nostra legislazione relativa all’export di armamenti, che prevede (proprio nel primo articolo) l’impossibilità di fornire armamenti “a Paesi in stato di conflitto armato o i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa

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le proprietà di molti monsignori: ma che ci devono fare?

Cardinali milionari: la mappa delle proprietà private del clero

Appartamenti, ville, vigneti, uliveti, boschi. I risultati di mesi di ricerche catastali sui patrimoni personali di oltre cento alti prelati: una collezione di fortune private (regolarmente dichiarate al fisco), alla faccia dell’umiltà e alla modestia di Papa Francesco
di Paolo Biondani

Cardinali milionari: la mappa delle proprietà private del clero

Beati i poveri, perché di essi è il regno dei cieli, insegnava Gesù di Nazareth nel  Discorso della Montagna. Dopo duemila anni di predicazioni nel nome di Cristo, però, sulla terra continuano a passarsela meglio i ricchi. Non solo i laici, agnostici o miscredenti. Anche tra i cattolici più devoti c’è chi ostenta patrimoni invidiabili. E perfino tra gli alti prelati di Santa Romana Chiesa ora spunta una specie di club dei milionari: cardinali e vescovi che sono proprietari di grandi fortune private. Palazzi, appartamenti, monolocali, fabbricati rurali, capannoni, cantine, fattorie, agrumeti, uliveti, frutteti, boschi e pascoli sterminati.

Si tratta di ricchezze assolutamente lecite, spesso frutto di lasciti testamentari o eredità familiari, che non si possono in alcun modo accostare alle fortune illegali accumulate da quelle pecore nere che, ieri come oggi, non sono mai mancate neppure nelle greggi cattoliche. Dopo l’avvento di Papa Bergoglio, il pontefice che ha scelto di ispirarsi già dal nome a San Francesco d’Assisi e che non perde occasione per richiamarsi alla «Chiesa dei poveri», ammonire che «San Pietro non aveva il conto in banca», scagliarsi contro «il peccato della corruzione» e «certi preti untuosi, sontuosi e presuntuosi» che sfoggiano «macchine di lusso», però, anche in Vaticano c’è chi comincia a chiedersi quante ricchezze personali possiedano i prelati più potenti. Chi riuscirà a passare dall’evangelica cruna dell’ago?

A regalare le prime risposte documentate è il nuovo libro-inchiesta di Mario Guarino (“Vaticash”, ed. Koinè), il giornalista investigativo che più di vent’anni fa svelò molti segreti di Silvio Berlusconi quando era solo “il signor tv”. Dopo aver ripercorso i vecchi e nuovi intrighi ecclesiastici, dall’Ambrosiano allo Ior, dalle collusioni mafiose alle cricche edilizie e finanziarie, Guarino espone i risultati di mesi di ricerche catastali sui patrimoni personali di oltre cento alti prelati, con dati aggiornati all’aprile 2014. Una collezione di fortune private regolarmente dichiarate al fisco, che non ha nulla a che fare, dunque, con le polemiche sulle leggi di favore per le istituzioni religiose o sull’esenzione dalle tasse riservata ai beni degli enti ecclesiastici. Nessuno scandalo giudiziario, insomma: solo un viaggio ragionato, tra citazioni dei vangeli e appelli all’umiltà e alla modestia di Papa Francesco, alla scoperta delle fortune immobiliari, schedate nei pubblici registri del catasto italiano, che fanno capo alle persone fisiche di cardinali e vescovi. Un’inchiesta giornalistica che sfata e riserva parecchie sorprese.  

Monsignor Liberio Andreatta è da molti anni il responsabile dell’Opera romana pellegrinaggi (Orp), l’agenzia vaticana per il turismo religioso, che organizza i viaggi di milioni di pellegrini verso mete di culto come Assisi, Fatima o Medjugorje. Nato nel 1941 in provincia di Treviso, il religioso proviene da una famiglia molto in vista e oggi risulta titolare di un notevolissimo patrimonio personale: a suo nome, il catasto italiano rilascia ben 38 fogli di visure immobiliari. Monsignor Andreatta infatti possiede a titolo personale svariate centinaia di ettari di terreni, coltivati a uliveti, frutteti, boschi da taglio e castagneti, sparsi tra la Maremma e le campagne di Treviso. Nella provincia natia, precisamente a Crespano del Grappa, possiede anche un edificio di 1432 metri quadrati e, insieme ad alcuni parenti, ha altri tre immobili in usufrutto. Inoltre risulta proprietario di una serie di fabbricati rurali tra Fibbianello e Semproniano, sulle colline toscane attorno a Saturnia. Stando ai registri catastali, ha accresciuto il suo patrimonio anche in tempi recenti, acquistando tra il 2008 e il 2011 altre centinaia di ettari di uliveti in Maremma.

Grande possidente, specializzato però nell’edilizia residenziale, è anche l’attuale arcivescovo di Palermo, il cardinale Paolo Romeo, nato nel 1938 ad Acireale: nella sua cittadina d’origine risulta aver acquistato, dal 1995 al 2013, otto appartamenti e quattro monolocali in via Felice Paradiso, oltre ad alcune abitazioni per complessivi 22 vani e altri due monolocali in corso Italia. Le visure catastali, inoltre, attribuiscono all’arcivescovo la proprietà di altri nove appartamenti (più un monolocale) in otto diversi stabili in via Giuliani; tre abitazioni e due monolocali in via Kennedy; altri cinque appartamenti (il più grande di 15 vani) in via San Carlo; un altro edificio residenziale e tre monolocali in altre strade sempre di Acireale, dove è intestatario di un ulteriore appartamento in via Miracoli. Nella stesso comune siciliano, il cardinale possiede anche decine di ettari di terreni seminativi, oltre a un vastissimo agrumeto che però è in comproprietà con alcuni familiari.

Più diversificato il patrimonio personale del cardinale Camillo Ruini: l’ex presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), nato a Sassuolo nel 1931, è proprietario di tre appartamenti e tre monolocali a Modena, in via Fratelli Rosselli. A Reggio Emilia possiede un ulteriore appartamento, più un monolocale e un seminterrato. Insieme a una sorella, inoltre, è cointestatario di un’abitazione (con pertinenze immobiliari) nella natia Sassuolo. Il catasto infine attribuisce all’ex rappresentante dei vescovi italiani la proprietà di altri tre appartamenti e un monolocale a Verona.

Il cardinale Fiorenzo Angelini, nato a Roma nel 1916, storico sponsor di Giulio Andreotti ed ex responsabile della sanità vaticana, si accontenta invece della proprietà di due appartamenti su due piani a Roma, per complessivi 16,5 vani, in via Anneo Lucano, zona Monte Mario.

Molto meglio se la passano alcuni prelati che hanno assunto cariche importanti negli ultimi anni. L’arcivescovo ciellino Ettore Balestrero, nato a Genova nel 1966, che si schierò al fianco del cardinale Tarcisio Bertone nella contesa sullo Ior, è un poliglotta che ha girato il mondo e ora è nunzio apostolico in Colombia. Eppure conserva numerose proprietà in Italia, tra cui una residenza di dieci vani a Roma, in via Lucio Afranio, alle spalle dell’Hotel Hilton Cavalieri, altre quattro unità immobiliari a Genova tra le vie Tassorelli e Pirandello (la più grande è di 9,5 vani) e un appartamento in nuda proprietà a Stazzano, nell’Alessandrino, dove però possiede anche molti terreni agricoli e boschi da taglio.

Monsignor Carlo Maria Viganò, nato a Varese nel 1941, che sotto papa Ratzinger si era conquistato la fama di incorruttibile moralizzatore, proviene da una famiglia più che benestante: insieme a un familiare è comproprietario di circa mille ettari di terreni a Cassina de’ Pecchi, vicino a Milano. Nello stesso comune possiede inoltre quattro appartamenti e tre fabbricati.

Anche il vescovo Giorgio Corbellini, nato a Travo (Piacenza) nel 1947, attuale presidente dell’Autorità d’informazione finanziaria (Aif, cioè l’antiriciclaggio) dopo le dimissioni di Attilio Nicora, appartiene a una famiglia ricca. Con alcuni parenti è comproprietario, sulle colline di Bettola (Piacenza), di circa 500 ettari di boschi, due fabbricati e altre centinaia di ettari di pascoli e terreni seminativi. Inoltre possiede tre appartamenti e un fabbricato nel suo paese natale.

Il cardinale Domenico Calcagno, nato a Parodi Ligure (Alessandria) nel 1943, ha dovuto lasciare in gennaio la commissione di vigilanza sullo Ior, mentre mantiene dal 2011 la carica di presidente dell’Apsa, l’ente che amministra gli immobili dello Stato vaticano. Ma anche il suo patrimonio privato non è trascurabile: il catasto italiano gli attribuisce, tra l’altro, un appartamento di 6,5 vani in via della Stazione di San Pietro e altri quattro edifici residenziali nel suo paese natale. Inoltre, insieme a due parenti, è comproprietario di oltre 70 ettari di campi e vigneti in Piemonte.

I terreni agricoli sono un bene-rifugio molto apprezzato anche da altri prelati. L’arcivescovo Michele Castoro, presidente dal 2010 della fondazione che controlla tra l’altro il grande ospedale di San Giovanni Rotondo, possiede 43 ettari di terreni a Gravina di Puglia, oltre a vari fabbricati rurali e a due appartamenti (il più grande di 12,5 vani). Ad Altamura, dove è nato nel 1952, risulta inoltre comproprietario, con cinque familiari, di altri 63 ettari di vigneti. Mentre l’ex decano dei cerimonieri pontificali, monsignor Paolo Camaldo, possiede insieme a due parenti nella natia Basilicata, tra Lagonegro e Rivello, un totale di 281 ettari di campi e vigneti.

Il libro di Guarino riporta correttamente che decine di cardinali italiani anche con ruoli di prim’ordine, come Angelo Bagnasco, Pio Laghi, Giovan Battista Re o Angelo Sodano, non hanno alcuna proprietà immobiliare.

Nullatenente risulta, come molti altri, anche l’ex segretario di Stato, Tarcisio Bertone, criticato però per la scelta di una lussuosa abitazione intestata al Vaticano: un attico di circa 700 metri quadrati a Palazzo San Carlo, ricavato dall’accorpamento di due residenze (la prima di un monsignore morto nel 2013, l’altra di una vedova convinta a sgomberare). Va ricordato che Papa Francesco vive in un semplice bilocale di 70 metri quadrati, così come monsignor Pietro Parolin, il nuovo segretario di Stato vaticano.

Gli archivi del catasto gettano nuova luce anche sulle ricchezze personali di alcuni dei personaggi più controversi della Chiesa siciliana. Monsignor Salvatore Cassisa, l’ex vescovo di Monreale più volte inquisito dai magistrati di Palermo ma sempre assolto in Cassazione, risulta tuttora contitolare, insieme a una parente, di due immobili per complessivi 18 vani a Palermo. Con altri familiari, inoltre, ha un appartamento in comproprietà e tre in usufrutto a Erice, che si aggiungono a 26 ettari di terreni e 14 unità immobiliari (per complessivi 54 vani) a Trapani.

Un vero mistero (errore della burocrazia o qualcosa di peggio?) riguarda don Agostino Coppola, l’ex parroco di Carini che fu arrestato e condannato come complice dei mafiosi corleonesi di Luciano Liggio nella sanguinosa stagione dei sequestri di persona. Gettata la tonaca e sposatosi, si era visto sequestrare tutti i beni scoperti dai giudici di Palermo e Milano, tra cui una villa da un miliardo di lire, prima di morire nel 1995. Eppure l’ex sacerdote, che celebrò le nozze in latitanza di Totò Riina, compare tuttora come proprietario di 83 ettari di uliveti e 14 di agrumeti a Carini. A nome del defunto e dei suoi familiari è registrato pure il possesso perpetuo (con l’antico sistema dell’enfiteusi) di altri 49 ettari di campagne e due fabbricati a Partinico. Terreni concessi al prete mafioso, stando ai dati del catasto siciliano, da due proprietari istituzionali: il Demanio statale e l’Amministrazione del fondo per il culto.

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sì alle donne vescovo

la chiesa anglicana dice sì alle donne vescovo

donne vescovo

 

 

 

 

 

 

no, non in ambito cattolico (per il quale ci vorranno secoli, ancora – il card. Martini aveva parlato di una chiesa in ritardo di tre secoli sulla storia … – ), ma in ambito protestante anglicano è stato dato, con ampia maggioranza, il via libera alla consacrazione di donne all’episcopato
i nostri ambienti cattolici hanno valutato negativamente questa decisione e gridato all’ennesimo ‘strappo’ della chiesa anglicana sia rispetto alla propria storia sia rispetto alla tradizione, ma forse trapela una concezione un po’ rigida teologicamente e astorica di ‘tradizione’
di seguito, con l’aiuto del sito ‘finesettimana’, una piccola rassegna stampa coi link ad alcuni articoli usciti sulla stampa italiana ed estera in questi giorni:
“La Chiesa d’Inghilterra ha detto sì alle donne vescovo con un voto del Sinodo che si è riunito ieri pomeriggio a York… L’ennesimo “strappo” della Chiesa d’Inghilterra rispetto alla propria storia pluri-secolare e soprattutto alla tradizione apostolica che renderà più difficile il cammino ecumenico, in particolare con la Chiesa cattolica e le Chiese orientali”
“Tra applausi e grida di giubilo, la Chiesa d’Inghilterra ha votato a favore della nomina di donne vescovo, interrompendo una tradizione di duemila anni e ponendo fine ad un dibattito lacerante… L’Arcivescovo di Canterbury Justin Welby: «il voto segna l’inizio di una grande avventura… Ma sono anche consapevole di quanti troveranno l’esito del voto difficile e penoso»”
“«Per tenerlo in vita [il dialogo tra Roma e la Comunione anglicana], l’ecumenismo spirituale e l’amicizia quotidiana tra cristiani di diverse confessioni dovranno crescere e superare le divisioni teologiche… È un evento grave che rischia di riflettersi in maniera estremamente negativa sul secolare percorso verso l’unità di tutti i cristiani»”
“La Chiesa d’Inghilterra promuove le donne. Già dal 1994 possono essere ordinate sacerdoti. Da ieri potranno diventare vescovi. Dopo due anni di intense discussioni, crisi di coscienza e lacerazioni, il Sinodo della Chiesa anglicana di Canterbury e York ha votato e deciso a maggioranza in tutte e tre le componenti: preti, vescovi e laici… La gerarchia anglicana ha scelto di misurarsi con la modernità in modo profondamente diverso rispetto al Vaticano”
“In Inghilterra è dal 1549… che i preti possono sposarsi e sono vent’anni che le donne, maritate o meno, possono diventare “vicario” ovvero sacerdote e dire messa. Da ieri la Chiesa Anglicana ha fatto un altro passo avanti verso eguaglianza tra i sessi e modernità, approvando l’episcopato femminile… Il rischio per gli anglicani è che adesso la parte più conservatrice del clero e dei fedeli fugga verso un cristianesimo più tradizionalista, come viene percepito ad esempio quello cattolico”
“Il voto della Chiesa d’Inghilterra a favore dell’ordinazione a vescovo delle donne non cambia nulla nelle sue relazioni ufficiali con la Chiesa cattolica. E tuttavia cambia molto… la realtà delle donne nel clero risale al 1970 (le prime ordinazioni ebbero luogo in Asia, in Nord America e in Nuova Zelanda)… Ma per la maggior parte degli anglicani, la Chiesa d’Inghilterra ha davvero una posizione “sentimentale” di “Chiesa madre”…”
“da vent’anni, le donne hanno accesso al presbiterato nella Chiesa d’Inghilterra. I sostenitori del pieno accesso delle donne alle funzioni episcopali… si trovano all’interno della gerarchia anglicana… vescovi degli Stati Uniti, del Canada, dell’Australia e del Regno Unito… Nel campo opposto figurano il movimento evangelicale e i preti conservatori, essenzialmente africani.” (ndr.: quando si parla della comunione anglicana e quando della Chiesa d’Inghilterra?)
“Alla fine hanno detto sì… In due anni, gli argomenti teologici non sono cambiati. “I progressisti, sostenitori della riforma, insistono sul fatto che, se Cristo si è incarnato, è innanzitutto che si è fatto umano, e non che si è fatto uomo nel senso maschile del termine”… Tra gli oppositori, si notano due tendenze: gli evangelicali e una parte degli anglo-cattolici… Ma il testo adottato ieri intende superare la controversia teologica, mettendo in atto una serie di misure di salvaguardia”
“Per molte donne nella Chiesa d’Inghilterra, Vivienne Faull, 59 anni, è un esempio… diaconessa a 27 anni, è tra le prime donne ordinate prete nel 1994… nel 2000 prevosto della cattedrale di Leicester… prima donna decano nel 2002… Anche Rosie Harper e una delle donne in vista nella Chiesa anglicana: Come essere credibili… in un paese in cui le donne sono oppresse, se succede la stessa cosa anche nella propria istituzione?, protesta. Chi vuole una Chiesa che discrimina?”
“Non è la prima volta nella Comunione anglicana. Donne vescovo esistono già nelle Chiese anglicane del Canada, degli Stati Uniti, dell’Africa del Sud, della Nuova Zelanda e dell’Australia… La decisione dell’Inghilterra certo non aiuterà, ma fondamentalmente non cambia la situazione. Coloro che volevano lasciare la Chiesa anglicana per unirsi alla Chiesa cattolica lo hanno già fatto”
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Gaza; ” i giornali non dicono la verità”

 “ciò che leggete sui giornali non è vero”

Da Gaza al mondo, parla un gruppo di cooperanti italiani in Palestina: “I gazawi ci hanno insegnato la dignità, la sofferenza e la resistenza. Leggiamo articoli di giornale che non raccontano lo squilibrio tra una forza occupante e una popolazione occupata”.

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 Basta con chi fa finta di non vedere. Basta con chi pensa che una partita di pallone sia più importante di un’intera popolazione inerme sotto le bombe…Basta con chi dà del terrorista a un’intera popolazione senza mai aver voluto ascoltare le voci di Gaza. Basta con giornalisti che scrivono articoli comodamente seduti da casa o dalle redazioni a Roma e Milano. Basta con l’equidistanza a tutti i costi. Basta con le condanne bipartisan e con le parole misurate.

Siamo operatori umanitari e condanniamo la violenza verso i civili, SEMPRE. Per questo non possiamo restare silenti dinanzi ad un attacco armato indiscriminato verso una popolazione che non ha rifugi, posti sicuri o possibilità di fuga. Una popolazione strangolata economicamente e assediata fisicamente, rinchiusa in una prigione a cielo aperto.

Non possiamo far finta di nulla. Noi Gaza la conosciamo perché ci lavoriamo, perché la viviamo e lì abbiamo imparato cos’è la sofferenza, ma anche la resistenza. E non parliamo di lancio di razzi: per i circa due milioni di persone che risiedono a Gaza, che vivono da 48 anni sotto occupazione, dimenticate dal mondo, che piangono morti che sono sempre e solo numeri, che subiscono interessi politici sempre più importanti della vita umana… resistere è essere capaci, nonostante tutto, di andare avanti.

Gaza ci ha insegnato semplicemente la dignità umana.

Siamo qui e ci sentiamo inermi e, ancora una volta, esterrefatti perché continuiamo a leggere articoli di giornale che a nostro avviso non rispecchiano la realtà. Non raccontano lo squilibrio tra una forza occupante e una popolazione occupata. Enfatizzano la paura israeliana dei razzi lanciati da Gaza, che condanniamo ma che, fortunatamente, non hanno procurato morti e riducono a semplici numeri le oltre 100 vite spezzate a causa dei bombardamenti Israeliani in meno di tre giorni.

Tutto ciò che scriviamo non è frutto di opinioni personali o giudizi morali; è sancito e ribadito dai principi del diritto internazionale e del diritto umanitario internazionale, che muovono il nostro operato ogni giorno. Riteniamo inaccettabile che la risposta all’omicidio dei 3 coloni, avvenuto in circostanze ancora ignote, sia l’indiscriminata punizione di una popolazione civile indifesa: il diritto umanitario vieta le punizioni collettive – definite crimini di guerra dalla IV Convenzione di Ginevra (art. 33).

Israele ha addossato la responsabilità ad Hamas, attaccando immediatamente la Striscia, causando la risposta dei gruppi palestinesi con il lancio di missili su Israele. Il governo israeliano sostiene di voler colpire gli esponenti di Hamas e le sue strutture militari. E’ davanti agli occhi di tutti che ad essere colpiti finora sono soprattutto bambini e donne. Basta con lo scrivere che Israele reagisce ai missili da Gaza, la verità per chi vuol vederla e i numeri, se non interpretati con slealtà, sono chiari.

Dall’8 luglio, inizio dell’operazione militare “Protective Edge”, Israele ha bombardato 950 volte la Striscia, distruggendo deliberatamente oltre 120 case, (violando l’articolo 52 del Protocollo aggiuntivo I del 77 della convenzione di Ginevra), uccidendo 102 persone (inclusi 30 minori 16 donne,15 anziani e  1 giornalista) ferendo oltre 600 persone, di cui 50 in condizioni molto gravi.

Oltre 900 persone sono rimaste senza casa, 7 moschee, 25 edifici pubblici, 25 cooperative agricole, 7 centri educativi sono stati distrutti e 1 ospedale, 3 ambulanze, 10 scuole e 6 centri sportivi danneggiati. Dall’altro lato, il lancio di razzi da Gaza, secondo il Magen David Adom  (servizio emergenza nazionale israeliano), ha causato 123 feriti di cui: 1 ferito grave; 2 moderati; 19 leggeri; 101 persone che soffrono di shock traumatico.

Di fronte a questi numeri ci sembra intollerabile la non obiettiva copertura di gran parte della stampa internazionale e nazionale dell’attacco israeliano verso la Striscia di Gaza. Per questo riteniamo necessario prendere posizione e ribadire la necessità di riportare l’informazione, sullo scenario militare in corso, alle dovute proporzioni.

Ci appelliamo infine ai responsabili politici in causa e a quanti possano agire da mediatori, affinché le operazioni militari cessino immediatamente e perché si ponga fine all’assedio nella Striscia di Gaza.

Gerusalemme, 11 Luglio 2014

Siamo un gruppo di cooperanti che vive e lavora in Palestina. Tutto ciò che scriviamo è verificato da testimonianze sul campo e da fonti di agenzie internazionali. Per maggiori informazioni scrivete a: cooperantipalestina@inventati.org

– See more at: http://nena-news.it/gaza-cooperanti-italiani-basta-con-struzzi-e-coccodrilli/#sthash.CuMBUqKi.ToZhQY0Q.dpuf

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il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

 

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IL SEMINATORE USCI’ A SEMINARE 

Commento al Vangelo della domenica 15° del tempo ordinario (13 luglio) di p. Alberto Maggi

Mt 13,1-23

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti». Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”. Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno»

. La parabola de seminatore che troviamo nel capitolo 13 del vangelo di Matteo non vuole essere tanto un invito a esaminare se stessi, quanto un incoraggiamento ai discepoli ad annunziare il vangelo. Se in tre terreni si fallisce, nel quarto il frutto abbondante ripaga di tutte le perdite. Perché? Gesù confida nella potenza della parola creatrice. La parola di Gesù è la stessa parola di quel Dio che disse: “Sia la luce e la luce fu”. Quel Dio che nel profeta Isaia garantisce: “Così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me  effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”. Questa è la forza del messaggio di Gesù. Quindi la sua parola contiene in sé un’energia, una potenza creatrice che, quando viene accolta, libera tutta quanta la sua potenza. Allora Gesù esprime questo in parabole. Perché lo esprime in parabole? Ai discepoli che ha iniziato “ai misteri del regno dei cieli” … cosa sono i misteri? I misteri sono una conoscenza segreta. E qual è la conoscenza segreta del regno dei cieli? Che l’amore di Dio è universale. L’amore di Dio non ha un popolo preferito o una parte del mondo privilegiata. L’amore di Dio è universale. Ma questo al popolo non si può dire. Il popolo, imbevuto di una ideologia nazionalista, avrebbe rifiutato Gesù, come quando nel vangelo di Luca Gesù prova a proporre questo a Nazaret e sfugge per poco al linciaggio. Quindi Gesù alla gente parla in parabole, in modo che chi è in sintonia può capire; per gli altri sarà un pensiero che poi dovranno maturare. E Gesù propone questa parabola del seminatore ed è Gesù stesso che la commenta, quindi noi ci limiteremo a sottolineare il suo commento. “Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono”. Quindi qui c’è una parte del seme che, appena è caduta, subito viene portata via. Quindi una parte che non germoglia. E Gesù stesso  commenterà: “Ogni volta che uno ascolta la parola del regno e non la comprende…”, perché per comprendere questa parola c’è bisogno della conversione. Come nel brano del capitolo 6, versetti 9-10, che Gesù ha citato lungo questa parabola, quando il profeta Isaia si scontra con l’incomprensione del popolo, e terminava con “non comprendano con il cuore, non si convertano e io li guarisca”. Per comprendere la parola del Signore c’è bisogno di una conversione e la conversione nel vangelo di Matteo è mettere il bene dell’uomo al primo posto come valore assoluto. Ebbene, dice Gesù, “Ogni volta che uno ascolta la parola del regno e non la comprende”, appunto perché manca la conversione “viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato. Questo è il seme seminato lungo la strada”. Il maligno è immagine del potere, dell’ambizione. Queste persone sono completamente refrattarie o ostili alla parola del Signore, la vedono addirittura come una minaccia ai propri interessi. Quindi fallimento totale; nella prima neanche germoglia. “Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata”. L’effetto del sole sulla pianta è benefico, è ciò che la rafforza e la fa crescere. Qui invece fu bruciata. Ma la colpa non è del sole, la colpa è della pianta, anzi del terreno, perché essendo sassoso, la pianta non ha potuto mettere radici e si è seccata. Quindi nella prima non germoglia e nella seconda spunta, ma subito si secca. Ed è Gesù stesso che commenta: “Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la parola e l’accoglie subito con gioia”, quindi gli entusiasti di questo messaggio, che vedono nella parola di Gesù una risposta al proprio desiderio di pienezza di vita, ma “non ha in sé radici”, cioè la parola non mette radici nella persona, non la compenetra, non la trasforma. La parola di Dio va accolta e, una volta accolta, questa sprigiona tutte le sue capacità che trasformano l’individuo. Se non c’è questo “appena giunge una tribolazione o una persecuzione …”. Ma Gesù ha proclamato beati i perseguitati! E’ ovvio che annunziare questo messaggio d’amore va contro gli interessi del mondo che vive sul potere ed è normale che ci sia l’incomprensione o la persecuzione a causa della parola. E Gesù dice: “E subito viene meno”. Letteralmente “si scandalizza”, cioè inciampa. Quindi queste persone entusiaste che pensano che seguire Gesù sia andare incontro ad applausi, a riconoscimenti, quando vedono invece che si va incontro a incomprensioni e persecuzioni, crollano. Gesù continua: “Un’altra parte cadde sui rovi, i rovi crebbero e la soffocarono”. Qui il terreno era buono, ma era un terreno dove c’erano anche le spine. E’ cresciuta la pianta, sono cresciute le spine e l’hanno soffocata. E commenta Gesù: “Quello che è seminato tra i rovi è colui che ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la parola ed essa non da frutto”. Cosa significa? Le preoccupazioni del mondo fanno vedere nel denaro e nella ricchezza la loro soluzione. Ebbene quando si riesce a raggiungere questa ricchezza, questo denaro, però subito dopo questa suscita nuove ambizioni, nuovi desideri, nuove esigenze, e ci fa trovare di nuovo in preoccupazioni economiche, vedendo nel denaro ancora la soluzione. Allora una persona che è sempre preoccupata economicamente, una persona che pensa sempre ed esclusivamente per sé, come può pensare per gli altri? E’ per quello che soffoca la parola. Qui la tragedia è che il terreno è buono, produce, però la persona non ha sradicato la mala pianta dell’ambizione, della ricchezza. Per Gesù il valore della persona consiste nella sua generosità, e un individuo che è sempre preoccupato per sé naturalmente non può essere generoso. Infine Gesù dice: “Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto”. Quindi nella prima non germoglia, nella seconda spunta e si secca, nella terza cresce e si soffoca, qui invece nel terreno buono libera tutte le sue energie “e diede frutto, il cento, il sessanta, il trenta per uno”. Al tempo di Gesù, nella cultura dell’epoca, quando da un chicco di grano nasceva una spiga con dieci o tredici chicchi era già considerato un buon raccolto, perché la media era di sette o otto chicchi. In annate eccezionali si aveva una spiga addirittura con trenta chicchi. Ebbene, quello che è l’eccezione, l’abbondanza, Gesù lo mette alla fine. Gesù dice che darà frutto cento, sessanta o trenta. Non comincia da trenta e poi sessanta e cento. Quello che già è straordinario Gesù lo mette alla fine. All’inizio invece mette il cento. Quando c’è la conversione e si accoglie questa parola senza mettergli alcun limite, la parola libera tutta la sua energia creatrice e si trasforma in benedizione. Il numero cento nella Bibbia è immagine di benedizione. La parola entra nell’individuo, lo trasforma, l’individuo stesso diventa questa parola, e la sua esistenza è una benedizione per quanti avvicina. 

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razzismo a Mantova, ma solo a Mantova!

Forni crematori e saponi: il razzismo 2.0 verso i sinti di Mantova

mercoledì, 9 luglio 2014

I sinti che vivevano in un campo alla periferia di Mantova dovranno andare via entro il 20 agosto. La giunta di centrodestra guidata dal sindaco di Forza Italia Nicola Sodano ha deciso ormai da tempo di espropriare questi terreni, ma l’esecuzione di questa misura ha incontrato molte proteste da parte della comunità sinta. Nella giornata di lunedì i sinti mantovani hanno messo in atto una protesta che si è conclusa con un incontro con il primo cittadino. La notizia è stata riportata sul profilo Facebook del più importante quotidiano locale, “Gazzetta di Mantova”, e, come si vede da questo foto ripresa dal sito del Fatto Quotidiano, sulla bacheca del giornale sono arrivati numerosi commenti razzisti.

Alcuni, firmati, erano particolarmente pesanti, con tanto di invito alla riapertura dei forni crematori e al trasformare i sinti in sapone. La foto è stata diffusa dall’associazione Sucar Drom, che si è chiesta perché le autorità non intervengano di fronte a così evidenti casi di razzismo.

 

Carlo Berini, segretario di “Sucar Drom”, l’istituto di cultura Sinta di Mantova, ha rimarcato al “Fatto” come gran parte di questi commenti razzisti e xenofobi, a dir poco ora sono spariti, ma io li ho salvati e pubblicati sulla nostra pagina Facebook. Chiedo l’immediato intervento della Digos e della Procura della Repubblica, poiché chi ha scritto quelle frasi si è firmato e non deve passarla liscia. Non si può permettere che chi alimenta istigazione all’odio razziale rimanga impunito”. La tensione sul tema è piuttosto elevata, tanto che un consigliere della Lega Nord, il partito che più si è speso contro la presenza dei rom a Mantova, è stato accompagnato dalla Digos al consiglio comunale poi caratterizzato dalla protesta dei sinti locali. Il sindaco Sodano ha promesso un intervento, anche se ha rimarcato come l’esproprio dei terreni lottizzate abusivamente non possa essere ritirato.

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una chiesa sganciata da ogni potere

V. Mancuso riflette su un modo evangelico di essere chiesa

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soltanto se ha il coraggio e la determinazione, tutta evangelica, di prendere le distanze, non solo dal potere mafioso, ma da ogni tipo di potere, sia esso economico, finanziario, politico, militare, si può dire che la chiesa comincia a configurarsi secondo l’evangelico: “tra voi non sia così”

“In Calabria la processione si ferma davanti alla casa del boss, a Milano davanti alle banche e ai consigli di amministrazione, a Roma davanti ai palazzi della politica, e così via in ogni altra città di questo mondo. La questione quindi è molto semplice e consiste nel dovere della Chiesa di rinnovarsi in radice, mostrando di non voler più sedere accanto ai poteri costituiti per venirne a sua volta riconosciuta e legittimata quale potere, ma di non avere altra finalità se non esercitare la contraddizione profetica che fu del suo Fondatore rispetto alla logica dei poteri di questo mondo”

le connivenze che Bergoglio vuole spezzare

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 9 luglio 2014

Non esiste potere che non ami il riconoscimento e l’alleanza con altri poteri, sempre a condizione ovviamente che siano analoghi a sé quanto a potenza e che operino su piani diversi. Così il potere politico ama il riconoscimento del potere economico, il potere culturale il riconoscimento di quello sportivo, il potere cinematografico il riconoscimento di quello musicale, e così via in un circolo di molteplici, gradite e ricercate legittimazioni reciproche. È una logica che vale, da sempre, anche per il potere ecclesiastico, come appare dai vescovi e dai cardinali immancabilmente presenti nelle occasioni importanti della vita pubblica. Il riverente omaggio da parte della processione della Madonna alla casa del boss di Oppido Mamertina, provincia di Reggio Calabria, si inquadra esattamente in questa logica: esso non è stato altro che un pubblico riconoscimento di un potere costituito da parte di un altro potere costituito. È quanto in quei territori avviene da decenni, per non dire da secoli, con benefici da entrambe le parti, con un potere che consolida l’altro nelle menti della popolazione risultandone a sua volta consolidato. Papa Francesco non vuole più continuare questa politica connivente e oggi denuncia ciò che fino a ieri altri uomini di Chiesa quasi negavano. Si tratta di un’ottima notizia, sia per il cristianesimo sia per la società civile, ma deve essere chiaro che non si metterà fine a questa prassi solo scaricando la responsabilità sui preti e i cattolici delle regioni ad alta densità mafiosa. Infatti la logica che sottostà alla processione di Oppido Mamertina non è diversa da quella che ha portato papa Pio XI a firmare i concordati con l’Italia fascista del 1929 e con la Germania nazista del 1933, e poi papa Pio XII con la Spagna franchista del 1953. Quando vennero firmati i Patti lateranensi con Mussolini il fascismo aveva già abbondantemente mostrato il suo volto criminale e liberticida, basti pensare alla marcia su Roma del 1922, all’assassinio di Matteotti del 1924 e all’assunzione di responsabilità del Duce nel 1925; quando venne firmato il concordato con Hitler il suo antisemitismo era noto a tutti, come in quegli anni non cessavano di denunciare teologi come Barth e Bonhoeffer; e non parliamo di quanto fosse noto il vero volto di Francisco Franco nel 1953. La Chiesa cattolica però non esitò a fermare la sua processione davanti ai palazzi di quei dittatori sanguinari, ricevendone benefici e riconoscimenti e potendosi continuare a sedere tra i poteri forti d’Italia, di Germania e di Spagna. Sono solo esempi recenti di un fenomeno politico che la Chiesa cattolica ha spesso praticato nella sua lunga storia, a partire dall’epoca costantiniana, e che continua a praticare ancora oggi. Durante il potere berlusconiano l’azione del cardinal Bertone, per diversi anni numero due della gerarchia cattolica e da sempre fedelissimo di papa Benedetto XVI, che lo scelse in prima persona, è stata esattamente in questa prospettiva e oggi l’appartamento spaziosissimo che Sua Eminenza regala a se stesso in Vaticano è per la sua coscienza una giusta ricompensa per i servizi prestati alla Chiesa del potere amica dei potenti. Da tutto ciò consegue che quanto papa Francesco sta chiedendo ai cattolici delle regioni italiane infettate dalla mafia non riguarda solo i cattolici di quelle regioni, ma mette in discussione lo stile complessivo di essere Chiesa in tutto il mondo: se non si deve fermare la processione davanti alla casa del boss, neppure vi devono essere altri connubi, magari meno scandalosi, ma non per questo meno reali, con i poteri forti dei diversi territori su cui la Chiesa opera nel nome del suo fondatore. Infatti la ‘ndrangheta in quelle zone della Calabria, così come la camorra in alcune zone della Campania e la mafia in alcune zone della Sicilia non è semplice criminalità, neppure è riducibile a una criminalità organizzata in modo particolarmente efficace come potrebbero esserlo e ahimè lo sono alcune mafie straniere attive in Italia; è piuttosto un vero e proprio potere, che prima che sui corpi agisce nelle menti, vorrei dire nelle anime, delle popolazioni. Papa Francesco sta dicendo cose straordinarie e sta facendo gesti altrettanto straordinari: ma per non rimanere solo comunicazione-spettacolo, la sua azione si deve tradurre in scelte concrete che vanno a incidere sulla tradizionale politica di appartenenza ai poteri forti che la Chiesa cattolica, nel mondo intero, esercita da secoli. In Calabria la processione si ferma davanti alla casa del boss, a Milano davanti alle banche e ai consigli di amministrazione, a Roma davanti ai palazzi della politica, e così via in ogni altra città di questo mondo. La questione quindi è molto semplice e consiste nel dovere della Chiesa di rinnovarsi in radice, mostrando di non voler più sedere accanto ai poteri costituiti per venirne a sua volta riconosciuta e legittimata quale potere, ma di non avere altra finalità se non esercitare la contraddizione profetica che fu del suo Fondatore rispetto alla logica dei poteri di questo mondo.

 

 

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