Dio non è così

Alves

nella casa del Padre non si tiene la contabilità

 

 

 

Rubem Alves ci aiuta a delineare una immagine di Dio diversa da quella ritagliata a misura del nostro perbenismo o delle nostre piccolezzze d’animo

Dio non è così come lo dipinge il nostro buon senso o le nostre attese: per riscoprire il vero volto di un Dio davvereo liberante e sorprendente quale è il Dio di Gesù di Nazaret occorre  “dimenticare, dimenticare molto, cancellare quello che abbiamo imparato, grattare i colori… “

[…] Per tornare a Dio, è necessario dimenticare, dimenticare molto, cancellare quello che abbiamo imparato, grattare i colori… Coloro che non hanno perduto la memoria del mistero proveranno orrore davanti a questa nuova sfida umana. Sporgeranno denunce. C’è stato, infatti, chi ha gridato che Dio è morto […]. Ha gridato che noi siamo gli assassini di Dio. Fu accusato di ateismo. Ma ciò che voleva, in realtà, era rompere quelle maschere per contemplare di nuovo il mistero infinito. Anche Gesù si è comportato così: «Avete udito che è stato detto, ma io vi dico…». Il dio dipinto sulle pareti del tempio non era lo stesso che Gesù vedeva. Il dio del quale parlava era orrendo per le persone per bene, difensori dei buoni costumi. Egli diceva che le prostitute sarebbero entrate nel regno dei cieli prima degli uomini pii. Che i beati erano sepolcri vuoti: bianchi fuori, puzzolenti dentro. Che l’amore vale più della legge. Che i bambini sono più vicini a Dio degli adulti. Che Dio non ha bisogno di luoghi sacri, dal momento che ogni essere umano è un altare, non importa dove egli si trovi.

Egli raccontava storie in maniera pacifica. Ad una di queste, i pittori delle pareti hanno dato il nome di «parabola del figliol prodigo». Narra la storia di un padre e di due figli. Uno di loro, il maggiore, era pieno di certezze, ligio al dovere, lavoratore. L’altro, il minore, era un mascalzone e uno spendaccione. Prese la sua parte di eredità in anticipo e si mise a viaggiare, partecipando a molte feste e finendo con lo spendere tutto. Arrivò la fame e si mise a fare il guardiano dei porci. Si ricordò allora della casa paterna e gli venne in mente che là gli operai vivevano meglio di lui. Pensò che suo padre avrebbe potuto accettarlo come operaio, dal momento che non meritava più di essere considerato come un figlio. Fece ritorno. Il padre lo vide da lontano. Uscì correndogli incontro, lo abbracciò e ordinò di fare una grande festa.

Per i pittori della parete la storia potrebbe terminare qui. Una buona storia per esortare i peccatori a pentirsi. Dio perdona sempre. Ma la storia non è finita. C’è la parte del fratello maggiore. Egli fece ritorno dal lavoro, ascoltò la musica, sentì il profumo della carne alla brace, capì ciò che stava succedendo, si offese (con ragione) e s’infuriò con il padre. Suo padre non faceva distinzioni tra creditori e debitori. Il figlio che aveva sperperato tutto avrebbe dovuto almeno compiere una penitenza. La parabola finisce con un dialogo in sospeso tra il padre e il figlio «giusto». Ma la suspense si risolve se cerchiamo di capire i dialoghi. Disse, infatti, il figlio più giovane: «Padre, ho preso il denaro in anticipo e l’ho speso tutto. Io sono un debitore. Tu sei un creditore». Gli rispose il padre: «Figlio mio, io non tengo la contabilità dei debiti». Il figlio maggiore disse: «Padre, ho lavorato duramente, non ho mai ricevuto i miei salari, non ho mai fatto vacanze e tu non mi hai mai dato un capretto per fare festa con i miei amici. Io sono un creditore, tu sei un debitore». Gli rispose il padre: «Figlio mio, io non tengo la contabilità dei crediti». I due figli erano simili tra loro, e simili a noi: anch’essi tenevano la contabilità dei crediti e dei debiti. Il padre, invece, era diverso.

Gesù dipinge un volto di Dio che la saggezza umana non può capire. Egli non tiene la contabilità. Non fa la somma delle virtù e dei peccati. Così è l’amore. Non ha un perché. Esiste senza ragioni. Ama perché ama. Non tiene la contabilità né del male né del bene. Con un Dio così, l’universo diventa più pacifico. E le paure se ne vanno. Ecco un titolo adatto alla parabola: «un padre che non sa sommare». Oppure: «un padre che non ha memoria…».

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21 luglio

si ricordano tante cose, il 21 Luglio… questa è una delle più importanti. E l’Associazione che ha preso il nome da questa data è, oggi, un patrimonio insostituibile dei movimenti antirazzisti e delle lotte contro le discriminazioni

personalmente, pur da altra prospettiva e modalità di approccio e relazione col popolo rom esprimo apprezzamento e plauso

Il #21luglio di alcuni anni fa una bambina ha subito abusi e maltrattamenti da quelle istituzioni che avrebbero dovuto difenderla e tutelarla. A ricordo di quel triste giorno è nata l’Associazione 21 luglio...http://bit.ly/1kyYJbm</p><br />
<p>In questo giorno vogliamo ringraziarvi uno per uno per il supporto e l'entusiasmo che ci avete dimostrato in questi 4 anni.

Il ‪#‎21luglio‬ di alcuni anni fa una bambina ha subito abusi e maltrattamenti da quelle istituzioni che avrebbero dovuto difenderla e tutelarla. A ricordo di quel triste giorno è nata l’Associazione 21 luglio…http://bit.ly/1kyYJbm

In questo giorno è spontaneo rivolgere a questa associazione un ringraziamento  per il supporto e l’entusiasmo che ci ha dimostrato quotidianamente in questi 4 anni.

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la passione di Laura Halilovic per il cinema

Anteprima al Festival di Giffoni, poi sarà in sala il 24 luglio il film di Laura Halilovic, nata a Torino nell’89 da una famiglia Rom originaria della Bosnia-Erzegovina ma non ancora italiana per colpa della burocrazia. Storia autobiografica di una ragazza con la passione per i film, in una comunità troppo ancorata alle tradizioni

LAURA Halilovic aveva 8 anni quando ha visto Manhattan e “mi sono innamorata di Woody Allen. No, non in quanto uomo bello, ma mi sono innamorata del modo in cui racconta le storie, nei suoi film anche se una scena è drammatica lui con il suo spirito e la sua leggerezza riesce a renderla allegra”. È al telefono da Torino, dove vive e dove, dice, “sto frequentando un corso per ragazze straniere in attesa di cittadinanza”. Perché, anche se è nata a Torino nel 1989 da una famiglia Rom originaria della Bosnia-Erzegovina, per una serie di ragioni burocratiche Laura Halilovic non è ancora italiana.

L’amore per Allen ha significato l’amore per il cinema, una scelta ardua per una ragazza destinata per la sua cultura a sposarsi giovanissima e dedicarsi alla famiglia, come racconta nel suo primo film, Io rom romantica che, prodotto da Wildside con RaiCinema, dopo la presentazione al Festival di Giffoni il 21, uscirà con la Good Films il 24. La protagonista si chiama Gioia, vive con la famiglia rom a Falchera, alla periferia di Torino ed è la disperazione del padre, porta i pantaloni, ha preso le abitudini dei gagé – termine usato per tutti i non rom – e soprattutto rifiuta ogni pretendente, non vuole sposarsi. “Senza una famiglia non esisti, non sei nessuno”, le ripete il padre accorato e a disagio con la comunità che ironizza sulla figlia che vuole fare il cinema. Non è facile neanche per Gioia, per i rom è una gagé, per gli italiani resta una zingara.

Io rom romantica ha tutta la tenerezza, l’entusiasmo e le ingenuità di un’opera prima ma è un film importante e significativo di una difficile conquista sociale e culturale. È una storia autobiografica. “Gioia sono io, cresciuta in un campo nomadi prima di andare in una casa popolare. Ci sono io con il mio sogno di fare la regista e tutte le scene con il padre sono quelle che ho vissuto. È stato molto difficile all’inizio, il cinema per i rom è pornografia, purtroppo lo pensano in tanti, mio padre insisteva perché lasciassi perdere. Ma sono andata avanti lo stesso, non mi importava di quello che dicevano gli altri, sapevo che quello che facevo non è pornografia”. Dopo il corto Illusione, grazie al sostegno delle istituzioni educative di Torino, ha realizzato il documentario Io, la mia famiglia e Woody Allen, che accumulato premi in tanti festival non solo italiani.

“Ci sono riuscita perché sono molto determinata – dice con fierezza – ma dopo  il documentario mi ero bloccata e devo molto a Mario Gianani e alla Wildside che mi hanno aiutata a fare il film, senza di loro non sarei andata avanti. E devo ringraziare la mia famiglia, ho dimostrato che non faccio pornografia, ora mi accettano”. In un cast di rom – tra i pochi italiani Marco Bocci, Lorenza Indovina, Simone Coppo – la Halilovic sullo schermo è Claudia Ruza Djordievic, una ragazza dai bei lineamenti forti e lo sguardo intenso e volitivo, che vive nel campo rom di Salone vicino Roma. Nel film c’è anche il personaggio della nonna che si ribella all’idea di lasciare il campo per entrare “nel chiuso di una casa senza venti e senza libertà”. “La vita all’aperto fa parte della nostra cultura e c’è la tradizione di raccogliere le erbe per curarci, non usiamo medicinali, anch’io li odio. Purtroppo stiamo perdendo molte delle tradizioni nel bene e nel male. È un bene che molte ragazze non si sposino più a 14, 16 anni, io mi sono sposata a vent’anni, mio figlio ha due anni. Mi auguro che siano sempre più numerose”, ma quanto al problema dell’integrazione “secondo me non è mai cominciata. Ci sono associazioni e istituzioni che cercano un dialogo, ma è molto difficile entrare nella cultura rom e capirla. Ho visto alcuni film di Kusturica per esempio, non mi piace, racconta un mondo di fantasia che non è quello reale dei rom”. Lei lo farà, è troppo determinata per fermarsi.  

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una tesina sulle proprie origini rom

Eros si diploma con una tesina sulle origini rom per battere i pregiudizi

a scelta di Eros Osmani per il diploma al Ruzza: i genitori sono fuggiti dal Kosovo. «C’è diffidenza: i miei lavorano, pagano le tasse e hanno un mutuo sulle spalle»

dal quotidiano ‘il Mattino’, a firma di S. Quaranta, il resoconto sulla tesina sulle proprie origini rom di Eros con una tesina sul suo popolo. Per i suoi compagni è stata una rivelazione. «Nessuno lo sapeva» racconta «a loro ho sempre detto solo di avere origini kosovare, per essere accettato. Poi mi sono accorto che, così facendo, ero io per primo a discriminare me stesso». Così ha deciso di dedicare alla questione un intero approfondimento: racconta le peripezie storiche, le usanze e le tradizioni. Non manca di sfatare qualche mito

  

PADOVA. Il suo bel nome suggerisce origini greche, ma il suo cognome, Osmani, è turco. Eros è un rom che “si è fermato italiano”, citando De André. I genitori sono scappati dal Kosovo, a causa della guerra, e lui è nato a Padova, dove ha sempre vissuto «in una casa normale, con una famiglia che lavora, paga le tasse e ha un mutuo da estinguere, come tanti altri» tiene a sottolineare.

Quest’anno si è diplomato al Ruzza, con una tesina sul suo popolo. Per i suoi compagni è stata una rivelazione. «Nessuno lo sapeva» racconta «a loro ho sempre detto solo di avere origini kosovare, per essere accettato. Poi mi sono accorto che, così facendo, ero io per primo a discriminare me stesso». Così ha deciso di dedicare alla questione un intero approfondimento: racconta le peripezie storiche, le usanze e le tradizioni. Non manca di sfatare qualche mito. «Prima di arrivare in Italia i miei genitori non avevano mai sentito la parola “campo nomadi”, in altre parti d’Europa non esistono. Molti di noi vivono normalmente, ma si nascondono, perché la fama di alcuni perseguita tutti gli altri. Anche il nomadismo non ha nessun legame intrinseco con la nostra cultura. I rom ripudiano la guerra: se c’è si spostano. In Kosovo eravamo stanziali da più di 500 anni». Convivere con l’etichetta del rom non è facile, ed Eros se n’è accorto fin dalla tenera età: «in prima elementare» spiega «mi hanno messo con i bambini che avevano bisogno del sostegno, per essere agevolati nell’integrazione. Ma io sono nato qui, ho sempre parlato l’italiano. Non aveva senso».

La famiglia Osmani vive non molto distante dal campo di via Longhin. E anche questo pesa. «È normale» ammette «ma non è giusto fare di tutta l’erba un fascio. Ci sono delinquenti e persone per bene, ovunque». Il più grande mito da sfatare, secondo Eros, riguarda «i rom che rubano i bambini. Lo sento dire da sempre, ma al contrario, teniamo moltissimo alla famiglia. Perché rubare i figli degli altri?».

Proprio nella famiglia, per Eros, sta il cuore della tradizione rom: «Siamo molto attaccati, e non concepiamo di essere divisi. I miei fratelli sono emigrati per lavoro, ma mia mamma li chiama tutti i giorni, anche più volte al giorno. E almeno una volta l’anno non può mancare la riunione di famiglia, di solito per Natale. Ogni occasione, anche un compleanno o la nascita di un bambino, va festeggiata insieme, con un pranzo o una cena, perché il cibo va condiviso ed è sinonimo di allegria». Per i prossimi due anni Eros sarà in giro per il mondo con i missionari mormoni, poi pensa all’Università: «mi piacerebbe studiare i diritti umani e battermi per quelli del mio popolo».

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preghiera per i bambini di Gaza

 

“risparmiali, proteggili, guariscili”

preghiera del rabbino Levi Weiman-Kelman di Kol HaNeshama, Gerusalemme

 

Gaza

 

 

Se c’è mai stato un tempo per la preghiera, questo è quel tempo.

Se c’è mai stato un luogo abbandonato, Gaza è quel luogo.

 

Signore che sei il creatore di tutti i bambini, ascolta la nostra preghiera in questo giorno maledetto.

Dio che noi chiamiamo Benedetto, volgi il tuo volto verso questi, i bambini di Gaza, affinché possano conoscere le tue benedizioni, e il tuo rifugio, affinché possano conoscere la luce e il calore, dove ora c’è soltanto oscurità e fumo, e un freddo che taglia e stritola la pelle.

 

Onnipotente che fai eccezioni, che noi chiamiamo miracoli, fa’ un’eccezione per i bambini di Gaza.

Proteggili da noi e dai loro.  Risparmiali.  Guariscili. Fa’ che stiano al sicuro.

Liberali dalla fame e dall’orrore e dalla furia e dal dolore.

Liberali da noi e liberali dai loro.

Restituisci loro l’infanzia rubata, il diritto alla nascita,

che è una promessa di paradiso.

 

Ravviva nella nostra memoria, o Signore, le sorti del bambino Ismaele, padre di tutti i bambini di Gaza. Come il bambino Ismaele è stato senz’acqua e lasciato a morire nel deserto di Beer-Sheba, talmente privato di ogni speranza che sua madre non poteva sopportare di vedere la sua vita perdersi via nella sabbia.

Sii quel Signore, il Dio del nostro consanguineo Ismaele, che ha udito il suo grido e ha mandato il Suo angelo a confortare sua madre Agar.

Sii quel Signore, che fu con Ismaele quel giorno, e tutti i giorni a seguire.

Sii quel Dio, il Misericordioso, che aprì gli occhi di Agar quel giorno, e le mostrò il pozzo dell’acqua, cosicché ella poté dare da bere al bambino Ismaele e salvargli la vita.

 

Allah, che noi chiamiamo Elohim, tu che doni la vita, che conosci il valore e la fragilità di ogni vita, invia i tuoi angeli a questi bambini.

 

Salvali, i bambini di quel luogo,

 di Gaza la più bella, di Gaza la dannata

 

In questo giorno, quando la trepidazione e la rabbia e il lutto che è chiamato guerra afferra i nostri cuori e li ricuce in cicatrici, noi ci rivolgiamo a te, Signore, il cui nome è Pace:

Benedici questi bambini, e tienili lontano dal male.

Volgi lo sguardo verso di loro, Signore.

Mostra loro, come se fosse per la prima volta, la luce e la bontà,

e la tua benevolenza travolgente.

Guardali, Signore. Permetti loro di vedere il tuo volto.

E, come se fosse per la prima volta, dona loro la pace.

 

(preghiera del rabbino Levi Weiman-Kelman di Kol HaNeshama, Gerusalemme,a cura di Bradley Burston, del quotidiano Haaretz)

 

 

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