quale fede

bei fiori

 “Non posso concepire una personalità separata dall’universo. Ma non posso neanche concepire un universo meccanico, nato per caso, perché i parametri di questo universo sono talmente coerenti che non possono essere spiegati dalla casualità. Tutto lo sviluppo, nell’universo e nel mondo umano, non può essere unicamente casuale. Io personalmente non penso che ci sia un Dio che dirige, ma c’è sicuramente una situazione di Divinità che sta nella parte più profonda di questo universo…c’è qualcosa di dinamico dentro che viene dal fondamento dell’universo, e questa Divinità, che fa parte di tutto l’universo, per me è Dio”.
Anch’io sono ateo di questo Dio fuori di me, ateo sulle religioni che hanno chiuso Dio nelle loro gabbie, ma non ateo per una spiritualità molto più umana e profonda. Una spiritualità che è in grado di dare risposte definitive ai grandi perché della vita senza la necessità di atteggiamenti servili verso un Dio padre-padrone e verso istituzioni religiose arroganti

propongo questo articolo come contributo alla riflessione per una purificazione e conversione della teologia

A chi credere? Cosa credere? Quale fede?

“Mi chiedo: che differenza c’è fra il “Vitello d’oro” che gli antichi ebrei si erano messi ad adorare e la Persona che sta nei cieli che le religioni adorano e pregano? Non è importante il fatto che il vitello d’oro era un idolo materiale inanimato, mentre la Persona è una realtà vivente, perché ambedue sono comunque un’invenzione dell’uomo. Il fatto che nella Bibbia ed in altri antichi testi si parli di questa Persona-Dio non può certamente essere una dimostrazione della sua effettiva esistenza; può essere invece la testimonianza di una dimensione superiore di cui l’uomo sente il bisogno, ma che non deve necessariamente essere fuori di lui. La proiezione esteriore di questo bisogno è la risposta più facile; è quella adottata nella storia e nei personaggi biblici del Vecchio testamento, che però Gesù è venuto per perfezionare, come sta scritto anche nella dogmatica cattolica. Il perfezionamento dettato da Gesù non è stato però capito dalla religione, che è rimasta idolatra del Dio-persona, e non ha voluto cogliere la vera novità del Regno di Dio interiore ed immanente proclamato da Gesù.
Se la religione ha mancato al suo appuntamento, non così la scienza che non ha nessun interesse di potere di mediazione fra l’uomo e la dimensione-Coscienza cosmica. Fra le tante risposte degli scienziati cito quella di un premio nobel per la fisica, Ervin Laszlo. Alla domanda “Cos’è Dio per te?” egli risponde:
“Non posso concepire una personalità separata dall’universo. Ma non posso neanche concepire un universo meccanico, nato per caso, perché i parametri di questo universo sono talmente coerenti che non possono essere spiegati dalla casualità. Tutto lo sviluppo, nell’universo e nel mondo umano, non può essere unicamente casuale. Io personalmente non penso che ci sia un Dio che dirige, ma c’è sicuramente una situazione di Divinità che sta nella parte più profonda di questo universo…c’è qualcosa di dinamico dentro che viene dal fondamento dell’universo, e questa Divinità, che fa parte di tutto l’universo, per me è Dio”.
Anch’io sono ateo di questo Dio fuori di me, ateo sulle religioni che hanno chiuso Dio nelle loro gabbie, ma non ateo per una spiritualità molto più umana e profonda. Una spiritualità che è in grado di dare risposte definitive ai grandi perché della vita senza la necessità di atteggiamenti servili verso un Dio padre-padrone e verso istituzioni religiose arroganti. Perfino San Paolo, in un momento di particolare lucidità, non condizionato dai suoi romani istinti di potere e di volontà di controllo, esplode in affermazioni incredibili, non in sintonia con la teologia da lui stesso poi sviluppata e fatta propria dalla chiesa romana:
“Voi non siete essere carnali, ma spirituali se, come è vero, lo Spirito di Dio abita in voi…quanti vengono mossi dallo Spirito di Dio sono i veri figli di Dio…lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Lettera ai Romani, VIII, 9,14,16).
Da sempre questa concezione mi aveva entusiasmato, e fin da allora non riuscivo a capire l’impalcatura teologica del peccato originale, della redenzione, dei sacramenti ecc., dal momento che Tutto era già dentro di noi.
La risposta definitiva non me l’ha data né il catechismo nè la dogmatica, ma, evidentemente, lo Spirito che già è in noi e che parla a chi è in grado di ascoltare e che si sente libero.
“Energia, materia ed informazione non sono che aspetti diversi della stessa realtà che ci circonda, di cui siamo costruiti e che percepiamo, governate dalle stesse leggi, in una necessaria unità gnoseologica e metafisica che non può non appagare lo scienziato in perenne ricerca delle recondite armonie che governano l’Universo” (Carlo Rubbia).

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Una Chiesa d’amore e misericordia

abbracio papale

“Senza la misericordia non è possibile inserirsi in un mondo di “feriti” che hanno bisogno di comprensione, di perdono”

Parola di Francesco

“la Chiesa è madre… Serve una Chiesa capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia non è possibile inserirsi in un mondo di “feriti” che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore”. Parole che rispondono alla necessità di riformare una Chiesa secolarizzata dove si è insinuato il paganesimo idolatra del potere e del denaro

un bell’articolo di S. Friggeri che analizza in parte la nuova teo-logia e conseguentemente la nuova ecclesiologia di papa Francesco:

Attraverso le parole o recandosi in visita là dove vivono gli ultimi (Lampedusa, le favelas, le carceri) Papa Francesco ha lanciato un messaggio chiaro ed esplicito: la Chiesa cattolica deve testimoniare al mondo l’Amore di Dio la cui misericordia è rivolta a tutti gli uomini, non credenti compresi. Dopo secoli di intransigenza cattolica il Papa dice: “la Chiesa è madre… Serve una Chiesa capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia non è possibile inserirsi in un mondo di “feriti” che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore”. Parole che rispondono alla necessità di riformare una Chiesa secolarizzata dove si è insinuato il paganesimo idolatra del potere e del denaro. E infatti il Sinodo riunito a Roma nel novembre del 2012 (250 vescovi da tutto il mondo) aveva insistentemente chiesto di “indagare quali sono le ombre e i fallimenti ai quali bisogna porre fine” (Martin vescovo di Dublino), di “favorire una cultura di solidarietà” (Lapierre, vescovo canadese), di contrastare “le disuguaglianze sociali e le ingiustizie” (Rabago, vescovo messicano). E questo, secondo il vaticanista Politi, spiegherebbe perché la vicinanza di Scola a Comunione e Liberazione, la lobby affaristica e politicante, ha congiurato contro l’elezione al papato del cardinale milanese. E infatti il conclave ha nominato Bergoglio, un vescovo che viene “dall’altra parte del mondo”, un uomo che, inaugurando lo stile di una Chiesa sobria, aperta, non invadente, esprime la voce dell’America Latina storicamente unita dalla religione cattolica. Se il progetto politico di Wojtyla era riunificare l’Europa perché tornasse a “respirare con due polmoni”, Bergoglio sogna l’unità latinoamericana, progetto raggiungibile attraverso la “teologia del popolo” che, ispirandosi alla dottrina secolare della Chiesa e rifiutando il taglio marxisteggiante della società divisa in classi, vede nel popolo la soluzione dei drammi sociali: “una Chiesa povera per i poveri”. E inoltre l’integrazione continentale, se realizzata, rappresenterebbe un valido contrappeso alla prepotenza degli USA colpevoli anche, per combattere la teologia della liberazione, di finanziare le chiese protestanti cui si sono rivolti migliaia di fedeli della Chiesa cattolica. Ecco allora papa Francesco che non solo denuncia gli squilibri economici che colpiscono “chi è più debole” ma il primo maggio dichiara: “quante persone sono vittime di questo tipo di schiavitù in cui è la persona che serve il lavoro, mentre dev’essere il lavoro ad offrire un servizio alle persone perché abbiano dignità”. Parole importanti, ripetute più volte, senza però mai nominare i diritti che infatti appartengono storicamente alla cultura laica e socialista, cioè ad una cultura che, accanto al concetto di “assistenza” proprio del mondo cattolico, promuove anche l’intervento dell’ente pubblico per garantire ad ogni cittadino una condizione di vita dignitosa. E viene in mente la denominazione di “assistenza” con cui fino a ieri si nominavano i servizi sociali. Scrive Jone Bartoli in “La mela sbucciata”, un libro che ripercorre, attraverso la memoria individuale e la testimonianza dei collaboratori, quasi tutte donne, il lungo e faticoso iter politico attraverso il quale Jone ha costruito le fondamenta, come assessora regionale, del welfare in Emilia Romagna: “Già il termine di Assistenza è significativo: non si parlava di Servizi che l’Ente Locale o lo Stato erogava perché erano un diritto del cittadino che con il suo lavoro e le sue tasse partecipava in modo determinante allo sviluppo della società, si parlava di assistere, quasi facendo un’opera di carità, chi si trovava in qualche situazione di bisogno”. Un percorso che, non a caso, aveva provocato l’ostilità del mondo cattolico: “il dibattito in Consiglio regionale sulla legge di scioglimento degli Enti assistenziali e delle Opere pie e il passaggio delle competenze agli Enti locali è stato furibondo: i consiglieri DC ci hanno accusato di “spersonalizzazione dell’assistenza”, di “abbraccio mortale dell’Ente Locale che tutto soffoca e riduce a pura entità numerica il cittadino”. È vero che la forte esposizione mediatica di Papa Francesco ha provocato molte, troppe aspettative, anche all’interno di quel mondo laico che Bergoglio ha chiamato a percorrere insieme la via per dare una speranza agli ultimi, ma non dobbiamo dimenticare che anche un Papa innovatore ha due milioni di anni di storia alle spalle ed appartiene ad una cultura con la quale a volte Jone è entrata in conflitto perché nel quotidiano, in nome della fratellanza e della solidarietà, accadeva che: “Un ospite di una casa di riposo che stava sbucciando una mela mi disse: ‘Per favore la porta a mia moglie? Quando vivevamo insieme a casa a lei piaceva che io gliela sbucciassi’. Gli chiesi dove fosse sua moglie e lui mi rispose ‘Nell’altra ala della rocca’. Donne e uomini, anche mariti e mogli, vivevano rigidamente separati anche di giorno”.


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i problemi e le difficoltà che il papa sta trovando all’interno del Vaticano

Francesco papa

 

 papa Francesco, il suo nuovo modo di vivere da papa e i suoi difficili rapporti con il mondo vaticano (la curia, il cardinal Müller…) nella analisi  di Evelyn Finger, Christiane Florin e Patrick Schwarz (con la collaborazione di Marco Ansaldo e Wolfgang Thielmann):

il “gioioso annunciatore”

in “Die Zeit”

del 5 dicembre 2013

(traduzione: www.finesettimana.org)

1
In periodo natalizio, non era mai stata così poco simpatica l’atmosfera in Vaticano – in ogni caso per quei signori che fino ad ora avevano il potere e che credevano che i fasti della basilica di San Pietro servissero loro semplicemente da sfondo. Ora, il primo sabato d’Avvento, il papa sorridente ha predicato la “misericordia”. E per mostrare che per i cristiani conta solo il servizio al prossimo, si è vestito come un parroco di paese: invece degli usuali paramenti usati in Avvento, ricamati d’oro, Francesco aveva solo un semplice piviale viola, il colore previsto dal calendario liturgico per il mese di dicembre. La croce processionale era di legno. Di legno! I fan del glamour nella curia, quel gigantesco apparato amministrativo del Vaticano, erano inorriditi. Dove andremo a finire, sussurravano alcuni, se rinunciamo alle insegne del potere? Quei mormoratori sono però già un po’ abituati a papa Francesco: croci di ferro come se non ci fosse un prezioso tesoro della chiesa. La vecchia cartella nera unta e bisunta, come se il successore di Pietro fosse un semplice impiegato. Le vecchie scarpe con le stringhe, come se il rappresentante di Dio fosse semplicemente un uomo. Ancora solo un anno fa – ai vespri d’avvento sotto il predecessore Benedetto XVI – la basilica di San Pietro scintillava di brillanti, e il vecchio papa era ornato come un… ma sì, un albero di Natale. Da nove mesi è l’argentino settantaseienne Jorge Mario Bergoglio il capo spirituale dei cattolici. È il primo papa che – non succedeva da molto tempo – riesce ad irritare il mondo. Quello piccolo, all’interno delle mura del Vaticano. E quello grande fuori. Non ha conservato solo le sue vecchie scarpe. Ha concesso interviste che vengono capite anche dai laici. È andato a Lampedusa ad incontrare i rifugiati sopravvissuti alle traversate sui barconi, entrando in contatto con una delle molte urgenti realtà del nostro presente. Ha assunto esperti esterni per far luce nel buio delle finanze vaticane. Ha fatto inviare dei questionari in tutto il mondo per sapere che cosa pensano i cattolici su amore, sesso e convivenze. E ha prescritto una medicina a migliaia di persone in piazza san Pietro. Con la sua bianca figura in alto alla finestra del palazzo apostolico ha gridato all’Angelus alla folla: “Adesso vorrei consigliarvi una medicina!” Poi ha alzato una scatoletta da medicinali, con su scritto “Misericordina”. [Non era una nuova marca di medicinale, ma l’antica parola latina per “misericordia”.] Sotto, nella piazza, delle suore hanno distribuito 25 000 di queste scatole, al cui interno c’era una piccola corona del rosario. La folla ha riso e applaudito. Un papa col senso dell’umorismo. O soltanto marketing? Contro quest’ultima insinuazione parlano le 256 pagine scritte dal papa, una lettera apostolica, un nuovo “manifesto vaticano”: Evangelii Gaudium, “la gioia del vangelo”. Non è stata la competente Congregazione per la Dottrina della Fede a scrivere quel volumone, ma il papa personalmente. Invece di sparire, nel mese di agosto, a Castelgandolfo, cioè nella residenza estiva circondata da boschi sui colli sopra il lago di Albano, è rimasto nei 35 gradi della rovente Roma a scrivere, contro la certezza che una Chiesa vecchia di duemila anni non si può cambiare. Ora, non solo i credenti leggono increduli che il papa è più vicino ad “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade” piuttosto che ad “una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”. La sua Chiesa, dice Francesco, è diventata priva di gioia e d’amore – è tempo di un “rinnovamento improrogabile”. Dal comandamento fondamentale dell’amore del prossimo, il papa trae massime rivoluzionarie in campo sociale: no all’idolatria del denaro! No alla disuguaglianza sociale! No alla pigrizia del cuore! Innanzitutto però dichiara guerra alla durezza di cuore, a cominciare dalla propria casa. Qui qualche cardinale comincia a mormorare: questo papa vuol rovinare la Chiesa! Rimprovera più peccati al clero che al mondo là fuori! Orna la chiesa di sterpi e rami secchi. La vuole rafforzare con la debolezza. In Vaticano, il Cremlino cattolico, i nomi “Francesco” e “Gorbaciov” ricorrono sempre più spesso nello stesso momento. La rivoluzione comincia con la colazione nella Casa Santa Marta, dove il papa abita. Nella sala comune, non si siede sempre allo stesso tavolo, si va a prendere personalmente il suo pasto e si siede accanto agli altri. Solo per lavorare sale al palazzo apostolico, nella segreteria di Stato, dove ci sono grandi affreschi e antichi mappamondi che trasmettono l’impressione di essere molto in alto. Dominatori dell’orbe terracqueo. Lui però si interessa di quelli che stanno in basso. Molti cattolici, la cui quotidianità aveva poco a che fare con ciò che dice un vecchio a Roma, riescono appena a crederlo: finalmente un papa vuole sapere qualcosa della loro vita. Finalmente, uno con autorità dice che escludere, denunciare e incutere timore non sono virtù cristiane. Finalmente crolla il sistema delle punizioni per chi pensa diversamente e delle lodi di chi segue rigidamente le prescrizioni. Nessun divieto di insegnamento, di pensiero, di espressione. Molto è ancora solo sulla carta, non nella prassi. Ma dopo anni di nulla basta già la frase che troppi preti nelle chiese hanno una faccia da funerale, per far esplodere l’euforia nelle persone. Proprio in nome della Buona Notizia, dice, troppe persone si fermano alla lagnanza, al lamento, alla critica o al rimorso. Proprio l’uomo che sta in alto prescrive ora un riso liberatore e anarchico. Il sorriso negli occhi di Francesco è per Cesare Bella la cosa più difficile. È un artista nello Studio Mosaico, un laboratorio antichissimo proprio vicino alla Casa Santa Marta. Bella e Francesco sono vicini, ma il loro rapporto non è ancora chiaro: mentre il papa tende al futuro, Bella ha una tradizione da difendere. Il suo lavoro consiste nel fare un mosaico che rappresenti il papa, come è consuetudine da 500 anni. Il quadro è quasi finito. E Bella si chiede: piacerà a quel distruttore di tradizioni? Nello Studio Mosaico lavorano in otto. Chi lavorava lì prima di loro ha ornato le pareti della basilica di San Pietro, tutti gli angeli e i giganteschi mosaici con i santi, su fino alla cupola. Una grande trasfigurazione da minuscoli sassi. Nel laboratorio si sente il profumo della polvere delle antiche tessere conservate in infinite file di cassetti. Ogni volta che viene eletto un nuovo papa viene posta sul cavalletto una pesante lastra di pietra rotonda di 136 centimetri di diametro. Innanzitutto uno degli artisti applica lo sfondo dorato. Poi si dedica all’abito papale con la mantellina rossa. Alla fine uno dei maestri comincia a fare il volto. Per la pelle di Francesco, Bella ha usato delle tessere da mosaico opache, vecchie di 100 anni, e con quasi 1000 ombreggiature. E solo per le pupille ha usato 70 colori. E per fare questo aveva solo una foto un po’ sfuocata come modello. Perché questo papa – che non vuole alcun culto della personalità e che proprio per questo viene apprezzato – si lascia fotografare solo controvoglia. Ha concesso al fotografo del Vaticano solo due appuntamenti. E ogni volta, dopo un paio di minuti, ha detto: “Adesso però basta”. Nello Studio Mosaico dicono che a loro piace il loro nuovo vicino. Per il buonumore che diffonde. Perché saluta le guardie svizzere stringendo loro la mano, chiacchiera con i gendarmi e non si fa portare il caffè, ma se lo prende da solo alla macchinetta. Questa settimana il papa vedrà il suo ritratto, prima che venga sistemato in San Paolo, alla fine della lunga serie dei suoi 265 predecessori. Un fregio di teste di sostituti di Dio! Una galleria che sale dal passato fino al presente. Che cosa interessa veramente a questo papa dagli occhi sorridenti? Se lo chiede anche il cardinale Gerhard Ludwig Müller e lui non sorride pensando a questo. Il bavarese viene dalla diocesi di Ratisbona, è il secondo più potente personaggio della Chiesa cattolica – e il più tenace oppositore di Francesco. Intorno alle 12 di un giorno della settimana scorsa la macchina del papa passa sulla piazza della Città Leonina accanto al colonnato della basilica di san Pietro davanti all’abitazione privata di Müller. Poco dopo, Francesco è seduto alla tavola da pranzo a casa di Müller, le suore Huberta e Helgardis servono cotoletta e patate lesse. Al momento del caffè, l’argentino Jorge Mario Bergoglio dice in perfetto bavarese: “I ko nimma”. In onore del suo anfitrione, si era fatto insegnare da Huberta e Helgardis qualche parola di bavarese. Quest’uomo, sembra, vuole accontentare perfino il suo più ostinato oppositore. Amate i vostri nemici. Francesco e Müller. Il papa e il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. I due non si
distinguono solo per la lunghezza del loro titolo. Raramente il più alto custode di antiche dottrine di fede, cioè Müller, è stato in così cattivi rapporti con l’annunciatore della suddetta fede. Dal punto di vista del tedesco un latinoamericano bonariamente e spensieratamente demolisce un antichissimo edificio. Quanto disordine e insicurezza ha portato questo Francesco nel mondo ordinato della dogmatica romano-cattolica! Nessuna deferenza, nemmeno un po’ di rispetto mostra per il Sant’Uffizio, la base del potere di Müller, un tempo l’autorità dell’Inquisizione, alla quale ancora sotto papa Giovanni Paolo II hanno dovuto comparire i “deviazionisti” di tutte le parti del mondo, per difendersi, in una lotta senza speranza, affinché non venisse loro ritirato il permesso di insegnare. Francesco è contro? Recentemente ha consigliato a visitatori che venivano dalla sua patria, di non preoccuparsi eccessivamente in caso ricevessero un ammonimento da Roma. Leggere, mettere da parte, e continuare sulla propria strada, è stato il suo consiglio scherzoso. Se Francesco vuole una Chiesa povera, Müller si augura una Chiesa sfarzosa. Dove Francesco vede alleati, ad esempio tra i protestanti, Müller vede dei rivali o dei rinnegati. Dove Francesco predica comprensione, di fronte ai divorziati-risposati o agli omosessuali, Müller insiste con i divieti. E mentre Francesco ha prescritto al prodigo vescovo tedesco Tebartz-van Elst un periodo di sospensione, Müller tuona contro i media che massacrano un dignitario onesto. Ma il capo e il capo- ideologo non sono lontani l’uno dall’altro quanto nel loro modo di guardare i milioni e milioni di cattolici in tutto il mondo. Per Müller la chiesa governa sul popolo di Dio, gli dice ciò che è bene e ciò che è male, ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare. Quanto diversamente si pone invece il papa. Per lui la Chiesa comincia dal basso, e in alto deve dare buona prova di sé – prima il popolo, poi i prìncipi. Non il contrario. Continuamente Müller è insorto, ha impiegato il resto di autorità che gli rimaneva come prefetto tardivamente chiamato, nominato dal papa bavarese al suo tramonto. Quante cose ha tentato Müller a partire dal Conclave: prima l’abbraccio, poi l’arroganza, alla fine l’intrigo. Così ha riconosciuto a Francesco, dall’alto in basso, il suo talento “pastorale” – il che significa qualcosa come: l’uomo nuovo è un bravo pastore, ma contro i lupi di questo mondo, lasciate che mi metta io all’opera. Ma l’uomo che viene da Buenos Aires, più coraggioso di quanto ci si aspettasse, non vuole lasciarsi avvelenare il mondo da qualcuno che fiuta intorno soltanto nemici. E così continuano a scontrarsi, da una parte il “papa del tango e del cinema”, e dall’altra il guardiano della fede della scuderia di Ratzinger, un osso duro dalla stretta di mano molle. Il protetto di Ratzinger insiste quasi disperatamente per l’osservanza delle regole. Se appena Francesco lascia trapelare che la misericordia verso i divorziati-risposati è un suo desiderio, Müller risponde sparando un suo intervento sull’Osservatore Romano, la Pravda del Vaticano: è assolutamente escluso che i divorziati-risposati possano mai ricevere la comunione. Roma locuta, causa finita: una volta che Roma ha parlato, il caso è stato regolato. In anni precedenti un tale anatema avrebbe troncato ogni protesta. Ora invece la protesta arriva dall’alto. E alcuni cardinali, che si situano appena sotto a colui che sta sopra, mettono in dubbio il potere di Müller. Il primo a reagire è stato il cardinale di Monaco Reinhard Marx. Nessuna misericordia per i divorziati-risposati? “Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede non può metter fine al dibattito”. Poco dopo hanno osato farsi avanti alcuni luminari un po’ più piccoli, come ad esempio il vescovo di Treviri, con dichiarazioni simili. In questa perestroika della Chiesa non è del tutto chiaro chi è solo un eloquente voltagabbana e chi dice ora liberamente ciò di cui era convinto da anni. Quel che è chiaro è che così vanno le cose quando un regno va in rovina.

2
Mentre l’inquisitore Müller ancora lotta per la sua influenza sull’indirizzo della Chiesa, Francesco ha da tempo creato un “governo supplementare”, anzi un “governissimo”. È formato da diverse commissioni appena formate. Regolarmente riunisce otto cardinali provenienti da tutti i continenti, un G8 cattolico, appena un po’ meno internazionale dell’incontro al vertice di capi di governo di tutto il mondo. Questa settimana appunto c’è la seconda riunione, il cardinal Marx, unico tedesco del gruppo, ha dovuto rinfrescare a tempo di record il suo rudimentale italiano. Non c’è nessun traduttore simultaneo e neanche un segretario attorno al tavolo con i cardinali, gli argomenti affrontati sono troppo esplosivi. Lo scenario ha l’aspetto di una congiura, solo che ne fa parte anche il capo. In qualche posto in Vaticano c’è un tavolo, attorno al quale siedono gli ospiti e il padrone di casa. Nove teste, sembra che non serva altro per governare un miliardo di cattolici. Ciò che era impensabile nel quartier generale del governo vaticano con tutti i suoi dicasteri, eminenze, eccellenze, prelati con titoli onorari e protonotari, qui avviene facilmente. La costituzione assolutistica dello Stato della Chiesa – con il papa come potere legislativo, esecutivo e giudiziario riuniti in una sola persona – è sempre stata considerata l’incarnazione della negazione del progresso: un nuovo inizio nell’assolutismo può essere enormemente corroborante e semplice. L’arcivescovo Müller – è quasi superfluo dirlo – non fa parte del gruppo. Mentre il papa pianifica la sua rivolta, a Müller rimane solo la passeggiata lungo Via della Conciliazione giù verso l’hotel Columbus. Questa via è una pista aperta nella città, che porta da piazza san Pietro giù fino al Tevere, per 500 metri, un’immagine resa famosa dalle riprese televisive. Camminando, Müller cerca di convincere dei giornalisti fidati della propria visione delle cose e della sua ostinazione. In nessun altro luogo al mondo si possono trovare amici e nemici in lotta per il potere in una organizzazione mondiale, riuniti in così pochi metri quadrati. È questo che rende la cosa così appassionante per gli spettatori. E così pericolosa per i combattenti. Le poltrone del palazzo apostolico hanno ancora spalliere e braccioli dorati, e alle pareti fa sfoggio damasco rosso. Ma l’uomo che riceve qui parla di una vita che lo divide in due. Georg Gänswein conduce un’esistenza che era per lui inimmaginabile fino al ritiro di papa Benedetto, e che oggi gli appare lacerante. Durante il giorno serve il nuovo papa, alla sera quello vecchio, e sono due padroni così diversi che un servitore non riuscirebbe ad immaginarseli. Per lui, il ritiro di Benedetto è stata come una amputazione, dice. E anche in altre descrizioni scorre sangue, quando Georg Gänswein descrive come la sua vita sia cambiata da quando il suo capo precedente è andato in pensione. Per otto anni, Georg Gänswein è stato il Monsignore più famoso del palazzo apostolico. In quanto segretario del papa, regolava personalmente l’accesso delle persone a Benedetto e i suoi affari. Ammiratori e schernitori lo chiamavano “il George Clooney del Vaticano”. La combinazione di tratti maschili attorno al mento e lo sguardo birichino negli occhi gli è valsa una copertina sull’edizione italiana di Vanity Fair. Innanzitutto, però, Gänswein era l’intendente dell’ensemble- Benedetto. Joseph Ratzinger doveva, con l’aiuto di Gänswein, portare il papato ad una nuova fioritura intellettuale ed estetica – proprio all’opposto di egualitarismo e relativismo. Dal 2005 al 2013 Gänswein ha dato tutto – e ricevuto molto: “Ich habe acht Jahre Blut gelassen und auch Blut geleckt, manchmal”. In vita et in morte: Georg Gänswein ha giurato fedeltà a Ratzinger in vita e in morte. Ora dice: “Ho l’impressione di vivere in due mondi, devo essere sincero con me stesso: è veramente doloroso adattarsi al nuovo ruolo”. Il nuovo ruolo: si tratta anche di questioni problematiche. Gli oppositori di Georg Gänswein dicono
che il segretario stesso abbia indebolito al massimo Benedetto, andando al di là di quelle che erano le sue competenze, ed abbia deciso “secondo il pensiero del papa”, senza aspettare la sua approvazione formale. Quale assurdità: le cose andavano già nel modo più caotico in Vaticano quando ancora veniva guidato con fermezza. Protezionismo, intrighi, lotte di potere culminarono in un tale disordine da privare Benedetto delle sue ultime forze. E, col suo ritiro, ha segnalato: anche un papa può capitolare. Forse in questo modo ha aperto la porta al cambiamento. Poco tempo prima di ritirarsi, Benedetto ha promosso il suo monsignor Georg Gänswein ad arcivescovo e prefetto della casa pontificia. Francesco lo ha pregato di proseguire nella sua funzione relativa al cerimoniale, il che gli dà la possibilità di apparire accanto al papa. “Se questa è la sua volontà, io accetto in obbedienza”, ha risposto Georg Gänswein. Ora occupa due funzioni, però non ha più una situazione stabile. Nessun titolo può illuderlo né consolarlo per la perdita della posizione al centro del regno mondiale romano-cattolico. La sua vita “non è più costantemente in sintonia col battito del suo cuore”. “Quello nuovo” ora a capo della casa fa soprattutto molte cose nuove. A Gänswein non può piacere. Forse più ancora di quanto lo fosse il suo padrone, il segretario era il sommo sacerdote della tradizione, vedeva in essa non un’imposizione formale, ma un condensato di saggezza ecclesiale. Che Francesco a tutti i costi non voglia lasciare la pensione per il palazzo apostolico, perché vuole vivere “tra la gente” e perché l’oscuro corridoio che porta alle stanze pontificie gli fa venire la malinconia, tutto questo ha molto irritato Gänswein. Non vi ha visto solo una rottura della tradizione, ma anche un affronto al predecessore, a tutti i predecessori. Forse Benedetto non era un uomo modesto? Non ha rivendicato l’appartamento papale per egoismo, è solo che esso esprime la posizione del Santo Padre nella Chiesa. Ma ora la controversia è risolta, dice Georg Gänswein, talvolta il nuovo papa e l’ex segretario scherzano sui motivi psichici che Francesco ha addotto per evitare di occupare il palazzo. Un po’ di inquietudine domina però ancora il rapporto tra i due. “Mi aspetto ogni giorno dal nuovo (papa) qualcosa di diverso, e mi chiedo che cosa ci sarà di diverso quel giorno”, dice Georg Gänswein. Il segretario si sente legato alla sua antica promessa: sta dalla parte di Benedetto. Dopo le 21, Gänswein si occupa di lui, della posta, delle cose inevase, è lì per quell’uomo anziano che Gänswein continua a chiamare “Santo Padre”. “C’è un solo papa”, dice Gänswein. È un’affermazione che suona come un richiamo all’ordine che fa a se stesso. Anche Pietro Zander, il capo archeologo della “fabbrica del duomo” ha un ricordo positivo del papa emerito. Davanti ai giornalisti non vuole esprimere stime precise del recente, notevole aumento di visitatori alle udienze generali in piazza san Pietro. Ma in questo momento le folle sono il più grosso problema di Zander. I fedeli invadono la casa al nuovo papa! Prima piazza san Pietro era mezza piena, oggi la gente si affolla anche indietro, fino in Via della Conciliazione. La via è una specie di scolmatore per persone più o meno religiose che vogliono dare uno sguardo al papa. Arrivano perfino davanti alla casa dell’arcivescovo Müller. Stando così gli voltano le spalle. L’udienza generale ha luogo sempre di mercoledì. I dipendenti di Zander bloccano l’accesso delle auto già al martedì sera, e le transenne sulla piazza non le tolgono neppure più. Quando Zander parla di “fondamenta scosse” intende proprio pietre, e non “certezze”. La sua preoccupazione si riferisce alle masse che dopo le udienze si affollano in san Pietro. La basilica sopporta al massimo 30 000 persone al giorno. Già il loro respiro è una “catastrofe per la conservazione”, dice Zander. Però non può chiudere il portale della Chiesa sopra la tomba di Pietro. Una basilica sprangata sarebbe un segnale fatale. Che fare allora? Zander sorride. Avevano preso in considerazione l’idea di spostare le udienze generali in un altro luogo, magari in uno stadio, ma avevano rinunciato presto all’idea. Invece, introdurranno una seconda udienza, di sabato. Probabilmente pregano già che questo basti. Il popolo della chiesa ama Francesco, e lui lo ricambia. Da quando ha deciso si interrogare i suoi fedeli, proprio su matrimonio, famiglia e morale sessuale, il suo zelo riformatore è giunto fino al più piccolo villaggio. Un desiderio del popolo della Chiesa promosso dall’alto – non c’è mai
stato un plebiscito così. Il papa vuole sapere, ad esempio, che cosa si aspettano dalla chiesa i fedeli in situazioni familiari difficili, quale attenzione pastorale potrebbe essere possibile per le persone dello stesso sesso conviventi, se qualcuno si sente “ferito” dalla Chiesa. Sulle risposte alle domande di Francesco, discuteranno diverse centinaia di uomini casti nell’autunno del prossimo anno in un sinodo dei vescovi. Negli ordinariati vescovili tedeschi i superiori si lamentano già, dato che l’idea procura al papa, certo, titoli di prima pagina, ma alle diocesi soltanto lavoro. Chi presenterà, e da quale luogo della Chiesa, e quali opinioni? Chi deve suddividere e rielaborare le risposte? Come può la conferenza episcopale giungere ad un risultato unitario? La maggior parte delle diocesi tedesche ha messo in internet, senza entusiasmo, ciò che si richiedeva da Roma. Il termine per le risposte è già fissato per questa o per la prossima settimana. Quando è permesso fare sesso, con chi e a quale scopo, la Chiesa cattolica lo regolamenta finora con molta precisione. I più alti componenti della gerarchia, papi e prefetti si sono dati un gran daffare sul basso ventre del loro popolo. Ma tutto questo non è servito a niente: dai sondaggi risulta che in Germania il 90% dei cattolici vive in modo diverso da quanto permesso dal Vaticano. Rappresentanti di quel 10% che ammette di attenersi alle regole vengono invitati ai talkshow come fenomeni da baraccone. Anche il papa si è imposto la castità, ma manifestamente dubita che uomini che vivono da continenti siano i migliori consiglieri per tutte le situazioni esistenziali, in particolare in faccende amorose. Che Francesco allinei conseguentemente la sua dottrina ai risultati del questionario, è improbabile – il che nasconde un potenziale di delusione a dimensione-Obama. Un papa non è qualcuno che presta servizi, e il cristianesimo non è un menù che ci si può comporre da soli. Ma l’inchiesta di Francesco mostra che tiene in alta considerazione il popolo e poco l’alto clero. Una volta ha definito “lebra” la curia. Nei documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede compaiono raramente le persone in carne ed ossa. Invece Francesco nelle sue prediche loda le persone semplici del popolo. Raramente dimentica di citare la sua nonna Rosa. Se parla di misericordia, racconta di persone misericordiose che ha incontrato personalmente. Di solito si tratta di madri. Quest’uomo non ha solo una carriera ecclesiastica, ha anche una biografia. E non ha paura delle donne, nemmeno di quelle giovani e carine. La sua invenzione più rivoluzionaria è un gruppo di consiglieri, composto da sette laici e da un prete, che lavora costantemente con lui – e anche la cerchia di cardinali riformatori del G8 preoccupa. I consiglieri lontani dal clero sono quelli che devono riordinare le finanze del Vaticano e ristabilire la credibilità dopo lo scandalo Vati-leaks. Mancanza di trasparenza e lotte di potere avevano provocato lo scandalo che alla fine aveva condotto al ritiro del vecchio papa. Documenti segreti erano stati rubati direttamente dalla scrivania di Benedetto. Ora è necessario rendere tutto trasparente. Chi comincia ad occuparsi di questo lavoro, finisce per trovarsi di fronte delle questioni di potere: innanzitutto nel decidere se la Chiesa debba essere ricca o povera, se deve ricevere o dare. E inoltre, è lecito fare del bene con denaro sporco? Le origini della ricchezza cattolica sono talvolta poco chiare. La conduzione degli affari della banca vaticana è tutto fuorché santa. Del gruppo di esperti finanziari di Francesco fanno parte un revisore dei conti spagnolo, un esperto di assicurazioni tedesco, un manager francese, un ex ministro degli esteri di Singapore ed una giovane donna: l’italiana Francesca Immacolata Chaouqui, specialista di comunicazione, prestata dall’azienda di consulenza aziendale Ernst&Young. Che perfino nella gerarchia della Chiesa non si sappia esattamente che cosa stia cercando Francesca nei bilanci dello Stato della Chiesa, e che inoltre essa abbia un aspetto seducente, ha suscitato in internet e sulla stampa interventi denigratori di ogni specie. Prima, le donne che avvicinavano il papa erano nella migliore delle ipotesi delle cuoche o delle segretarie. Chaouqui, 30 anni, è una giurista laureata e ha responsabilità direttive nel governo ombra del papa. Il suo compito, come quello degli altri laici, è chiarire al papa il capitalismo delle sue istituzioni. Francesca è sicuramente competente in questo ambito. Durante la crisi finanziaria è stata
consulente, come esperta di comunicazione dell’azienda di consulenze Orrick, Herrington & Sutcliffe, della banca Lehman Brothers. Un tempo, per far carriera in Vaticano, servivano meno le competenze quanto un’obbedienza cieca. Ora dei laici che si qualificano per la loro competenza controllano gli antichi potenti. I suoi progetti rivoluzionari, Francesco li ha esposti già in conclave. Per questo è stato eletto. Inquieti, i suoi sostenitori si chiedono ora: quanto tempo rimane a questo papa? Francesco ha un solo polmone, prima di Natale compirà 77 anni. Ci sono alcuni personaggi nei loro inoperosi uffici in Vaticano che aspettano solo che gli manchi il fiato. I tradizionalisti lo scherniscono per il fatto che a Lampedusa abbia trasformato in altare una vecchia barca – ma al contempo lo temono. Ha criticato il loro cattolicesimo da dorature. Ora gli amanti di pompa e gloria aspettano nelle loro nicchie che arrivi la loro ora. Da subito sono circolate a Roma voci che affermano che Francesco vive pericolosamente. Rischia molto, si dice, se cura di più gruppi di base di sinistra che circoli destrorsi a Roma. Ed è davvero un temerario se vuole far pulizia nella banca del Vaticano. Lo si troverà un giorno avvelenato nella Casa Santa Marta? O morto nel Tevere? Della possibile fine non naturale del papa si parla sorprendentemente spesso in questi giorni in Vaticano – anche se per lo più in forma negativa: “Non dico che domani qualcuno possa mettergli qualcosa nel te…”, dice un religioso di alto rango, per parlare successivamente a lungo dei numerosi oppositori che si sono sentiti trascurati o messi in secondo piano. E non irrompono anche paralleli con Giovanni Paolo I? Anche quel pontefice non dogmatico, seguito al rigido Paolo VI, era stato chiamato “il papa sorridente”. Anche Giovanni Paolo I – appena eletto, ma senza una presenza mediatica e totalmente indifeso – si era accinto a far pulizia nella curia e nella banca del Vaticano, quando tutto è finito improvvisamente. 33 giorni dopo la sua entrata in carica il nuovo papa era morto. 35 anni dopo, di nuovo un papa con l’innocenza del sonnambulo si muove attraverso questo apparato di corte. Tuttavia, un “insider” del Vaticano dice: “L’avvelenamento non è più necessario. Dopo il ritiro di Benedetto, ad un papa si può anche raccomandare il ritiro…” Francesco emana ancora l’energia del “nuovo inizio”, nessuna traccia di stanchezza da funzione. Tuttavia finora non ha potuto creare nulla di durevole. Il papa ha instaurato un legame di tenerezza con il suo popolo di chiesa, ma in tempi di impazienza tale atteggiamento gentile potrebbe presto essere sospettato di pura apparenza. Presto non gli basterà più porre domande, dovrà dare delle risposte, imporre delle innovazioni. Basta con la discriminazione delle donne, degli omosessuali e dei protestanti! Se non osa nulla in questa direzione, un grande sentimento si riduce velocemente a ben poco. Alcuni progetti pratici, il papa li ha già fatti partire. Ad esempio, crea un fondo di solidarietà per le vittime di catastrofi, si chiamerà “Misericordia”. Francesco vuole che la Chiesa sia non l’ultimo, ma il primo rifugio per i poveri. Le chiese e i conventi devono aprire le loro porte ai rifugiati, concedere la loro protezione – anche davanti al diritto d’asilo europeo. E per un uomo chiamato Konrad Krajewski, il papa si è inventato un compito. Krajewski è il nuovo elemosiniere papale, un alto funzionario. Il suo ufficio è all’ombra della basilica di san Pietro. I predecessori di Krajewski hanno assegnato fondi per persone bisognose stando seduti alla loro scrivania. Ora invece, il cinquantenne polacco non dovrà aspettare dentro, perché la vita sta fuori, la povertà sta fuori. Di notte i senzatetto di Roma dormono sotto al colonnato recentemente restaurato che circonda piazza san Pietro. Alla sera, così vuole il papa, Krajewski gira per la città con una piccola Fiat bianca per raggiungere poveri e senzatetto, accompagnato da quattro guardie svizzere, che parlano quattro lingue. Distribuisce il denaro del papa. E poiché Roma è troppo grande per percorrerla con un’unica auto ora ogni settimana spedisce più di cento assegni di, al massimo, mille euro ai parroci della città, affinché anche loro aiutino i poveri. “Il papa vuole che noi non stiamo ad aspettare le persone, ma che noi andiamo da loro”, racconta Krajewski. “Mi ha detto che il mio conto corrente è a posto quando è vuoto”. Francesco vuole rendere la Chiesa nuovamente credibile. Il conto vuoto – per il papa questo è il suo
capitale.

 

 

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ancora sul mito dei ‘rom che rubano i bambini’

Oltre al danno la beffa: la leggenda dei rom che rubano bambini e la realtà dei fatti

bimba bionda
“Rispetto a un minore non rom, un minore rom ha circa 60 possibilità in più di essere segnalato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni, circa 50 possibilità in più che per lui venga aperta una procedura di adottabilità e quasi 40 possibilità in più di essere dichiarato effettivamente adottabile”
 “l’allontanamento del minore rischia di sostituirsi all’intervento sociale, esonerando l’istituzione dalle sue responsabilità e colmando la carenza di tutele sociali e civili con la tutela giudiziaria.”

Quello dei rom “ruba-bambini” è un vecchio stereotipo razzista ma ancora molto vivo nell’immaginario collettivo perché continuamente alimentato in tutto il mondo. Le notizie dei giorni passati, provenienti dalla Grecia e dall’Irlanda, ne sono un esempio. In entrambi i casi, il colore dei capelli delle minori trovate insieme alle famiglie rom è stato sufficiente per risvegliare la leggenda popolare, nonostante in nessuno di questi due casi si sia trattato di “furto di bambini”. Come sostiene Guido Barbujani, genetista dell’Università di Ferrara, “una bambina rom bionda è insolita, ma non più di uno svedese bruno come Ingemar Stenmark”. Di certo, la decisione di presa in carico di un minore da parte dei Servizi Sociali non può basarsi sul colore dei capelli.

In Italia – come dimostrato da uno studio del 2008 dell’Università di Verona – dal 1986 al 2007 non si è mai verificato un caso di presunto “rapimento” di bambini da parte dei rom. Se da una parte non c’è alcun dato a supporto della tesi dei “rom che rubano i bambini”, dall’altra esiste all’interno della comunità rom la percezione di una sistematica e legalizzata “sottrazione” di minori rom da parte della società maggioritaria, attraverso l’allontanamento degli stessi dalle proprie famiglie e le adozioni. Secondo la ricerca Mia madre era rom, realizzata dall’Associazione 21 Luglio in collaborazione con la Facoltà di antropologia culturale dell’Università di Verona, nel caso dei rom in emergenza abitativa, questo fenomeno aumenta in modo allarmante: “Rispetto a un minore non rom, un minore rom ha circa 60 possibilità in più di essere segnalato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni, circa 50 possibilità in più che per lui venga aperta una procedura di adottabilità e quasi 40 possibilità in più di essere dichiarato effettivamente adottabile”.

Dalla ricerca emerge un altro dato preoccupante che riguarda la conoscenza lacunosa e un forte pregiudizio nei confronti dei rom da parte dei giudici e degli assistenti sociali, cioè delle figure professionali protagoniste dell’iter che porta alle adozioni. Infatti, la maggioranza delle dichiarazioni di queste figure professionali sono colme di stereotipi che vedono i rom come “persone dedite ad attività criminali, illecite, violente, all’accattonaggio e allo sfruttamento dei propri figli”. Inoltre, le condizioni materiali e abitative in cui vivono i rom, “riconosciute come pregiudizievoli per i minori, vengono imputate alla cultura rom e alla volontà dei genitori e raramente si riconosce il ruolo delle politiche sociali sull’indigenza e sul degrado abitativo in cui vivono molte famiglie rom”.

Da quasi venti anni, assistiamo a una vera schizofrenia istituzionale: da una parte, un’istituzione dello Stato applica politiche che portano alla segregazione dei rom, sgombrandoli e spostandoli fuori dalle zone abitate e dall’altra parte, un’altra istituzione giudica tali ambienti inadeguati per lo sviluppo psico-fisico del bambino. Considerando tale inadeguatezza come prerogativa della cultura rom e non come conseguenza delle politiche locali inadeguate e sistematicamente volte ad accentuare il disagio socio-economico dei rom, lo strumento di intervento diventa allora l’allontanamento del minore dalla propria famiglia. Come spiegano i ricercatori, “l’allontanamento del minore rischia di sostituirsi all’intervento sociale, esonerando l’istituzione dalle sue responsabilità e colmando la carenza di tutele sociali e civili con la tutela giudiziaria.”

La politica discriminatoria dei campi condiziona quindi anche il lavoro dei giudici e degli assistenti sociali: “la politica dei villaggi attrezzati avrebbe determinato e accelerato un dannoso processo di disgregazione famigliare in grado di spiegare molti casi di allontanamento dei minori rom. Non tutti i giudici distinguono la responsabilità genitoriale da quelle dello spazio abitativo e delle politiche sociali. L’allontanamento del minore dall’inadeguatezza dell’ambiente abitativo coincide con l’allontanamento dal contesto familiare che diventa inadeguato necessariamente”.

Campo rom via Triboniano

Vivere nei “campi nomadi” espone a una condizione di fragilità difficilmente colmabile dagli interventi dei Servizi Sociali e, di conseguenza, si interviene passando il compito alla magistratura. Nella ricerca, però, viene specificato che non si tratta di un comportamento discriminatorio da parte del Tribunale dei minori. La ragione dell’alta presenza di minori rom nelle sentenze del tribunale è dovuta al fatto che essi sono oggetto di maggiori segnalazioni rispetto ai propri coetanei. In percentuale, sono più i minori rom per cui si apre la procedura rispetto a quelli non rom. Significativo è il fatto che in quasi il 90% dei casi, i minori segnalati provengono dai “campi”, cioè dagli insediamenti istituzionalizzati.

Secondo la giurisprudenza italiana, il ruolo degli assistenti sociali nella tutela del diritto del minore di crescere all’interno della famiglia dovrebbe essere quello di intervenire sul disagio e sulle difficoltà materiali, rimuovendo gli ostacoli alla genitorialità. Soltanto dopo aver intrapreso la strada del sostegno e dell’aiuto si dovrebbe valutare l’inadeguatezza dell’ambiente familiare e decidere per l’affidamento a una famiglia diversa o a una comunità di tipo familiare.

La legge prevede che la prospettiva del benessere materiale in una nuova famiglia non è motivo sufficiente per separare un figlio dalla sua famiglia e che il legame familiare andrebbe tutelato nella misura in cui non lede lo sviluppo psico-fisico del bambino.

Quello che non si deve assolutamente perdere di vista è l’interesse del bambino. Di conseguenza, si deve valutare, in tutta onestà intellettuale e senza pregiudizi, tra le due alternative attualmente possibili: lasciare il minore con la propria famiglia (se affettivamente adeguata), anche se vive in una baracca, o in una casa con una famiglia adottiva?

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giornalismo scorretto: a proposito del funerale del rom Luca Braidic

rom

Lettera al corriere della sera a proposito di un funerale Rom

un ‘normale’ funerale come quello celebrato da don Mario Riboldi e da padre Luigi Peraboni dell’U.N.P.R. e S. (Ufficio Nazionale per la Pastorale tra i rom e i Sinti) qualche giorno fa, alla presenza oltre che di molti rom anche di rappresentanti di istituzioni religiose e laiche, compreso il sindaco, è stata l’occasione per l’ennesimo articolo denigratorio nei confronti dei rom

G. Bezzecchi, ‘attivista rom da trenta anni’, presente al funerale, stigmatizza in modo fermo la distorsione, offensiva nei confronti dei rom, rappresentata dall’articolo del giornalista del ‘Corriere della sera’

qui di seguito la sua severa lettera al giornale:

 

Signor Galli,

Sono un attivista Rom che da 30 anni condivide la realtà quotidiana dei Rom e Sinti. Ho riflettuto prima di scriverle per l’antica abitudine a sopportare il pregiudizio e la discriminazione, ma alla fine sento il bisogno di rispondere al suo articolo scritto sul “Corriere della Sera” apparso martedì 26 novembre 2013 a pagina 3 della cronaca di Milano a proposito dei funerali di Luca Braidic. Lei parla di “Funerali……….con più poliziotti che familiari”; “celebrati il più in fretta possibile”; e soprattutto di “funerali da boss di mafia…”.

Io ho partecipato ai funerali di Luca Braidic celebrati da Monsignor Mario Riboldi, con Padre Luigi Peraboni (da 60 anni tra i Rom e Sinti) con don Massimo Mapelli della Caritas ambrosiana, i Padri Somaschi e esponenti di altre associazioni anche loro impegnati da molti anni con i Rom e Sinti, da lei neppure considerati evidentemente per non essersi degnato di venire a vedere o di informarsi compiutamente.

Premesso che i poliziotti erano 6 con 3 auto e parlavano tranquillamente tra loro sulla piazzetta antistante la chiesa, mentre le famiglie Rom hanno riempito la chiesa con la presenza del Sindaco con partecipazione seria secondo la nostra tradizione; che se per fretta s’intende percorrere i circa 2 chilometri dalla chiesa alla cascina per la sosta per l’ultimo saluto all’abitazione del defunto con fuochi, musica pianti fino all’imbrunire per poi percorrere un altro chilometro fino al cimitero con la cassa portata a spalla, la banda, le decine di corone, di fiori sparsi senza parsimonia (almeno l’ultima strada…. è fiorita anche per lui), certo i bersaglieri invidieranno la nostra velocità; ma la cosa che più mi ha colpito è stato definire da parte sua questi come “Funerali da boss di mafia”, un insulto gravissimo per la cultura dei Rom e Sinti.

Tutto il suo articolo è pervaso, oltre che dall’ignoranza delle tradizioni di un popolo antico che avrebbe da insegnare qualcosa anche a lei, da affermazioni approssimative e infamanti (“…persone sopra i 14 anni tutte con precedenti”) e quando parla di faida da una vera e totale ignoranza di quello che è veramente successo nelle comunità di via Idro e di via Chiesa Rossa e di quello che ha portato a questo tragico epilogo. Ma tanto siamo “zingari” con i quali lei certo – e per fortuna, aggiungo io – non è in grado di parlare… e per questo lei che fa il giornalista – non ho detto che lo è – dovrebbe almeno avere il dovere non dico di cercare la verità, ma almeno di non sputarci addosso.

Saluti

Milano, 05/12/2013
Rag. Giorgio Bezzecchi
Presidente Museo del viaggio Fabrizio De Andrè

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introduzione alla lettura della ‘evangelii gaudium’

evan gau

(ho appena scoperto il prezioso sito ‘sperare per tutti’ ed è stata più forte di me la tentazione di inserire come documentazione nel mio sito il prezioso studio che l’autore di tale sito , Christian Albini, sta facendo come sussidio introduttivo alla ‘evangelii gaudium’: mentre me ne ‘approprio’ con ghiotto interesse, chiedo venia all’autore del ‘furto’ invitando tutti a visitare quel sito per l’interesse che suscita)

Evangelii Gaudium

guida alla lettura

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Il destino di molti documenti ecclesiali è quello di restare chiusi nei cassetti, senza essere conosciuti e attuati. Non è detto che sia sempre un male: sono in numero eccessivo e spesso ridondanti. Non così per l’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” (EG) di papa Francesco, in cui è disegnato un volto di chiesa che deve prendere corpo. Un gruppo di preti e laici con cu mi ritrovo da alcuni anni, in un’esperienza di amicizia e fraternità, mi ha chiesto di tenere una breve presentazione del testo per uno scambio tra di noi. Condivido questi miei appunti nella speranza di offrire un servizio per far conoscere questo importante  testo e farne cogliere la portata.

«Ma il Figlio dell’uomo, quando verrò, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8).

Questa domanda di Gesù interpreta la realtà di oggi: un cristianesimo ormai di minoranza in cui si sono interrotti i canali tradizionali di trasmissione della fede e le forma di vita cristiana delle generazioni precedenti si sono svuotate e hanno subito un abbandono di massa. La vita ordinaria delle persone e la loro vicenda interiore possono prescindere senza problemi dall’esperienza umana. È un dato di fatto ormai risaputo e consolidato nei paesi di antica cristianità. Già nel 1990, Giovanni Paolo II ha sollecitato a passare da una pastorale della conservazione alla missione. Le ricadute sulla realtà ecclesiale, bisogna riconoscerlo, sono state minime. In Italia, il convegno ecclesiale di Verona del 2005, con l’indicazione degli ambiti antropologici per cui la pastorale doveva indirizzarsi ai vissuti concreti delle persone, e la successiva nota pastorale (Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia) non hanno lasciato segni profondi.

Come mai? A mio avviso, gli inviti a un rinnovamento missionario della pastorale è caduto su un terreno non adatto. Dopo il concilio Vaticano II, a fronte di aggiornamenti decisivi ed evidenti (come nell’ambito liturgico) è la realtà feriale della chiesa a essere rimasta maggiormente statica. È vero che c’è stato un ampliamento degli ambiti della pastorale e un sempre maggiore coinvolgimento dei laici, ma unitamente al permanere di schemi e impostazioni risalenti al periodo tridentino, a cui ha contribuito una spinta romana al centralismo e all’università. Di fatto, nonostante le enunciazioni, la spinta più forte è stata quella alla conservazione. La missione è stata declinata più nei termini di una forte presenza pubblica che nell’assunzione di uno stile evangelico nell’abitare la società alla maniera del lievito nella pasta. I mali persistenti, in un contesto del genere, sono il clericalismo, la riduzione dell’esperienza cristiana alla pratica religiosa e all’etica, il distacco tra l’esistenza e la fede, un annuncio prevalentemente dottrinale.

Rispetto a questo quadro, l’esortazione di papa Francesco spinge verso un cambio di orientamento che una parte consistente dei vescovi e del clero ordinati negli ultimi anni non è forse pronta a recepire. La scelta esposta nell’introduzione di evidenziare la gioia come contrassegno di chi ha accolto il Vangelo e lo comunica agli altri va a toccare un punto cruciale.

La mancanza di gioia era proprio la contestazione principale mossa da Friedrich Nietzsche, il cui pensiero è rappresentativo dell’uscita da Dio del mondo moderno, come si legge in Umano troppo umano: «Le vostre facce sono state per la vostra fede più dannose delle vostre ragioni. Se il lieto messaggio della Bibbia vi stesse scritto in viso, non avreste bisogno di esigere così costantemente fede nell’autorità d questo libro».

Una fede animata dalla gioia è la fede di chi ha fatto esperienza di un incontro che lo ha rinnovato interiormente, nell’apertura di un nuovo orizzonte di vita, per cui si trova una profonda fiducia che rimane salda anche nei passaggi tormentati. È la differenza tra la fede autentica e una fede narcisistica e individualistica, un’ideologia in cui l’io si protegge e si gratifica. «Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita. Questa non è la scelta di una vita degna e piena, questo non è il desiderio di Dio per noi, questa non è la scelta di una vita degna e piena, questo non è il desiderio di Dio per noi, questa non è la vita nello Spirito che sgorga dal cuore del Cristo risorto» (EG 2).

Il problema dei cristiani nel mondo contemporaneo non è quello d’istaurare una sorta di competizione con chi non crede o crede in una fede diversa, cercano i mezzi per prevalere. Questo renderebbe la chiesa un potere religioso in lotta contro altri poteri. Il vero problema dei credenti è quello spirituale, cioè avere un cuore che si piega al Vangelo e non alle tentazioni idolatriche, anche quelle che assumono forma religiosa. È un problema che si coglie, riallacciandomi a quanto scrive Bergoglio, quando si incontrano persone che si sono armate dentro e in quanto tali abitano il mondo e la storia. Possono presentarsi con una veste di perfetta ortodossia, ma non vivono la prossimità, chiudendosi anche all’incontro con Dio. L’evangelizzazione non è un fatto di persuasione dell’altro, ma innanzi tutto di conversione del cristiano che conduce una vita pienamente umanizzata (cfr. EG 8) e in tal modo è testimone anche quando non si dichiara tale. Non evangelizzare per proselitismo, ma per attrazione. Siamo evangelizzatori nella misura in cui siamo evangelizzati e la nostra vita cresce e matura, perché la fede cristiana è realizzazione dell’umano e non fuga da esso. Il cristiano sa relazionarsi con gli altri e con le cose nella logica della comunione e non del possesso predatorio.

La nuova evangelizzazione non è tale perché impiega tecniche o strategie all’avanguardia, ma perché ritorna al Vangelo che non si esaurisce in formule e prassi codificate una volta per sempre, come se fosse una verità che i cristiani possiedono e si limitano a trasmettere agli altri; invece «la sua ricchezza e la sua bellezza sono inesauribili. Egli è sempre giovane e fonte costante di novità» (EG 11). Certamente il discernimento di questa novità avviene nel legame con la memoria della tradizione, s’innesta in una storia viva che non è un reperto da museo da preservare sotto vetro, ma è maturazione dei frutti propri di ciascuna stagione che scaturiscono dalla sua linfa.

L’introduzione del documento si conclude con l’indicazione delle tre “soglie” principali dell’evangelizzazione (i battezzati praticanti, i non praticanti e i lontani dalla chiesa) e della prospettiva pastorale verso cui papa Francesco vuole indirizzare la chiesa cattolica. «Sono innumerevoli i temi connessi all’evangelizzazione nel mondo attuale che qui si potrebbero sviluppare. Ma ho rinunciato a trattare in modo particolare queste molteplici questioni che devono essere oggetto di studio e di attendo approfondimento. Non credo neppure che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva e completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territorio. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (EG 16).

Ecco la vera novità di fondo: qui c’è un cambio nel modo di pensare e vivere la chiesa cattolica. Con una terminologia tecnica, potremmo dire che viene annunciato un cambio di paradigma ecclesiologico. Assieme alla conversione interiore del cristiano ci deve essere una conversione visibile della comunità cristiana. Decentralizzazione significa che non c’è semplice recezione di decisioni e pronunciamenti che vengono dall’alto, secondo una visione piramidale che si è sempre più accentuata fino al Vaticano II e che l’esplosione mediatica della figura del papa ha di nuovo alimentato negli ultimi decenni saldandosi con le intenzioni di certi ambienti cattolici. Viene prospettata una chiesa più comunionale, più fraterna, più sinodale in cui si cammina insieme nella corresponsabilità della fede condivisa e della medesima dignità battesimale, valorizzando la pluralità dei carismi, senza che uno (fosse pure quello del pastore universale) prevalga sugli altri.

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La chiesa non può essere auto-referenziale, è “chiesa in uscita” (cfr. EG 24), perché la Parola di Dio chiama il credente, lo manda verso terre nuove, lo sprona ad andare verso l’altro (cfr. Gn 12,1-3; Es 3,10; Ger 1,7).

Dopo la sezione introduttiva, che presenta in un certo senso lo sfondo del suo programma pastorale, l’Evangelii Gaudium affronta in cinque capitoli alcune delle questioni più rilevanti per l’evangelizzazione oggi. La prima è quella di una trasformazione missionaria, la quale comporta una vera e propria riforma della chiesa (EG 19-49).

L’approccio di papa Francesco può essere spiegato ricorrendo alla categoria dello stile, studiata dalla riflessione teologica di Christoph Theobald, tra i principali interpreti del Vaticano II. Lo stile, a grandi linee, è la corrispondenza tra la forma e il contenuto. Perciò, una pastorale di evangelizzazione che assume una determinata fisionomia richiede, per realizzarsi, un volto di chiesa coerente con essa. È la medesima questione sottesa all’interpretazione del Vaticano II, il quale è stato un concilio pastorale e non convocato per definire delle dottrine. Per questo si è tentato di sminuirne l’importanza. Invece, la presa di coscienza di un nuovo rapporto tra la chiesa e il mondo contemporaneo, all’insegna del dialogo e dello scambio, piuttosto che dell’estraneità e della contrapposizione, implica anche una rinnovata comprensione della dottrina cattolica.

È importante identificare i riferimenti della conversione missionaria prospettata dal papa. Il più prossimo è il documento della conferenza dell’episcopato latinoamericano ad Aparecida nel 2007, ma il fondamento è costituito dalla visione di chiesa elaborata da Paolo VI a partire dall’enciclica Ecclesiam suam e sviluppata dal Vaticano II. Massimo Faggioli ha parlato di «riabilitazione pubblica di un magistero conciliare e post-conciliare».

Tornando al testo dell’esortazione, la missione è l’effetto della gioia del Vangelo che vuole comunicarsi. Non alla maniera del proselitismo, ma di una diffusione di sé che è farsi prossimo, coinvolgimento con chi si incontra alla maniera alla maniera del Signore. «Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: “Sarete beati se farete questo” (Gv 13,17). La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quando duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di tenere conto dei limiti» (EG 24).

Non è una posizione ideologica o l’adeguamento a una moda. È lo stile di Gesù nel suo relazionarsi alle persone e accogliendole con le loro fatiche e i loro peccati, senza la pretesa di separare subito il grano dalla zizzania, con il rischio di perdere l’uno con l’altra. Così i cristiani non devono avere l’ansia di etichettare e giudicare le persone, bensì lasciare loro la possibilità della crescita, della piena maturazione. Devono anzi incoraggiarla.

Affinché questo avvenga, tutta la chiesa deve approfondire la coscienza di se stessa per riconoscere che c’è una differenza tra come il Signore la sogna e la sua realtà storica: da qui scaturisce il bisogno di una riforma perenne dell’istituzione ecclesiale, che nasce dall’esigenza di fedeltà a Cristo e alla propria vocazione (cfr. EG 26; Paolo VI, Ecclesiam suam 10; Concilio Vaticano II,Unitatis redintegratio 6).

Il rinnovamento è ritenuto improrogabile da papa Francesco e dovrebbe trasformare ogni aspetto della vita ecclesiale (consuetudini, stili, orari, linguaggi, strutture…) in senso missionario, in vista di una pastorale più espansiva e aperta (cfr. EG 29).

Il punto di partenza è la parrocchia, che rimane la “prima linea” della missione, in quanto chiesa tra le case degli uomini (cfr. Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 26), a patto che sappia assumere con plasticità forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività del pastore e della comunità (cfr. EG 28). Bergoglio riconosce che il rinnovamento delle parrocchie è uno dei capitoli inattuati della riflessione ecclesiale recente. Per definire le parrocchie, egli ricorre alla terminologia delle “comunità di comunità”, ma a indicare che non devono essere grandi strutture anonime, ma comunione di realtà diversificate e vive, dove si sperimentano rapporti ravvicinati, si condivide il quotidiano e la ricerca di fede, si vive la fraternità.

In questo discorso s’inserisce il riferimento ai movimenti, ridimensionati rispetto all’enfasi di altri pronunciamenti, insieme ad associazioni e comunità di base, la cui originalità è vista in funzione dell’integrazione nella realtà parrocchiale e non per costituirsi come realtà parziali e separate (cfr. EG 29).

L’appello al rinnovamento è esteso alle diocesi e ai loro vescovi. A questi ultimi, in particolare, l’invito è a valorizzazione gli organismi di partecipazione e altre forme di dialogo per esercitare il proprio ministero di guida e sintesi a partire dall’ascolto di tutti e non da un assenso servile (cfr. EG 31).

Neppure il papato è esentato dal rinnovamento e qui abbiamo il fatto insolito di un pontefice che chiede suggerimenti al riguardo. Viene così recuperata la richiesta inevasa di Giovanni Paolo II di ripensare la forma di esercizio del ministero petrino (cfr. Ut unum sint, 95). L’enciclica si riferiva all’ecumenismo, ma implica, e l’esortazione lo specifica, di dare corpo alla collegialità stabilita dalla Lumen gentium: non il papa da solo, come un monarca, ma il papa insieme ai vescovi e alle conferenze episcopali, intese come veri e propri soggetti ecclesiali dotati anche di una qualche autorità dottrinale (cfr. EG 32). Questa potrebbe essere una reale decentralizzazione che darebbe corpo al pluralismo di una chiesa mondiale unita nella fede.

L’esortazione non offre indicazioni molto dettagliate per il rinnovamento, proprio perché intende attivare la corresponsabilità audace e creativa dei battezzati a tutti i livelli e non dettare ogni decisione dall’alto (cfr. EG 33).

Ciò che conta, vale la pensa di ribadirlo, è assumere lo stile evangelico. Il che per Bergoglio significa anche un annuncio che non si fissa su aspetti secondari, senza manifestare il cuore del messaggio di Gesù. «Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume una pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario» (EG 35). Richiamando il Vaticano II e ancora prima Tommaso d’Aquino, il papa ricorda che c’è una gerarchia delle verità in campo sia dogmatico sia morale, per cui va evidenziato quel che è centrale e dà significato a tutto il resto.

«Il Vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e ci salva, riconoscendolo negli altri e uscendo da se stessi per ricercare il bene di tutti. Quest’invito non va oscurato in nessuna circostanza!» (EG 39). Il centro è la fiducia nell’amore di Dio per noi che ci rende capaci di amare e ci salva.

È detto per chi riduce l’annuncio cristiano a messaggio etico e ne fa metro per giudicare gli altri; è detto per chi sbandiera la propria ortodossia, ma dice parole cristiane senza Cristo riducendole a un falso Dio o a un ideale umano. «In tal modo siamo fedeli a una formulazione ma non trasmettiamo la sostanza» (EG 41).

Il Vangelo deve parlare oggi. La ricerca delle modalità di comunicare l’essenziale in un mondo che cambia richiede di armonizzare una varietà di visioni teologiche e pastorali, più che la difesa senza sfumature di una dottrina monolitica (cfr. EG 40). Tutto ciò incoraggia ad abbandonare norme e precetti non essenziali e non incisivi nel nostro tempo (cfr. EG 43), così da tenere conto della condizione reale delle persone su cui non si possono esercitare forme d’ingerenza spirituale. «Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza importanti difficoltà» (EG 44).

È una chiesa aperta, quella evocata dal documento, che invita a entrare e accoglie. «Tutti possono partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, tutti possono far parte della comunità, e nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi» (EG 47). Vale in particolare per il Battesimo e l’Eucaristia che non sono riservati a una ristretta cerchia di perfetti, ma sono dono, cibo, medicina, sostegno… Una chiesa così privilegia i poveri, gli infermi, i disprezzati e li cerca anche a costo di essere accidentata e ferita, piuttosto che rinchiudersi nelle proprie sicurezza e nei propri procedimenti.

«Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiudersi nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranqulli» (EG 49).

Continua questa lettura, per me impegnativa ed entusiasmante, con cui sto cercando di presentare l’esortazione di papa Francesco e la sua importanza per  il futuro della chiesa cattolica.

Se l’evangelizzazione è una sfida che mette in crisi le sicurezze del passato e richiede un rinnovamento della chiesa cattolica e della pastorale, è indispensabile comprendere le ragioni di questo passaggio travagliato. È questo l’argomento del secondo capitolo dell’Evangelii Gaudium (nn. 50-109), divisibile in due parti: la prima è un’analisi del nostro tempo e dei cambiamenti che interpellano il nostro stile ecclesiale (nn. 52-75), mentre la seconda è dedicata alle patologie che dentro la chiesa rendono poco credibile o efficace l’annuncio (nn. 76-109).

 

Papa Francesco è consapevole che in molti documenti ecclesiali c’è un eccesso di analisi, senza una corrispondente offerta di proposte adeguate. Egli infatti dichiara che non è suo compito offrire una lettura completa e dettagliata della realtà contemporanea ed esorta tutte le comunità cristiane a impegnarsi a propria volta nella lettura dei “segni dei tempi”. Questa espressione, proveniente dal Vangelo (cfr. Mt 16,2-3), è stata impiegata in particolare nella teologia francese del Novecento ed è divenuta ricorrente nel linguaggio di papa Giovanni XXIII, il quale se ne avvalse per descrivere le tracce nascoste della venuta del Signore nel mondo che solo lo sguardo di fede sa riconoscere. Uno sguardo che sa cogliere il positivo attorno a sé e non è condizionato da un pregiudizio di contrapposizione tra la chiesa e la modernità.

 

Non si tratta di elaborare interpretazioni sociologiche, quanto di operare un “discernimento evangelico” (EG 50), cioè saper leggere il proprio mondo e il proprio tempo con occhi allenati dall’ascolto della Parola e dalla preghiera. Più che emanare giudizi e direttive, bisogna riconoscere che cosa va nella direzione del Regno di Dio e che cosa no, che cosa ci rende più umani e che cosa invece ci disumanizza, a prescindere dal fatto che abbia o meno un’etichetta cattolica. Ecco perché la priorità di Francesco, nel descrivere la nostra epoca, è evidenziare gli effetti perversi di quella che definisce “cultura dello scarto”.

 

«Così come il comandamento “Non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e dell’iniquità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti di borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è iniquità» (EG 53).

 

Qui si chiarisce che cosa sia il male del relativismo: non è una sorta d’inferiorità etica di chi non condivide la visione del mondo cattolica, come spesso è stato inteso usandola quale arma dialettica nei dibattiti pubblici. C’è stato un uso di questo concetto tale per cui il disaccordo con l’etica cattolica è stato inteso come relativismo, come assenza di valori e del senso della verità e del bene. Papa Francesco presenta piuttosto il relativismo come non riconoscimento della persona umana e del suo volto, al punto da considerarla irrilevante, persino nella sua indifferenza.

 

Alla radice c’è un’idolatria del denaro, un nuovo dio a cui si offrono sacrifici umani: l’esclusione di molti per il benessere di pochi (cfr. EG 54-56). A tale proposito, ambienti conservatori, soprattutto negli USA, hanno accusato il papa di essere socialista. Appartiene a loro, invece, l’ideologia che fa diventare la crescita economica e l’accumulo di profitto un dogma, anche quando in suo nome si producono vittime. Il monito del papa è la denuncia di un’economia fine a se stessa per cui l’etica dimentica l’uomo invece di essere in suo favore. Non è un fatto di sistema politico o di partiti, ma di essere consapevoli del fine delle attività umane economiche e di governo.

 

«In tal senso, esorto gli esperti finanziari e i governanti dei vari Paesi a considerare le parole di un saggio dell’antichità: “Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro”» (EG 57).

 

Sono parole di un padre della chiesa, Giovanni Crisostomo. Il discorso del papa va alla radice spirituale delle scelte economiche e politiche. la cultura dell’individualismo e della gratificazione istantanea suscita l’illusione di salvarsi per messo del denaro e del consumo, comprando il soddisfacimento dei propri bisogni. È un’assolutizzazione dell’eco che non sa più vedere l’altro uomo e Dio (cfr. EG 67).

 

La povertà degli esclusi crea le condizioni per il diffondersi di una violenza che non si risolve con l’ossessione per la sicurezza e le risposte armate, le quali non fanno altro che alimentarla. Il punto è cambiare un sistema che è ingiusto a partire dalla sua origine, la quale sta in una malattia interiore, una falsa visione del mondo e dell’uomo. Tutte le relazioni ne sono corrose, da quelle familiari a quelle civili.

 

In un contesto del genere, si rende necessario educare a una fede che non si limiti a pratiche esteriori, devozioni sentimentali, assolutizzazione di pretese rivelazioni private. Sarebbe un vissuto individualistico che si concentra sulla rassicurazione personale e su un miracolismo emozionale per cui ci si rinchiude in un proprio guscio separato dove ci si sente protetti. È una forma di indifferenza religiosa. Il papa auspica una vita ecclesiale e di fede che sappia intersecarsi con le culture che palpitano, si progettano e coesistono nelle nostre città ormai pluraliste.

 

Non è possibile giudicare e rifiutare tutto ciò che non appartiene alla tradizione. Si tratta piuttosto di abitare la città e le sue culture rendendo possibile nei tanti percorsi esistenziali una ricerca di senso, all’insegna della semina, e non di un’irrealistica e anti-evangelica riconquista.

 

«Si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di relazionarsi con Dio, con gli altri e con l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. È necessario arrivare là dove si formano nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima della città» (EG 74). Il Vangelo non è un prodotto da collocare sul mercato o un’idea da propagandare; è una voce che dischiude all’uomo nuove possibilità di vita e di fiducia nell’incontro con ogni cultura e ogni percorso esistenziale. Nel Vangelo c’è un messaggio perenne che scalda il cuore, che risponde al desiderio di autenticità e vita buona presente in ogni fede, cultura e vicenda umana. Si tratta di farlo emergere, senza perdere le ricchezze della tradizione cristiana, ma anche senza ristagnare nell’immobilismo di pratiche e linguaggi più adatti ad altre epoche.

 

Affinché questo possa avvenire, l’esortazione passa in rassegna una serie di tentazioni a cui sono soggetti i cattolici impegnati nella pastorale per mettere in guardia contro di esse. Questo, però, non senza aver prima ricordato l’enorme apporto attuale della chiesa nel mondo d’oggi nei più diversi contesti di servizio gratuito all’uomo (cfr. EG 76).

 

La prima tentazione segnalata è il confondere la vita spirituale, che dovrebbe essere il fondamento dell’esperienza cristiana, «con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione» (EG 78).è il rischio di una religione su misura che diventa rifugio e gratificazione per l’io. Ad esso si ricollega quell’accidia che è la fatica a perseverare nei tempi lunghi, nella mancanza di risultati immediati a fronte di sogni irrealizzabili, nelle contraddizioni. Ne derivano un ripiegamento disimpegnato su se stessi e una riduzione della vita ecclesiale a grigio pragmatismo abitudinario che è all’opposto della gioia del Vangelo (cfr. EG 82-83). Ancora Francesco mette in guardia dal pessimismo sterile che immobilizza, perché “tanto è tutto inutile”, come già fece Giovanni XXIII aprendo il Concilio quando prese le distanze dai profeti di sventura che annunciano sempre il peggio e non vedono altro che rovine e guai (cfr. EG 84). Quando prevalgono questi atteggiamenti, manca allora un contatto vivificante con il Vangelo che alimenta nuove relazioni, nuove opportunità d’incontro e solidarietà, superando il sospetto e la sfiducia permanente (cfr. EG 87-88).

 

«L’isolamento, che è una versione dell’immanentismo, si può esprimere in una falsa autonomia che esclude Dio e che però può anche trovare nel religioso una forma di consumismo spirituale alla portata del suo morboso individualismo. Il ritorno al sacro e la ricerca spirituale che caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui. Ma più dell’ateismo, oggi abbiamo di fronte la sfida di rispondere adeguatamente alla sete di Dio di mola gente, perché non cerchino di spegnerla con proposte alienanti o con un Gesù Cristo senza carne e senza impegno con l’altro» (EG 89).

 

La differenza tra vera e falsa spiritualità si coglie nella misura in cui l’esperienza di fede porta all’incontro, all’accoglienza, al farsi prossimi, al fare comunità.

 

Per gli stessi motivi, papa Francesco dice no alla mondanità spirituale, propria di chi cerca nella fede solo una conferma dei propri sentimenti o ragionamenti o di chi si sente superiore agli altri in forza della propria adesione a un certo stile cattolico del passato. Significa in definitiva contare su se stessi, sulla propria integrità religiosa, più che su Dio. «È una presenta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo a un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare» (EG 94). Bergoglio riserva le parole più dure non ai non cattolici, ma a quei cattolici che smentiscono il Vangelo mettendolo al servizio di se stesso.

 

Vale anche per la ricerca di potere dentro la chiesa o di conquiste sociali e politiche, alimentando la vanagloria e respingendo la profezia (cfr. EG 95-97). E così si perdono energie in illusori piani di espansionismo apostolico o in guerre contro altri fratelli di fede, fino ad assumere atteggiamenti persecutori, perché la diversità di idee mette in discussione l’ego di chi conta su se stesso e lo proietta sulla religione (cfr. EG 98-100).

 

Il secondo capitolo dell’EG si chiude richiamando alcuni soggetti ecclesiali a cui prestare particolare attenzione in una comunità cristiana che non si identifica con la gerarchia:

 

–          i laici, che non assumono in pieno responsabilità importanti sia per mancanza di formazione sia per non aver trovato spazio nelle loro chiese particolari a causa di un eccesivo clericalismo (cfr. EG 102);

 

–          le donne, i cui legittimi diritti derivanti dalla loro pari dignità «pongono alla chiesa domande profonde che la sfidano e che non si possono facilmente eludere» (EG 104);

 

–          i giovani, che «nelle strutture abituali spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, necessità, problematiche e ferite» (EG 105);

 

–          i seminaristi, rispetto ai quali bisogna operare una selezione per escludere motivazioni legate a insicurezze affettive, a ricerca di forme di potere, gloria umana o benessere economico (cfr. EG 107).

 

Il capitolo si chiude con l’invito alle comunità a proseguire in queste riflessioni, mantenendosi sempre in una prospettiva di rinnovamento e di dinamismo fiducioso.

 

«Le sfide esistono per essere superate. Siamo realisti, ma senza perdere l’allegria, l’audacia e la dedizione piene di speranza! Non lasciamoci rubare la forza missionaria!» (EG 103).

4.

La terza parte dell’Evangelii Gaudium prende in esame le costanti dell’evangelizzazione, gli elementi irrinunciabili al di là dei contesti storici e geografici (nn. 110-175). È la sezione in cui mi sembra maggiormente presente il materiale elaborato durante il sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione del 2012. La mano di papa Francesco è meno evidente, mentre si cogli una certa disomogeneità, forse dovuta alla varietà dei contributi di cui si è cercato di fare sintesi

Al di là delle valutazioni personali, il tratto unificante e la chiave interpretativa del capitolo è il primato della proclamazione di Gesù Cristo in ogni attività di evangelizzazione (cfr. EG 110). Qui papa Bergoglio cita Giovanni Paolo II, dall’esortazione Ecclesia in Asia del 1999. Una delle caratteristiche del documento, infatti, è di citare ampiamente testi papali rivolti alle chiese dei cinque continenti insieme ai pronunciamenti di alcune conferenze episcopali. È un dettaglio in cui si coglie l’assunzione di uno sguardo ampio, abbracciando l’universalità della chiesa cattolica, senza rimanere circoscritto al punto di vista occidentale che dal Medio Evo fino al XX secolo ha pressoché monopolizzato il cattolicesimo nel bene e nel male. Secondo il gesuita Karl Rahner, il Concilio Vaticano II ha contrassegnato la transizione da una chiesa eurocentrica a una chiesa mondiale, un vero e proprio passaggio d’epoca paragonabile alle grandi svolte storiche e che ha incontrato forti resistenze.

Il capitolo è suddiviso in quattro parti. Nella prima il tema è il soggetto dell’annuncio: chi evangelizza? (cfr. EG 111-134). «L’evangelizzazione è compito della Chiesa. Ma questo soggetto dell’evangelizzazione è ben più di una istituzione organica e gerarchica, poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio» (EG 111). Infatti, più avanti il papa sottolinea che ogni membro del popolo di Dio, in forza del Battesimo, è discepolo missionario, il che comporta un nuovo protagonismo di tutti i battezzati (cfr. Mt 28,19; EG 120).

Il presupposto è il legame tra la realtà profonda della chiesa e la comunione trinitaria. La chiesa non nasce per iniziativa solo umana, ma ha all’origine un sogno di Dio, una chiamata: c’è un primato della grazia che precede l’organizzazione umana (cfr. EG 112).

Dio non salva l’uomo isolatamente, ma convoca un popolo unito in una fraternità che oltrepassa le differenze sociali, religiose, nazionali (cfr. Gal 3,28; EG 113). «La Chiesa dev’essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (EG 114). L’amore trinitario, che unisce nella diversità, si rivolge a tutti; il dono di Dio si incarna perciò nella cultura di chi lo riceve (cfr. EG 115).

L’evangelizzazione non è colonialismo culturale, per cui comporta una forma di assimilazione di chi ne è il destinatario, come è avvenuto in altre epoche. Essa avviene invece mediante inculturazione, per cui le diverse culture trovano posto nella chiesa e arricchiscono l’annuncio del Vangelo, perché contribuiscono ad annunciarlo in modo più ampio e completo (cfr. EG 116).

Le diverse culture sono depositarie della molteplicità dei doni suscitati dallo Spirito santo il quale realizza un’unità in cui non c’è uniformità, ma armonia multiforme.

«Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio cristiano non si identifica con nessuna di esse e possiede un contesto transculturale. Perciò nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica, insieme con la proposta evangelica» (EG 117).

È l’umano a essere a immagine e somiglianza di Dio, è l’umano il luogo dell’incarnazione, non una particolare cultura. Farla coincidere con il cattolicesimo sarebbe limitare la ricchezza della Parola di Dio, sacralizzando viceversa un’opera umana. Da questo travisamento possono emergere vere e proprie forme di fanatismo.

Un aspetto dell’inculturazione sono le molteplici forme della pietà popolare che, se correttamente intese, diventano forme di accesso all’esperienza cristiana alla portata di tutti (cfr. EG 122-126). L’importante, osservo a titolo personale, è non assolutizzarle fino a renderle pesi o obblighi che allontanano altri. Si tratta di presentarle come risorse simboliche nel contesto della ricca varietà dell’esperienza cristiana. Così come, tornando all’esortazione, non vanno assolutizzare le formule con cui è annunciata la fede, dal momento che il Vangelo può essere espresso con le categorie (variabili nel tempo) proprie di ciascuna cultura (cfr. EG 129), e nemmeno i particolari carismi ecclesiali; questi ultimi, se sono suscitati dallo Spirito, non hanno bisogno di affermarsi a spese di altre spiritualità e doni (cfr. EG 130). È detto per gli ambienti ecclesiali che manifestano intolleranza per linguaggi ed esperienze diversi dai propri.

Anche il dialogo con le diverse scienze e la filosofia è indispensabile per l’inculturazione della fede e qui occorre il contributo dei teologi con la loro attività di ricerca (cfr. EG 132-134).

Ben due sezioni del capitolo sono dedicate rispettivamente all’omelia (cfr. EG 135-144) e alla sua preparazione (cfr. Eg 145-159). In effetti si tratta pur sempre del principale momento di contatto con la predicazione ecclesiale da parte delle persone. Eppure, risulta spesso poco efficace e significativa. Si sa quanto Bergoglio conti su questo momento: le sue omelie mattutine a Santa Marta sono seguite in tutto il mondo per la loro immediatezza. Certo, desta sorpresa il fatto che ci sia bisogno d’intervenire così intensamente su quella che è la più frequente modalità di comunicazione pastorale a motivo della problematicità in cui versa. È indice di una chiesa non ancora abituata a una comunicazione estroversi, come se ritenesse di avere ancora tutte le pecore nel proprio recinto, invece di preoccuparsi di raggiungerle.

Nell’omelia il prete non deve intavolare un monologo in cui mette in mostra se stesso, ma riaprire il dialogo tra il Signore e il suo popolo (cfr. EG 137), dischiudendo a quest’ultimo il tesoro della Parola. Appartenendo a un contesto liturgico, deve essere breve (cfr. EG 138) ed esprime la maternità accogliente della chiesa con la cordialità, la gestualità, la voce (cfr. EG 139).

È parola vitale, non comunicazione di servizio o lezione. Poiché la fede nasce dall’ascolto della parola di Cristo (cfr. Rm 10,17), l’omelia deve trasmettere il messaggio evangelico e non verità dottrinali o prescrizioni morali (cfr. EG 142-143). Questo non si improvvisa; richiede da parte del prete di dedicare tempo alla Parola, non semplicemente studiandola, ma accostandola con un cuore in preghiera. La preparazione dell’omelia è un’esperienza spirituale, prima che intellettuale. Altrimenti, si diventa come i farisei, deprecati da Gesù perché esigevano dagli altri senza essersi lasciati illuminare dalla Parola di Dio, non l’hanno contemplata, non l’hanno resa viva ed efficace prima di tutto in sé (cfr. Eb 4,12). Il predicatore non è una persona perfetta che si mette in cattedra, ma una persona che cresce nella sua vita interiore e nella sua umanità in quanto davvero ascolta la Parola e le è docile (cfr. EG 145-151).

Papa Francesco raccomanda il ricorso alla lectio divina, il tradizionale metodo monastico di lettura orante della Bibbia, al cui rilancio ha dato grande impulso Carlo Maria Martini, per cogliere il significato proprio del testo biblico insieme a quello che il Signore vuole dire al lettore tramite il testo. Dio rivolge a ognuno la sua parola (cfr. EG 152-153).

Ma non basta. «Il predicatore deve anche porsi in ascolto del popolo, per scoprire quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire. Un predicatore è un contemplativo della Parola e anche un contemplativo del popolo» (EG 154). Non è un fatto di strategia, ma di sincera premura per le persone e di fedeltà allo stile di Gesù. Ciò richiede anche di prestare attenzione al linguaggio impiegato, alla semplicità, all’uso di immagini che coinvolgono l’ascoltatore, puntando sulla positività del messaggio (cfr. EG 156-159). Era così che Gesù comunicava, incontrando le persone nei luoghi della convivenza, recependo le loro domande e bisogni, aderendo alla concretezza e accendendo l’immaginazione con le parabole.

C’è una breve considerazione che non andrebbe sottovalutata: «Che cosa buona che sacerdoti, diaconi e laici si riuniscano periodicamente per trovare insieme gli strumenti che rendono più attraente la predicazione» (EG 159). Sarebbe un bel passo verso una chiesa meno clericale.

La quarta e ultima parte del capitolo (nn. 160-175) è dedicata all’annuncio delkerygma, cioè il primo annuncio e l’annuncio principale, «quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi» (EG 164). Ci si ricollega così ai nn. 34-36 con l’invito a concentrarsi sul cuore del Vangelo, sul suo nucleo fondamentale che è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto. La risposta di fede a questo amore è l’amore del prossimo (cfr. EG 160). Se viene oscurato questo senso principale, tutto il messaggio cristiano viene alterato. È a partire dagli anni Trenta del XX secolo, con un libro dello storico della liturgia Joseph Jungmann, che si è reclamato un recupero del senso originario del Vangelo a fronte di una predicazione che si riduceva a esposizione dottrinale lontana dalla vita.

«La centralità del kerygma richiede alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna» (EG 165).

L’esortazione fa riferimento anche alla catechesi mistagogica, che coinvolge tutta la comunità in un cammino di formazione progressivo in cui sono valorizzati i segni liturgici (cfr. EG 166), e alla “via della bellezza”, la quale richiede di trovare nuovi segni e simboli per esprimere l’annuncio al di là del linguaggio concettuale ricorrendo a forme non convenzionali di bellezza che oggi hanno una particolare efficacia comunicativa (cfr. EG 167).

L’annuncio è un percorso personale che richiede accompagnamento, un’arte della vicinanza, del saper suscitare domande e stimolare alla ricerca (cfr. EG 169-173). Ci vogliono padri e madri nella fede, persone affidabili e autorevoli, ma anche rispettose, che non esercitino un’ingerenza spirituale, perché sanno che l’altro è una “terra sacra” davanti a cui togliersi i sandali (cfr. Es 3,5). L’accompagnamento può rendere possibile l’esperienza di vede, ma non deve forzarla o determinarla; non è e non può essere il conformarsi a uno schema scandalizzato, è unica per ciascuno.

La Parola di Dio come fonte e fondamento dell’evangelizzazione è richiamata in chiusura del capitolo (cfr. EG 175-176). La chiesa evangelizza solo se si lascia prima continuamente evangelizzare dalla Parola, la quale dovrebbe stare al cuore di ogni attività ecclesiale. Trovo un punto debole del documento aver posto solo a questo punto un tema di tale importanza.

Parola e sacramento; mensa della Parola e mensa eucaristica sono un tutt’uno nell’alimentare il cammino di fede, ma lo spazio della prima è ancora limitato nell’esperienza ordinaria dei credenti, nonostante la fine del suo esilio grazie al Vaticano II con la Dei Verbum.

«Lo studio della Sacra Scrittura dev’essere una porta aperta a tutti i credenti. È fondamentale che la Parola rivelata fecondi radicalmente la catechesi e tutti gli sforzi per trasmettere la fede. L’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio e questo esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le organizzazioni cattoliche propongano uno studio serio e perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e comunitaria» (EG 175).

 5.

«L’ideologia marxista è sbagliata. Ma nella mia vita ho conosciuta tanti marxisti buoni come persone, e per questo non mi sento offeso».

Questa frase di papa Francesco, nell’intervista su La Stampa del 15 dicembre 2013, ha fatto il giro del mondo. Il riferimento è alle polemiche sollevate da alcuni ambienti conservatori, per lo più statunitensi, che lo hanno accusato di essere marxista per le sue prese di posizione in materia sociale, soprattutto nel quarto capitolo della Evangelii Gaudium (nn. 176-258). Da sempre, il Vangelo è una contestazione del potere e della ricchezza iniqua, ma quando lo si ricorda ci sono reazioni di rifiuto proprio da parte di chi corteggia la chiesa cattolica sui temi etici. È un fatto che dovrebbe far ricordare come non si possa identificare la fede cristiana con l’adesione a un’ideologia politica o economica.

Il capitolo dedicato alla dimensione sociale dell’evangelizzazione è il più esteso dell’esortazione apostolica, a dimostrazione di quanto il tema stia a cuore al papa. I paragrafi iniziali ne spiegano le motivazioni.

Alla radice c’è il contenuto sociale del kerygma, del primo annuncio, perché nel Vangelo sono essenziali la vita comunitaria e l’impegno con gli altri (cfr. EG 177). Poiché Dio è Trinità, comunione di amore, ci ha voluti e ci ama in comunione, insieme: da soli non c’è vera umanità, da soli non c’è salvezza.

Comprendere che siamo amati gratuitamente da Dio ci apre a dare e ricevere amore nei rapporti con gli altri (cfr. EG 178). «La Parola di Dio insegna che nel fratello si trova il permanente prolungamento dell’Incarnazione per ognuno di noi» (EG 179; cfr. Mt 25,40). La vita di Dio è “uscita da sé” verso l’altro, e solo nell’uscire da noi stessi realizziamo pienamente la nostra vita, perché non ci rinchiudiamo nella stagnazione e nell’isolamento.

Si parla, beninteso, di un amore concreto, che non ha nulla di sentimentale. Quando Gesù annunciava il regno di Dio, faceva riferimento a un’umanità che sa vivere in giustizia, fraternità, pace, dignità per tutti (cfr. EG 180). Ecco perché la chiesa cattolica non può accontentarsi di insegnare dottrine, ma deve essere esperienza di immersione in tutto ciò che è umano.

Da qui deriva la partecipazione dei credenti e dei pastori al confronto pubblico, in nome dell’uomo e non per acquisire una rilevanza sociale, per contribuire alla costruzione di un mondo migliore e non per esercitare un’egemonia etica (cfr. EG 182-183). Il punto di riferimento è l’insegnamento sociale della chiesa cattolica, ma con una specificazione decisiva: «né il Papa né la Chiesa posseggono il monopolio dell’interpretazione della realtà ecclesiale o della proposta di soluzione per i problemi contemporanei. Posso ripetere qui ciò che lucidamente indicava Paolo VI: “Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese”» (EG 184; cfr. Paolo VI, enciclica Octogesima adveniens, 4).

Qui c’è una chiesa che si pone come voce dei senza voce, per richiamare i grandi principi della dignità umana, ma allo stesso tempo rinuncia a porsi come autorità sovralegislativa che pretende di determinare norme e decisioni. Non c’è un ordine politico ed economico che si può dedurre dal messaggio cristiano nel quale trovare la risposta a tutte le problematiche sociali.

La chiave di lettura della dimensione sociale dell’evangelizzazione è l’assunzione del punto di vista dei poveri, l’ascolto del loro grido come fa il Dio biblico (cfr. EG 187; Es 3,7-8,10). Le ideologie dominanti escludono i soggetti deboli, si costruiscono sull’indifferenza. La solidarietà cristiana corrisponde perciò a una nuova mentalità, la cui logica è quella della comunità, della priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni (cfr. EG 188). Le conseguenze pratiche sono di vasta portata. Il papa, infatti, ricorda qui la funzione sociale della proprietà e la destinazione sociale dei beni come realtà anteriori alla proprietà privata, come affermato già dai padri della chiesa (cfr. EG 189).

È un principio che ha una radice spirituale, da cui deriva un vero e proprio cambio di prospettiva nella vita sociale ed economica e richiede trasformazioni strutturali nelle relazioni tra le persone e tra i popoli: «il pianeta è di tutta l’umanità e per tutta l’umanità» (EG 190) ed è pertanto necessario intervenire sulla iniqua distribuzione dei beni, del reddito e delle opportunità di accesso all’educazione, all’assistenza sanitaria e al lavoro (cfr. EG 191-192).

Da questo punto di vista, sbaglia chi tenta di minimizzare questo discorso presentandolo in chiave di appello a ricordarsi dei poveri, tralasciando però di mettere in discussione il sistema che produce quella stessa povertà. La carità viene così circoscritta a un’elemosina che affronta le emergenze e tranquillizza la coscienza, ma lascia i poveri nella loro condizione. La predicazione cristiana ha spesso indebolito e tralasciato il significato diretto ed eloquente della tradizione biblica e patristica sui temi della fraternità e della giustizia, preferendo concentrarsi su un messaggio religioso in senso stretto:  «Non preoccupiamoci solo di non cadere in errori dottrinali, ma anche di essere fedeli a questo cammino di vita e di sapienza. Perché “ai difensori dell’ortodossia si rivolge a volte il rimprovero di passività, d’indulgenza o di colpevoli complicità rispetto a situazioni di ingiustizia intollerabili e verso i regimi politici che le mantengono”» (EG 194; cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, istruzione Libertatis nuntius, 18). Questo avviene per il contagio alienante della mentalità consumistica che distoglie dal volto dell’altro (cfr. EG 196).

Se assumere il punto di vista dei poveri corrisponde allo stile di Dio che manifesta una speciale predilezione per loro e si è fatto povero e servo per tutti noi, la chiesa deve assumere un’opzione per i poveri: essere chiesa povera e per i poveri che sa anche imparare da loro, lasciarsi evangelizzare, dal momento che la loro condizione gli permette di accedere a una propria sapienza nel conoscere Dio e la realtà fuori dal condizionamento illusorio del benessere (cfr. EG 198). Tornano qui le istanze maturate negli anni del Vaticano II attorno a personalità come Helder Camara e Giacomo Lercaro, a lungo lasciate nel silenzio, e che hanno dato impulso all’elaborazione della teologia della liberazione. Senza l’opzione per i poveri, l’annuncio del Vangelo è svuotato di significato (cfr. EG 199).

Sul piano della posizione della chiesa nel confronto pubblico, ciò si traduce in una contestazione dell’iniquità che è alla radice di tutti i mali sociali e si deve all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria: il profitto per il profitto, il primato del profitto sulla persona, è il nome di questa iniquità (cfr. EG 202).

«Quante parole sono diventate scomode per questo sistema! Dà fastidio che si parli di etica, dà fastidio che si parli di solidarietà mondiale, dà fastidio che si parli di distribuzione dei beni, dà fastidio che si parli di difendere i posti di lavoro, dà fastidio che si parli della dignità dei deboli, dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia. Altre volte accade che queste parole diventino oggetto di una manipolazione opportunista che le disonora» (EG 202).

Non si può confidare solo sulle forze cieche del mercato, anche perché di per sé non esistono. La realtà è fatta di relazioni che possono rispondere solo a criteri di potere e interesse, oppure essere in qualche modo orientate e regolate. È il compito della politica, che declina la carità a misura del bene comune, a patto che sappia assumere uno sguardo più alto del tornaconto personale, delle lotte di parte e dei calcoli elettorali (cfr. EG 204-206). Tutto ciò non può essere ignorato dalle comunità cristiane, se non vogliono cadere preda di una mondanità spirituale mascherata da pratiche religiose e discorsi vuoti (cfr. EG 207).

Papa Francesco chiude questa sezione del capitolo segnalando alcune fragilità di cui avere particolarmente cura ai nostri giorni: i migranti, da accogliere nella ricerca di nuove sintesi culturali, le vittime delle tratte, le donne che in quanto tali sono doppiamente svantaggiate, i nascituri, senza dimenticare le situazioni che spingono molte madri a cercare l’aborto, e l’insieme del creato di cui siamo custodi  (cfr. EG 209-216).

Un altro aspetto della portata sociale del Vangelo è il suo essere seme di pace, a patto di intenderla non solo come assenza di conflitti, che può avvenire quando un parte si impone sulle altre (cfr. EG 217-218). La pace è una condizione per il conseguimento del bene comune, quando scaturisce dallo sviluppo integrale di tutti. Altrimenti, non si fa altro che creare i presupposti di nuove forme di violenza, come attesta la storia recente (cfr. EG 219).

Bergoglio propone quattro principi, ispirati alla dottrina sociale della chiesa, per la costruzione di una convivenza pacifica orientandosi tra le tensioni che attraversano la vita della società (cfr. EG 221).

  1. Il tempo è superiore allo spazio: significa lavorare a lunga scadenza, senza dare la precedenza ai risultati immediati e preoccupandosi di iniziare processi, più che occupare spazi (cfr. EG 222-225).
  2. L’unità prevale sul conflitto: quest’ultimo non va ignorato ma accettato, a patto di trasformarlo in anello di collegamento a un nuovo processo che conservi tutti i beni in gioco (cfr. EG 226-230). L’esperienza di Mandela in Sud Africa mi sembra un ottimo esempio.
  3. La realtà è più importante dell’idea: le elaborazioni concettuali aiutano a comprendere meglio la realtà, ma non possono adattarla a forza nei propri schemi, o degenerano in ideologie (cfr. EG 231-233).
  4. Il tutto è superiore alla parte: vuol dire saper riconoscere e perseguire il bene più grande che porta benefici a tutti e tiene conto di tutti (cfr. EG 234-237).

«L’evangelizzazione implica anche un cammino di dialogo» (EG 238). È la sezione finale del capitolo (nn. 238-257) che torna su una delle grandi svolte del Vaticano II: in una società pluralista la chiesa deve essere capace di un dialogo aperto e senza preconcetti. Non per strategia, ma perché è un’espressione intima e indispensabile della fede cristiana, come ha sottolineato Francesco scrivendo al giornalista Eugenio Scalfari.

È la questione, ancora da approfondire e sviscerare, del valore teologico del dialogo. L’esortazione indica varie soglie, che ripercorriamo brevemente.

L’annuncio del Vangelo della pace (cfr. Ef 6,15) è il dialogo consistente nella collaborazione con le autorità nazionali e internazionali in vista del bene comune (cfr. EG 239). Entro uno Stato e una società particolari è dialogo con le diverse forze sociali, proponendo con chiarezza i valori fondamentali dell’esistenza umana, ma senza pretendere di risolvere tutte le singole questioni (cfr. EG 240).

C’è poi il dialogo con la ragione e con le scienze, con cui la fede non si sente in opposizione, come ricerca di nuovi orizzonti del pensiero nel rispetto reciproco (cfr. EG 242-243).

Il dialogo ecumenico è un apporto all’unità della famiglia umana, cogliendo come un dono quello che lo Spirito ha seminato nei fratelli separati (cfr. EG 244-246).

Tra le altre religioni, un posto speciale ha l’ebraismo, la cui Alleanza con Dio non è mai stata revocata, e con cui esiste una ricca complementarietà nella lettura dei testi biblici in comune con la tradizioni cristiana (cfr. EG 247-248). Nel rapporto con ogni religione, l’ascolto reciproco può essere occasione di purificazione e arricchimento, che non si oppone all’evangelizzazione, ma ha particolare importanza la relazione con l’Islam: è importante assicurare la libertà dei cristiani vittime del fondamentalismo violento, distinguendolo dal vero Islam e da un’adeguata interpretazione del Corano che si oppone a ogni violenza (cfr. EG 247-253). In ogni religione si trovano canali suscitati dallo Spirito che incoraggiano il cammino verso Dio (cfr. EG 254).

Infine, c’è il dialogo che nasce dalla vicinanza con tutti i ricercatori sinceri di verità, bontà, bellezza e giustizia, anche se non si riconoscono in una fede religiosa, in cui si possono mettere in comune le rispettive scoperte (cfr. EG 257).

6. 

Il capitolo finale dell’Evangelii Gaudium (nn. 259-288) a una lettura superficiale può apparire addirittura superfluo. In un documento del magistero che aspira a dare l’avvio a una conversione pastorale in senso missionario e a un rinnovamento di tutta la chiesa cattolica, potrebbe fare la figura di un allungamento del brodo. Non ci sono infatti orientamenti, proposte, prospettive che guardano alla concretezza. Eppure, è un capitolo indispensabile e determinante.

 

Pochi anni fa, Enzo Bianchi lanciava un allarme sullo scollamento tra realtà ecclesiale e vita spirituale: «Oggi, l’ambito ecclesiale non è più sentito come scuola che introduce all’arte della “vita in Cristo”: la chiesa è divenuta sempre più ministra di parole etiche, sociali, politiche, economiche, e sembra aver smarrito l’uso del suo messaggio proprio… È invalsa l’idea che la vita cristiana corrisponda a un impegno sociale, a uno stile di vita genericamente altruista, tanto che la “vita ecclesiale” è ormai sinonimo di attività organizzativa e pastorale, non di luogo capace di iniziare alla vita umana e spirituale». In questo modo la trasmissione della fede diviene un atto catechetico, nel senso deteriore di insegnamento dottrinale, più che iniziazione a un’esperienza autentica di conoscenza del Signore nella fede.

 

La spiritualità degenera perciò in una sua declinazione intimistica e individualistica che è in realtà spiritualismo. Il rinnovamento della chiesa viene così reso evanescente. C’è chi dice che le strutture non sono decisive, perché la vera riforma è interiore. Però, questa diventa una scusa per non cambiare mai nulla. Francesco è deciso nel respingere lo spiritualismo intimista (cfr. EG 262): questa religiosità disincarnata è all’opposto della fede cristiana in cui Gesù è narrazione del Dio che abita l’umano. Ci deve essere invece corrispondenza tra vissuto spirituale e vissuto ecclesiale. È una vita trasfigurata dalla presenza di Dio, dall’azione del suo Spirito, a evangelizzare, non le parole (cfr. EG 259).

 

Impegno e preghiera stanno insieme; azione e contemplazione sono i due poli tra cui si situa l’esistenza cristiana. «Occorre sempre coltivare uno spazio interiore che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività» (EG 260).

 

Nel capitolo sono presentate alcune motivazioni e suggerimenti spirituali. Nonostante sia il più breve del documento, è quello che contiene il maggior numero di riferimenti biblici (circa un quarto del totale). Non è il papa in quanto autorità che parla; bensì il credente in ascolto della Parola di Dio, il peccatore a cui il Signore ha guardato, come lui si definisce nel dialogo con Antonio Spadaro. I tentativi di collocare Bergoglio nello schema “conservatori-progressisti”, per “arruolarlo” dalla propria parte, risentono di una visione di chiesa intesa come luogo di lotta e di potere. È in fondo lo stesso errore degli apostoli che, durante l’ultima cena, discutevano su chi di loro fosse il più grande (cfr. Lc 22,24-27). Ogni autentica fedeltà alla tradizione e ogni autentica riforma della chiesa non sono altro che docilità al Vangelo. È da lì che nascono i più importanti gesti e parole di questo papa. C’è una “trama evangelica” nella quale sono intessuti.

 

Il punto di partenza è il credere all’amore (cfr. 1 Gv 4,16), che non è un generico senso di fascino e timore sacro per Dio. Dio nessuno l’ha mai visto (cfr. Gv 1,18; 1 Gv 4,12); è l’uomo Gesù che ci ha raccontato il suo amore: l’evangelizzatore è un contemplativo del Vangelo, lì ha trovato una fiducia fondamentale che lo umanizza, la orienta a una vita rinnovata (cfr. EG 264).

 

Il cristiano che evangelizza, perché prima si è lasciato evangelizzare, è colui che ha assimilato lo stile di Gesù, l’unità profonda della sua persona e della sua esistenza. Papa Francesco sembra aver recepito la riflessione teologica di Christoph Theobald in cui questa intuizione è sviluppata e che presenta il cristianesimo come stile.

 

«Tutta la vita di Gesù, il suo modo di trattare i poveri, i suoi gesti, la sua coerenza, la sua generosità quotidiana e semplice, e infine la sua dedizione totale, tutto è prezioso e parla alla nostra vita personale» (EG 265).

 

Era l’arte educativa di Gesù: mettersi a questa scuola significa cercare quel che lui cerca, amare quel che lui ama e corrisponde alle nostre più originarie e profonde necessità umane (cfr. EG 265-267). Tutta la sua vita è stata un “uscire da sé” verso gli altri, a cominciare dal guardarli con attenzione e amore. «Il donarsi di Gesù sulla croce non è altro che il culmine di questo stile che ha contrassegnato tutta la sua esistenza» (EG 269). È ponendosi alla sequela del Signore che i cristiani si riconoscono come popolo e sono fedeli alla terra, solidali con tutti gli uomini di cui condividono gioie e speranze, tristezze e angosce, nell’impegno comune per la costruzione di un mondo migliore (cfr. Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 1).

 

Nel rapporto con il mondo, perciò, i cristiani non guardano l’altro dall’alto in basso; sono invitati a rendere ragione della propria speranza con dolcezza e rispetto, vivendo in pace con tutti (cfr. 1 Pt 3,16; Rm 12,18), non come nemici che puntano il dito e condannano. «Questa non è l’opinione di un papa, né un’opzione pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni» (EG 271).

 

Per Francesco tutto nella chiesa, anche il ministero del papa, richiede innanzitutto fedeltà al Vangelo. È detto per chi sacralizza l’istituzione e la gerarchia facendoli diventare fine piuttosto che strumento. E anche per chi vede l’essere cristiani come contrapposizione al mondo e alla storia che sono invece benedetti da Dio, mentre la Scritture respinge in realtà la mondanità, la mentalità anti-evangelica che Gesù condannava con parole dure rivolte proprio agli uomini religiosi.

 

La mentalità religiosa del sacro tende alla separazione, la logica del Vangelo, invece, all’incontro. «Può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri. Questa apertura del cuore è fonte di felicità, perché “si è più beati nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Non si vive meglio fuggendo dagli altri, nascondendosi, negandosi alla condivisione, se si resiste a dare, se ci si rinchiude nella comodità. Ciò non è altro che un lento suicidio» (EG 272). Ognuno è degno di attenzione, indipendentemente dal suo aspetto, dalle sue capacità, dalle sue convinzioni (cfr. EG 274).

 

È un atteggiamento libero, gratuito, senza calcoli e senza pretese, che non guarda anzitutto al risultato, anche a costo i patire il fallimento e l’incomprensione perché si fonda sulla fede nel Signore che è risorto, passando però per la morte (cfr. EG 275).

 

La fiducia del cristiano è paziente, tenace, non conta su un potere della chiesa, ma sulla forza umile e nascosta del Regno di Dio che è come il seme che cresce senza che dipenda dal contadino, come il lievito che fa fermentare la pasta, come il grano che cresce in mezzo alla zizzania. I segni ci sono, ma sono visibili solo allo sguardo contemplativo della fede, educato dalla preghiera (cfr. EG 278-279).

 

Gli altri sono portati dentro lo spazio della preghiera: lo sguardo contemplativo non li vede come avversari o come terra di conquista, ma li porta nel cuore (cfr. Fil 1,7), intercede per loro, rende grazie per loro (cfr. EG 281-282). La mentalità mondana cerca di possedere l’altro e di dominarlo, altrimenti lo vuole eliminare; la mentalità evangelica vede l’altro come un dono per cui ringraziare.

 

L’icona biblica di queste disposizioni spirituali è Maria, che è madre della fede, a cui è dedicato il finale dell’esortazione (nn. 284-288). Un’icona femminile in una chiesa in cui ha prevalso l’impronta maschile e che dovrebbe invece acquisire uno stile mariano. Quel che più conta per Maria non sono privilegi, prodigi, opposizioni, presunte rivelazioni, bensì l’atteggiamento spirituale che ha contraddistinto la sua vicenda, tutta intrecciata con quella del suo figlio e Signore.

 

«Ella è la donna di fede che cammina nella fede. (..) Ella si è lasciata condurre dallo Spirito, attraverso un itinerario di fede, verso un destino di servizio e fecondità. (…) In questo pellegrinaggio di evangelizzazione non mancano le fasi di aridità, di nascondimento e persino di una certa fatica, come quello che visse Maria negli anni di Nazaret, mentre Gesù cresceva» (EG 287).

 

Maria donna della terra, dunque, di una fiducia vissuta nelle contraddizioni della sua storia, prima che donna del cielo. A lei Francesco si rivolge, al termine del documento, presentando la svolta che attende la chiesa.

 

Dacci la santa audacia di cercare nuove strade perché giunga a tutti il dono della bellezza che non si spegne (EG 288).

 
 

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G.Piana e le innovazioni del ‘questionario’

bel giglio

G. Piana riflette sul ‘questionario’ che papa Francesco ha voluto mettere in mano ad ogni membro ecclesiale, vedendovi novità significative (metodo ‘democratico’, affermazione della sinodalità, della corresponsabilità) e contenutistiche (sguardo positivo sul matrimonio e attenzione ai nodi critici nella prospettiva della misericordia):

il questionario per una chiesa viva

di Giannino Piana
in “Rocca” n. 23 del 1 dicembre 2013

A poco più di sette mesi dalla elezione Papa Francesco (o meglio il nuovo vescovo di Roma, per
usare la formula da lui prediletta) non cessa di sorprendere. Tantissimi sono ormai gli interventi, fatti con
i gesti e con le parole (ma anche – non dimentichiamolo – con precise decisioni di governo), che hanno
contrassegnato di una chiara impronta innovativa il suo pontificato. La scelta preferenziale dei poveri
e l’esercizio della misericordia nei confronti delle molte situazioni difficili che l’umanità oggi
sperimenta sono i tratti qualificanti della sua azione pastorale dal timbro schiettamente evangelico, che
coinvolge a vasto raggio credenti e non credenti, risuscitando la speranza in un mondo attraversato da una
profonda crisi, non solo economica e sociale ma anche (e soprattutto) culturale e morale, e afflitto
proprio per questo dalla paura del futuro.
L’ultimo importante atto di Papa Bergoglio, che non ha mancato di suscitare vivaci e in generale
positive reazioni nell’ambito dell’opinione pubblica (non mancano tuttavia, anzi vanno moltiplicandosi,
nei confronti del Papa anche posizioni di dissenso negli ambienti della conservazione ecclesiale e della
destra politica), è stata la pubblicazione (anticipata da alcune agenzie e poi fornita ufficialmente dagli
organi della Santa Sede) del questionario inviato alle diocesi di tutto il mondo in preparazione del Sinodo
straordinario sulla famiglia, che avrà luogo a Roma nell’ottobre del 2014 e al quale parteciperanno per la
prima volta (in omaggio alla collegialità) tutti i Presidenti delle 114 Conferenze episcopali nazionali del
mondo.
dall’ Instrumentum laboris al questionario
La «novità» di questo modo di procedere è anzitutto metodologica. I sinodi, finora celebrati, dopo il
Vaticano II, sono sempre stati preceduti dalla pubblicazione di un ampio e dettagliato documento
denominato Instrumentum laboris, destinato ai vescovi, e in particolare a quelli designati a partecipare,
nonché ai periti e osservatori invitati, che riproponeva le linee fondamentali della dottrina della chiesa
attorno al tema prescelto come oggetto dell’assise sinodale e conteneva alcune domande su questioni
aperte, di carattere soprattutto pastorale, che dovevano essere fatte oggetto di discussione e di confronto.
Ora, a parte la restrizione del campo al solo ambito dei vescovi e degli esperti, in particolare dei
partecipanti ai lavori (i quali certo avevano la possibilità, di consultare, se lo volevano, sacerdoti e laici),
ad essere fatti oggetto di riflessione erano semplicemente alcuni temi che riguardavano l’applicazione della
dottrina tradizionale alle nuove situazioni o, nel migliore dei casi, l’individuazione di piste efficaci di
carattere pastorale.
Il passaggio al questionario costituisce perciò un vero e proprio ribaltamento di metodo. Non si tratta,
infatti, di procedere dall’alto, in modo deduttivo, ribadendo i principi di sempre e disponendosi ad
affrontare, a partire da essi, i problemi che vengono emergendo dalla realtà. Si tratta piuttosto di partire dal
basso, da una conoscenza approfondita della realtà, perciò facendo spazio a una consultazione di base,
finalizzata a rilevare ciò che le comunità cristiane e, in senso più ampio, gli uomini di buona volontà, pensano
per interrogarsi seriamente su come impostare l’azione pastorale, cioè su come rendere attuale l’annuncio
evangelico così da raggiungere la coscienza dell’uomo contemporaneo.
La novità consiste pertanto nell’impegno ad ascoltare anzitutto il popolo di Dio nella sua interezza – clero,
religiosi e laici – mettendo in tal modo in atto l’ecclesiologia del Concilio, che ha sottolineato con
forza la corresponsabilità di tutti i credenti nella costruzione della Chiesa e il ruolo specifico e fondamentale
dei laici nell’apertura della Chiesa al mondo. La seria considerazione di quanto si registra nelle comunità
cristiane in tema di credenze e di costume non ha, perciò, soltanto un significato sociologico, per quanto
importante; risponde, più profondamente, a un’istanza teologica, quella della ricezione del sensus
fidelium, che è un elemento essenziale dal quale il magistero non può prescindere nell’esercizio delle
proprie funzioni dottrinali e pastorali.
i contenuti del questionario
Un altro dato di grande interesse – quello senza dubbio più eclatante e ampiamente commentato dai media per gli immediati riflessi sull’opinione pubblica – riguarda i contenuti del questionario. Le
trentotto domande, suddivise in nove sezioni, affrontano un ampio spettro di questioni relative allo sviluppo
della vita matrimoniale e familiare, non eludendo i temi più scottanti senza alcuna reticenza e con un
linguaggio diretto, per nulla curiale.
La preoccupazione, che traspare dalla lettura del questionario, è anzitutto quella della trasmissione della
fede, dell’individuazione cioè delle strade per una rinnovata evangelizzazione del matrimonio cristiano, del
suo significato sacramentale e dei valori ad esso connaturati. Papa Francesco è consapevole – e lo esplicita di
continuo nei suoi interventi, soprattutto nella riflessione che svolge quotidianamente attraverso le omelie di
Santa Marta – che la situazione di marcato secolarismo nella quale viviamo, ha finito per offuscare, anche
nel mondo dei battezzati che accedono al sacramento del matrimonio, la consapevolezza del
significato che esso riveste e dei doveri che da esso scaturiscono. L’impegno prioritario delle comunità
cristiane è dunque – come risulta dalle prime sezioni del questionario – quello di restituire credibilità al
matrimonio cristiano e di alimentare la vita spirituale delle coppie e delle famiglie che fanno ad esso
riferimento, perché diano testimonianza dell’amore di Dio che si rende presente nella storia degli
uomini mediante l’esperienza del loro amore. Ma il questionario non manca di mettere a fuoco, con
grande realismo, anche alcuni nodi critici della vita matrimoniale e familiare, propri della situazione
odierna. Contraccezione, coppie di fatto, etero ed omosessuali, convivenze ad experimentum,rapporti
prematrimoniali, comunione ai divorziati risposati sono alcune delle questioni poste sul tappeto;
questioni delicate – come è facile intuire – la cui rilevanza è oggi particolarmente consistente, e che non
possono (e non devono) pertanto essere eluse sul piano pastorale. Significativo è soprattutto il modo con
cui le domande sono costruite, sia perché l’accento è posto anzitutto sull’annuncio della misericordia di
Dio (si veda la domanda che riguarda i separati e i divorziati risposati), sia perché l’attenzione
privilegiata è ai soggetti deboli, in particolare ai bambini, come risulta con chiarezza da una delle
domande (ben quattro) riferite alle «unioni di persone dello stesso sesso».
Non manca, infine – e anche questo è un dato di indubbia novità – il riferimento al giudizio sulla
legislazione civile, soprattutto laddove è in gioco il riconoscimento delle unioni di fatto omosessuali:
«Quale è – recita il questionario – l’atteggiamento delle Chiese particolari e locali sia di fronte allo Stato
civile promotore di unioni civili tra persone dello stesso sesso, sia di fronte alle persone coinvolte in
questo tipo di unione?». La domanda così posta, che ha come obiettivo la registrazione dei pareri delle
diverse Chiese locali, sembra riconoscere implicitamente la complessità di un giudizio, quello sulla
legislazione civile, la quale, in quanto riflette la situazione di una società democratica e pluralista, non
può certo assumere direttamente la concezione etica propria di una religione – di quella cattolica ad
esempio – o di una ideologia; ma, senza rinunciare a far valere l’istanza etica, deve rintracciarla tuttavia
nella possibile convergenza attorno a un denominatore comune condiviso, le diverse posizioni etiche
presenti nella società.
si avvera il sogno del cardinale Martini?
Quest’ultimo importante atto di Papa Francesco sembra dunque confermare la linea di condotta
innovatrice, che ha contrassegnato fin dall’inizio il suo pontificato. La perfetta sinergia di gesti, parole ed
atti di governo rende trasparente la scelta inequivocabile di una nuova direttrice di marcia, destinata a segnare
una svolta epocale nella vita della Chiesa. Che si avveri il sogno del cardinale Martini, che, in una delle
ultime interviste, denunciava con sofferenza l’arretratezza della Chiesa nei confronti delle trasformazioni
intervenute nella società, giungendo persino a parlare di un gap di ben duecento anni? È troppo presto per
dirlo. Ma è certo che le questioni messe a tema attraverso il questionario del Sinodo straordinario del
prossimo autunno sono le stesse alle quali egli ha ripetutamente alluso negli anni del suo episcopato milanese e
per le quali auspicava appunto la celebrazione di un Sinodo straordinario, se non addirittura (ma su questo
non si è mai espresso ufficialmente) di un nuovo Concilio.
Non c’è che da restare in attesa dei lavori sinodali per verificare quanto delle premure pastorali di Papa
Francesco verrà recepito. Ciò che, in ogni caso, appare assodato è il fatto che si respira oggi nella Chiesa
un clima nuovo e carico di attesa. L’apertura decisa alla sinodalità come forma di conduzione della
chiesa a tutti i livelli (perciò non solo come esercizio della collegialità episcopale) – la destinazione
del questionario rappresenta, a tale proposito, un segno eloquente – e la capacità di immergersi profondamente nel vivo delle vicende umane, a partire da quelle nelle quali si rende più
immediatamente trasparente la fragilità creaturale e il peso del peccato e della sofferenza per
annunciare la misericordia di Dio, sono altrettanti segni di un ritorno allo spirito del Concilio,
peraltro da Papa Francesco ripetutamente proposto come traccia sicura e irrinunciabile del cammino
della Chiesa di oggi. Sembrano tornare di attualità le parole contro i «profeti di sventura» con cui Papa
Giovanni apriva cinquanta anni fa l’assise conciliare e riaffacciarsi, dopo una stagione incerta e non
esente da tendenze involutive, una rinnovata e promettente primavera.

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riforma della chiesa a caro prezzo

Bianchi

 

mentre esultiamo per la determinazione che papa Francesco esprime nella direzione di una ‘rivoluzione’ spirituale dentro la chiesa che sia più evangelica e sappia dialogare davvero col mondo contemporaneo sentiamo che tutto ciò non sarà facile

si rende espressione di questo nostro comune timore e delle oggettive difficoltà che inevitabilmente papa Francesco troverà l’articolo di p. Enzo Bianchi uscito su ‘Jesus’ di questo mese:

La riforma della Chiesa sarà a caro prezzo, prepariamoci!

di Enzo Bianchi
in “Jesus” del dicembre 2013

Non posso dimenticare che uno dei miei primi interventi pubblici con una certa risonanza avvenne
durante un convegno organizzato da p. Balducci e p. Turoldo a Firenze, nel primo post-concilio, e
divenne poi un articolo pubblicato su Rocca. Era la stagione dell’entusiasmo dovuto alla primavera
inaugurata da papa Giovanni e dal Vaticano II: stagione della “vittoria” di un nuovo modo di vivere
la chiesa e di edificarla da parte di tutti i cristiani; stagione di “riforma” contrassegnata da
un’atmosfera di fervore e di impazienza; stagione sulla quale io avvertivo però tanta presunzione,
circa gli sviluppi possibili di quella straordinaria svolta.
Sorprendendo non poco gli amici con i quali si dialogava intensamente di riforma liturgica, allora
ancora allo studio, di vita ecclesiale in stato di conversione per una conformità più profonda alla
chiesa come il Signore l’aveva voluta e di dialogo nella mitezza e nella povertà dei mezzi con
l’umanità contemporanea, io misi in guardia da un facile ottimismo. Se davvero si fosse imboccata
la strada della riforma evangelica della chiesa e del suo ordinamento (papato, episcopato, laicato) –
dissi –, si sarebbe andati incontro a un tempo in cui ogni trionfalismo sarebbe stato contrastato da
fatica, da sofferenza e finanche da lacerazioni, perché c’è una necessitas passionis della chiesa che è
dovuta alla necessitas passionis vissuta dal suo Signore Gesù Cristo. Sarebbe avvenuto per la chiesa
come per Gesù: le potenze messe al muro dalla “logica della croce” (1Cor 1,18) si sarebbero
scatenate e ci sarebbe stato un “urto” anche con il mondo, sicché nella vita ecclesiale molti
avrebbero dovuto soffrire (sì, occorre dirlo, patire!). Se infatti la conversione personale richiede
rinuncia, fatica, distacchi e quindi sofferenza, tanto più la conversione delle comunità e delle chiese.
Si sarebbe soprattutto vissuta una duplice tentazione. O arrendersi al mondo, mondanizzandosi, non
mostrando più la differenza cristiana, svuotando la croce, annacquando il Vangelo, piegandosi alle
richieste del mondo; oppure affrontare il mondo con intransigenza e munirsi delle sue stesse armi:
presenza gridata, volontà di contare e di contarsi, atteggiamento da gruppo di pressione, assunzione
di compiti non assegnati dal Signore. In ogni caso, restava più difficile la via di “una chiesa povera
e di poveri”, di una chiesa che contasse solo sul Signore e non sui “potenti di questo mondo” (1Cor
2,6.8; cf. Mt 20,25), di una chiesa dialogante con gli uomini nella mitezza e nella libertà, senza
paura e senza l’ossessione di doversi difendere e vivere come cittadella assediata.
Le chiese sono diverse e si può dire che tutte queste scelte sono state imboccate, ora qui ora là, e in
modo diverso nelle diverse chiese. Sappiamo bene cosa abbia scelto la chiesa italiana, dimenticando
che la sua libertà non può essere vissuta al pari delle altre libertà di cui parla il mondo, perché la
chiesa non è mai tanto libera come quando il mondo la contraddice e la umilia. Sì, per la chiesa c’è
una pace che è più malefica di ogni guerra, “pax gravior omni bello”!
Oggi è nuovamente in atto per la chiesa una primavera, inaugurata da papa Francesco. L’entusiasmo
è molto: non voglio certo spegnerlo, ma ancora una volta sento il dovere di mettere in guardia me
stesso e i miei fratelli e sorelle nella fede. Siamo disposti a bere il calice che Gesù ha bevuto (cf. Mc
10,38; Mt 20,22)? Ogni riforma della chiesa, se è evangelica, è a caro prezzo: per tutti e anche per il
successore di Pietro che non potrà attendersi, almeno dall’interno della chiesa, dai suoi, dalla sua
casa, facile riconoscimento e facile obbedienza. Sarà più facile che lo ascoltino – come è avvenuto
per il Battista e per Gesù – “pubblicani e prostitute” (cf. Mt 21,2; Lc 7,34; 15,1), “samaritani e
stranieri” (cf. Lc 17,38; Gv 4,39-40).
Queste ipotesi turbano e non vorremmo sentirle; eppure, se è accaduto a Gesù, al Signore, c’è forse
un discepolo che è più grande del maestro (cf. Mt 10,24; Lc 6,40; Gv 15,20)? O un un successore di
Pietro che non conosca la passione e la tentazione di sfuggirla rinnegando il Signore e il Vangelo? Èora più che mai di pregare per Pietro, non per una gloria mondana che non può essere sua, ma
perché, consolato dal suo Signore, resti saldo e possa confermare noi suoi fratelli (cf. Lc 22,31-32)
nel faticoso cammino verso il Regno.

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l’eredità spirituale di N. Mandela

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la libertà

la forza della non violenza

la forza del perdono

 

in questo trittico può essere compendiato il messaggio e l’eredità spirituale di N. Mandela

mi piace dire il mio grazie personale a Mandela ricostruendo qui un collage di riflessioni (fra le tantissime, in questi giorni, uscite sui quotidiani e in internet) che bene evidenziano i valori per i quali Mandela ha sognato e ha giocato la sua vita, meravigliando il mondo e dandoci una vera e robusta direzione di vita

la prima riflessione è quella di P. Natalia su ‘l’Osservatore Romano’ odierno sulla tensione di libertà che ha mosso sempre Mandela

la seconda riflessione è quella di N. Nougayrède uscita su ‘le Monde’ odierno (in traduzione: www.finesettimana.org) sulla forza della non violenza

la terza riflessione è quella di D. Quirico che su ‘la Stampa’ del 5.12.2013 riflette sull’insegnamento che Mandela ci lascia sul perdono

La lezione di Madiba

di Pierluigi Natalia
in “L’Osservatore Romano del 7 dicembre 2013

“Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle proprie aspirazioni. Niente li può
distogliere da questa meta. Più potente della paura per l’inumana vita della prigione è la rabbia per
le terribili condizioni alle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigioni, in questo Paese”. E
ancora: “Non ho dubbi che i posteri si pronunceranno per la mia innocenza e come criminali di
fronte a questa corte dovrebbero essere portati i membri del Governo”. Nelson Rolihlahla Mandela
pronunciò queste parole davanti ai giudici che gli inflissero l’ergastolo nel 1963. Per Mandela non
occorre attendere “l’ardua sentenza” dei posteri. Per una volta, la verità è chiara ai contemporanei,
così come era chiara a lui in quel giorno. Ci sono persone che già in vita hanno meritato di essere
riconosciuti come pilastri della storia mondiale sul piano della statura morale e dell’impegno in
favore degli altri. È stato così per Madiba, il nome tribale affettuoso con il quale il suo popolo
chiamava Mandela, che ha speso la sua esistenza prima nella lotta contro l’apartheid e per la libertà
per il suo popolo e poi nello sforzo di costruire pace e riconciliazione, senza piegarsi mai alle
ingiustizie né alla sofferenza privata che pure non lo ha risparmiato.
Ma la sua non è stata una vicenda solo personale e neppure solo nazionale. Le decisioni giunte da
tutto il mondo, a partire dal presidente statunitense Barack Obama e dall’Unione europea, di mettere
bandiere a mezz’asta è espressione significativa di un lutto universale.
A Mandela non appartenne la scelta assoluta della non violenza, come fu per Gandhi. Mandela
passò infatti alla clandestinità dopo il massacro di Shaperville, quando in Sud Africa il potere
bianco eliminò volontariamente una settantina di esponenti dell’African National Congress (Anc), la
formazione alla quale aveva aderito nel 1944 diventandone il leader nelle campagne contro
l’apartheid. Da allora, Mandela guidò l’Anc decisa ad abolire, anche con il ricorso alle armi, quel
regime che imponeva sul piano legale e giuridico la segregazione e lasciava i neri privi di diritti.
La convinzione della giustizia di quell’azione fu tale che quando nel 1985, dopo oltre vent’anni di
carcere, l’allora presidente Pieter Willem Borha gli offrì la libertà purché rinnegasse la guerriglia,
Mandela rifiutò. Aveva infatti la certezza che quell’offerta implicasse un riconoscimento implicito di
aver condotto non una battaglia di libertà, ma una mera sovversione armata.
A spingere Botha era il tentativo di disinnescare, con un provvedimento giuridico che qualificasse
Mandela un personaggio predisposto alla violenza, l’onda d’urto contro il regime segregazionista
che si espandeva nell’opinione pubblica internazionale.
Anche in carcere, infatti, Mandela restò il simbolo e la testa pensante della ribellione, mentre la sua
immagine e la sua statura crescevano sempre più. Libero lo diventò nel 1990, senza condizioni,
quando le pressioni mondiali erano ormai tali da non lasciare alternative al regime segregazionista
ormai al tramonto. Tre anni dopo fu insignito del premio Nobel per la pace e il 27 aprile 1994 si
insediò alla presidenza del suo Paese, dopo le prime elezioni libere alla quali parteciparono i neri.
L’Africa era in quei giorni al centro dell’attenzione mondiale, nel bene e nel male. A Roma si stava
svolgendo il primo Sinodo sull’Africa, aperto il 10 aprile 1994, convocato e presieduto da Giovanni
Paolo II, che parlò di continente della speranza.
Ma in quello stesso aprile, in Burundi e soprattutto in Rwanda si scatenavano le violenze tra tutsi e
hutu che avrebbero causato il genocidio dei primi.
Assumendo il potere, Mandela era cosciente della responsabilità e lucido sui pericoli che esso
comportava. Visse il suo mandato in modo lungimirante e pragmatico, per liberare il Paese dal
giogo del razzismo culturale e istituzionale, ma anche per promuovere la pacificazione tra
popolazioni dilaniate dall’odio e dalla violenza.
La sua prima decisione fu infatti l’insediamento della Truth and Riconcilation Commission, la
Commissione per la verità e la riconciliazione, per fermare la micidiale spirale delle vendette tra
vittime e carnefici. Lasciò il potere dopo quattro anni, al compimento degli ottant’anni – era nato il 18 luglio 1918 – nella convinzione, praticamente unico caso nella storia africana segnata da
leadership a vita, che occorressero forze più giovani.
Prima di allora aveva vinto un’altra battaglia. Trentanove case farmaceutiche gli intentarono un
processo per aver promulgato nel 1997 il Medical Act, una legge che permetteva al Governo del
Sud Africa di importare e produrre medicinali per la cura dell’Aids a prezzi sostenibili, senza
sottostare ai costi imposti dai titolari dei brevetti.
Anche in questo caso, l’opinione pubblica mondiale lo sostenne in nome di una giustizia sostanziale
che spesso confligge con le regole del commercio mondiale. E le multinazionali del farmaco
dovettero desistere dal proseguire la battaglia legale.
A conclusione della sua autobiografia, Il cammino verso la libertà, si legge: “Ho percorso questo
lungo cammino verso la libertà sforzando di non esitare, e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via.
Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare. Adesso mi
sono fermato un istante per riposare, per volgere lo sguardo allo splendido panorama che mi
circonda, per guardare la strada che ho percorso. Ma posso riposare solo qualche attimo, perché
assieme alla libertà vengono le responsabilità, e io non oso trattenermi ancora: il mio lungo
cammino non è ancora alla fine”.
Probabilmente non lo è neppure ora, perché la strada di simili personalità si prolunga nella storia.
Né lo è il cammino di quanti lo hanno amato e rispettato e ora devono viverne e tramandarne la
lezione: i contemporanei di Mandela che da oggi sono i suoi posteri.

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L’irresistibile forza della non-violenza

di Natalie Nougayrède
in “Le Monde” del 7 dicembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

La parola “icona” viene subito in mente quando si parla della vita di Nelson Mandela. Il suo sogno,
lo ha realizzato: far cadere l’apartheid, crudele sistema di oppressione sulla maggioranza nera
sudafricana. La sua capacità di resistenza, l’ha messa a servizio di tutto un popolo. La matricola
46664 del penitenziario di Robben Island aveva rifiutato tutte le offerte di liberazione sotto
condizione. Con questa limpida formula: “La libertà non si contratta, solo un uomo libero può
negoziare”.
Da questa vita di “murato vivo” è uscito nel 1990 senza aver mai pronunciato una parola di odio o
di vendetta. Ventisette anni di prigione, da cui è emerso senza esser diventato né rabbioso né
fanatico! Al contrario, è il suo formidabile spirito di concordia che permetterà al Sudafrica di
cancellare la vergogna e di entrare nel futuro. La formula “verità e riconciliazione” è stata la
matrice di questo apprendimento collettivo nazionale – e il paese lo deve a Mandela. Ci voleva un
uomo eccezionale per cambiare il corso della Storia. Mandela è stato quell’uomo.
Il pensiero di Mandela trovava ispirazione, lo sappiamo, nel percorso di Gandhi, le cui prime lotte
avevano avuto come teatro proprio il Sudafrica. La resistenza civile è stata la base di questa lotta:
come abbattere, in maniera non-violenta, un regime iniquo. Certo, l’ANC (African National
Congress) era il suo braccio armato, ma il movimento sarebbe senza dubbio fallito se ci fosse stato
solo il ricorso alle armi e gli attentati.
Non è difficile scoprire una “eredità Mandela” in altre lotte condotte per la libertà. Da Mandela a
Sakharov e ad Havel, dalle “rivoluzioni colorate” nell’ex URSS agli inizi della “primavera araba”
nel 2011, esiste sicuramente una filiazione. “Selmiyya, selmiyya!” (“Siamo pacifici!”), gridavano i
manifestanti di piazza Tahrir, al Cairo, in quelle febbrili giornate che avrebbero rovesciato il potere
del raïs.
Il parallelo più attuale e più impressionante lo troviamo in Birmania con Aung San Suu Kyi – altra
icona, assegnata al soggiorno obbligato per anni, irriducibile resistente di fronte ad una giunta che
ha finito per costringere a fare delle concessioni. Lo troviamo anche nella lotta pacifica e
ininterrotta del dalaï-lama.
Il messaggio di Mandela gli sopravviverà. È la dimostrazione che la tenacia inflessibile di un uomo
può portare alla liberazione di un popolo. Con la non-violenta e la riconciliazione come vessilli.
“L’amore e la verità trionferanno sull’odio e sulla menzogna”, diceva il dissidente Havel che, come
Mandela, sarebbe diventato il presidente del suo paese affrancato dall’oppressione.
Ogni lotta è diversa. Ma si giunge sempre a questa constatazione: l’importanza della forza di un
capo morale capace di mantenere la rotta e di trascinare una collettività superando le linee di
frattura più dolorose. Il volto della Russia contemporanea sarebbe stato diverso se il destino avesse
prestato una lunga vita ad Andrei Sakharov, figura aggregante, morto nel 1989. Nelle rivolte arabe,
abbiamo cercato invano un simile nume tutelare. E chi può predire se un altro eroe, gettato dietro le
sbarre, il premio per la pace Liu Xiaoboo, non sarà domani il “Mandela” della Cina?
Le aspirazioni alla dignità e ai valori universali devono incarnarsi per superare i peggiori ostacoli. È
quella la potenza di ispirazione di un uomo esemplare e visionario. Noi dobbiamo molto a Nelson
Mandela.

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Nelson Mandela, il prigioniero che ha insegnato il perdono al mondo

di Domenico Quirico
in “LaStampa.it” del 5 dicembre 2013

La virtù non è insipida, e la più grande avventura umana sarà sempre la santità. Forse il santo vero è
un uomo che non si stanca di smascherarsi e di identificare sempre in se stesso le passioni dal viso
velato. Ecco, questa è la ‘’santità’’ di Mandela: il prigioniero politico che, al prezzo di 26 anni di
prigione implacabile, conquista il potere e poi lo baratta, volontariamente, con la libertà morale
necessaria per poter giudicare gli infiniti mali del mondo. Il prigioniero che perdona i suoi aguzzini,
il sinedrio e gli sgherri dell’apartheid, dell’ultimo razzismo bianco. Mandela ha perdonato e
insegnato a perdonare: cosa c’è di più scandaloso nel secolo incatenato alla Memoria, all’obbligo di
non dimenticare per spartire giusti e colpevoli?
La santità di Mandela esiste non in quanto il mondo ha cercato di cucirgliela addosso (l’icona, il
santino da comodino e da gadget, il buonista usa e getta); ma in quanto lui stesso l’ha rifiutata: ‘’Mi
si considera un santo: io non lo sono, non lo sono mai stato anche se si fa riferimento alla
definizione più concreta secondo cui un santo è un peccatore che cerca di rendersi migliore…’’.
Eppure….incontrandolo intuivi ciò che saliva in ogni istante, dal più profondo alle labbra di
quell’uomo: la confidenza, chiave del suo destino era già nelle sue labbra semiaperte, accendeva i
suoi occhi di fanciullo. Sentivi il calore di fornace di un cuore bruciante, aperto e già abbandonato.
Ansiosi di sollevare le grosse pietre della sua biografia, ci lasciamo sfuggire tra le dita la sabbia
sottile di cui è fatta la grande spiaggia della sua vita.
E’ vissuto in un secolo in cui il destino del mondo, il destino dell’Africa cambiava, in lotte titaniche
che neppure turbavano il soddisfatto silenzio del pianeta dei ricchi. Si vedevano crepacci che
tradivano il lavorio interno, la rovina della Storia e delle idee antiche. La sua biografia scorre come
una leggenda, di quelle che si raccontano al centro dei villaggio sotto il baobab, l’albero che dio,
prima che arrivassero i bianchi ha punito rovesciandolo dalla parte delle radici perché invidioso
della sua bellezza: il figlio di capi che portava, a piedi scalzi le pecore al pascolo come i re pastori
dell’Iliade; l’avvocato senza paura che sfidava i signori dell’apartheid e diventava militante; il
murato vivo di Robben Island, matricola 46664, nella tomba per i vivi da cui non c’è scampo. La
solitudine… l’ha conosciuta bene Mandela. La solitudine del prigioniero e quella dell’uomo di
successo; del marito tradito della bella Winnie che non ha saputo aspettare e aveva troppe
ambizioni; la solitudine del mito: che si mostra, di colpo, al centro della nostra vita, della nostra
giornata, della nostra sera, col suo silenzio il suo vuoto, i suoi cattivi consigli. Regna in noi, ci sfida,
noi la cui vita sembra perfetta, osannata dal mondo, la vita di Madiba, il signore dell’Africa nuova.
Nessun momento felice riesce a vincerla sul suo terreno, sa che anche al culmine della nostra gloria
non sarà meno inflessibile padrona della nostra vita. Eppure dal fondo di questa solitudine in cui
soffriva, il furore di Mandela si comunicava a tutto un continente: come fuoco.
Undici febbraio del 1990: la Storia ricomincia di lì, dalla folla che lo attende all’uscita della
prigione gridando ‘’potere al popolo!’’, mentre il marciume dell’apartheid, finalmente, cade in
pezzi. Mandela il creatore, il rivoluzionario che quel giorno ha annullato la sua creazione, che ha
chiesto ai suoi di perdonare nonostante i ricordi ancora brucino sotto una cenere mal spenta.
Dimenticare per non essere più impregnati di un veleno che rimane in noi e che non abbiamo finito
di eliminare. Perché soffrire sembra una cosa meravigliosa all’uomo che si è sentito vicino alla
morte in quel carcere e scopre improvvisamente di essere vivo E poi dopo nove anni, nel suo
destino, nel destino dell’Africa un altro strappo: la rinuncia al potere, volontaria, quasi un miracolo
nel continente dei satrapi dei presidenti dei raiss che solo la morte costringe a uscire dal Palazzo. Un
esempio: anche se le idee maturano lentamente, per successive cristallizzazioni, come Stendhal
disse che accade per l’amore. Da vecchio Mandela non ha mai perso quella passione dello spirito, quel fervore che sono una delle particolarità della giovinezza: ‘’Sono il padrone del mio destino, il
capitano della mia anima..’’. Ecco: il guazzabuglio di errori e di violenze di cui è fatta la politica del
mondo ha fatto si che lo stupore sia una facoltà di cui questa generazione ha dimenticato l’uso.
Mandela è lì, per restituircela.

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il saluto dei bambini a Mandela

Ciao Madiba!

Il saluto dei bambini

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Piangono, sorridono, portano un fiore. Si avvolgono in una sua bandiera. Sono i tantissimi bambini accorsi per l’ultimo saluto a Madiba, forse catturati dal sorriso spontaneo o dallo sguardo intenso. Lui era il “nonno” che tutti avrebbero voluto e loro guardano la sua foto, la sfiorano. E sperano che un giorno quel suo sogno affinchè tutti i bambini godano di una buona educazione, perchè sono loro il futuro del mondo, divenga realtà. 

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