il miglior saluto a Mandela: una riflessione di Boff

Boff

 

Il significato di Mandela per il futuro dell’umanità

nel giorno dei solenni funerali di Nelson Mandela, credo che saluto migliore non poteva arrivare da un altro grande uomo, L. Boff, che riflette sulla morte di Mandela il quale  “con la sua morte si è tuffato nell’inconscio collettivo dell’umanità per non uscirne mai più, perché si è trasformato in un archetipo universale, di colui che non ha ottenuto giustizia, ma che non conserva rancore, che ha saputo perdonare, riconciliare i poli antagonisti e trasmetterci una incrollabile speranza che per l’essere umano si può ancora fare qualcosa”

Nelson Mandela, con la sua morte si è tuffato nell’inconscio collettivo dell’umanità per non uscirne mai più, perché si è trasformato in un archetipo universale, di colui che non ha ottenuto giustizia, ma che non conserva rancore, che ha saputo perdonare, riconciliare i poli antagonisti e trasmetterci una incrollabile speranza che per l’essere umano si può ancora fare qualcosa.

Dopo aver passato 27 anni in prigione, eletto presidente del Sudafrica nel 1994, si propose e realizzò la grande sfida di trasformare una società strutturata secondo la suprema ingiustizia dell’apartheid che disumanizzava le grandi maggioranze nere del paese condannandole a essere non-persone, in una società unica, unita, senza discriminazioni, democratica e libera. E ci è riuscito perché aveva scelto il cammino della virtù, del perdono e della riconciliazione.

Perdonare non è dimenticare. Le piaghe restano lì, molte ancora aperte. Perdonare è non permettere che l’amarezza e lo spirito di vendetta abbiano l’ultima parola e stabiliscano la direzione della vita. Perdonare è liberare le persone dai lacci del passato, voltar pagina e cominciare a scriverne un’altra a quattro mani, di neri e di bianchi. La riconciliazione è possibile e reale soltanto quando c’è l’ammissione completa dei delitti da parte dei loro autori e la piena conoscenza degli atti da parte delle vittime. La pena dei criminali è la condanna morale davanti a tutta la società. Una soluzione di questo tipo, sicuramente originalissima, presuppone un concetto alieno dalla nostra cultura individualista: lo UBUNTU, che vuol dire: “io posso essere io solo attraverso te e con te”. Pertanto, senza un laccio permanente che ci tenga uniti tutti con tutti, la società starà, come la nostra, sotto il rischio di lacerazione e di conflitti senza fine.

Dovrà figurare nei manuali scolastici del mondo intero questa affermazione umanissima di Mandela: “io ho lottato contro la dominazione dei bianchi e ho lottato contro la dominazione dei neri. Io ho coltivato la speranza dell’ideale di una società democratica e libera, nella quale tutte le persone vivono insieme e in armonia e hanno opportunità uguali. È un ideale per il quale io spero di vivere e raggiungerlo. Ma, se necessario, è un ideale per il quale sono disposto a morire”.

Perché la vita e la saga di Mandela fondano una speranza nel futuro dell’umanità e della nostra civiltà? Perché siamo arrivati al nucleo centrale di un accumulo di crisi che può minacciare il nostro futuro come specie umana. Stiamo proprio nel pieno della sesta grande estinzione di massa.

Cosmologi (Brian Swim) e biologi (Edward Wilson) ci avvertono che, se le cose continuano come adesso, arriveremo verso l’anno 2030 al culmine di questo processo devastante. Questo vuol dire che la credenza persistente nel mondo intero, anche in Brasile, che la crescita economica materiale comporterebbe sviluppo sociale e culturale spirituale è un’illusione. Stiamo vivendo tempi di barbarie e senza speranza.

Cito l’insospettabile Samuel P. Huntington, antico assessore del Pentagono e analista perspicace del processo di globalizzazione, al termine del suo Lo scontro delle civiltà: “la legge e l’ordine sono il primo requisito di civiltà; in gran parte nel mondo essi sembrano stare evaporando; in una base mondiale, la civiltà appare, sotto molti aspetti, che stia cedendo davanti alla barbarie, generando l’immagine di un fenomeno senza precedenti, una Età delle Tenebre mondiale, che si abbatte sopra l’Umanità” (1997:409-410).

Aggiungo l’opinione del noto filosofo e scienziato politico Norberto Bobbio, che come Mandela credeva nei diritti umani e nella democrazia come valori per risovere il problema della violenza tra gli Stati e per una convivenza pacifica. Nella sua ultima intervista ha dichiarato: “Non saprei dire come sarà il Terzo Millennio. Le mie certezze cadono e soltanto un enorme punto interrogativo agita la mia mente: sarà il millennio della guerra di sterminio o della concordia tra gli esseri umani? Non ho possibilità di rispondere a questa indagine”.

Davanti a questi scenari bui, Mandela risponderebbe sicuramente sostenuto dalla sua esperienza politica: sì, è possibile che l’essere umano si concili con se stesso, e sovrapponga la sua dimensione di sapiens a quella di demens e inauguri una nuova forma di stare insieme nella stessa Casa.

Forse valgano le parole del suo grande amico, l’arcivescovo Desmond Tutu, che ha coordinato il processo di Verità e Riconciliazione: “ho affrontato faccia a faccia la bestia del passato, avendo chiesto e ricevuto il perdono, giriamo adesso pagina – non per dimenticare questo passato, ma per non permettere che ci tenga prigionieri per sempre.

Avanziamo in direzione di un futuro glorioso e di una nuova società in cui le persone valgano non in ragione dell’irrilevanza biologica o di altri strani attributi, ma perché sono persone di valore infinito, create a immagine di Dio”.

Questa lezione di speranza ci lascia Mandela: noi potremo ancora vivere se, senza discriminazioni, concretizzeremo di fatto l’Ubuntu.

Traduzione di Romano Baraglia

il saluto di D. Tutu a Mandela

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“Il mio Madiba non c’è più”

il vescovo Desmon Tutu dà il suo caloroso e affettuoso e commosso saluto all’amico e costruttore, con lui, del nuovo’ Sud Africa:

Non riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c’è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica.

Ma la sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell’Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d’argilla e quindi volesse “eliminarlo” prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura.

Mandela superò le aspettative.

Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all’inizio degli Anni ’50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria, e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant’anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l’adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco. Il Sudafrica era un Paese dove c’erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l’ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l’Anc creò l’Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi. Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia.

Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All’epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island.

Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliazione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell’Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l’apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobilitarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un’autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare. Nessuno poteva contestare le sue credenziali. Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l’autorità e la forza d’attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama.

Eravamo tutti incantati l’11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell’uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato che i nemici potevano diventare amici e abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di perdono e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l’ultimo presidente dell’apartheid poteva essere il vicepresidente e un “terrorista” il capo dello Stato.

Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d’onore alla cerimonia d’inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l’ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell’ideologia dell’apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l’emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all’Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»?

Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po’ di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa.

Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopo i suoi 27 anni di prigionia è arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo.

Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l’autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidi e ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio.

Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in Sudafrica siamo un po’ migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria.

 

in “la Repubblica” del 7 dicembre 2013

Obama stringe la mano a Castro

 

Mandela

IL PRESIDENTE USA A SOWETO RICORDA L’INSEGNAMENTO DI PACE DEL MADIBA E SALUTA IL LÌDER CUBANO

 

 

Il cielo sopra Soweto piange e i sudafricani ballano nella commozione del ricordo di Madiba. Tutto il mondo era riunito ieri nello stadio della township nera simbolo dell’apartheid e del riscatto sudafricano. Un centinaio di capi di Stato, di governo, e di vip all’asciutto nelle tribune, e gente comune con gli ombrelli aperti sulle gradinate in rappresentanza del popolo orfano del padre della loro nuova patria. Lo spirito di riconciliazione aleggia sullo stadio, si condensa nelle parole di Obama – il più incitato dalla folla: il più fischiato è stato il presidente padrone di casa Zuma – che parla dell’“ultimo gigante della Storia dal quale prendere esempio” e, passando dalle parole ai fatti, arriva spedito in tribuna e stinge la mano a Raul Castro, il presidente cubano. Mezzo secolo di crisi, scaramucce e incomprensioni, una cortina di astio reciproco – ultimo arnese ideologico della Guerra fredda – distesa nel tratto di mare che separa Stati Uniti e Cuba sollevata da un gesto di distensione. 

Davanti a una platea che più internazionale non si può – presidenti ed ex presidenti uno accanto all’altro, imbarazzanti impresentabili nel consesso mondiale con lasciapassare una tantum vista l’eccezionalità del-l’evento: c’era anche l’ottuagenario dittatore dello Zimbabwe Mugabe – Obama rende storica, ma allo stesso tempo offusca, la cerimonia per Mandela, rubando la scena al Madiba con una stretta di mano in suo nome, e dando anche un bacio a Dilma Rousseff, la presidenta brasiliana arrabbiata con la casa Bianca per lo spionaggio compiuto contro di lei dall’Nsa di Washington. Poi, quasi ebbro per il momento storico di gloria, Obama fotografa con l’autoscatto del cellulare il suo largo sorriso accanto alla premier danese e a quello britannico Cameron, sotto lo sguardo severo della moglie Michelle e poi quello scandalizzato di mezzo mondo che su Internet vede l’immagine del presidente ridanciano.

Tutt’intorno a quell’evento che fa dell’ovale di Soweto (dove avvenne l’ultima apparizione tra la folla di Mandela nel 2010) l’ombelico del mondo, il popolo sudafricano balla e canta il ricordo del suo uomo-simbolo. Preso talmente a esempio che anche il presidente del Consiglio italiano si lascia contagiare dalla retorica globale da utilizzare la figura e le gesta di Mandela come lezione per l’Europa: “Venendo qui si capisce che o l’Europa si unisce o l’Europa non conta niente. È un’impressione che da qui oggi rimando a casa in Europa. Una impressione sulla quale dobbiamo assolutamente riflettere”.

Le esequie di Mandela proseguiranno fino al fine settimana, quando ci sarà il funerale e la sepoltura; intanto i leader mondiali ripartono verso le loro capitali, e il Sudafrica s’inebria del momento di visibilità mondiale, prima di tornare ai problemi che, grazie a Mandela, non sono più la segregazione razziale, ma la segregazione economica tra ricchi (anche neri) e poveri (tanti neri).

Da Il Fatto Quotidiano del 11/12/2013: art. di Stefano Citati

 

l’eredità spirituale di N. Mandela

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la libertà

la forza della non violenza

la forza del perdono

 

in questo trittico può essere compendiato il messaggio e l’eredità spirituale di N. Mandela

mi piace dire il mio grazie personale a Mandela ricostruendo qui un collage di riflessioni (fra le tantissime, in questi giorni, uscite sui quotidiani e in internet) che bene evidenziano i valori per i quali Mandela ha sognato e ha giocato la sua vita, meravigliando il mondo e dandoci una vera e robusta direzione di vita

la prima riflessione è quella di P. Natalia su ‘l’Osservatore Romano’ odierno sulla tensione di libertà che ha mosso sempre Mandela

la seconda riflessione è quella di N. Nougayrède uscita su ‘le Monde’ odierno (in traduzione: www.finesettimana.org) sulla forza della non violenza

la terza riflessione è quella di D. Quirico che su ‘la Stampa’ del 5.12.2013 riflette sull’insegnamento che Mandela ci lascia sul perdono

La lezione di Madiba

di Pierluigi Natalia
in “L’Osservatore Romano del 7 dicembre 2013

“Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle proprie aspirazioni. Niente li può
distogliere da questa meta. Più potente della paura per l’inumana vita della prigione è la rabbia per
le terribili condizioni alle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigioni, in questo Paese”. E
ancora: “Non ho dubbi che i posteri si pronunceranno per la mia innocenza e come criminali di
fronte a questa corte dovrebbero essere portati i membri del Governo”. Nelson Rolihlahla Mandela
pronunciò queste parole davanti ai giudici che gli inflissero l’ergastolo nel 1963. Per Mandela non
occorre attendere “l’ardua sentenza” dei posteri. Per una volta, la verità è chiara ai contemporanei,
così come era chiara a lui in quel giorno. Ci sono persone che già in vita hanno meritato di essere
riconosciuti come pilastri della storia mondiale sul piano della statura morale e dell’impegno in
favore degli altri. È stato così per Madiba, il nome tribale affettuoso con il quale il suo popolo
chiamava Mandela, che ha speso la sua esistenza prima nella lotta contro l’apartheid e per la libertà
per il suo popolo e poi nello sforzo di costruire pace e riconciliazione, senza piegarsi mai alle
ingiustizie né alla sofferenza privata che pure non lo ha risparmiato.
Ma la sua non è stata una vicenda solo personale e neppure solo nazionale. Le decisioni giunte da
tutto il mondo, a partire dal presidente statunitense Barack Obama e dall’Unione europea, di mettere
bandiere a mezz’asta è espressione significativa di un lutto universale.
A Mandela non appartenne la scelta assoluta della non violenza, come fu per Gandhi. Mandela
passò infatti alla clandestinità dopo il massacro di Shaperville, quando in Sud Africa il potere
bianco eliminò volontariamente una settantina di esponenti dell’African National Congress (Anc), la
formazione alla quale aveva aderito nel 1944 diventandone il leader nelle campagne contro
l’apartheid. Da allora, Mandela guidò l’Anc decisa ad abolire, anche con il ricorso alle armi, quel
regime che imponeva sul piano legale e giuridico la segregazione e lasciava i neri privi di diritti.
La convinzione della giustizia di quell’azione fu tale che quando nel 1985, dopo oltre vent’anni di
carcere, l’allora presidente Pieter Willem Borha gli offrì la libertà purché rinnegasse la guerriglia,
Mandela rifiutò. Aveva infatti la certezza che quell’offerta implicasse un riconoscimento implicito di
aver condotto non una battaglia di libertà, ma una mera sovversione armata.
A spingere Botha era il tentativo di disinnescare, con un provvedimento giuridico che qualificasse
Mandela un personaggio predisposto alla violenza, l’onda d’urto contro il regime segregazionista
che si espandeva nell’opinione pubblica internazionale.
Anche in carcere, infatti, Mandela restò il simbolo e la testa pensante della ribellione, mentre la sua
immagine e la sua statura crescevano sempre più. Libero lo diventò nel 1990, senza condizioni,
quando le pressioni mondiali erano ormai tali da non lasciare alternative al regime segregazionista
ormai al tramonto. Tre anni dopo fu insignito del premio Nobel per la pace e il 27 aprile 1994 si
insediò alla presidenza del suo Paese, dopo le prime elezioni libere alla quali parteciparono i neri.
L’Africa era in quei giorni al centro dell’attenzione mondiale, nel bene e nel male. A Roma si stava
svolgendo il primo Sinodo sull’Africa, aperto il 10 aprile 1994, convocato e presieduto da Giovanni
Paolo II, che parlò di continente della speranza.
Ma in quello stesso aprile, in Burundi e soprattutto in Rwanda si scatenavano le violenze tra tutsi e
hutu che avrebbero causato il genocidio dei primi.
Assumendo il potere, Mandela era cosciente della responsabilità e lucido sui pericoli che esso
comportava. Visse il suo mandato in modo lungimirante e pragmatico, per liberare il Paese dal
giogo del razzismo culturale e istituzionale, ma anche per promuovere la pacificazione tra
popolazioni dilaniate dall’odio e dalla violenza.
La sua prima decisione fu infatti l’insediamento della Truth and Riconcilation Commission, la
Commissione per la verità e la riconciliazione, per fermare la micidiale spirale delle vendette tra
vittime e carnefici. Lasciò il potere dopo quattro anni, al compimento degli ottant’anni – era nato il 18 luglio 1918 – nella convinzione, praticamente unico caso nella storia africana segnata da
leadership a vita, che occorressero forze più giovani.
Prima di allora aveva vinto un’altra battaglia. Trentanove case farmaceutiche gli intentarono un
processo per aver promulgato nel 1997 il Medical Act, una legge che permetteva al Governo del
Sud Africa di importare e produrre medicinali per la cura dell’Aids a prezzi sostenibili, senza
sottostare ai costi imposti dai titolari dei brevetti.
Anche in questo caso, l’opinione pubblica mondiale lo sostenne in nome di una giustizia sostanziale
che spesso confligge con le regole del commercio mondiale. E le multinazionali del farmaco
dovettero desistere dal proseguire la battaglia legale.
A conclusione della sua autobiografia, Il cammino verso la libertà, si legge: “Ho percorso questo
lungo cammino verso la libertà sforzando di non esitare, e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via.
Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare. Adesso mi
sono fermato un istante per riposare, per volgere lo sguardo allo splendido panorama che mi
circonda, per guardare la strada che ho percorso. Ma posso riposare solo qualche attimo, perché
assieme alla libertà vengono le responsabilità, e io non oso trattenermi ancora: il mio lungo
cammino non è ancora alla fine”.
Probabilmente non lo è neppure ora, perché la strada di simili personalità si prolunga nella storia.
Né lo è il cammino di quanti lo hanno amato e rispettato e ora devono viverne e tramandarne la
lezione: i contemporanei di Mandela che da oggi sono i suoi posteri.

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L’irresistibile forza della non-violenza

di Natalie Nougayrède
in “Le Monde” del 7 dicembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

La parola “icona” viene subito in mente quando si parla della vita di Nelson Mandela. Il suo sogno,
lo ha realizzato: far cadere l’apartheid, crudele sistema di oppressione sulla maggioranza nera
sudafricana. La sua capacità di resistenza, l’ha messa a servizio di tutto un popolo. La matricola
46664 del penitenziario di Robben Island aveva rifiutato tutte le offerte di liberazione sotto
condizione. Con questa limpida formula: “La libertà non si contratta, solo un uomo libero può
negoziare”.
Da questa vita di “murato vivo” è uscito nel 1990 senza aver mai pronunciato una parola di odio o
di vendetta. Ventisette anni di prigione, da cui è emerso senza esser diventato né rabbioso né
fanatico! Al contrario, è il suo formidabile spirito di concordia che permetterà al Sudafrica di
cancellare la vergogna e di entrare nel futuro. La formula “verità e riconciliazione” è stata la
matrice di questo apprendimento collettivo nazionale – e il paese lo deve a Mandela. Ci voleva un
uomo eccezionale per cambiare il corso della Storia. Mandela è stato quell’uomo.
Il pensiero di Mandela trovava ispirazione, lo sappiamo, nel percorso di Gandhi, le cui prime lotte
avevano avuto come teatro proprio il Sudafrica. La resistenza civile è stata la base di questa lotta:
come abbattere, in maniera non-violenta, un regime iniquo. Certo, l’ANC (African National
Congress) era il suo braccio armato, ma il movimento sarebbe senza dubbio fallito se ci fosse stato
solo il ricorso alle armi e gli attentati.
Non è difficile scoprire una “eredità Mandela” in altre lotte condotte per la libertà. Da Mandela a
Sakharov e ad Havel, dalle “rivoluzioni colorate” nell’ex URSS agli inizi della “primavera araba”
nel 2011, esiste sicuramente una filiazione. “Selmiyya, selmiyya!” (“Siamo pacifici!”), gridavano i
manifestanti di piazza Tahrir, al Cairo, in quelle febbrili giornate che avrebbero rovesciato il potere
del raïs.
Il parallelo più attuale e più impressionante lo troviamo in Birmania con Aung San Suu Kyi – altra
icona, assegnata al soggiorno obbligato per anni, irriducibile resistente di fronte ad una giunta che
ha finito per costringere a fare delle concessioni. Lo troviamo anche nella lotta pacifica e
ininterrotta del dalaï-lama.
Il messaggio di Mandela gli sopravviverà. È la dimostrazione che la tenacia inflessibile di un uomo
può portare alla liberazione di un popolo. Con la non-violenta e la riconciliazione come vessilli.
“L’amore e la verità trionferanno sull’odio e sulla menzogna”, diceva il dissidente Havel che, come
Mandela, sarebbe diventato il presidente del suo paese affrancato dall’oppressione.
Ogni lotta è diversa. Ma si giunge sempre a questa constatazione: l’importanza della forza di un
capo morale capace di mantenere la rotta e di trascinare una collettività superando le linee di
frattura più dolorose. Il volto della Russia contemporanea sarebbe stato diverso se il destino avesse
prestato una lunga vita ad Andrei Sakharov, figura aggregante, morto nel 1989. Nelle rivolte arabe,
abbiamo cercato invano un simile nume tutelare. E chi può predire se un altro eroe, gettato dietro le
sbarre, il premio per la pace Liu Xiaoboo, non sarà domani il “Mandela” della Cina?
Le aspirazioni alla dignità e ai valori universali devono incarnarsi per superare i peggiori ostacoli. È
quella la potenza di ispirazione di un uomo esemplare e visionario. Noi dobbiamo molto a Nelson
Mandela.

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Nelson Mandela, il prigioniero che ha insegnato il perdono al mondo

di Domenico Quirico
in “LaStampa.it” del 5 dicembre 2013

La virtù non è insipida, e la più grande avventura umana sarà sempre la santità. Forse il santo vero è
un uomo che non si stanca di smascherarsi e di identificare sempre in se stesso le passioni dal viso
velato. Ecco, questa è la ‘’santità’’ di Mandela: il prigioniero politico che, al prezzo di 26 anni di
prigione implacabile, conquista il potere e poi lo baratta, volontariamente, con la libertà morale
necessaria per poter giudicare gli infiniti mali del mondo. Il prigioniero che perdona i suoi aguzzini,
il sinedrio e gli sgherri dell’apartheid, dell’ultimo razzismo bianco. Mandela ha perdonato e
insegnato a perdonare: cosa c’è di più scandaloso nel secolo incatenato alla Memoria, all’obbligo di
non dimenticare per spartire giusti e colpevoli?
La santità di Mandela esiste non in quanto il mondo ha cercato di cucirgliela addosso (l’icona, il
santino da comodino e da gadget, il buonista usa e getta); ma in quanto lui stesso l’ha rifiutata: ‘’Mi
si considera un santo: io non lo sono, non lo sono mai stato anche se si fa riferimento alla
definizione più concreta secondo cui un santo è un peccatore che cerca di rendersi migliore…’’.
Eppure….incontrandolo intuivi ciò che saliva in ogni istante, dal più profondo alle labbra di
quell’uomo: la confidenza, chiave del suo destino era già nelle sue labbra semiaperte, accendeva i
suoi occhi di fanciullo. Sentivi il calore di fornace di un cuore bruciante, aperto e già abbandonato.
Ansiosi di sollevare le grosse pietre della sua biografia, ci lasciamo sfuggire tra le dita la sabbia
sottile di cui è fatta la grande spiaggia della sua vita.
E’ vissuto in un secolo in cui il destino del mondo, il destino dell’Africa cambiava, in lotte titaniche
che neppure turbavano il soddisfatto silenzio del pianeta dei ricchi. Si vedevano crepacci che
tradivano il lavorio interno, la rovina della Storia e delle idee antiche. La sua biografia scorre come
una leggenda, di quelle che si raccontano al centro dei villaggio sotto il baobab, l’albero che dio,
prima che arrivassero i bianchi ha punito rovesciandolo dalla parte delle radici perché invidioso
della sua bellezza: il figlio di capi che portava, a piedi scalzi le pecore al pascolo come i re pastori
dell’Iliade; l’avvocato senza paura che sfidava i signori dell’apartheid e diventava militante; il
murato vivo di Robben Island, matricola 46664, nella tomba per i vivi da cui non c’è scampo. La
solitudine… l’ha conosciuta bene Mandela. La solitudine del prigioniero e quella dell’uomo di
successo; del marito tradito della bella Winnie che non ha saputo aspettare e aveva troppe
ambizioni; la solitudine del mito: che si mostra, di colpo, al centro della nostra vita, della nostra
giornata, della nostra sera, col suo silenzio il suo vuoto, i suoi cattivi consigli. Regna in noi, ci sfida,
noi la cui vita sembra perfetta, osannata dal mondo, la vita di Madiba, il signore dell’Africa nuova.
Nessun momento felice riesce a vincerla sul suo terreno, sa che anche al culmine della nostra gloria
non sarà meno inflessibile padrona della nostra vita. Eppure dal fondo di questa solitudine in cui
soffriva, il furore di Mandela si comunicava a tutto un continente: come fuoco.
Undici febbraio del 1990: la Storia ricomincia di lì, dalla folla che lo attende all’uscita della
prigione gridando ‘’potere al popolo!’’, mentre il marciume dell’apartheid, finalmente, cade in
pezzi. Mandela il creatore, il rivoluzionario che quel giorno ha annullato la sua creazione, che ha
chiesto ai suoi di perdonare nonostante i ricordi ancora brucino sotto una cenere mal spenta.
Dimenticare per non essere più impregnati di un veleno che rimane in noi e che non abbiamo finito
di eliminare. Perché soffrire sembra una cosa meravigliosa all’uomo che si è sentito vicino alla
morte in quel carcere e scopre improvvisamente di essere vivo E poi dopo nove anni, nel suo
destino, nel destino dell’Africa un altro strappo: la rinuncia al potere, volontaria, quasi un miracolo
nel continente dei satrapi dei presidenti dei raiss che solo la morte costringe a uscire dal Palazzo. Un
esempio: anche se le idee maturano lentamente, per successive cristallizzazioni, come Stendhal
disse che accade per l’amore. Da vecchio Mandela non ha mai perso quella passione dello spirito, quel fervore che sono una delle particolarità della giovinezza: ‘’Sono il padrone del mio destino, il
capitano della mia anima..’’. Ecco: il guazzabuglio di errori e di violenze di cui è fatta la politica del
mondo ha fatto si che lo stupore sia una facoltà di cui questa generazione ha dimenticato l’uso.
Mandela è lì, per restituircela.

il saluto dei bambini a Mandela

Ciao Madiba!

Il saluto dei bambini

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Piangono, sorridono, portano un fiore. Si avvolgono in una sua bandiera. Sono i tantissimi bambini accorsi per l’ultimo saluto a Madiba, forse catturati dal sorriso spontaneo o dallo sguardo intenso. Lui era il “nonno” che tutti avrebbero voluto e loro guardano la sua foto, la sfiorano. E sperano che un giorno quel suo sogno affinchè tutti i bambini godano di una buona educazione, perchè sono loro il futuro del mondo, divenga realtà. 

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