l’eredità spirituale di N. Mandela

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la libertà

la forza della non violenza

la forza del perdono

 

in questo trittico può essere compendiato il messaggio e l’eredità spirituale di N. Mandela

mi piace dire il mio grazie personale a Mandela ricostruendo qui un collage di riflessioni (fra le tantissime, in questi giorni, uscite sui quotidiani e in internet) che bene evidenziano i valori per i quali Mandela ha sognato e ha giocato la sua vita, meravigliando il mondo e dandoci una vera e robusta direzione di vita

la prima riflessione è quella di P. Natalia su ‘l’Osservatore Romano’ odierno sulla tensione di libertà che ha mosso sempre Mandela

la seconda riflessione è quella di N. Nougayrède uscita su ‘le Monde’ odierno (in traduzione: www.finesettimana.org) sulla forza della non violenza

la terza riflessione è quella di D. Quirico che su ‘la Stampa’ del 5.12.2013 riflette sull’insegnamento che Mandela ci lascia sul perdono

La lezione di Madiba

di Pierluigi Natalia
in “L’Osservatore Romano del 7 dicembre 2013

“Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle proprie aspirazioni. Niente li può
distogliere da questa meta. Più potente della paura per l’inumana vita della prigione è la rabbia per
le terribili condizioni alle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigioni, in questo Paese”. E
ancora: “Non ho dubbi che i posteri si pronunceranno per la mia innocenza e come criminali di
fronte a questa corte dovrebbero essere portati i membri del Governo”. Nelson Rolihlahla Mandela
pronunciò queste parole davanti ai giudici che gli inflissero l’ergastolo nel 1963. Per Mandela non
occorre attendere “l’ardua sentenza” dei posteri. Per una volta, la verità è chiara ai contemporanei,
così come era chiara a lui in quel giorno. Ci sono persone che già in vita hanno meritato di essere
riconosciuti come pilastri della storia mondiale sul piano della statura morale e dell’impegno in
favore degli altri. È stato così per Madiba, il nome tribale affettuoso con il quale il suo popolo
chiamava Mandela, che ha speso la sua esistenza prima nella lotta contro l’apartheid e per la libertà
per il suo popolo e poi nello sforzo di costruire pace e riconciliazione, senza piegarsi mai alle
ingiustizie né alla sofferenza privata che pure non lo ha risparmiato.
Ma la sua non è stata una vicenda solo personale e neppure solo nazionale. Le decisioni giunte da
tutto il mondo, a partire dal presidente statunitense Barack Obama e dall’Unione europea, di mettere
bandiere a mezz’asta è espressione significativa di un lutto universale.
A Mandela non appartenne la scelta assoluta della non violenza, come fu per Gandhi. Mandela
passò infatti alla clandestinità dopo il massacro di Shaperville, quando in Sud Africa il potere
bianco eliminò volontariamente una settantina di esponenti dell’African National Congress (Anc), la
formazione alla quale aveva aderito nel 1944 diventandone il leader nelle campagne contro
l’apartheid. Da allora, Mandela guidò l’Anc decisa ad abolire, anche con il ricorso alle armi, quel
regime che imponeva sul piano legale e giuridico la segregazione e lasciava i neri privi di diritti.
La convinzione della giustizia di quell’azione fu tale che quando nel 1985, dopo oltre vent’anni di
carcere, l’allora presidente Pieter Willem Borha gli offrì la libertà purché rinnegasse la guerriglia,
Mandela rifiutò. Aveva infatti la certezza che quell’offerta implicasse un riconoscimento implicito di
aver condotto non una battaglia di libertà, ma una mera sovversione armata.
A spingere Botha era il tentativo di disinnescare, con un provvedimento giuridico che qualificasse
Mandela un personaggio predisposto alla violenza, l’onda d’urto contro il regime segregazionista
che si espandeva nell’opinione pubblica internazionale.
Anche in carcere, infatti, Mandela restò il simbolo e la testa pensante della ribellione, mentre la sua
immagine e la sua statura crescevano sempre più. Libero lo diventò nel 1990, senza condizioni,
quando le pressioni mondiali erano ormai tali da non lasciare alternative al regime segregazionista
ormai al tramonto. Tre anni dopo fu insignito del premio Nobel per la pace e il 27 aprile 1994 si
insediò alla presidenza del suo Paese, dopo le prime elezioni libere alla quali parteciparono i neri.
L’Africa era in quei giorni al centro dell’attenzione mondiale, nel bene e nel male. A Roma si stava
svolgendo il primo Sinodo sull’Africa, aperto il 10 aprile 1994, convocato e presieduto da Giovanni
Paolo II, che parlò di continente della speranza.
Ma in quello stesso aprile, in Burundi e soprattutto in Rwanda si scatenavano le violenze tra tutsi e
hutu che avrebbero causato il genocidio dei primi.
Assumendo il potere, Mandela era cosciente della responsabilità e lucido sui pericoli che esso
comportava. Visse il suo mandato in modo lungimirante e pragmatico, per liberare il Paese dal
giogo del razzismo culturale e istituzionale, ma anche per promuovere la pacificazione tra
popolazioni dilaniate dall’odio e dalla violenza.
La sua prima decisione fu infatti l’insediamento della Truth and Riconcilation Commission, la
Commissione per la verità e la riconciliazione, per fermare la micidiale spirale delle vendette tra
vittime e carnefici. Lasciò il potere dopo quattro anni, al compimento degli ottant’anni – era nato il 18 luglio 1918 – nella convinzione, praticamente unico caso nella storia africana segnata da
leadership a vita, che occorressero forze più giovani.
Prima di allora aveva vinto un’altra battaglia. Trentanove case farmaceutiche gli intentarono un
processo per aver promulgato nel 1997 il Medical Act, una legge che permetteva al Governo del
Sud Africa di importare e produrre medicinali per la cura dell’Aids a prezzi sostenibili, senza
sottostare ai costi imposti dai titolari dei brevetti.
Anche in questo caso, l’opinione pubblica mondiale lo sostenne in nome di una giustizia sostanziale
che spesso confligge con le regole del commercio mondiale. E le multinazionali del farmaco
dovettero desistere dal proseguire la battaglia legale.
A conclusione della sua autobiografia, Il cammino verso la libertà, si legge: “Ho percorso questo
lungo cammino verso la libertà sforzando di non esitare, e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via.
Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare. Adesso mi
sono fermato un istante per riposare, per volgere lo sguardo allo splendido panorama che mi
circonda, per guardare la strada che ho percorso. Ma posso riposare solo qualche attimo, perché
assieme alla libertà vengono le responsabilità, e io non oso trattenermi ancora: il mio lungo
cammino non è ancora alla fine”.
Probabilmente non lo è neppure ora, perché la strada di simili personalità si prolunga nella storia.
Né lo è il cammino di quanti lo hanno amato e rispettato e ora devono viverne e tramandarne la
lezione: i contemporanei di Mandela che da oggi sono i suoi posteri.

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L’irresistibile forza della non-violenza

di Natalie Nougayrède
in “Le Monde” del 7 dicembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

La parola “icona” viene subito in mente quando si parla della vita di Nelson Mandela. Il suo sogno,
lo ha realizzato: far cadere l’apartheid, crudele sistema di oppressione sulla maggioranza nera
sudafricana. La sua capacità di resistenza, l’ha messa a servizio di tutto un popolo. La matricola
46664 del penitenziario di Robben Island aveva rifiutato tutte le offerte di liberazione sotto
condizione. Con questa limpida formula: “La libertà non si contratta, solo un uomo libero può
negoziare”.
Da questa vita di “murato vivo” è uscito nel 1990 senza aver mai pronunciato una parola di odio o
di vendetta. Ventisette anni di prigione, da cui è emerso senza esser diventato né rabbioso né
fanatico! Al contrario, è il suo formidabile spirito di concordia che permetterà al Sudafrica di
cancellare la vergogna e di entrare nel futuro. La formula “verità e riconciliazione” è stata la
matrice di questo apprendimento collettivo nazionale – e il paese lo deve a Mandela. Ci voleva un
uomo eccezionale per cambiare il corso della Storia. Mandela è stato quell’uomo.
Il pensiero di Mandela trovava ispirazione, lo sappiamo, nel percorso di Gandhi, le cui prime lotte
avevano avuto come teatro proprio il Sudafrica. La resistenza civile è stata la base di questa lotta:
come abbattere, in maniera non-violenta, un regime iniquo. Certo, l’ANC (African National
Congress) era il suo braccio armato, ma il movimento sarebbe senza dubbio fallito se ci fosse stato
solo il ricorso alle armi e gli attentati.
Non è difficile scoprire una “eredità Mandela” in altre lotte condotte per la libertà. Da Mandela a
Sakharov e ad Havel, dalle “rivoluzioni colorate” nell’ex URSS agli inizi della “primavera araba”
nel 2011, esiste sicuramente una filiazione. “Selmiyya, selmiyya!” (“Siamo pacifici!”), gridavano i
manifestanti di piazza Tahrir, al Cairo, in quelle febbrili giornate che avrebbero rovesciato il potere
del raïs.
Il parallelo più attuale e più impressionante lo troviamo in Birmania con Aung San Suu Kyi – altra
icona, assegnata al soggiorno obbligato per anni, irriducibile resistente di fronte ad una giunta che
ha finito per costringere a fare delle concessioni. Lo troviamo anche nella lotta pacifica e
ininterrotta del dalaï-lama.
Il messaggio di Mandela gli sopravviverà. È la dimostrazione che la tenacia inflessibile di un uomo
può portare alla liberazione di un popolo. Con la non-violenta e la riconciliazione come vessilli.
“L’amore e la verità trionferanno sull’odio e sulla menzogna”, diceva il dissidente Havel che, come
Mandela, sarebbe diventato il presidente del suo paese affrancato dall’oppressione.
Ogni lotta è diversa. Ma si giunge sempre a questa constatazione: l’importanza della forza di un
capo morale capace di mantenere la rotta e di trascinare una collettività superando le linee di
frattura più dolorose. Il volto della Russia contemporanea sarebbe stato diverso se il destino avesse
prestato una lunga vita ad Andrei Sakharov, figura aggregante, morto nel 1989. Nelle rivolte arabe,
abbiamo cercato invano un simile nume tutelare. E chi può predire se un altro eroe, gettato dietro le
sbarre, il premio per la pace Liu Xiaoboo, non sarà domani il “Mandela” della Cina?
Le aspirazioni alla dignità e ai valori universali devono incarnarsi per superare i peggiori ostacoli. È
quella la potenza di ispirazione di un uomo esemplare e visionario. Noi dobbiamo molto a Nelson
Mandela.

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Nelson Mandela, il prigioniero che ha insegnato il perdono al mondo

di Domenico Quirico
in “LaStampa.it” del 5 dicembre 2013

La virtù non è insipida, e la più grande avventura umana sarà sempre la santità. Forse il santo vero è
un uomo che non si stanca di smascherarsi e di identificare sempre in se stesso le passioni dal viso
velato. Ecco, questa è la ‘’santità’’ di Mandela: il prigioniero politico che, al prezzo di 26 anni di
prigione implacabile, conquista il potere e poi lo baratta, volontariamente, con la libertà morale
necessaria per poter giudicare gli infiniti mali del mondo. Il prigioniero che perdona i suoi aguzzini,
il sinedrio e gli sgherri dell’apartheid, dell’ultimo razzismo bianco. Mandela ha perdonato e
insegnato a perdonare: cosa c’è di più scandaloso nel secolo incatenato alla Memoria, all’obbligo di
non dimenticare per spartire giusti e colpevoli?
La santità di Mandela esiste non in quanto il mondo ha cercato di cucirgliela addosso (l’icona, il
santino da comodino e da gadget, il buonista usa e getta); ma in quanto lui stesso l’ha rifiutata: ‘’Mi
si considera un santo: io non lo sono, non lo sono mai stato anche se si fa riferimento alla
definizione più concreta secondo cui un santo è un peccatore che cerca di rendersi migliore…’’.
Eppure….incontrandolo intuivi ciò che saliva in ogni istante, dal più profondo alle labbra di
quell’uomo: la confidenza, chiave del suo destino era già nelle sue labbra semiaperte, accendeva i
suoi occhi di fanciullo. Sentivi il calore di fornace di un cuore bruciante, aperto e già abbandonato.
Ansiosi di sollevare le grosse pietre della sua biografia, ci lasciamo sfuggire tra le dita la sabbia
sottile di cui è fatta la grande spiaggia della sua vita.
E’ vissuto in un secolo in cui il destino del mondo, il destino dell’Africa cambiava, in lotte titaniche
che neppure turbavano il soddisfatto silenzio del pianeta dei ricchi. Si vedevano crepacci che
tradivano il lavorio interno, la rovina della Storia e delle idee antiche. La sua biografia scorre come
una leggenda, di quelle che si raccontano al centro dei villaggio sotto il baobab, l’albero che dio,
prima che arrivassero i bianchi ha punito rovesciandolo dalla parte delle radici perché invidioso
della sua bellezza: il figlio di capi che portava, a piedi scalzi le pecore al pascolo come i re pastori
dell’Iliade; l’avvocato senza paura che sfidava i signori dell’apartheid e diventava militante; il
murato vivo di Robben Island, matricola 46664, nella tomba per i vivi da cui non c’è scampo. La
solitudine… l’ha conosciuta bene Mandela. La solitudine del prigioniero e quella dell’uomo di
successo; del marito tradito della bella Winnie che non ha saputo aspettare e aveva troppe
ambizioni; la solitudine del mito: che si mostra, di colpo, al centro della nostra vita, della nostra
giornata, della nostra sera, col suo silenzio il suo vuoto, i suoi cattivi consigli. Regna in noi, ci sfida,
noi la cui vita sembra perfetta, osannata dal mondo, la vita di Madiba, il signore dell’Africa nuova.
Nessun momento felice riesce a vincerla sul suo terreno, sa che anche al culmine della nostra gloria
non sarà meno inflessibile padrona della nostra vita. Eppure dal fondo di questa solitudine in cui
soffriva, il furore di Mandela si comunicava a tutto un continente: come fuoco.
Undici febbraio del 1990: la Storia ricomincia di lì, dalla folla che lo attende all’uscita della
prigione gridando ‘’potere al popolo!’’, mentre il marciume dell’apartheid, finalmente, cade in
pezzi. Mandela il creatore, il rivoluzionario che quel giorno ha annullato la sua creazione, che ha
chiesto ai suoi di perdonare nonostante i ricordi ancora brucino sotto una cenere mal spenta.
Dimenticare per non essere più impregnati di un veleno che rimane in noi e che non abbiamo finito
di eliminare. Perché soffrire sembra una cosa meravigliosa all’uomo che si è sentito vicino alla
morte in quel carcere e scopre improvvisamente di essere vivo E poi dopo nove anni, nel suo
destino, nel destino dell’Africa un altro strappo: la rinuncia al potere, volontaria, quasi un miracolo
nel continente dei satrapi dei presidenti dei raiss che solo la morte costringe a uscire dal Palazzo. Un
esempio: anche se le idee maturano lentamente, per successive cristallizzazioni, come Stendhal
disse che accade per l’amore. Da vecchio Mandela non ha mai perso quella passione dello spirito, quel fervore che sono una delle particolarità della giovinezza: ‘’Sono il padrone del mio destino, il
capitano della mia anima..’’. Ecco: il guazzabuglio di errori e di violenze di cui è fatta la politica del
mondo ha fatto si che lo stupore sia una facoltà di cui questa generazione ha dimenticato l’uso.
Mandela è lì, per restituircela.

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