una comunità di Saronno risponde al ‘questionario’

papa-francesco

 

 è importante diffondere il testo ampio, denso e stimolante, che contiene le risposte al ‘questionario sulla famiglia’, approvato dalla Comunità Pastorale di Saronno.  Una pastorale della famiglia, non per la famiglia, e alla luce del vangelo: oltre il familismo e l’esaltazione acritica della famiglia, che hanno dannosamente segnato in tempi recenti la vita della comunità ecclesiale

Una pastorale della famiglia, non per la famiglia

Risposte alquestionario

di Comunità Pastorale “Crocifisso Risorto” di Saronno

RISPOSTE DELLA COMMISSIONE FAMIGLIA, SU MANDATO DELLA DIACONIA E DEL CONSIGLIO
 PASTORALE, ALLE DOMANDE FORMULATE NEL DOCUMENTO PREPARATORIO DELLA III ASSEMBLEA
GENERALE STRAORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI

Premesse generali

Le risposte alle domande formulate nel documento

Le sfide pastorali sulla famiglia nelcontesto dell’evangelizzazione sono elaborate a partire da alcune considerazioni metodologiche.

Si avrà cura di evitare un’ottica particolaristica e settorializzata. Da una parte, cioè, non si

considererà solo la famiglia in sé, ma all’interno dell’intera Comunità ecclesiale. D’altra parte econseguentemente, non si considererà il

settore della ‘pastorale familiare’, ma le sfide sulla famiglia

poste all’intera pastorale della Chiesa nel suo complesso. Con questo approccio comunitariocomunionale

complessivo, cioè pienamente e globalmente ecclesiale, si eviteranno visioni

parcellizzate, da atomismo pastorale o da compartimenti stagni: la Chiesa non è una federazione di

singole famiglie e la famiglia non si vede nella Chiesa come un’isola in un arcipelago.

La pastorale familiare non può più essere considerata come un settore a parte della

programmazione della comunità ecclesiale, ma è essa stessa ossatura portante del ministero di

evangelizzazione della Chiesa: dall’ottica

della famiglia, e non per la famiglia, va impostata la

pastorale nel suo insieme.

La stessa nuova metodologia, che prepara il Sinodo dei Vescovi con un itinerario ‘sinodale’

che coinvolge l’intero Popolo di Dio, muove da questa impostazione comunionale complessiva e la

sollecita.

Così la famiglia viene vista all’interno dell’annuncio della salvezza: della Buona Novella di

Gesù; dunque nella grande e fondamentale prospettiva della liberazione evangelica. Dalla

liberazione evangelica si ricavano le linee essenziali e prioritarie di una pastorale di misericordia;

all’interno di tali linee si mettono a fuoco le sfide sulla famiglia, operando il discernimento sui

vissuti storici reali, cioè leggendo i segni dei tempi, per una pastorale incarnata nella storia del

Popolo di Dio e in grado di avviare nuovi processi storici di evangelizzazione e di liberazione:

liberazione dal peccato e dalle conseguenze del peccato, solidificate in strutture di ingiustizia e di

male sociale.

Questo approccio ha conseguenze ovvie anche sul piano dei riferimenti magisteriali

preminenti, che non sono più solo quelli dei documenti dedicati alla famiglia (

Gaudium et Spes 48,

 

Humanae vitae

 

e Familiaris consortio) o i nn. 1601-1658 e 2331-2391 del Catechismo, ma sono

anche i documenti sul mistero della Chiesa (

Lumen gentium), l’intero insegnamento sociale

pontificio, il magistero sull’evangelizzazione (dalla

Evangelii nuntiandi alla Evangelii gaudium).

Si vuole altresì evitare il rischio del

familismo cioè di un’esaltazione totale ed acritica

dell’istituto familiare (che dimentica che il matrimonio e la famiglia possono essere anche ostacoli

all’accoglimento del Vangelo e delle vocazioni cristiane e che, sul piano storico, sono stati spesso

luoghi di oppressione delle libertà personali). Tale rischio non è puramente ipotetico, perché si è

visto anche recentemente – e all’interno della comunità ecclesiale – che un familismo ideologico è

stato brandito come bandiera identitaria per mobilitazioni politiche o parapolitiche di istanze

ecclesiali in quanto tali, alla ricerca di (improbabili e, comunque, fragili) egemonie sociali e

politiche.

L’urgenza nella formulazione delle risposte – con il conseguente poco tempo per la loro

elaborazione – impedisce che si possano avviare nuove analisi statistiche e sondaggi diretti e mirati.

Si sono utilizzati pertanto i dati raccolti e le relative riflessioni sviluppate in occasione

dell’itinerario saronnese (2011-2012) di preparazione al VII Incontro mondiale delle Famiglie

(Milano, 30 maggio-3 giugno 2012) e successivi approfondimenti collegiali condotti all’interno

della Commissione Famiglia della Comunità Pastorale “Crocifisso Risorto” di Saronno.

La metodologia della stesura di questo testo ha seguito il seguenteiter (il più comunitario

possibile, dati i tempi stretti): sulla base dei dati e delle riflessioni sopra citate, si è stesa una prima

bozza, che è stata mandata a tutti i membri del Consiglio Pastorale e della Commissione Famiglia

cittadina. Le osservazioni pervenute sono state integrate nel testo. In alcuni casi (Parrocchia di S.

Giuseppe: gruppo delle famiglie), vi è stato un confronto di approfondimento. Vi è stato infine un

incontro di lavoro della Commissione Famiglia cittadina (con la partecipe presenza della Coppia

responsabile della Commissione decanale). Tutte le osservazioni raccolte sono state integrate in una

redazione finale, inviata ancora a tutti i membri del Consiglio Pastorale.

 

Nn. 8 e 1: Sul rapporto tra famiglia e persona e Sulla diffusione della Sacra Scrittura e del Magistero della Chiesa riguardante la famiglia

 

In coerenza con quanto già affermato sul piano metodologico, si è pensato di rispondere,

congiuntamente, alle domande formulate al n. 8 (Sul rapporto tra famiglia e persona) e al n. 1(

Sulla diffusione della Sacra Scrittura e del Magistero della Chiesa riguardante la famiglia) per

evitare un’impostazione astrattamente dottrinale, deduttivistica, apodittica e dogmaticamente

assertiva. Non è questo, ci pare, che viene richiesto al Sinodo. Si tratta di crescere nell’intelligenza

della Parola di Dio e del dogma, per avere formulazioni più comprensibili e risposte più adeguate

alla vita reale del Popolo di Dio, praticando quellaggiornamento auspicato dal Beato Giovanni

XXIII e che ha animato il Concilio Vaticano II (principale orientamento magisteriale, nella lettera e nello spirito).

Si deve allora osservare, con un sintetico ancorché necessario sguardo storico, che negli anni

’50 e ’60 (fino all’avvio degli anni ’70) del secolo scorso, nel periodo cioè che è stato definito “l’età

dell’oro del capitalismo”, vi sono stati un grande sviluppo economico – in Italia si è realizzato il

cosiddetto “miracolo economico”, che proprio a Milano ha trovato uno dei suoi centri – nonché lostrutturarsi del

Welfare State, cioè di politiche sociali solidaristiche e di redistribuzione del reddito,

che hanno fatto crescere l’area dei ceti medi e diffuso il benessere. Ciò ha portato, progressivamente

(e contemporaneamente allo sviluppo della paleo-televisione, a indirizzo fortemente pedagogico),

ad un cambiamento dei costumi di vasta portata: si sono, così, avuti, tra l’altro, una maggiore

soggettivizzazione dei vissuti matrimoniali, una più sensibile attenzione alla libertà e ai diritti della

persona e all’uguaglianza di genere, una critica neo-femminista della oppressione maschilista e

della mercificazione della donna, una diversa valutazione della sessualità, meno sottoposta al

controllo sociale e meno univocamente intesa come finalizzata alla procreazione. Tali cambiamenti

di costume, unitamente allo sviluppo della democratizzazione, hanno portato pure, tra l’altro,

all’introduzione del divorzio nella legislazione italiana e, successivamente, alla depenalizzazione dell’aborto.

Se non sono mancati, alla fine degli anni ’60, estremismi neo-marxisti diffusi a livello

giovanile (peraltro presto sconfitti nella loro utopia rivoluzionaria) o istanze minoritarie di

radicalismo libertario borghese (che intendeva l’aborto come “un diritto civile” e non, secondo gli

indirizzi di altri femminismi pure laici, come una dura realtà indubbiamente negativa, ma che non

poteva essere penalmente sancita), se sono lentamente riemerse antiche forme di materialismo

pratico ed è andata crescendo una nuova cultura del consumismo, tuttavia i cambiamenti di costume

e di mentalità hanno propiziato, tra i cattolici, l’accoglimento prima del magistero conciliare (con il

definitivo superamento della visione del matrimonio come “rimedio alla concupiscenza”) e poi del

rinnovamento pastorale avviato da Giovanni Paolo II, per la completa eliminazione di residui

manichei e sessuofobici e per un accoglimento positivo della sessualità umana, in sé e non solo nel

suo fine procreativo. Sono invece emerse quasi subito – anche senza considerare fenomeni di

contestazione e di dissenso ecclesiale – difficoltà nell’accoglimento pieno e completodell’insegnamento dell’Humanae Vitae.

Si può ritenere che questa enciclica abbia svolto, per

qualche tempo, una non trascurabile funzione positiva per richiamare alla responsabilità

sull’importanza evangelica di una visione non banalizzata e semplificata dell’amore umano di

coppia. In ogni caso, se, sul piano teologico, si è tempestivamente osservato che, per quanto

riguardava le indicazioni di specifici ‘metodi’, si trattava di doctrina reformabilis (Rahner), sul

piano della ‘base’ si è progressivamente prodotto quello che è stato definito uno “scisma sommerso”

(Prini), con una indifferenza di massa delle coppie cattoliche alle indicazioni, date dall’enciclica

montiniana, sui metodi anticoncezionali.

Dagli ultimi decenni del Novecento a questo avvio del XXI secolo la situazione complessiva

è profondamente mutata. La globalizzazione neoliberale ha, da una parte, esaltato l’individualismo

(e le relative espressioni sul piano della mentalità e dei costumi) e, dall’altra, ha segnato l’egemonia

non tanto di un relativismo nichilista quanto piuttosto di un materialismo pratico (con l’assunzione

solo di ciò che è materialmente sensibile e godibile come valore-guida dei comportamenti):

abbiamo, così, una “società materialista, consumista e individualista” (Francesco,Evangelii gaudium, n. 63, ma cfr. anche nn. 80, 99).

Queste profonde trasformazioni culturali, sociali, etico-comportamentali hanno

accompagnato una ideologia economica, che presto ha dominato su ogni ideologia politica e che ha

imposto una ‘deregolamentazione’ del mercato, una assolutizzazione del profitto, una proliferazione

incontrollata della speculazione finanziaria, un progressivo smantellamento delWelfare State, una

crescita delle diseguaglianze (cfr. Benedetto XVI,Caritas in Veritate, nn. 25, 32, 35, 36, 40, 45;Francesco,

Evangelii gaudium, nn. 52-59). Dobbiamo dunque dire che “il sistema sociale edeconomico è ingiusto alla radice”

(Francesco,Evangelii gaudium, nn. 59, 202).

La ‘colonna sonora’ di questa età del neoliberismo aggressivo è stata data dalla neotelevisione,

cioè dal dominio del codice comunicativo della televisione commerciale (che si è

imposto anche sulla televisione pubblica, smantellandone ogni intento ‘pedagogico’): esaltando

l’edonismo, la banalità volgare, la reificazione del corpo e della sessualità e popolarizzando una

subcultura fondata sui ‘valori’ delle tre esse (sesso, soldi, successo). Vi è stata così, negli ultimi

decenni, una complessiva mercificazione simbolica (e non solo) del sesso e una pornografizzazione

antropologica delle culture di massa (televisive, ma soprattutto ormai telematiche), dei linguaggi,

dell’immaginario sociale: con la tendenziale sparizione dell’erotismo, con il fragilizzarsi della

profondità psicologica delle relazioni amorose, con l’interdizione simbolica della dialettica

desiderio-legge.

Come fenomeno globale, il neoliberalismo ha travolto ogni residuo di totalitarismo, ma

anche ogni orizzonte universale di senso e di verità e ogni ipotesi razionale di trascendimento

migliorativo del sistema sociale dato, leggendoli come ideologie superate, come Grandi Narrazioni,

tipiche del Moderno: andando, invece, verso il post-ideologico e il Post-moderno.

Si è trattato di uno tsunami culturale, che ha devastato i vissuti e generato un disastro

antropologico di lunga durata. Sul piano sociale, oltre a provocare povertà nel Sud del mondo e

conseguenti movimenti migratori verso Nord di ‘masse di persone disperate’, questi decenni, con il

loro sbocco finale nella crisi (prima finanziaria, poi economica, infine sociale), hanno ripolarizzato

la società, assottigliato l’area dei ceti medi e del benessere, ridotto in povertà molte famiglie. Più in

generale hanno reso difficile ai giovani porre le premesse (di reddito e di abitazione) per una vita

familiare. Hanno indotto incertezza e pessimismo sul futuro: sia della propria vita privata sia della

società nel suo complesso.

Il rapporto famiglia-lavoro si è reso drammatico: difficoltà di occupazione per i giovani,

crescente disoccupazione per i lavoratori, aumento delle forme di lavoro precario, insicurezza delle

condizioni lavorative (con incidenti sul lavoro, anche gravi), aumento stressante dei tempi di lavoro

(durante la giornata, nella settimana, nell’anno e nella vita).

I decenni di accentuato individualismo hanno fatto entrare ‘in sofferenza’ ogni legame

sociale disinteressato: da quello tra i coniugi nella comunità domestica a quello tra educatori ed

educandi in ogni agenzia educativa (si veda il fenomeno del burn out), da quello tra militanti di

partito ed elettori a quello, in qualche misura, tra clero e laicato (o tra operatori pastorali e fedeli)

nella comunità ecclesiale. Pertanto “La famiglia attraversa una crisi culturale profonda, come tutte

le comunità e i legami sociali. […] L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile

di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli

familiari” (Francesco,Evangelii gaudium, nn. 66-67).

La nuova cultura diffusa ha reintrodotto, in dosi massicce, il maschilismo, ha emarginato il

femminismo (laico e cattolico), ha incentivato la reificazione della donna e della relazione sessuale,

ha assottigliato la profondità del sentimento morale e della forza di carattere, ha determinato una

infantilizzazione pulsionale con l’inibizione dell’autocontrollo adulto, ha visto pertanto crescere

esponenzialmente la violenza sulle donne – commessa soprattutto all’interno del contesto familiare

– e perfino i casi di femminicidio. Ciò è doppiamente grave quando si innesta su problematiche di

povertà (cfr. Francesco,Evangelii gaudium, n. 212).

Così “Nel caso di culture popolari di popolazioni cattoliche, possiamo riconoscere alcune

debolezze che devono ancora essere sanate dal Vangelo: il maschilismo, l’alcolismo, la violenza

domestica” (Francesco, Evangelii gaudium, n. 69). Perfino la piaga della pedofilia ha una sua realtà

di dramma domestico e di patologia familiare, come pure “l’abuso e lo sfruttamento di minori,

l’abbandono di anziani e malati, varie forme di corruzione e di criminalità” (Francesco,

Evangelii gaudium, n. 75).

Complessivamente i fronti critici, le morfologie della sofferenza e gli universi attraversati

dalla difficoltà e dal dolore, della famiglia e nella famiglia, sono molto cresciuti. Il neoliberalismo

aggressivo – oggi meno culturalmente arrogante, a causa della crisi – rimane una solida e radicata

struttura sociale di peccato che ostacola la liberazione evangelica, anche – o soprattutto –

nell’ambito dei vissuti familiari reali.

La nuova situazione multiculturale e multireligiosa, creata dai movimenti migratori, peraltro,

se ha sollecitato egoismi localistici e chiusure xenofobe, cioè sentimenti e atteggiamenti

antievangelici (vergognosi in un popolo, come quello italiano, che è stato per decenni di emigranti:

come mostra, tra l’altro, la vicenda familiare dell’attuale pontefice), ha pure suscitato – nella

comunità ecclesiale – spinte all’accoglienza e alla solidarietà e ha comportato, comunque,

un’inevitabile evoluzione civile e istituzionale verso l’interculturalità e la laicità inclusiva e interreligiosa.

Tuttavia, ancorché minoritari e spesso dissimulati, non sono mancati casi in cui la

mentalità xenofoba e ostile alle famiglie straniere ha fatto breccia anche nella comunità ecclesiale,

autogiustificandosi come difesa delle ‘tradizioni cattoliche’ e costituendo un ulteriore ostacolo alla

liberazione evangelica e alla piena ricezione dell’insegnamento della Chiesa.

Peraltro la trascrizione politica del neoliberalismo ha preso in Italia (a partire proprio da

Milano), per un lungo periodo, ormai ventennale, forme di leaderismo che giustificavano ed

esaltavano la “subcultura delle tre esse”, trovando sponde in alcuni settori apicali della comunità

ecclesiale, con incomprensione (o perfino scandalo) di alcuni fedeli e con il disorientamento di

molti. Sembrava che nella Chiesa ci fosse una ‘dissonanza cognitiva’ tra gli insegnamenti di etica

familiare e la giustificazione di politici evidentemente in controtendenza rispetto a tali

insegnamenti: eppure presentati come difensori della famiglia (cioè dell’ideologia familista) e più o

meno apertamente fiancheggiati da istanze ecclesiali. Se si vuole avere un quadro non omissivo,

non omertoso (e perciò colluso) né edulcorato di ciò che si è prodotto nella Chiesa italiana nel

recente passato e di come ciò abbia inciso (e continui a incidere) sull’azione pastorale ed educativa

della Chiesa stessa rispetto alle famiglie e ai giovani, non si può avere paura di dire con chiarezza

queste cose. Naturalmente non si tratta di fare politica, ma di analizzare le sfide pastorali, notando i

guasti provocati da scelte queste sì politiche o filo-politiche del recente passato.

La Chiesa cattolica, in questi decenni, si è comunque complessivamente impegnata a

resistere a tale ondata neoliberale: è questo peraltro un terreno in cui si possono mettere a frutto

convergenze ecumeniche, intese inter-religiose e dialogo con uomini e donne di buona volontà. C’è

da osservare, comunque, che questi poderosi processi di globalizzazione neoliberale aggressiva

hanno trovato altri oppositori, così che non si può dire che visioni universalistiche (come quelle

dell’ONU, dell’UNESCO e dell’UNICEF), da una parte, e movimenti a sfondo etico, come quelli

no-global o degli “indignati”, dall’altra, abbiano avuto una rilevanza storica trascurabile.

Nella Chiesa di Milano, poi, il magistero del card. Martini, prima, con il richiamo al primato

della Parola e ai nuovi ‘stili’ di evangelizzazione, e quello del card. Tettamanzi, poi, con un piano

pastorale in tre tempi mirato proprio sulla famiglia (e con l’istituzione di un Fondo di Solidarietà

per aiutare le famiglie in difficoltà), hanno indicato le vie per un vero rinnovamento pastorale

complessivo, a partire dalla famiglia, coadiuvati dall’impegno del compianto don Silvano Caccia.

Naturalmente non si può dire che la realtà pastorale ambrosiana, anche guardando dal limitato punto

di vista saronnese, si sia subito e profondamente rinnovata: l’attuale situazione è diseguale per

parrocchie e, anche in generale, presenta luci e ombre. Ma, ancorché molto ancora si possa fare,

complessivamente un cammino ben documentabile è stato compiuto: e si tratta di un cammino

positivo.

Nella diocesi è cresciuta una partecipazione dei movimenti di spiritualità familiare e delle

coppie all’impegno di testimonianza e di evangelizzazione. La scelta da parte del card. Tettamanzi

di porre a capo dell’Ufficio Famiglia diocesano, accanto a un sacerdote, una coppia di sposi è stata

profetica e indicativa di un cammino da perseguire nel coinvolgimento dei laici in primo piano per

tutto ciò che concerne la famiglia. Lo schema di una triade (coppia e sacerdote) si realizza anche a

livello zonale nella diocesi e dovrebbe costituire un modello efficace per la pastorale familiare.

Riguardo alla conoscenza del Magistero della Chiesa sulla famiglia, bisogna constatare che è

generalmente considerato come un insieme di testi per “gli addetti ai lavori” o per preti: scritto in un

linguaggio tecnico-teologico, si pensa che non sempre aiuti a cogliere ed approfondire le ragioni di

una fede matura e dell’amore cristiano, nonché la profonda dimensione liberatrice del sacramento

del matrimonio.

Tra i fattori culturali che ostacolano la piena ricezione del Magistero si percepisce una

distorta idea di Chiesa: giudicante, chiusa, lontana dalla realtà, che non valorizza l’amore umano e

la sessualità. Forse queste distorsioni sono state generate da catechesi rimaste ad un livello infantile

e non elaborate, nonché da chiusure negli atteggiamenti pastorali e nella stessa predicazione.

Occorrerebbe forse uno sforzo, da parte dei Pastori, per una formulazione più aggiornata, più

‘esistenziale’, più calda del discernimento ecclesiale sui vissuti reali (che vanno conosciuti meglio):

per parlare ai cuori e alle coscienze dei giovani e delle giovani di oggi, ben consapevoli, peraltro,

“che, negli ultimi decenni, si è prodotta una rottura nella trasmissione generazionale della fede

cristiana” (Francesco,

Evangelii gaudium, n. 70).

Una corretta catechesi su quanto Cristo e la Chiesa dicono sul matrimonio va perseguita in

tempi di molto precedenti alla fase pre-matrimoniale, all’interno di una crescita umana e spirituale

delle nuove generazioni.

 

N. 2: Sul matrimonio secondo la legge naturale

 

I concetti di “natura”, “natura umana”, “diritto naturale” oltre al tema dei rapporti tra natura

e cultura sono oggi molto dibattuti sul piano scientifico e accademico e varie posizioni (anche in

ambito cattolico) si confrontano. Se questioni attinenti la biosfera, i suoi equilibri e le sue leggi,

sono ben vive, il tema del diritto naturale sembra invece abbastanza in ombra (anche fra cattolici al

giusnaturalismo si preferisce il giuspersonalismo). I dibattiti sulla bioetica, sul rapporto corpotecnica,

sulla ‘biopolitica’ sono molto accesi, ma difficilmente mettono capo a esiti unanimemente

condivisi e forti sono anzi le contrapposizioni.

Non pare molto utile affrontare la riflessione pastorale da questo punto di vista. In anni

recenti si è pensato che il Post-moderno (cioè il volto ideologico del neo-liberalismo, come si è

detto) fosse un totalitarismo nichilista al quale bisognasse opporre, in modo rigido e totale, un

‘totalitarismo’ ideologico alternativo: ci riferiamo alla centralità dei cosiddetti principi o valori “non

negoziabili” (prevalentemente riferiti alla bioetica come oggetto e al diritto naturale come

approccio).

Purtroppo il Post-moderno (e il neo-liberalismo che lo sorregge) non è un totalitarismo

ideologico, ancorché sia capillarmente invasivo delle coscienze, bensì la decostruzione preventiva e

perenne in forma neo-scettica (ma in realtà fondata sul materialismo pratico) di ogni totalitarismo,

anche sui generis, di ogni approccio ideologico compatto e rigido, di ogni progetto culturale con

pretese egemoniche: “si tratta piuttosto di una diffusa indifferenza relativista, connessa con la

disillusione e la crisi delle ideologie verificatasi come reazione a tutto ciò che appare totalitario”

(Francesco,

Evangelii gaudium, n. 61). Dunque anche il meta-discorso intransigente sui “principi

non negoziabili” è stato rubricato a maschera di interessi lobbistici e come tale metabolizzato e, di

fatto, reso innocuo, irrilevante, marginale: roba da Convegni.

La strada da seguire non può ancora porsi secondo questo schema astratto e deduttivo, ma –

al contrario – deve partire dai vissuti e dalle loro contraddizioni, cioè dalle sofferenze causate dalle

ingiustizie sociali, morali, culturali e psicologiche. A questo fine può essere più coerente una

rilevazione delle mentalità diffuse e delle prassi.

In questo senso, allora, si può dire che nelle etiche diffuse, se pure non compare

consapevolezza di un “diritto naturale”, vi è un’avvertita sensibilità verso i diritti della persona (di

fatto intesi come diritti universali ed universalistici, non declinati cioè in senso comunitaristico). Si

può ricordare, a questo proposito, un’espressione di don Milani che, quando citata, riscuote, oggi

più di ieri, un vasto consenso del sentire popolare cattolico: “c’è una legge che gli uomini non

hanno ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell’umanità

la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né

all’una né all’altra non sono che un’infima minoranza malata. Sono i cultori dell’obbedienza cieca”.

Non è molto presente, invece, il “naturalismo”. Non riscuote cioè consenso, tra cattolici,

quel naturalismo, a base di fondamentalismo biblico (come nei Testimoni di Geova), che rifiuta –

per esempio – le trasfusioni di sangue. Ma non è neppure significativamente diffuso quel

naturalismo di origine roussoviana (condannato da Pio XI nellaDivini Illius Magistri) che considera

la natura buona in sé e accetta solo pratiche ‘naturali’ (Rousseau, per questo motivo, rifiutava la

contraccezione): una versione contemporanea potrebbe essere vista nelle posizioni da New Age, ma

con scarsi echi nel mondo cattolico (almeno da noi).

Nella mentalità cattolica popolare si assume, implicitamente, che la natura sia ‘corrotta’ e

che pratiche ‘artificiali’ (come quelle mediche o terapeutiche in senso lato o igienico-profilattiche)

vadano accolte senz’altro dalle famiglie e dai singoli, quando necessarie alla salute fisica e psichica.

La tematica della “legge naturale” riferita alla famiglia richiama pure il principio di

solidarietà e quello di sussidiarietà: molto presenti nel più recente insegnamento sociale della

Chiesa e applicati non sempre in modo coerente da gruppi e esponenti cattolici. Si segnala che – a

livello generale e anche locale – un’enfatizzazione univoca della ‘sussidiarietà’, slegata dalla

‘solidarietà’ (a cui dovrebbe essere sempre, necessariamente, connessa: cfr. Benedetto XVI,

Caritasin Veritate , n. 58), ha portato ad una diffusione surrettizia, in ambito cattolico, di approcci

neoliberisti o privatistici, secondo logiche di interesse di gruppi particolari e non di bene comune.

Appare invece urgente un forte rilancio della solidarietà – come valore e come prassi – verso le

famiglie e tra famiglie. Peraltro sembra molto esigua una applicazione del ‘principio di

sussidiarietà’ nel rapporto tra famiglie cattoliche e comunità ecclesiale nel suo insieme: solo un

maggiore sviluppo e radicamento dell’ecclesiologia conciliare potrà ovviare a questa lacuna.

A proposito di “legge naturale” (e considerando il livello “istituzionale, educativo e

accademico” a cui si riferisce la domanda 2a), si può fare un’ultima considerazione sulla cosiddetta

“questione del genere” (e del rapporto tra “sesso” e “genere”). Nel dibattito culturale sembra

prevalere una sterile polarizzazione e contrapposizione tra opposti estremismi: tra chi sostiene una

visione tutta e totalmente culturale, basata solo sul “genere” (appunto inteso, unicamente, come

costruzione culturale e volontaria), e chi si attesta su una visione tutta e totalmente fisicistica, basata

solo sul “sesso” (inteso come determinato dalla immodificabile struttura cromosomica

dell’individuo). Al posto di questi ideologici

aut aut, sarebbe preferibile un più sereno e ponderato

approccio

et et: che consideri sia le questioni della psicologia dello sviluppo, nel legame corpopsiche,

sia quelle sociologiche, più culturaliste, relative al rapporto dell’individuo con l’ambiente.

 

N. 3: La pastorale della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione

 

Lo sviluppo della pastorale familiare nella Diocesi ambrosiana, con gli episcopati di Martini

e di Tettamanzi, in sintonia con il

Direttorio di Pastorale Familiare dei Vescovi italiani (e con i

documenti dei Vescovi lombardi) e con l’Ufficio Famiglia della CEI, ha portato a consolidare

esperienze ecclesiali importanti.

I risultati di maggior rilievo possono ritenersi: i Corsi di preparazione al matrimonio e la

diffusione dei gruppi familiari. Più recentemente sono state avviate – e sembrano rilevarsi

promettenti – proposte pastorali di percorsi pre e post-battesimali, rivolte alle famiglie e, in

particolare, ai coniugi (in genere giovani adulti).

I Corsi (o meglio Percorsi), con la loro vastissima diffusione (e nonostante un qualche

leggero declino quantitativo), rappresentano la maggiore iniziativa ‘missionaria’ della Chiesa

locale: si ha cioè la possibilità di accostare per un certo numero di incontri – non altissimo, ma

neppure insignificante – coppie di giovani adulti che, pur dicendosi cattolici, hanno, per la gran

parte, affievolito o abbandonato ogni rapporto significativo con la Comunità ecclesiale e hanno

un’esperienza, meno che saltuaria, di partecipazione all’eucaristia domenicale. Si tratta di

un’occasione importante di ‘secondo annuncio’ che si cerca di sviluppare al meglio. Non mancano,

ovviamente, i problemi. La Commissione per la Pastorale familiare (della Comunità Pastorale di

Saronno) sta riflettendo sulle forme più adeguate per rispondere alle sfide che i Percorsi pongono: a

cominciare dal problema della relazione, successiva al matrimonio, tra le giovani famiglie e la

Comunità ecclesiale. Si può comunque già osservare che la sempre più frequente richiesta del

matrimonio da parte di battezzati non praticanti deve essere accolta con misericordia e come

un’opportunità per risvegliare una fede accantonata, ma ancora viva. Si dovrebbero pertanto

studiare proposte realistiche di ‘secondo annuncio’ specificamente mirate a tali situazioni, in

appoggio agli attuali Percorsi.

I gruppi familiari – nell’ambito di movimenti di spiritualità familiare o a dimensione

parrocchiale (e secondo le indicazioni del Direttorio di pastorale familiare) – sono oggi una realtà

importante, sia dal punto di vista quantitativo sia da quello dell’impegno, per l’intera Diocesi

ambrosiana (come i Convegni zonali del 2008 hanno dimostrato) e, più particolarmente, per la

nostra Comunità Pastorale e per il Decanato di Saronno.

Tali gruppi sono realtà nati spontaneamente da coppie di sposi desiderosi di avere un

cammino spirituale che si moduli con le esigenze della vocazione matrimoniale, in comunione con

altre coppie, con o senza la presenza di un prete. Nella diversità dei metodi adottati, delle tematiche

e degli eventuali sussidi, vale per tutti che questa realtà potrebbe costituire una forma nuova di

evangelizzazione, che ha luogo non più negli ambienti ecclesiali, ma nelle case, dove la fede “si

incarna”. Tali esperienze, che spesso non hanno vita breve, ma durano anche dopo la vedovanza,

costituiscono inoltre una forma di testimonianza verso i figli, che

vedono i genitori dedicarsi a

momenti di riflessione e preghiera, in spirito fraterno, liberamente e responsabilmente.

In qualche parrocchia della Comunità Pastorale saronnese si stanno sperimentando pure

percorsi di giovani coppie che si sono conosciute durante il corso fidanzati. Promossi inizialmente

dal parroco e da una coppia-guida, vengono poi portati avanti da qualche coppia giovane più

sensibile e disponibile.

A lato di queste esperienze, ancorché in sinergia con esse, si colloca la proposta dei ‘gruppi

di ascolto’ (rilevante in alcune parrocchie della Comunità Pastorale).

Considerando il ‘progetto’ complessivo espresso dal magistero della Chiesa (dal Concilio

alla

Familiaris Consortio ai documenti della CEI, a cominciare dai Piani pastorali decennali e dal

 

Direttorio

 

) e la sua reale attuazione, emerge un dato più evidente. Se gli aspetti che considerano la

famiglia come ‘oggetto’ della pastorale hanno visto un reale sviluppo e esperienze positive, in quelli

in cui la famiglia appare come ‘soggetto’ di azione pastorale vi sono ancora ampi margini di crescita

e di miglioramento.

La famiglia, attraverso cui passano tutte le età della vita di ogni essere umano, riconosciuta

“chiesa domestica”, espressione del “mistero grande” dell’amore tra Cristo Sposo e la Chiesa

Sposa, nasce e si sostiene, crea vita e si santifica tramite l’amore della

coppia dei coniugi che la

creano. Il matrimonio dunque è condizione privilegiata di santificazione per i coniugi e come tale va

riconosciuto, promosso e sostenuto dalla comunità ecclesiale. Gli sposi dunque siano

soggetti attividella pastorale comunitaria.

Tutte le potenzialità che sono implicate nella “grazia di stato”, che i coniugi e i genitori

hanno – e hanno solo loro – per la vita cristiana della loro famiglia e nella loro famiglia, non sono

tuttora pienamente attuate. Sembrerebbe ancora, infatti, che molte decisioni – anche relativamente

alla vita matrimoniale intima – non possano essere autonomamente e responsabilmente prese dai

coniugi stessi: ciò appare sia incomprensibile, alla luce dell’ecclesiologia conciliare, sia

mortificante della “grazia di stato”, cioè della pienezza di carisma che lo Spirito consegna ai

coniugi.

Così pure, in una visione complessiva di una pastorale di liberazione evangelica, il ruolo e le

relative potenzialità dei coniugi cristiani sono ancora da sviluppare e potrebbero rivelarsi

significativi. I coniugi cristiani vivono oggi – forse perfino inconsapevolmente – un “vissuto

eucaristico” che va dalla cura, sempre più esigente, dei figli, al sostegno morale e psicologico

reciproco (in un tempo che, come si è visto, da una parte spinge verso torsioni narcisistiche e

individualistiche e dall’altra mette in difficoltà, in molti sensi, sul piano del lavoro)

all’accudimento, in molti casi, di genitori anziani e malati. Questo vissuto eucaristico non sempre

viene accolto, riconosciuto come pienamente ecclesiale e perciò valorizzato in quanto tale dalle

Comunità ecclesiali, che pure ne avrebbero tanto bisogno (cfr. Francesco ,evangelii gaudium, n. 28).

Se oggi la pastorale non può non fondarsi sulla ‘relazione’, allora solo portando il vissutoe

familiare nelle comunità ecclesiali le si renderà famiglie di famiglie. Un’indicazione – presente nei

documenti della CEI e molto sottolineata da don Renzo Bonetti, quando è stato coordinatore

dell’Ufficio famiglia della CEI (e venne pure a Saronno per un incontro con gli operatori di

pastorale familiare, a livello decanale) – quasi totalmente disattesa è quella di non avere solo o tanto

‘operatori pastorali’ individuali, ma anche o soprattutto ‘in coppia’: e così essere presenti negli

organismi ecclesiali partecipativi. Ma anche le ultime elezioni dei vari Consigli non hanno previsto

questo approccio. Non che esso sia la soluzione complessiva: ma indicherebbe un’attenzione, una

sensibilità, un segnale di direzione di marcia.

Uno sviluppo possibile – che potrebbe sembrare oggi un’ipotesi remota, ma che merita di

essere segnalato – di questa ministerialità andrebbe nel senso di offrire una speranza viva rispetto ad

un rischio che è oggi presente nel Nord Europa (cioè a pochi chilometri da qui): la mancanza di

presbiteri per la presidenza delle eucaristie. La diminuzione del numero di presbiteri sta, oggi,

spingendo a riorganizzazioni come quella delle Comunità Pastorali: e nella nostra Comunità

Pastorale di Saronno ci sono già Parrocchie che non hanno un presbitero residente (anche se non ci

sono problemi per le eucaristie feriali e festive). In ogni caso, quando – in una Comunità ecclesiale

– sono presenti coniugi anziani, che con la loro vita hanno dato una prova, lunga e duratura, di

fedeltà cristiana e di impegno ecclesiale, perché non giungere alla ordinazione presbiterale del

marito (anche se non vedovo), con un conseguente ministero di presidenza dell’eucaristia nella sua

Comunità? Se i fini sono chiari (assicurare la celebrazione eucaristica in ogni comunità), perché non

ricercare nuovi mezzi per raggiungerli veramente?

Ci conforta quanto afferma papa Francesco: “La pastorale in chiave missionaria esige di

abbandonare il comodo criterio pastorale del «si è fatto sempre così». Invito tutti ad essere audaci e

creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori

delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei

mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con

generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure” (Francesco,

Evangelii gaudium, n. 33).

 

N. 4: Sulla pastorale per far fronte ad alcune situazioni matrimoniali difficili

 

Anche nel nostro territorio saronnese si segnalano trasformazioni ormai chiaramente

evidenti. Per riferirci al solo Comune di Saronno, nel 2010 sono stati celebrati 127 matrimoni – 78

religiosi e 49 (38,5%) civili – e ci sono stati 37 divorzi. Nel 2011 sono stati celebrati 121 matrimoni

– 62 religiosi e 59 (48,7%) civili – e ci sono stati 40 divorzi. Sono inoltre aumentate nettamente le

convivenze: non abbiamo dati, tuttavia tra i ‘fidanzati’ che partecipano ai già ricordati Percorsi di

preparazione al matrimonio, un numero crescente nel tempo e ormai decisamente maggioritario è

costituito da coppie conviventi (talvolta anche già con figli).

Vent’anni fa – quando le coppie conviventi erano rarissime – si poteva adottare un codice

rigoristico. Ma oggi avrebbe senso accogliere queste coppie con le parole del Catechismo? Dire

cioè che la loro situazione esistenziale è un’offesa alla castità, come lo sono la lussuria, la

masturbazione, la pornografia, la prostituzione e lo stupro (nn. 2351-2356), e che è un’offesa alla

dignità del matrimonio, come la poligamia, l’incesto, il concubinato (nn. 2387-2391). Avere un

approccio del genere – dottrinalmente ortodosso e coerente – vorrebbe dire semplicemente

allontanare tutti i presenti e non fare più nessun Percorso. Per questo, l’atteggiamento delle coppieguida

dei Percorsi esprime normalmente accoglienza, simpatia, fiducia, apprezzamento per le gioie

dei fidanzati e propone l’itinerario di fede verso il sacramento come un completamento, una

crescita, una maturazione, sul piano umano e cristiano. Non si tratta solo di un atteggiamento

pastorale ragionevole e di buon senso, che parte – con rispetto – dall’interno dei vissuti reali, in ciò

che viene soggettivamente percepito come positivo e bello. Si tratta anche, ormai, di fare anche noi

– Comunità ecclesiale – un cammino e una crescita, come chiediamo alle giovani coppie. Le

posizioni dottrinali con le loro formulazioni catechistiche, cioè, non descrivono più (o almeno in

modo riconoscibile) vissuti reali, si riferiscono a contesti storici (come fatti e come

autoconsapevolezza dei fatti) che non esistono più, appaiono per lo più irrispettose e si devono

omettere o bypassare con giri eufemistici. Si richiede, dunque, una crescita nella comprensione del

dato rivelato e un aggiornamento della sua formulazione.

Non si può dire che i separati, i divorziati e i divorziati risposati costituiscano in sé, nel

nostro contesto, una realtà quantitativamente molto cospicua. Il numero dei divorziati è in crescita:

ma, tra questi, la maggioranza non partecipa alla vita della Comunità ecclesiale, forse per

disinteresse, per scelte ideali diverse, ma forse pure – in qualche caso – per non sentirsi

discriminata. Vi sono anche, sia pure per piccoli numeri, persone che vivono in tali situazioni e che

frequentano, quasi sempre con difficoltà, la Comunità ecclesiale.

Tuttavia dedurre da questa constatazione che tale situazione pastorale non sia, nella nostra

realtà, “rilevante” sarebbe un grave errore. Innanzi tutto ci sono i “mondi vitali” che ruotano attorno

a queste persone: molti membri della Comunità ecclesiale – per non dire tutti – hanno parenti, più o

meno stretti, o quanto meno intimi amici che vivono tali situazioni. Vi è poi l’orizzonte di

aspettativa: sempre più i genitori di adolescenti e giovani assumono, con angoscia, che i loro figli e

figlie possano – con un tasso di probabilità statisticamente significativo – incorrere in situazioni di

fallimento matrimoniale. Anche solo per questi aspetti, la questione è rilevante per molti e forse per

quasi tutti i membri della Comunità ecclesiale: appare inoltre come un punto di coerenza per una

pastorale veramente dell’accoglienza (come richiesto fin da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI),

per un approccio di misericordia e, in fin dei conti, per un profilo di coerenza e di evangelica

bellezza della Chiesa di Cristo, che si piega a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, su cui

giustamente insiste ora papa Francesco.

Si tratta di compiere scelte che valgano soprattutto per il futuro, essendo più facile prevenire

sofferenze, incomprensioni, distacchi, che riparare ciò che è avvenuto nel passato. Certo l’orizzonte

ecclesiale si è desertificato di molto (“si è prodotta una desertificazione spirituale”: Francesco,

 Evangelii gaudium, n. 86): siamo caduti nella “tentazione di separare prima del tempo il grano dalla zizzania” (Francesco,

Evangelii gaudium, n. 85) e a furia di strappare via la zizzania, si è sradicato ebuttato via anche grano buono (i ‘contesti familiari

e parentali’ della pretesa ‘zizzania’, peresempio), come il Vangelo aveva previsto.

Ora si tratta si smettere di sradicare, ma le zone inaridite

e diserbate non rifioriscono automaticamente ed anzi il terreno si è indurito e si è fatto

impermeabile. Con serenità e fiducia – ma con realismo e senza impossibili illusioni ‘quantitative’ –

bisognerà riprendere la semina. “Crediamo al Vangelo che dice che il Regno di Dio è già presente

nel mondo, e si sta sviluppando qui e là, in diversi modi: […] come il buon seme che cresce in

mezzo alla zizzania (cfr. Mt 13, 24-30), e ci può sempre sorprendere in modo gradito” (Francesco,

 

Evangelii gaudium

 

, n. 278).

Anche la questione dei sacramenti va vista in questo contesto complessivo (e non solo sulla

mera statistica di quanti divorziati risposati chiedono l’eucaristia). Vi è un problema di prassi

sacramentale diretta e anche indiretta (divorziati risposati che chiedono di essere padrini). Vi è una

‘anarchia sommersa’ che porta i pastori in cura d’anime ad avere atteggiamenti diversi, se non

opposti. Vi sono forme di ‘nicodemismo’ (vai a fare la comunione in un’altra parrocchia, dove non

ti conoscono, per non creare scandalo).

Ma, soprattutto, l’attuale disciplina che impedisce a tutti i divorziati risposati di accostarsi

all’eucaristia appare molto problematica e bisognevole di approfondimenti che segnino veri

sviluppi.

La negazione pura e semplice dell’eucarestia era perfettamente coerente all’approccio, sopra

ricordato, del Catechismo. Alla coppia convivente si diceva: sei in peccato mortale, abbandona la

convivenza, pentiti, confessati e solo allora ti potrai sposare in Chiesa. Alla coppia di divorziati

risposati si diceva: sei in peccato mortale, non puoi ricevere l’eucarestia, se muori vai all’inferno.

Oggi l’atteggiamento pastorale non è più così rigido e allora si invitano i divorziati risposati alla

‘comunione spirituale’. Ma questa è o non è una via alla salvezza eterna? Se non lo è, cosa cambia?

E se lo è, non abbiamo così un vulnus alla ‘forma eucaristica’ della Chiesa? Nella Chiesa, cioè, ci

sarebbe anche una via di salvezza, pienamente intra-ecclesiale e tuttavia extra-eucaristica.

Non sarebbe più produttivo ricercare la soluzione pastorale – certo non semplice e che non

potrà essere univoca (senza cioè distinguere tra situazioni diverse) – nell’ambito di quella visione

‘medicinale’ del sacramento eucaristico di cui parlano i Padri e che è stata anche richiamata da papa

Francesco nella Evangelii Gaudium (n. 47: “L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita

sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli.

Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con

prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come

facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua

vita faticosa”

)?

Non meno problemi suscita l’indicazione che ammette all’eucaristia i divorziati risposati che

vivano tra loro “come fratello e sorella”: cioè non abbiano rapporti sessuali. Sono evidenti tanto

l’inutilità di una simile norma quanto l’amaro sarcasmo che può suscitare in chi vive tali situazioni.

Ma, soprattutto, essa sembra modificare e secolarizzare il sacramento del matrimonio, riducendo al

solo aspetto sessuale la promessa sacramentale.

Il problema che l’attuale disciplina pone non è, dunque, solo una difficoltà per i divorziati

risposati, è anche una difficoltà per la ‘coscienza eucaristica’ di tutti i fedeli e per

l’autoconsapevolezza sacramentale di tutti gli sposi cristiani.

Da parte di alcune delle persone separate o divorziate si percepisce un’esigenza di

continuare a sentirsi parte della comunità, rivestendo comunque dei compiti (p.es. negli oratori) o

partecipando a gruppi di famiglie. C’è un percorso faticoso e profondo da compiere per tutti che è

quello del perdono dentro la coppia e verso la coppia.

Centrale è poi – dal punto di vista della liberazione evangelica – il problema dei ‘piccoli’:

non possono cioè essere trascurati i vissuti di dolore e di sofferenza, che riguardano i figli (specie se

minori) e che si intrecciano, in modo necessariamente diverso, con le difficoltà dei rapporti tra i

genitori. In questo campo, anche dal punto di vista pastorale, vi è una rivoluzione culturale

evangelica da compiere (“Se non ritornerete come bambini…”): assumere il punto di vista del

minore, del rispetto nei suoi confronti, dei suoi diritti psicologici, morali e spirituali. Molte

perplessità suscitano mentalità che assumono l’aver un figlio come un diritto e secondo una logica

proprietaria, nonché visioni adultiste, sul piano delle decisioni di coppia e intra-familiari (con il già

ricordato rischio del ‘familismo’), anche nell’ambito del cammino di fede.

Vi è, infine, da segnalare una ulteriore difficoltà sul piano ecumenico. La comunicazione

in sacris e quindi nell’eucaristia con i fedeli ortodossi è (dal Concilio e, dunque, anche dal Codice di

diritto canonico e dal Catechismo) non solo dichiarata possibile, ma anche consigliabile. Ciò è

rilevante nel nostro contesto, in cui la presenza straniera più numerosa è quella dei rumeni. Ma in

forza dell’attuale disciplina cattolica sui divorziati risposati, l’eucaristia deve essere negata ai fedeli

ortodossi divorziati, che – nella loro Chiesa – possono, invece, ricevere l’eucaristia. Si noti

l’estrema difficoltà – esistenziale, psicologica, ma anche dottrinale – di far interferire la disciplina

di una Chiesa con la coscienza dei fedeli di un’altra Chiesa, trasformando surrettiziamente

l’ecumenismo in proselitismo confessionale.

Rispondendo poi, unitariamente, a domande poste dal questionario (2d, 4f, 8c), si osserva

che – in considerazione delle epocali trasformazioni storiche che stiamo vivendo e che modificano

non solo i vissuti ma anche le percezioni e le valutazioni etiche dei vissuti stessi – sarebbe forse da

approfondire la ‘forma’ stessa del sacramento del matrimonio, superandone la struttura compatta e

totalmente sincronica, verso una struttura più progressiva e diacronica. Il sacramento del

matrimonio, da una parte, è l’unica forma ammissibile di convivenza stabile di coppia tra battezzati,

dall’altra implica – dal momento stesso della sua celebrazione – l’indissolubilità del vincolo.

Tra i religiosi si giunge all’indissolubilità dei voti solenni e perpetui dopo un cammino di

vita che prevede passaggi intermedi e temporanei.

Lo stesso sacramento dell’Ordine prevede una gradualità progressiva, diacronicamente

articolata: prima c’è il diaconato (che per alcuni può essere permanente), poi c’è il presbiterato (che

per alcuni, anzi per la maggioranza, è definitivo) e poi c’è, come pienezza del sacramento,

l’episcopato.

Perché non pensare una gradualità di momenti anche nel sacramento del matrimonio? Una

prima fase di fidanzamento, una seconda di convivenza senza vincolo di indissolubilità, che può

ricevere una benedizione nella Chiesa, infine la celebrazione piena del sacramento (che ovviamente

ha, tra le sue caratteristiche irrinunciabili, l’indissolubilità). Si sarebbe in difficoltà a dire quante

delle giovani coppie, che partecipano ai Percorsi di preparazione al matrimonio, abbiano la piena

maturità di fede personale e di vita comunitaria ecclesiale che la celebrazione del sacramento

presuppone. La via implicitamente suggerita dal questionario (4f: snellimento della prassi canonica

in ordine al riconoscimento della dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale), pur in sé

auspicabile, se vista come soluzione al problema – umano, pastorale, ma anche in sé sacramentale –

dei divorziati da matrimonio canonico, appare una scorciatoia non proprio limpida, non priva di

rischi di disordini, di ingiustizie, di anarchia disciplinare e con qualche ombra di ipocrisia.

La grande via evangelica dell’attenzione personale e della misericordia costituisce, anche in

quest’ambito, la sola portatrice di frutti di gioia, di giustizia e di liberazione: “Pertanto, senza

sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le

possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno” (Francesco, 

Evangelii gaudium, n. 44).

 

N. 5: Sulle unioni di persone dello stesso sesso

 

I cambiamenti epocali di costume, a cui si è fatto cenno, hanno reso sempre più sensibile

l’opinione pubblica verso l’omofobia e verso ogni forma di discriminazione relativa alle persone e

alle coppie omosessuali. Capita pure che la prospettiva della liberazione evangelica sia accusata,

con evidente ingiustizia, di omofobia.

Non si può negare che tendenze omofobiche ci siano state in passato e con frequenza tra

cattolici, ma come riflesso di contesti culturali più generali (la stessa Organizzazione Mondiale

della Sanità ha considerato, fino al 1990, l’omosessualità una malattia) e forse anche come

espressione di quei residui sessuofobici manichei, stigmatizzati da Giovanni Paolo II.

Anche in quest’ambito – non foss’altro per far emergere la limpidità e la forza liberatrice del

Vangelo – è auspicabile una crescita in comprensione del dato rivelato e un maggiore impegno di

annuncio e di testimonianza che contrasti ogni, anche dissimulata, tendenza omofobica. Non

dimentichiamo che l’omosessualità appare ancora come un tema difficile, che genera conflittualità,

a partire dall’interno stesso delle famiglie, e perfino violenze.

È da notare che, su questo aspetto, conta molto la conoscenza scientifica delle cause e della

realtà del fenomeno. Se la Sacra Scrittura non può essere una norma sulla teoria scientifica

riguardante l’eliocentrismo, non può esserlo neppure sulla teoria scientifica che riguardi

l’omosessualità. Alla Parola di Dio non ci si rivolge per la conoscenza scientifica dei fenomeni, ma

per la liberazione vera dei contesti umani, oppressi dalla schiavitù del peccato e delle sue

conseguenze sociali disumanizzanti, attraverso l’amore di Dio.

Lo stesso  catechismo dice che la genesi psichica dell’omosessualità è ancora non

definitivamente chiarita (n. 2357) e aggiunge: “Un numero non trascurabile di uomini e di donne

presenta

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auguri scomodi!

Buon Natale! 

i migliori auguri a tutti gli amici,

 ma non mi piace dare degli auguri scontati, formali, senza anima: vorrei formularli nel modo più vivo, forte, vero, vigoroso, fino a rasentare la ‘scomodità’, per evitare il più possibile l’ovvietà, la ritualità, la scontatezza

mi piace darli con le parole, quasi graffianti, di un grande vescovo purtroppo morto troppo presto (succede così alle persone migliori!), don Tonino Bello:

                                                                                                      natività
“Carissimi, non farei il mio dovere di religioso, se ci dicessimo BUON NATALE senza darci disturbo. Io invece mi voglio e vi voglio infastidire.

Non sopporto di rivolgerci auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario. Mi lusinga anzi l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente.

Tanti auguri scomodi allora. Gesù che nasce per amore ci dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali. E la forza di inventarci un’esistenza carica di donazione, preghiera, silenzio, coraggio. Il Bimbo che dorme sulla paglia ci tolga il sonno e ci faccia sentire il nostro guanciale duro come un macigno. Finché non avremo ospitato uno sfrattato, un marocchino, un povero di passaggio.

Dio che diventa uomo ci faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventa il nostro idolo; il sorpasso, progetto dei nostri giorni; la schiena del prossimo strumento delle nostre scalate.

Maria, che trova nello sterco delle bestie la culla per il figlio, ci costringa a sospendere tutte le nenie natalizie, finché la nostra coscienza accetterà che lo sterco degli uomini, o il bidone della spazzatura, o l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.

Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei nostri cenoni e il tepore delle nostre tombolate, provochi corto circuiti allo spreco delle nostre luminarie, finché non ci lasceremo mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro. Gli Angeli che annunziano la pace portino guerra alla nostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che, a poco più di una spanna, con il nostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra, si sterminano i popoli con la fame.

I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità, ci facciano capire che, se vogliamo vedere una “grande luce”, dobbiamo partire dagli ultimi. Che le elemosine di noi che giochiamo sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili. Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura ma non scaldano. Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative. Che i poveri, quelli veri, hanno sempre ragione, anche quando hanno torto.

I pastori che vegliano facendo la guardia al gregge e scrutano l’aurora, ci diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E ci ispirino un desiderio profondo di vivere poveri: che è l’unico modo per morire da ricchi.

BUON NATALE!

Sul nostro vecchio mondo che muore nasca la speranza”

(Tonino Bello)

 

Buone feste!

 

Beati i piedi di chi ricerca la profezia 

di una parola che illumina la storia, 

di chi costruisce fraternità 

e amicizia, in un mondo 

di esclusioni e pregiudizi. 
Beati i piedi della quotidianità, 

messaggeri dell’amore 

che dà direzione e unità 

ai frammenti dispersi dell’esistenza 

preda della molteplicità del tempo. 
Beati i piedi che aprono strade 

ancora invisibili, che avanzano 

portando nel cuore il mistero 

di una Presenza 

che è promessa mai compiuta 

di una PACE piena. 

albero_di_natale                                                                                                                                  stella di natale

 

 

 

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muti e ammutoliti dall’orrore

Bocche cucite

la protesta shock di quattro migranti

cie-protesta-tuttacronaca

 

Mentre il neosegretario dei Democrat Matteo Renzi è in visita al centro di accoglienza immigrati di Lampedusa, giunge la notizia della clamorosa protesta in atto al Cie di Ponte Galeria a Roma. Qui quattro magrebini, ospiti della struttura, si sono cuciti la bocca per protestare contro il protrarsi della permanenza nel centro.

NOI E LORO MUTI D’ORRORE

un bel pezzo su ‘la Repubblica ‘ odierna di Concita de Gregorio a commento (si fa per dire!) della gravissima situazione e delle condizioni disumane di vita che i migranti stanno vivendo nei nostri Cie o comunque si chiamino … nessun commento ma forte presa d’atto di un orrore che ammutolisce loro ma deve ammutolire anche noi e la nostra logica egocentrica del ‘prima noi e i nostri, poi si vedrà’

 

Dice: sono marocchini, tunisini. Se ne stiano al paese loro. Cosa volete che ce ne importi degli africani, non vedete che non c’è da mangiare per noi. Dice: non li vedete i forconi in piazza, e voi ancora lì al tepore delle vostre belle case a menarla con la solidarietà, con l’accoglienza. Dice: pensate agli italiani, prima. Va bene, allora cominciamo da qui. Da una conversazione qualsiasi di quelle che toccano ogni giorno, a volerle ancora sostenere.

Quando sei in fila all’Agenzia delle entrate o alle Poste a pagare un bollettino, al forno a comprare il pane. Non ce n’è per noi, cosa volete che ce ne importi di quelli, che poi alla fine sono anche mezzi criminali. Sempre, quasi sempre. Va bene. Allora diciamo che sì, è così: se non ti salvi tu non puoi salvare gli altri, te lo spiegano bene ogni volta che l’aereo decolla. Prima assicurati di aver messo la tua maschera di ossigeno e il tuo giubbotto, poi aiuta il vicino. Il bambino, la donna incinta, il vecchio. Non importa. Prima metti al sicuro te stesso. Perfetto, è giusto. Se poi c’è di mezzo la paura, la diffidenza, il sospetto che il vicino possa essere o diventare un nemico, figuriamoci se c’è bisogno di dirlo. Sono anche mezzi criminali, quasi sempre. La tua maschera di ossigeno, prima. Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva. Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come? Con una specie di ago ricavato dal ferro di un accendino, e col filo di una coperta. Otto hai detto? Otto. Quattro tunisini e quattro marocchini. I nomi no, non li so. Non li dicono mai i nomi degli stranieri, solo il numero. C’è una ragione. Il nome ti porta diritto dentro una storia, dentro una vita. Il numero fa numero, e basta. Però dicono l’età. Questi sono ragazzi: vent’anni i più giovani, trenta i più vecchi. Hai detto venti? Venti, sì. Ce l’avete un nipote di vent’anni? Come vi sentireste se tornando a casa lo trovaste con la bocca cucita con ago e filo? Ve lo riuscite ad immaginare? Ecco, così. Tornate e lo trovate col sangue che cola dalla bocca cucita. Allora magari uno torna a casa e va a vedere su Internet le foto del posto dove è successo, il Cie di Porta Galeria a Roma. Cie, che vuol dire Centro di identificazione ed espulsione. Ci si può stare fino a un anno e mezzo in quel posto lì, con le sbarre delle gabbie ricurve verso l’interno, come quelle delle bestie pericolose in certi zoo. Che ora si chiamano bioparchi, in genere, e quelle gabbie non ci sono più nemmeno per le tigri. Allora magari anche se è il sabato prima di Natale e devi andare a comprare il bagnoschiuma per tua nuora, con quei pochi soldi che hai, ecco magari allora ci pensi che in Italia c’è una legge che si chiama Bossi-Fini (ha proprio i nomi di quelli che l’hanno fatta, Bossi e Fini, se ti concentri te li ricordi tutti e due) che autorizza a tenere in quel lager degli esseri umani che hanno l’età di tuo figlio, di tuo nipote, e certo anche tuo figlio e tuo nipote non hanno lavoro ma almeno non vengono annaffiati nudi d’inverno con una sistola, almeno parlano una lingua che la gente intorno capisce, almeno hanno te e se sono in pericolo ti possono chiamare al telefono, vienimi a prendere che c’è un problema serio. Loro no. Quelli che si sono presi le labbra con la mano sinistra e con la destra se le sono cucite non hanno nessuno da chiamare: si possono solo dare fuoco, e certo anche gli italiani lo fanno a volte, si possono ammazzare, anche questo capita senza bisogno di venire dall’Africa, o anche — ti possono dire con questo speciale martirio di ago e filo — nemmeno la parola gli è rimasta più per gridare. La parola, che viene dal pensiero e distingue l’uomo dalla bestia. Non serve più a niente nemmeno quella. Ecco, magari dieci minuti, allora, prima di uscire a comprare il pandoro, ci pensi.

Da La Repubblica del 22/12/2013

A Lampedusa c’è un lager

Il finto stupore, le consuete retoriche

la verità su Lampedusa al di là di tutte le retoriche, le bugie, le coperture per impedirci di vedere e conoscere come davvero stanno le cose, perché di questa ‘verità’ abbiamo paura e rifuggiamo dal conoscerla perché è davvero terribile, impronunciabile:

di Annamaria Rivera*

Oggi, perfino i media mainstream evocano i lager per definire le modalità del trattamento antiscabbia imposte ai profughi segregati nel Centro “di primo soccorso e accoglienza” di Lampedusa. In effetti, le immagini proposte dal servizio di Valerio Cataldi per il TG2, realizzate grazie al coraggio di uno degli “ospiti” di quel Centro, ricordano – anche nell’estetica, se così si può dire – le code degli internati nei campi di concentramento: la totale spersonalizzazione, l’umiliazione della nudità di massa, l’esposizione al freddo, perfino la presenza di un omone che dirige l’operazione con la brutalità di un kapò…
Eppure, sin da quando, nel 1998, usammo l’analogia dei lager per definire le strutture d’internamento extra ordinem, inaugurate dalla legge Turco-Napolitano con la sigla Cpt, da ogni parte si è obiettato, fino a ieri, che essa era impropria, iperbolica, infondata. Oggi, dopo un quindicennio di morti sospette, suicidi, maltrattamenti, violenze, rivolte, violazione dei diritti più elementari, qualcuno ammette ciò abbiamo sempre sostenuto: la detenzione e l’internamento amministrativi, avviati da quella legge e realizzati sotto svariate forme e sigle (Cie, Cara, Cpa, Cpsa…), hanno lo status proprio dei lager nazisti, pur con finalità assai differenti. Nel senso che, in via eccezionale e permanente, sospendono, per speciali categorie di persone, i diritti umani e i principi generali del diritto e della Costituzione. Basta dire che neppure a giornalisti e avvocati è consentito entrarvi liberamente. 
Quello di Lampedusa, certo, non è ufficialmente un Cie: ne è “solo” una delle tante metamorfosi, dal nome ingannevole. Ancor più deprecabile perché vi sono internate persone perlopiù in attesa di asilo o comunque di protezione, sopravvissute a conflitti, persecuzioni, traumi, sofferenze e in ogni caso al rischio mortale della traversata del Mediterraneo. Persone, quindi, meritevoli del massimo rispetto. E invece no: per lo Stato italiano e per ‘Lampedusa Accoglienza’, l’ente gestore del Cpsa, è normale che esse siano trattate al pari di accattoni molesti, private del comfort e della dignità più basilari, talvolta costrette a dormire e a mangiare per terra.
Nondimeno l’ente gestore – che fa parte di ‘Sisifo’, consorzio aderente alla Lega delle Cooperative– nel solo 2012 ha incassato dallo Stato italiano la somma considerevole di 3 milioni 116mila euro e tuttora continua a incassare somme calcolabili intorno ai 21mila euro al giorno, come ha documentato, tra gli altri, Fabrizio Gatti. Un business non da poco, che rende ancor più bieca questa vicenda vergognosa, il cui senso è restituito alla perfezione dalla replica dell’ente gestore: “Abbiamo seguito il protocollo”, frase che inconsapevolmente allude a ciò che Hannah Arendt definì la banalità del male.
Al contrario di ciò che ha affermato la ministra Cécile Kyenge, noi pensiamo che purtroppo quelle immagini siano degne di rappresentare l’Italia: nel senso che sono perfettamente coerenti con l’ideologia che ha ispirato la politica italiana sull’immigrazione e l’asilo. Nessun governo ne ha voluto non diciamo smantellare, neppure intaccare l’impianto. E’ improbabile che voglia farlo quello attuale, nonostante le buone intenzioni e le promesse di Kyenge, in realtà sempre più vaghe.
Vaga e disinformata è la proposizione, avanzata da giornalisti e commentatori vari, secondo cui tutto si risolverebbe “riformando” o abrogando la Bossi-Fini. Per tornare alla Turco-Napolitano? In realtà, sarebbe necessario un mutamento radicale della normativa italiana che regola l’immigrazione, l’asilo, la cittadinanza, nel contesto di un mutamento di rotta, altrettanto radicale, delle politiche dell’Europa-Fortezza, per usare una formula abusata.   
Certo, quel video, possibile, come abbiamo detto, solo grazie alle immagini catturate da Khalid,  giovane siriano internato in quel lager, ha ottenuto qualche effetto di rilievo: l’apertura di un fascicolo da parte della Procura della Repubblica di Agrigento, le minacce della commissaria europea per gli Affari Interni, Cecilia Malmström, di sospendere ogni aiuto all’Italia, qualche dichiarazione indignata di rappresentanti delle istituzioni, il suggerimento, da parte di ‘Sisifo’, “di rimuovere e rinnovare il management attuale” di ‘Lampedusa Accoglienza’.
E a tal proposito: come ricordano giuristi assai competenti quale l’avvocata Simonetta Crisci, sarebbe stato obbligo dello Stato impedire che quell’evento e altri simili si verificassero. Infatti, secondo l’art. 40, comma 2, del Codice Penale, non ostacolare un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Quindi, a questo punto non sarebbe forse obbligo dello Stato sollevare il Prefetto dalle sue funzioni? Non sarebbe altrettanto doveroso trasferire i profughi, con il loro consenso, in strutture aperte che garantiscano un’accoglienza autentica e il pieno rispetto dei loro diritti?   
Anche questa vicenda indegna potrebbe essere presto dimenticata, non appena si saranno spenti i riflettori dei media. Così come ormai archiviati sono la commozione e il “mai più” di circostanza, seguiti all’ecatombe di ottobre nel Canale di Sicilia: 648 vittime in appena otto giorni e la farsa dei finti funerali di Stato per le vittime della strage del 3 ottobre. Perciò auspichiamo che il movimento antirazzista e la società civile democratica moltiplichino le iniziative a sostegno del Comune di Lampedusa, della sua ottima sindaca, Giusi Nicolini, soprattutto dei profughi segregati in quel lager. E che per il momento si riesca almeno a garantire la protezione da ritorsioni a quelli fra loro che dall’interno ne denunciano le infamie, mostrando così ben più coraggio e senso civico di tante autorità, cittadini e politici italiani.
* versione aggiornata e modificata dell’editoriale del manifesto del 19 dicembre 2013 (19 dicembre 2013)

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la ‘gestione’ delle ‘povertà’ come torta luculliana

 

 

 

È una torta luculliana quella che in Italia si spartiscono ormai da dieci anni veri e propri “colossi”

del business dell’accoglienza: dalla Legacoop alle imprese di Comunione e Liberazione, dalle

aziende vicine alla Lega alle multinazionali 

«Laragione per cui questo avviene è che in Italia molti servizi per l’immigrazione vengono affidati sulla

base di un solo principio: quello dell’offerta economica più vantaggiosa. C’è un business

dell’immigrazione inaccettabile, parliamo di commesse da milioni di euro su cui molti si stanno

arricchendo, dove i diritti delle persone scompaiono», denuncia Christopher Hein, direttore del

Consiglio italiano per i rifugiati.

un bell’articolo di A. Ziniti fa il quadre della situazione; a seguire una serie di riflessioni critiche di Agostino Rota Martir che ritengo estremamente utili per ricollocarci sempre di nuovo in quel ‘margine’ accanto a chi è messo o vive al margine, unico modo per capire il ‘punto di vista’ di chi vive l’esclusione

Più ne arrivano, più guadagnano

quel business da 2 milioni al giorno

consumato sulla pelle dei migranti

di Alessandra Ziniti

in “la Repubblica” del 19 dicembre 2013

 

Più ne stipano in una camerata meglio è, più a lungo restano meglio è, e se sono minorenni ancora

meglio, lo Stato paga di più. Ad ogni barcone che arriva, i “professionisti dell’accoglienza” mettono

mano alla calcolatrice e le cifre hanno sempre molti zeri. Più di 1.800.000 euro al giorno: tanto, nel

2013, ha speso l’Italia per garantire l’accoglienza ai 40.244 migranti sbarcati sulle nostre coste. Un

letto, i pasti, il vestiario, i farmaci necessari e un minimo di pocket money: 45 euro al giorno è la

spesa media per ogni immigrato che mette piede in uno dei 27 tra centri di accoglienza, centri di

identificazione ed espulsione e centri per richiedenti asilo. Una cifra che aumenta fino a 70 euro se

si tratta di minori (8.000 quelli arrivati quest’anno) in considerazione della particolare assistenza

che dovrebbe essere loro garantita.

È una torta luculliana quella che in Italia si spartiscono ormai da dieci anni veri e propri “colossi”

del business dell’accoglienza: dalla Legacoop alle imprese di Comunione e Liberazione, dalle

aziende vicine alla Lega alle multinazionali. Le gare bandite dal Viminale, in genere, vengono

aggiudicate con un ribasso medio del 30 per cento sulla base d’asta. Peccato che, in ogni centro, si

tengano stipati per mesi almeno il doppio o il triplo degli ospiti. A danno delle condizioni di

vivibilità di questi centri, da molti definiti lager, ma a tutto vantaggio delle tasche dei gestori. «La

ragione per cui questo avviene è che in Italia molti servizi per l’immigrazione vengono affidati sulla

base di un solo principio: quello dell’offerta economica più vantaggiosa. C’è un business

dell’immigrazione inaccettabile, parliamo di commesse da milioni di euro su cui molti si stanno

arricchendo, dove i diritti delle persone scompaiono», denuncia Christopher Hein, direttore del

Consiglio italiano per i rifugiati.

Gli aspiranti allo status di rifugiato costituiscono la fetta più ghiotta della torta. Ecco perché quella

che è diventata una vera e propria città di richiedenti asilo, il Cara di Mineo, ospitato nel “Villaggio

degli aranci” prima abitato dagli ufficiali americani di stanza a Sigonella, è diventato il motore

dell’economia di questa parte della provincia di Catania. Quattromila persone di 50 etnie diverse, il

doppio della capienza, fruttano al “Consorzio Calatino Terre di accoglienza” la cifra di 50 milioni di

euro all’anno. Dentro ci sono tutti, da Sisifo (Legacoop) che gestisce il centro di Lampedusa, alla

Senis hospes e alla Cascina Global Service (vicina a Cl), la Croce Rossa, il Consorzio Casa Solidale

(vicino all’ex Pdl). E non hanno voluto rimanere fuori dall’affare i Pizzarotti di Parma, i proprietari

del complesso edilizio requisito nel 2011 ai tempi dell’emergenza Nordafrica dietro pagamento di

un canone di 6 milioni di euro annui. Ora che l’emergenza Nordafrica è finita, sono entrati anche

loro nel Consorzio gestore. Quello che Berlusconi nel 2011 presentò come un modello di

accoglienza europea, adesso — stando alle denunce delle associazioni umanitarie — si è

trasformato in una sorta di lager dove, solo qualche giorno fa, si è suicidato un giovane siriano in

attesa del permesso di soggiorno da mesi.

Trattenere gli ospiti molto più a lungo del previsto è uno dei “trucchi” utilizzati dai gestori di molti

Cara. A Sant’Angelo di Brolo, la procura ha accertato che alcuni ospiti rimasero anche 300 giorni

dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno, portando illegittimamente 468.000 euro nelle casse del

consorzio Sisifo, lo stesso che si è aggiudicato l’appalto di Elmas Cagliari, del Cara di Foggia e del

centro di Lampedusa da dove si calcola siano passati più di 100 mila migranti. Due milioni e mezzo

di euro è la cifra dell’appalto per la capienza ufficiale di 250 posti. Per gli ospiti in più, il Viminale

paga l’extra. E questo vale per tutti: così l’Auxilium di Potenza degli imprenditori Pietro e Angelo

Chiorazzo per il centro di Bari Palese, per Ponte Galeria a Roma o per Pian del Lago a Caltanissetta

incassano molto di più dei 40 milioni di euro previsti dai bandi di gara.

Da tempo hanno fiutato l’affare anche i francesi della Gepsa, specialisti delle carceri, e la

multinazionale Cofely Italia, che non disdegnano l’associazione con l’Acuarinto di Agrigento o la

Synergasia di Roma per gestire il Cara di Castelnuovo di Porto a Roma o al Cie di Gradisca

d’Isonzo. E a reclamare la sua fetta di torta c’è anche la Misericordia del prete manager di Isola

Capo Rizzuto che da dieci anni, per 28 milioni di euro all’anno, gestisce un Cara in cui la maggior

parte degli ospiti dormono anche in dieci in vecchi container

 migranti

 

così Agostino in riferimento alla situazione venutasi a creare e in riferimento preciso all’articolo qui sopra riportato:

L’articolo in allegato mi offre l’opportunità di fare alcune considerazioni del tutto personali e per molti non del tutto condivisibili..ma leggendolo trovo ragione di alcune mie convinzioni e le condivido..e liberi di cestinare.
 
Alcuni anni fa sostenevo che la presenza dei poveri, immigrati, profughi e rom era diventata una ghiotta occasione per gli amministratori, una calamita per attirare finanziamenti attraverso dei progetti mirati, per poi spalmarli su associazioni, cooperative no profit..in nome della “missione umanitaria” denominata inclusione, integrazione. 
L’integrazione è innanzitutto una faccenda di soldi, è un affare come tanti, da afferrare al volo appena si presenta l’occasione..prima se ne parlava di più, quando i soldi ce n’erano, ora con la crisi un pò meno. 
“La torta luculliana”  di cui parla l’articolo, non riguarda solo i CIE o i Cara, ma ormai si è estesa nei differenti settori del cosi detto disagio sociale.  Ormai le politiche sociali rischiano di appiattirsi in nome della sicurezza e del controllo.  Non poche Associazioni, Cooperative, Volontariato hanno smarrito la bussola..di fatto gran parte di questi soggetti sono arruolati nelle politiche della sicurezza, più preoccupati ad accaparrarsi le fette della torta da spartirsi, smettendo di fatto di svolgere un ruolo critico e profetico nei confronti anche di chi amministra. Un’Associazione che in nome dell’inclusione di Rom, immigrati, profughi..diventa prestigiosa e acquista visibilità sociale (per poi difenderla!!) tradisce il suo mandato che è quello di “stare nel margine” con chi è messo o vive al margine. Essere marginali rispetto al potere centralizzato, penso sia questa la scommessa, perchè solo così saremo in grado di capire il “punto di vista” di chi vive l’esclusione, e che è diverso rispetto alla maggioranza..ma ne siamo ancora capaci? Pensare di parlare a nome di chi è escluso, ma stando dentro lo spazio conquistato con chi gestisce e amministra la sicurezza e il potere è un’illusione..si finisce con il ragionare come chi ti finanzia, cioè si diventa funzionari del controllo e della sicurezza. Come è successo recentemente a Lampedusa, anche se quella vergogna non è solo di chi gestiva il Centro di “Accoglienza”, appartiene a tutti, perchè tutti abbiamo contribuito lungo questi anni a costruirla ed alimentarla, anche con il silenzio complice per tante vergogne vissute dalle innumerevoli vittime sacrificate sull’altare della sicurezza in questi ultimi 5 anni almeno. 
 
Facile ora per i palazzi sdegnarsi per i fatti di Lampedusa, addirittura c’è chi si scandalizza tra i politici.
Lampedusa è un angolo del piano della guerra ai poveri, che da qualche anno abbiamo interiorizzato, avvallato anche con il nostro silenzio e gran parte della Chiesa.
Quella guerra ai poveri che tante amministrazioni (di destra, di sinistra, di centro..) hanno tradotto con ordinanze contro i “vu cumprà”, i clandestini e le centinaia di sgomberi di accampamenti rom, sempre in nome dell’inclusione e per il loro bene!! Pochi hanno alzato la voce, anche lì questi poveri Cristi venivano umiliati, offesi, denudati della loro dignità. Dov’erano le Associazioni, le cooperative?  Perchè non si sono fatte sentire? Semplicemente si sono lasciate appaltare dai quei Centri, spesso e dispiace dirlo, incapaci di mantenersi in sintonia con le “periferie”, le gestiscono come il Centro vuole: si sono vendute per un piatto di lenticchie.
 
Per questo che i fatti di Lampedusa non mi “scandalizzano” più di tanto, ho smesso di farlo..sono gli effetti collaterali della guerra dichiarata ai poveri e che la nostra società mai ha smesso di portare avanti, fa delle tregue, per poi riprenderla quando ritiene necessario, esempio alle scadenze elettorali.
Quello che mi scandalizza di più è il silenzio o l’indifferenza della mia società..che ha bisogno di una ripresa clandestina all’interno di un CIE e il grido disperato di una delle nostre vittime, per risvegliare in noi almeno qualche briciola di umanità sopravvissuta al degrado sociale..
 
Chi lavora dentro quelle realtà, (associazioni, cooperative sociali, volontari) rischia di diventare una pedina, complice di abusi e di disumanità, così come lo sono gli scafisti e i trafficanti di esseri umani.
Ma quante altre grida rimangono inascoltate..solo perchè intenti a ricamarci la bella torta luculliana.
 
Nelson Mandela diceva: “Un vincitore è solo un sognatore che non si è arreso”. Dai profughi, dai Rom dei campi dovremmo appunto imparare a resistere e a non arrenderci.. sono loro i nostri maestri, abbiamo bisogno di migliaia di Khalid che ci insegnino l’arte di non arrenderci.
Aiutateci voi a disinfestarci dalla nostra indifferenza e arroganza, solo così ricupereremo insieme la nostra comune umanità.
Auguri di Buon Natale a tutti.
 
Ciao Ago
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p. Maggi commenta il vangelo

p. Maggi

 

 

GESU’ NASCERA’ DA MARIA, SPOSA DI GIUSEPPE, DELLA STIRPE DI DAVIDE

 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

IV DOMENICA AVVENTO

22 dicembre 2013

Mt 1,18-24

 

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di

Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello

Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva

accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.

Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un

angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di

prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene

dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti

salverà il suo popolo dai suoi peccati».

Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore

per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui

sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”.

Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del

Signore e prese con sé la sua sposa.

Matteo descrive la nascita di Gesù ispirandosi al primo libro della Bibbia, la Genesi, perché

vuole indicare che, in Gesù, c’è una nuova creazione. Il libro della Genesi inizia con queste

parole

 

“In principio Dio creò il cielo e la terra”, e poi scrive l’autore, “lo spirito di Dio aleggiava

sulle acque”.

Ugualmente ora lo spirito creatore ora interviene per la nuova creazione.

Gesù è il vero uomo creato da Dio, l’uomo che ha vita divina, capace di superare la morte.

Vediamo cosa dice Matteo.

 

“Così fu generato Gesù Cristo”. Dopo che per 39 volte il verbo

generare è stato attribuito a un uomo che genera un altro uomo, arrivato a “Giacobbe generò

Giuseppe”, lì la catena della generazione si interrompe.

L’evangelista non scrive “Giuseppe generò Gesù”, ma da Maria viene generato. Quindi tutta

quella tradizione – il padre non trasmetteva soltanto la vita, ma la tradizione e la spiritualità – nel

1

popolo di Israele si interrompe con Giuseppe.

 

“Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria,

essendo …”,

qui traducono con “promessa sposa”, è difficile nella nostra lingua usare un

termine che non c’è per indicare il rito del matrimonio e delle nozze in Israele.

Il matrimonio avviene in due tappe. La prima, quando la ragazza ha dodici anni e il ragazzo

diciotto, avviene lo sposalizio. Da quel momento sono marito e moglie, poi, un anno dopo,

avvengono le nozze e la ragazza entra nella casa dello sposo. Nell’intervallo di questo anno

non è lecito avere rapporti matrimoniali e, in caso di adulterio, è prevista la lapidazione.

Quindi Maria è già sposata. E’ la prima fase del matrimonio.

 

“Prima che andassero a vivere

insieme”,

quindi prima che passassero alle nozze, “si trovò incinta per opera dello Spirito

Santo”.

Il vangelo non è un libro di ginecologia e neanche di biologia, ma è teologia.

L’evangelista vuole dire che in Gesù c’è la nuova creazione. Come lo Spirito aleggiava sulle

acque, così lo Spirito creatore aleggia su Maria e Gesù nasce come esempio e modello della

creazione voluta da Dio.

Quindi per questo Spirito Santo si intende la forza creatrice di Dio.

 

“Giuseppe, suo sposo,

poiché era uomo giusto”,

uomo giusto non ha la nostra connotazione di persona moralmente

integra, giusto è la persona fedele, osservante della legge e di tutte le prescrizioni di Mosè.

Ebbene, il fatto di essere giusto costringeva Giuseppe a denunciare la moglie come adultera, e

farla lapidare.

 

E non voleva accusarla pubblicamente”, quindi Giuseppe entra in crisi tra l’osservanza della

legge e un sentimento, se non d’amore, di misericordia.

 

“Pensò di ripudiarla in segreto”. Il

ripudio era molto semplice a quell’epoca, si poteva ripudiare la moglie anche per una pietanza

bruciata, bastava scrivere su un foglio di carta “tu non sei più mia moglie”, e la donna veniva

cacciata via. Quindi Giuseppe non vuole denunciarla, non vuole far uccidere la propria sposa,

però neanche la può tenere.

Allora pensa di ripudiarla in segreto. Ma basta che il fronte della legge venga leggermente

incrinato dall’amore che lo Spirito entra e interviene. Infatti,

 

“mentre stava considerando queste

cose, ecco, in sogno …”.

Perché in sogno? Nel mondo ebraico – e Matteo scrive per una

comunità di giudei – si evita il contatto diretto tra Dio e gli uomini, allora Dio interviene in sogno.

Nel Libro dei Numeri si legge

 

“Se ci sarà un vostro profeta, io Jahvè in visione a lui mi rivelerò,

in sogno parlerò con lui”.

Quindi il sogno è la maniera che Dio ha per comunicare con gli uomini.

“Gli apparve in sogno un angelo del Signore”.

Angelo del Signore non si intende un angelo

inviato dal Signore, ma quando Dio interviene con gli uomini, viene raffigurato attraverso questo

angelo del Signore, che è Dio stesso.

C’era una distanza tra Dio e gli uomini, c’era una lontananza, e nel mondo ebraico non si

permetteva che Dio si avvicinasse agli uomini. Quando lo faceva si usava questa formula

“angelo de Signore”, ma è Dio stesso. L’angelo del Signore interviene tre volte in questo

vangelo sempre in funzione della vita, perché Dio è il Dio amante della vita. Interviene qui per

annunziare la vita di Gesù a Giuseppe; poi interverrà per difenderla dalle trame assassine del re

2

Erode e infine al momento della risurrezione, per confermare che la vita, quando proviene da

Dio, è capace di superare la morte. E questa è la prima volta.

“E gli disse:

 

«Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa»”,

ecco

che infatti sono sposati.

 

«Il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo»”, quindi c’è

questa nuova creazione che si manifesta in Gesù.

 

«Ella darà alla luce …»letteralmente

‘partorirà’

 

«… un figlio e tu lo chiamerai …»”, e qui c’è una novità.

Al bambino si metteva il nome del papà oppure del nonno, in maniera che il nome si

perpetuasse in eterno, una maniera per rimanere vivi per sempre. Quindi la tradizione voleva

che il bambino portasse il nome del padre o del nonno. Ebbene, con Gesù si interrompe la

tradizione, con Gesù inizia un’epoca nuova.

 

«Lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo

popolo dai suoi peccati

 

»”.

Non vediamo nessun nesso tra il fatto che si chiami Gesù e il fatto che salvi il suo popolo dai

suoi peccati. In italiano, per rendere l’idea di quello che l’evangelista ci vuole trasmettere,

dovremmo tradurre: “Si chiamerà Salvatore, perché salverà il suo popolo dai peccati”. Infatti in

ebraico Gesù si dice Jeshuà, e il verbo ‘salverà’ si dice joshuà. Quindi c’è una differenza di

vocale.

Si chiamerà Jeshuà perché joshuà, quindi potremmo rendere si chiamerà Salvatore perché

salverà il suo popolo dai suoi peccati. Ma quello a cui l’evangelista vuole arrivare, è la citazione

del cap. 7 versetto 14 del profeta Isaia,

 

“Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio”, il

profeta sta parlando al re Acaz della nascita del figlio Ezechia,

 

«A lui sarà dato il nome di

Emmanuele che significa “Dio con noi”

 

»”.

Ecco questo è il motivo portante, il filo conduttore di tutto il vangelo di Matteo. Questa formula

del “Dio con noi”, che riapparirà a circa metà del vangelo, quando Gesù dirà ai discepoli

 

“Fino a

quando dovrò stare starò con voi”,

oppure quando dirà “Quando due o più sono riuniti nel mio

nome io sono in mezzo a loro”,

e poi sarà l’ultima parola di Gesù.

Le ultime parole di Gesù “Io sono con voi per sempre”, questo è il filo conduttore del vangelo di

Matteo, il Dio con noi, un Dio allora che non è più da cercare, ma da accogliere, e con lui e

come lui andare verso gli uomini. Se Dio si è fatto uomo, l’uomo non deve andare più verso Dio,

ma accoglierlo. Inizia l’epoca in cui non si vive più per Dio, ma si vive di Dio e con Dio si va

verso l’umanità.

E termina il vangelo,

 

“Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato

l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa”.

Quindi è un Vangelo di una grande novità.

Con Gesù Dio si è fatto uomo, questo significa che Dio si è fatto pienamente umano pertanto,

più gli uomini saranno umani, e più scopriranno e manifesteranno la divinità che è in loro.

 

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Boff: un mondo strutturato violentemente

boff1

 

amara riflessione di Leonardo Boff su questo nostro mondo in cui i diritti umani sono a tutti i livelli violati: invece di progredire nel rispetto della dignità umana e nei diritti delle persone, dei popoli e degli ecosistemi, stiamo regredendo al livello della barbarie. Le violazioni non conoscono frontiere e le forme di questa aggressione sono ogni volta più sofisticate

è una dolorosa costatazione fatta anche dal documento annuale di Amnesty International, del 2013, che si riferisce al 2012 e riguarda 159 paesi:

Gli aerei senza pilota, la violazione più codarda dei diritti umani

Viviamo in un mondo in cui i diritti umani sono violati, praticamente a tutti i livelli, famigliare, locale, nazionale e planetario. Il documento annuale di Amnesty International, del 2013, che si riferisce al 2012 e riguarda 159 paesi, fa esattamente questa dolorosa costatazione. Invece di progredire nel rispetto della dignità umana e nei diritti delle persone, dei popoli e degli ecosistemi, stiamo regredendo al livello della barbarie. Le violazioni non conoscono frontiere e le forme di questa aggressione sono ogni volta più sofisticate.

La forma più codarda è l’azione dei droni, aerei senza pilota che, da una base del Texas, condotti da un giovane militare, davanti ad uno schermo di un computer, come se stesse giocando, puntano ad identificare un gruppo di afghani che stanno celebrando un matrimonio in cui presumibilmente deve essere presente qualche guerrigliero di Al Quaeda. Basta questa supposizione per, con un piccolo click, lanciare una bomba che stermina tutto il gruppo con molte madri e bambini innocenti.

Questa è la forma perversa della guerra inaugurata da Bush e portata avanti criminalmente dal presidente Obama che non ha mantenuto le promesse della sua campagna elettorale in riferimento ai diritti umani, così come sul carcere di Guantanamo o sulla soppressione del Patriot Act (antipatriottico) con cui qualsiasi persona, negli Stati Uniti può essere imprigionata per terrorismo, senza bisogno di avvisare la sua famiglia. Ciò significa sequestro illegale che noi in America Latina conosciamo assai bene. In termini economici e allo stesso tempo per i diritti umani, si sta producendo una autentica latinoamericanizzazione degli Stati Uniti, nello stile dei momenti peggiori delle nostre dittature militari. Oggi, secondo lo stesso documento citato di Amnesty Intarnational, gli Stati Uniti sono il paese che viola di più i diritti della persona e dei popoli.

Con la massima indifferenza, come un imperatore romano assoluto, Obama nega di poter dare qualsiasi motivazione in merito allo spionaggio mondiale che fa capo al suo governo con la scusa della sicurezza nazionale, coprendo campi che vanno dallo scambio di e-mail affettuose tra innamorati, fino ai commerci riservati e miliardari di Petrobrás, violando il diritto alla privacy delle persone e la sovranità di tutto un paese. La sicurezza annulla la validità dei diritti irrinunciabili.

Il continente che soffre maggiori violazioni è l’Africa. E’ il continente dimenticato e devastato. Le grandi multinazionali e la Cina comprano terre (land grabbing) per produrre in esse alimenti per le loro popolazioni. Questa è una neocolonizzazione più perversa della precedente.

 Le migliaia e migliaia di rifugiati e migranti a causa della fame, della erosione delle loro terre sono più vulnerabili. Costituiscono una sottoclasse di persone respinte da quasi tutti i paesi “in una globalizzazione della insensibilità” come la chiamò Papa Francesco. La situazione di molte donne, dice il documento di Amnesty International è drammatica. Sono più della metà della popolazione mondiale, molte di loro soggette a violenze di ogni tipo, in varie parti dell’Africa, dell’Asia, per di più sottoposte obbligatoriamente alla mutilazione genitale

La situazione del nostro paese è preoccupante, dato il livello di violenza diffusa ovunque. Direi che non è violenza ma piuttosto che siamo posizionati su strutture di violenza sistematica che grava su più della metà della popolazione afroamericana, sugli indigeni che lottano per mantenere le loro terre contro la voracità irrefrenabile del mercato alimentare, sui poveri in generale e sui LGTB, discriminati e perfino assassinati. Poiché mai realizziamo una riforma agraria, né politica e né tributaria, vediamo che le nostre città si riempiono di centinaia e centinaia di comunità povere (favelas) dove il diritto alla salute, alla scuola, alle infrastrutture e alla sicurezza sono assicurati in maniera del tutto carente.

Il fondamento ultimo della realizzazione dei diritti umani risiede nella dignità di ciascuna persona e nel rispetto che le è dovuto. Dignità significa che essa è portatrice di spirito e di libertà che le permettono di modellare la sua stessa vita. Il rispetto è il riconoscimento che ogni essere umano possiede un valore intrinseco, è un fine in se stesso, e giammai un mezzo per nessun’altra cosa.

Davanti ad ogni essere umano, per anonimo che sia, tutto il potere incontra il suo limite, anche lo Stato.

Il fatto è che viviamo in un tipo di società mondiale che ha posto l’economia come suo asse strutturale. La ragione è solamente utilitarista e tutto, persino la persona umana, come denuncia Papa Francesco, è convertito in un “bene di consumo che, una volta usato, si può scartare”. In un società del genere non vi è posto per i diritti, ma solo per gli interessi. Persino il diritto sacro al cibo e al bere sono garantiti a chi unicamente può pagare. Se non può, sarà ai piedi della mensa, insieme ai cani, sperando in qualche briciola che cada dalla tavola ripiena degli epuloni.

In questo sistema economico, politico e commerciale si stabiliscono le cause principali, non esclusive, che portano permanentemente alla violazione della dignità umana. Il sistema vigente non ama le persone, ma soltanto la loro capacità di produrre e di consumare. Del resto, sono solamente avanzi, olio consumato nella produzione.

Lo scopo quindi inoltre da umanitario ed etico si fa principalmente politica: come trasformare questo tipo di società malvagia in una società in cui gli esseri umani possano comportarsi umanamente ed acquisire diritti basilari. In caso contrario, la violenza è la norma.

Traduzione di Carlo Felice

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ritorno del razzismo sulla stampa?

 

Hate speech

razzismo a mezzo stampa

 

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 ‘hate speech’: alla lettera ‘discorso d’odio’ o ‘incitamento al razzismo’ veicolato in abbondanza anche da noi da giornalisti ,politici, mass media: rom e sinti sono tra le prime vittime del cosiddetto “hate speech”: a volte, si ha persino l’impressione che una dichiarazione razzista, inaccettabile in altri contesti e per altri destinatari, sia considerata “normale”, o almeno “comprensibile”, se riferita ai cosiddetti “zingari”:

a seguire, una bella puntualizzazione di S. Bontempelli:

Nei paesi anglosassoni lo chiamano “hate speech”, che letteralmente significa “discorso d’odio”. Dalle nostre parti si parla di “incitamento al razzismo”. È l’insieme dei discorsi pubblici – di solito veicolati da giornalisti, mass-media e politici – che incoraggiano, sostengono, alimentano e producono il disprezzo nei confronti di rom, migranti e minoranze. E che qualche volta legittimano violenze e discriminazioni.
Rom e sinti sono tra le prime vittime del cosiddetto “hate speech”: a volte, si ha persino l’impressione che una dichiarazione razzista, inaccettabile in altri contesti e per altri destinatari, sia considerata “normale”, o almeno “comprensibile”, se riferita ai cosiddetti “zingari”. Non a caso molti attivisti e studiosi – ad esempio Lorenzo Guadagnucci, Moni Ovadia e Leonardo Piasere – invitano i loro lettori a sostituire la parola “ebreo” alla parola “zingaro”, per capire meglio il senso di certe dichiarazioni di politici e giornalisti.
«Pensiamo», dice ad esempio l’antropologo Leonardo Piasere, «all’effetto che farebbe sentir parlare del “Piano ebrei” o del “Centro di Raccolta degli ebrei della capitale”». Probabilmente la cosa ci farebbe – giustamente – accapponare la pelle. Eppure, a Roma si è elaborato un “piano nomadi”, e si è pensato di allestire “centri di raccolta” o “villaggi attrezzati” dove confinare i rom: e nessuno (o quasi) ha avuto nulla da ridire.
In alcune città i Sindaci lamentano «numeri eccessivi di presenze rom», e propongono una «equa ripartizione del carico tra territori diversi». Pensiamo, di nuovo, all’effetto che farebbe sentir parlare di «eccessivo numero di ebrei», e della necessità di «redistribuirli», in modo che nessuna città debba sopportare «il peso di troppi ebrei»… Roba da ventennio mussoliniano…

Sguardi americani 
In questi giorni un sito web statunitense – Global Post – ha pubblicato una piccola «rassegna dell’orrore»: una carrellata di dichiarazioni di parlamentari e leader politici di tutta Europa a proposito di rom e sinti. Il titolo è un po’ involuto, ma ha il pregio di essere esplicito: «14 cose incredibilmente razziste che i politici europei hanno detto sui rom».
Scorrere questa “galleria” è istruttivo. E ci aiuta a sfatare qualche mito. Ad esempio, le dichiarazioni razziste non sono appannaggio dei soli leader di destra, o di centro-destra. Manuel Valls, giusto per dirne uno, è il Ministro degli Interni francese, fa parte di un governo a guida socialista, ed è orgogliosamente “di sinistra”. Ma la sua dichiarazione del 25 settembre scorso non è esattamente un esempio di “spirito di tolleranza”: «La maggior parte [dei Rom] dovrebbe essere allontanata dalla Francia. Noi non siamo qui per accogliere queste persone. Vorrei ricordare quel che disse Michel Rocard [ex premier socialista, ndr.]: “Non è compito della Francia risolvere il problema della miseria di tutto il mondo”».
Global Post, peraltro, fa notare maliziosamente come Valls sia «nato a Barcellona da genitori immigrati spagnoli». Viene da chiedersi cosa avrebbe detto il citato Michel Rocard sulla mamma e sul papà dell’attuale Ministro…

Il ritorno del razzismo
La carrellata proposta dal sito statunitense ci aiuta a sfatare un altro mito: quello secondo cui molte dichiarazioni “ostili” di politici e giornalisti non sarebbero “razziste”. Pare di sentirla, l’obiezione: «Non è un problema di razzismo, è un problema di legalità» (o, a seconda dei casi, di ordine pubblico, di rispetto delle regole, di “sicurezza” e quant’altro). E magari, qualcuno potrebbe aggiungere: «se gli zingari non rubassero, nessuno ce l’avrebbe con loro…».
Non è vero. Molte dichiarazioni sono ispirate ad un razzismo più che esplicito. Gilles Bourdouleix, parlamentare ed esponente del centro-destra francese, ha affermato senza mezzi termini – il 21 luglio scorso – che «forse Hitler non ha ammazzato abbastanza zingari». Zsolt Bayer, co-fondatore del partito ungherese Fidesz (affiliato al Partito Popolare Europeo) ha affermato agli inizi del 2013 che «i rom sono persone inadatte alla coesistenza: sono animali, e si comportano come animali; suoni inarticolati escono dai loro crani bestiali [!!!!]. A questi animali non dovrebbe essere permesso di esistere».
E del resto, le recenti vicende di (presunti) “rapimenti di bambini” dovrebbero far riflettere. In Grecia e in Irlanda, alcuni piccoli rom sono stati sottratti alle loro famiglie perché “troppo biondi per essere zingari”. Come se l’appartenenza a un gruppo minoritario fosse una questione di tratti somatici. Come se esistesse una “razza” zingara, ovviamente di carnagione scura…
«La vicenda greca», ha scritto di recente Elena Tebano sul Corriere della Sera online, «testimonia della nostra incapacità di pensare fuori dai pregiudizi “razziali”, sintomo forse di un sostrato razzista di cui neppure noi siamo consapevoli».

Antiziganismo in Italia
È quasi superfluo dirlo, ma l’Italia è tutt’altro che immune da questa vera e propria “ondata” di odio razziale (o cripto-razziale). Lo ha appurato una recente ricerca, curata dall’Associazione 21 Luglio e dedicata proprio all’«antiziganismo», cioè alla forma specifica di razzismo che colpisce rom e sinti.
Dal 1 settembre 2012 al 15 maggio 2013 il monitoraggio, effettuato su circa 140 fonti, ha rilevato 370 casi di incitamento all’odio e discriminazione. Vuol dire 1,43 episodi al giorno. «Stereotipi e pregiudizi», aggiunge la 21 Luglio, «sono alimentati anche da una media giornaliera di 1,86 casi di informazione scorretta ad opera di giornalisti di testate locali e nazionali».
Anche qui, non siamo di fronte ad un fenomeno che coinvolge solo le frange più estreme della destra politica. Dal rapporto emerge che il 59% delle segnalazioni si riferisce ad iscritti ad un partito di destra e di centro destra, ma una fetta consistente (quasi il 40%) è da attribuire ad altre aree politiche. In 90 casi, l’autore di una dichiarazione discriminatoria e incitante all’odio è stato un esponente della Lega Nord; seguono il Popolo della Libertà (74), La Destra (30) e Forza Nuova (11). In 9 casi l’autore è stato invece un esponente del Partito Democratico.
Tra i casi di informazione scorretta, la 21 Luglio cita articoli di testate giornalistiche prestigiose e “affidabili”: dalCorriere della Sera a La Repubblica, dal Messaggero ai tanti giornali di informazione locale.
L’antiziganismo, il razzismo e i fenomeni di “hate speech” sono, insomma, il pane quotidiano della comunicazione politica. In Italia come in Europa. Non c’è da stare allegri.

Sergio Bontempelli

 

 

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gli ‘zingari’ e i nostri stereotipi

 

«Così educata, non sembra proprio zingara»

riproduco qui una bella pagina che nei giorni scorsi Sergio Bontempelli ha pubblicato nel suo sito: il racconto, più o meno, di un’ordinaria giornata nella quale percepiamo e respiriamo in abbondanza le precomprensioni e i pregiudizi o stereotipi attraverso i quali ci rapportiamo agli ‘zingari’ che presumiamo di racchiudere tutti entro precisi atti, comportamenti, atteggiamenti, stili di vita e in base a questi identificarli con certezza, valutarli e condannarli:”I rom, quelli veri e in carne ed ossa, non sono come li immaginiamo. Come dice un mio amico sinto, «se vuoi davvero sapere chi siamo, devi conoscerci uno a uno, perché i sinti non sono tutti uguali». E’ una verità semplice, questa. Ma chissà perché, quando si parla di rom, anche le cose banali diventano complicate da vedere e da capire”

Donna rom che chiede l'elemosina

 

Per un attivista che “si occupa di rom” – come si usa dire – il posto più difficile da frequentare è il bar. Perché se tieni una conferenza, o se entri in una scuola a discutere coi ragazzi, hai tempo e modo di articolare un discorso. Provi a decostruire pregiudizi e stereotipi, e i tuoi uditori ti ascoltano in silenzio. Lo vedi che sono scettici, che non credono a quel che dici: ma almeno ti guardano con il rispetto che si deve all’«esperto».
Al bar no. Al bar, davanti a un cappuccino caldo, tutti sono “esperti”, soprattutto dell’argomento “zingari”. «Te lo dico io, non si integrano, vivono di furti e di illegalità». Le tue statistiche e i tuoi studi non contano nulla. «Puoi raccontarmi quel che ti pare, ma io li conosco, l’altro giorno mi sono entrati in casa e hanno rubato l’argenteria di famiglia…». Stop. Fine del ragionamento.

Come si distingue un rom?
Ecco, fuori dal bar il discorso sull’argenteria sarebbe interessante da approfondire. Ti hanno rubato in casa, e tu hai visto il ladruncolo mentre scappava. Era uno “zingaro”, dici: ma come fai a saperlo? Con quale criterio distingui un rom? Lo riconosci dal colore della pelle, dai tratti somatici, dall’aspetto? Impossibile, perché tra i rom ci sono i biondi, i mori e i castani, c’è chi ha la pelle chiara e chi è più scuretto, chi è alto e chi è basso…
Forse hai riconosciuto il “tipico abbigliamento zingaro”. Magari non era un ladro ma una ladra, e aveva la gonna lunga e colorata… Ora, ammesso (e non concesso) che la gonna lunga sia “tipicamente rom”, non ti viene il sospetto che la ragazza in fuga abbia usato un travestimento per sviare i sospetti? E d’altra parte, se la ladra era davvero rom perché è andata a rubare vestita in modo così riconoscibile?
Forse un buon criterio per identificare un rom potrebbe essere la lingua, ma quanti sono in grado di riconoscere una persona che parla romanes?
Al bar, però, obiezioni del genere non contano. Suonano come i sofismi di uno che ha studiato troppo. «Il ladruncolo era uno zingaro, l’ho visto coi miei occhi, cosa vuoi di più?». Stop. Fine del ragionamento.
Al bar non contano i ragionamenti, contano le storie. E allora proviamo a raccontarla, una storia. E’ una storia vera che mi è accaduta in questi giorni. E che mostra come i pregiudizi condizionino non solo le nostre idee, ma anche le percezioni, quel che “vediamo coi nostri occhi”, quel che ci sembra oggettivo e irrefutabile.

Un viaggio da manager
E’ Martedì, e come sempre vado al lavoro di buon mattino. Oggi però è un giorno speciale, devo uscire dall’ufficio un po’ prima perché parto: mi hanno invitato a tenere un ciclo di seminari proprio sull’argomento rom, a Udine. Per arrivare dalla mia Toscana al lontano Friuli devo fare un percorso lungo e accidentato, con tre cambi di treno: dopo il regionale da Montecatini Terme a Firenze, devo prendere l’Alta Velocità per Venezia-Mestre, quindi di nuovo un regionale che mi porta a Udine.
Armato di pazienza, comincio il mio viaggio sul regionale. Salgo, prendo posto, mi siedo e accendo il computer: devo finire le slide che mi servono per far lezione, e comincio a lavorare. Sono ben vestito (meglio del solito, almeno…), consulto libri e documenti, armeggio col mouse, prendo qualche appunto sull’Ipad e di tanto in tanto rispondo al cellulare: devo avere l’aria di uno quegli odiosissimi manager che lavorano ovunque, sul treno come in ufficio, alla fermata dell’autobus come sulla panchina al parco… Intorno a me noto occhi curiosi che mi scrutano, con un senso di rispetto misto a invidia.

La “zingara” del treno regionale…
Mentre lavoro vedo passare Maria, una ragazza rom romena che conosco di vista: di solito chiede l’elemosina sul treno, e io le do sempre qualcosa. Si avvicina e mi tende la mano per chiedere qualche spicciolo: poi mi riconosce, trasale e sorride. Col mio rumeno un po’ maccheronico le chiedo come sta. Mi dice che nelle ultime settimane la vita è più dura del solito, la questua non “rende” bene e lei non ha i soldi per mangiare.
Può darsi che sia vero, può darsi che sia un modo per strappare qualche spicciolo in più: per me non ha importanza, e le allungo una moneta da due euro. Lei sorride di nuovo, mi ringrazia e si siede un attimo. Continuiamo a parlare del più e del meno, le chiedo se ha programmi per Natale e lei mi dice che, finalmente, passerà le vacanze a casa, in Romania. «Fa freddo laggiù», spiega, «adesso c’è la neve». Poi si alza, saluta e se ne va.
La scenetta non è passata inosservata. I viaggiatori mi guardano attoniti. Prima sembravo un manager indaffarato, ma i manager di solito non parlano con gli zingari. Già, perché Maria sembra proprio una “zingara”: ha l’aspetto trasandato, chiede l’elemosina e porta una gonna lunga e colorata…

… e la strana ragazza sull’Eurostar
Arrivato a Firenze, corro al binario e salgo sul treno Alta Velocità, quello per Venezia. L’ambiente è decisamente diverso: qui non ci sono i pendolari, ma – appunto – i manager indaffarati. Rispondono al telefono e li senti parlare di bilanci, di contratti, di accordi commerciali da perfezionare, di meeting da organizzare. La voce dell’altoparlante invita a gustare le prelibatezze del bar al centro del treno: fuori dal finestrino, le gallerie si alternano ai paesaggi delle montagne toscane. Cullato dal treno, mi addormento.
Dopo poco più di mezzora siamo a Bologna. Sale una ragazza giovanissima e si siede accanto a me. E’ vestita elegante ed è truccata con molta cura. Saluta il fidanzato dal finestrino e gli manda un bacio romantico, uno di quelli “soffiati” sul palmo della mano… Poi, quando il treno riparte, si mette a sfogliare una rivista.
Nel bel mezzo del viaggio le squilla il cellulare. Si mette a conversare al telefono e sento che non è italiana: parla una lingua che non riesco a identificare. Frequentando gli immigrati, mi sono abituato a sentirne tante, di lingue: ovviamente non le capisco, ma sono in grado di distinguere un albanese da uno slavo, un rumeno da un ucraino, un russo da un georgiano. Ma la ragazza proprio no, non capisco da dove viene. La ascolto con attenzione e mi pare di sentire qualche parola in romanes. Però no, non può essere rom: non ne ha l’aspetto, non parla con la tipica gestualità “alla zingara”, non è vestita da rom… E poi, si è mai vista una rom sul treno ad Alta Velocità?

La romnì «invisibile»
Mentre cerco di identificare la provenienza della ragazza, mi squilla il telefono. E’ un amico senegalese che ha problemi con il permesso di soggiorno. Gli fornisco qualche consiglio, poi gli dico di passare al mio ufficio: l’argomento è delicato, ed è bene capire la situazione controllando di persona documenti e carte.
Quando riaggancio mi accorgo che la ragazza mi sta guardando. «Ma tu sei un avvocato?», mi chiede. Le rispondo che no, non sono avvocato, lavoro per i Comuni e mi occupo di permessi di soggiorno. Mi spiega che suo padre ha problemi con i documenti, e mi chiede consigli. Scopro così che la ragazza è macedone. Ma qualcosa non torna.
Conosco bene la lingua macedone. Voglio dire, non la parlo e non la capisco, ma la riconosco quando la sento. E la ragazza no, proprio non parlava macedone. Nei Balcani ci sono consistenti minoranze albanesi, ma lei non parlava neanche albanese. Non riesco a vincere la curiosità, e mi faccio avanti: «ma che lingua era quella al telefono?». La ragazza trasale, ha un momento di imbarazzo e farfuglia: «no, non era macedone… la mia lingua è…». Si ferma un attimo. Si vede che non sa proprio come dirmelo. «Ecco, in casa parliamo una specie di… di lingua sinta…».
«Una specie di lingua sinta» significa che la ragazza parla romanes. E’ una romnì macedone («romnì», per chi non lo sapesse, è il femminile di «rom»). Provo a sciogliere il suo imbarazzo, le dico che ho molti amici rom che vengono proprio dalla Macedonia. Ci mettiamo a parlare, e scopro che la ragazza abita a Bologna, ma il fidanzato è un sinto di Pisa, la mia città. Facciamo amicizia e alla fine ci scambiamo i numeri di telefono. «Se mi sposo a Pisa ti chiamo e vieni alla mia festa di matrimonio».

La morale della favola
La “morale” di questa piccola storiella ci riporta alle conversazioni da bar di cui si parlava prima. Crediamo tutti di sapere chi sono gli “zingari”, e come sono fatti. Chiunque è (crede di essere) in grado di riconoscere un rom, o una romnì. E su questa percezione intuitiva costruiamo i nostri discorsi: «tutti i nomadi chiedono l’elemosina, nessuno lavora» (come se l’elemosina fosse una cosa orribile, e non un lavoro come gli altri: ma questo è un altro discorso, e ci porterebbe lontano…). «Io li ho visti, rubavano i portafogli ai passanti». «Ero sull’autobus e c’era una nomade che non aveva pagato il biglietto: non ce n’è una che rispetti le regole…». E gli esempi potrebbero continuare.
Non pensiamo mai che quel che vediamo è anch’esso frutto di pregiudizi. Non ci viene in mente che il nostro educato vicino di casa, che incontriamo sull’ascensore al mattino, potrebbe essere rom. Sul treno, non ho pensato che la mia “compagna di viaggio”, elegante e ben vestita, era una romnì macedone.
I rom, quelli veri e in carne ed ossa, non sono come li immaginiamo. Come dice un mio amico sinto, «se vuoi davvero sapere chi siamo, devi conoscerci uno a uno, perché i sinti non sono tutti uguali». E’ una verità semplice, questa. Ma chissà perché, quando si parla di rom, anche le cose banali diventano complicate da vedere e da capire.

Sergio Bontempelli

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consiglio comunale straordinario sulle casette per i sinti a Lucca

Dopo la Befana i nomadi arrivano in consiglio comunale

così titola il sito on line ‘lo Schermo’: “i nomadi (gente che è a Lucca da circa quarant’anni!) arrivano in consiglio comunale” alludendo alla polemica che nei giorni scorsi si è sviluppata a Lucca tra la gente e sui media, specie social media, in riferimento alla notizia di una ristrutturazione del ‘campo nomadi’(come in genere viene chiamato), o più propriamente (come il Comune lo ha sempre voluto) ‘campo sosta’ di via delle Tagliate: un’area di grande disagio dove tutto è fatiscente e richiede senz’altro una serie di migliorie (comprese le ‘casette in legno’ di cui si è parlato nei giorni scorsi, anche se certamente i sinti che abitano quest’area  correranno il grosso rischio (ancorché oggi si dicano contenti: sentir parlare di casette nuove non può che far contenti i beneficiati che da anni abitano roulotte alla meglio e comunque del tutto insufficienti a far fronte alle esigenze di famiglie a volte numerose) di vedere trasformata l’area da loro gestita in un’area come grande contenitore di disagio sociale perché raccoglitore di casi di sofferenza sociale o di tutta la realtà della migrazione accolti a Lucca (così come esplicitamente viene delineato da membri dell’amministrazione):

 

LUCCA, 19 dicembre 

Forza Italia parte al contrattacco sulle questioni legate al campo nomadi di via delle Tagliate. Il tema sarà discusso nel consiglio comunale di Lucca in programma per il 7 gennaio. E’ quanto è stato deciso oggi nel corso della conferenza dei presidenti dei gruppi consiliari. Dopo le prime indicazioni del consigliere Luca Leone (Impegno Comune) – interessato soprattutto a capire se l’amministrazione ha un progetto di lungo periodo sul campo di via delle Tagliate e se quello resterà il luogo permanente di abitazione – ecco che Marco Martinelli e Mauro Macera (Forza Italia) portano un ordine del giorno nel quale, oltre a invitare il Comune “a concentrare gli aiuti verso le giovani coppie, gli anziani e le famiglie lucchesi in difficoltà”, ricordano i 25mila euro richiesti in conferenza dei sindaci e dicono che “nonostante sia stato speso denaro pubblico (oltre 70mila euro) per lavori di sistemazione al campo nomadi, ancora regna incertezza sulla destinazione della struttura, nata come campo di transito e trasformatasi nella realtà in luogo di sosta permanente”.
Ecco, nel dettaglio, l’odg presentato da Forza Italia che sarà discusso il prossimo 7 gennaio.

Premesso che i riferimenti normativi attinenti al progetto di intervento relativo all’insediamento Rom di Lucca sono richiamati nella delibera di Giunta regionale 128/2013 istitutiva del “tavolo regionale per l’inclusione delle popolazioni Rom e Sinte”. Considerato che nell’ambito della applicazione di recenti indicazioni nazionali ed europee richiamate in tale delibera la Regione Toscana ha chiesto al competente organismo dell’UE una revisione del POR CREO nel contesto dell’asse V “Valorizzazione delle risorse endogene per lo sviluppo territoriale sostenibile”, “interventi di recupero e riqualificazione dell’ambiente urbano e delle aree da destinare a spazi e servizi a fruizione collettiva, al terziario avanzato, nonché alla realizzazione di infrastrutture e servizi alla persona”. Considerato che a seguito della prevista prossima approvazione della revisione del POR CREO e nell’ambito di tale revisione rientra la realizzazione di un intervento di qualificazione delle condizioni abitative dell’insediamento Rom di Lucca. Visto che nonostante sia stato speso denaro pubblico (oltre 70.000 euro) per lavori di sistemazione al campo nomadi, ancora regna incertezza sulla destinazione della struttura di Via delle Tagliate, nata come campo di transito e trasformatasi nella realtà in luogo di sosta permanente.                                                                                                Visto che in sede di conferenza dei sindaci il Comune di Lucca ha voluto fortemente destinare al campo rom altri 25.000 euro. Considerato che ogni giorno molte attività, sia nel centro storico, sia in periferia, sono costrette ad abbassare le saracinesche colpite da una crisi senza precedenti. Considerato che soprattutto in questo periodo di crisi economica è opportuno concentrare le risorse prima di tutto per aiutare le giovani coppie, gli anziani e le famiglie lucchesi in difficoltà.
Tutto ciò premesso e considerato, invita il Sindaco e la Giunta: – a chiarire al Consiglio Comunale se sia allo studio un progetto che mira alla creazione di strutture abitative per i nomadi e per gli immigrati; – a rendere noti nel dettaglio i lavori eseguiti al campo nomadi di Via delle Tagliate con una spesa di oltre 70.000 euro sostenuta dalla comunità lucchese; – a chiarire al Consiglio Comunale, se esiste la possibilità che il Comune, attraverso i  servizi sociali, si faccia carico delle eventuali morosità che si potrebbero verificare nel pagamento delle bollette dell’acqua, visto che sono stai attivati un numero di contatori pari a quante sono le piazzole di sosta presenti nel campo nomadi.
Impegna il Sindaco e la Giunta: – vista la crisi economica e la scarsità di risorse pubbliche a disposizione dell’Ente Comunale a concentrare gli aiuti verso le giovani coppie, gli anziani e le famiglie lucchesi in difficoltà.
Marco Martinelli e Mauro Macera (Forza Italia)
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lettera di un gay a papa Francesco

due omo

Caro Francesco: dissolvi il buio che eclissa il Natale ai gay cattolici

di Aurelio Mancuso

A. Mancuso, in occasione del Natale, scrive a papa Francesco per rappresentargli il travaglio interiore di un gay credente e il suo isolamento rispetto anche alla comunità cristiana e questo pone un problema intimo alla chiesa cattolica, che è stata allo

stesso tempo rifugio e persecutrice di schiere innumerevoli di omosessuali. E questo ha prodotto

drammi storici, e le incrostazioni di pratiche volte a mantenere e accrescere poteri, ricattando e

rovinando la vita dei propri simili sottoposti:

 

Caro Francesco,

la fede non la decidono le gerarchie cattoliche, né tantomeno le

associazioni lgbt, dove resistono

ampie sacche di discriminazione nei confronti dei gay e lesbiche credenti, in particolare se cattolici.

La confusione tra adesione a schemi, dottrine, canoni della chiesa cattolica e sentimento personale

di appartenenza all’ecclesia è sempre viva, purtroppo alimentata dai giudizi sommari sia da parte di

vescovi e sia da diversi leader del movimento lgbt.

Per questo, molte lesbiche e gay cattolici affrontano un percorso di fede che non si accontenta di far

parte di gruppi di ascolto e aiuto (molto importanti e che sono ancora oggi una frontiera profetica),

ma studiano, si confrontano in approfondimenti esegetici e teologici. Sono insomma cristiani

informati sulla complessità del dibattito in corso sulla morale sessuale e non solo, e non si

accontentano dei dotti pronunciamenti delle teologie progressiste e di base, affrontano con sapienza

tutto il ventaglio di opinioni in campo. Si tratta di una gloriosa minoranza, che solitaria testimonia

una volontà di non abbandonare una chiesa che ancora oggi la sospinge alla marginalità, in alcuni

casi alla discriminazione. Da cattolico che si è formato nell’accidentata storia delle comunità

cristiane di base e da omosessuale visibile, militante e praticante, ho incontrato tanti preti

straordinari, troppi vescovi ipocriti, tanto popolo di Dio che non cade nell’inganno della pietosa

comprensione.

Come vescovo di Roma, papa dei cattolici,

 

già arcivescovo nelle contrade più povere, sai benissimo

che esiste una “

questione omosessuale” anche dentro la chiesa; tantissime consacrati, molte

religiose, e un numero importante nel popolo di Dio, sono omosessuali, preoccupati di non essere

scoperti, pena possibili ricatti, emarginazioni, espulsioni.

Nel Natale ormai prossimo, milioni di cattolici omosessuali saranno lontani dalla luce della Nascita,

pur affollando altari e navate. Il loro angoscioso silenzio, l’accostarsi all’Eucarestia rompendo il

divieto, interroga prima di tutto me stesso, che pur non concordando con le disposizioni in materia

(su cui la gran parte dei teologici critica modalità ed effetti) le rispetta, rimanendo in fondo alle

belle chiese, non confessandomi e non comunicandomi. Il più delle volte la messa la guardo a casa,

o quando ho possibilità in luoghi a me cari e spiritualmente vicini. La fede cattolica è però l’esatto

contrario della solitudine, dell’auto esclusione dalla vita comunitaria, della repulsione delle

reciproche differenze. Purtroppo l’alternativa pratica è l’ipocrisia della rimozione che trasforma il

‘messaggio’ in ideologia, in conformismo che desertifica l’amore per Dio e oscura in noi tutte e tutti

la sua Luce.

Caro papa Francesco non ho nulla da chiederti,

sei già troppo impegnato in un’opera di

rinnovamento

 

che seguo con grande interesse e diffidenza. Recentemente hai promosso un inedito

questionario nelle chiese locali sui temi riguardanti la morale sessuale e le nuove forme familiari.

Non di meno quel tuo “chi sono io per giudicare” rispetto ai gay, è stato un segno di un rispetto e

attenzione mai ascoltati. Poi rimane la quotidianità.

Tra le tante ragnatele che impediscono i Sacri Palazzi di godere del sole nella sua pienezza, c’è

l’incapacità di discernere rispetto a immaginifiche lobby interne ed esterne gay, pronte a inzozzare

le linde e lucide stanze. La realtà è assai più semplice: dopo millenni di nascondimento le persone

omosessuali abitano il giorno e questo pone un

problema intimo alla chiesa cattolica, che è stata allo

stesso tempo rifugio e persecutrice di schiere innumerevoli di omosessuali. E questo ha prodotto

drammi storici, e le incrostazioni di pratiche volte a mantenere e accrescere poteri, ricattando e

rovinando la vita dei propri simili sottoposti.

In attesa che davvero qualcosa cambi, ti auguro di conoscere meglio chi da omosessuale si è

trasformato percorrendo strade pericolose, in gay, vive felicemente in unione, ha addirittura

generato figli, non propone rivoluzioni, esprime la sua soggettività tra gioie e dubbi, e va avanti

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