un papa che ci converte

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anche ‘il Foglio’, dopo articoli tendenti a suscitare preoccupazione per certe espressioni di papa Francesco e per le sue aperture verso chi è lontano o diverso o marginale o impoverito o non credente fino a balenare pericoli di soggettivismo, relativismo, tradimento della tradizione … anche ‘il Foglio’ talvolta è costretto ad ospitare articoli positivi nei confronti del nuovo pontefice. Questo di Costanza Miriano ne è un bel esempio:

 Costanza Miriano

   da Il Foglio

Una si trova con anni di trincea sulle spalle, veterana, piena di stellette in onore al merito di avere difeso Benedetto XVI a spada tratta in riunioni di redazione, cene di amici, raduni di parenti e assemblee condominiali, a volte anche con i passanti; si è letta di notte i suoi libri meravigliosi ma densissimi, lottando eroicamente contro il sonno e contro Nora Ephron che ammiccava dallo scaffale; ha elogiato la coscienza, si è introdotta allo spirito della liturgia, ha sfoderato sant’Agostino per tenere testa al collega colto; ha vegliato e pregato in piazza san Pietro per far sentire tutto l’affetto possibile al vicario di Cristo martire mediatico, e poi, così, a un certo punto, di botto, stanca e piena di cicatrici ma con ancora la scimitarra tra i denti, in un giorno solo, si ritrova senza preavviso pericolosamente circondata da amici.

Ma come? Dove sono finiti quelli che dovevo convincere? Dove sono finiti quelli che insultavano il mite Papa dandogli del nazista, e la Chiesa retrograda e ricca (dir male della Chiesa si porta sempre)? Rivoglio il mio mondo rassicurante, diviso in due, i vicini e i lontani. Certo, si sapeva sempre ben distinguere tra errore ed errante, tra carità e verità, tra amore per il fratello e chiarezza di giudizio, ma insomma uno schema era fatto. Io sto dalla parte della ragione, tu del torto, ma ti voglio bene lo stesso.

Adesso che è questo coro di consensi al Papa? Tutti in visibilio per croci di ferro e scarponi e metropolitane e case semplici. Che nervi la folla osannante. È molto meglio sentirsi tra i pochi che hanno capito. Anzi, meglio ancora sentirsi sulla soglia, sempre a un pelo dall’entrare tra i pochi, i felici (perché anche io come Groucho non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci una come me).

Insomma, che piccolo fastidio all’inizio il coro forse un po’ superficiale di consensi. E insieme che dispiacere scoprire di non provare lo stesso slancio per certi atteggiamenti e parole del Papa, che pure riconoscevo evangelici.

In questa mancata adesione mi sono trovata in compagnia di tanti cattolici, che pure stimo, e di cui condivido le idee. Il loro dissenso ha cominciato ad essere ampio, e anche sostanziale. Di fronte ai dubbi rispettosi e riservati mi si è stretto il cuore, di fronte a certe loro durezze contro il Papa, invece, ho provato un grande disagio soprattutto se ad esprimerle erano miei amici.

Nel tentativo di trovare il bandolo, proverei invece a capovolgere la questione, non solo perché il Catechismo dice che i fedeli devono aderire al successore di Pietro “col religioso ossequio dello spirito” credendo che lui è assistito da Dio, non solo perché un cattolico non si sceglie in cosa credere, si prende il pacchetto completo, ma perché trovo molto più interessante il punto di vista opposto, almeno sul piano spirituale (mentre mi dichiaro ampiamente priva di strumenti e inadeguata a valutare un pontificato dal punto di vista storico, che è probabilmente, legittimamente, l’aspetto che più interessa gli atei devoti e questo giornale).

Se alcune scelte del Papa danno fastidio a molte persone, tra cui diverse che stimo moltissimo, e se a volte anche io, lo ammetto, non ho condiviso lo slancio entusiastico che sembra avere contagiato tutti, mi sembra fondamentale chiedermi il perché. Quando qualcosa ci dà fastidio, può anche succedere che invece il problema siamo noi. Quindi: che problema ho io?

È come quando ai miei figli non torna qualcosa in un compito: la loro primissima ipotesi è sempre che sia il libro ad essere sbagliato, anche se si astengono dall’esprimere la loro intima convinzione, perché la filippica  che si beccherebbero li allontanerebbe dall’unico vero obiettivo della loro dedizione al sapere: la merenda.

Cosa ci dà fastidio, dunque, e perché? Il problema è il nostro?giornata_con_papa_francesco_645

Perché fatico a capire che quando il Papa dice che il bene è una relazione non sta affatto facendo concessioni al relativismo, ma mettendo l’accento sulla carità? Perché dimentico che quando un Papa dice che bisogna obbedire alla coscienza non parla di assecondare pensieri ed emozioni spontanei ma intende certo tendere una mano ai lontani, sapendo che per la nostra dottrina è la coscienza il luogo nel quale “l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi”, (Catechismo della Chiesa Cattolica, niente di meno), e che la coscienza va sempre rettamente formata?

Io credo che a volte mi capiti di dimenticare tutte queste cose fondamentalmente perché una figura di Papa sacrale e lontana permette a noi “vicini” di sentirci un po’ migliori degli altri. A noi piace essere figli di Dio, certo. Significa che siamo di stirpe regale, e lo siamo davvero; ma non ci piace, invece, essere fratelli – siamo tutti figli, ma io un po’ più figlia degli altri – perché dei fratelli vediamo tutti i limiti, le meschinità, le scarpe sporche, la puzza, la goffaggine, l’inadeguatezza. Quello che vediamo ci dà fastidio perché ci ricorda esattamente come siamo noi, è come vedere noi stessi in uno specchio: dei tipi sgangherati. Creature. E creature in cui “il mistero dell’iniquità è in atto”.

Il fatto è che la fede nasce da un incontro, mentre il modo in cui tendiamo a intenderla è piuttosto una religiosità naturale che è segno della nostra immaturità, una religiosità che serve a confermarci e non a convertirci.

Ci sono delle persone che hanno fatto l’incontro che cambia davvero la vita, quello con Gesù Cristo. Loro oltre a sapersi figli amatissimi – sgangherati ma amatissimi – si scoprono anche fratelli, e il male degli altri piano piano cominciano a non vederlo più. È perché non risuona in loro. Non rispondono alle calunnie, non si accorgono degli sgomitamenti e delle cattiverie, sembrano quasi scemi. Ma non è così: è che stando vicino a Gesù, anche per poco, anche a tratti, si vedono tutte le proprie magagne, faticosamente mascherate in pubblico.

La fede è sostanzialmente diffidare di sé, aderire a Gesù Cristo, spegnere il nostro ego cialtrone, chiacchierone e millantatore, e anche la nostra bontà da quattro soldi. Fare spazio a Dio. Quando uno ha incontrato davvero Gesù diventa credibile, e il cristianesimo allora non è più una dottrina ma una somiglianza. È così, solo così che è possibile una vera evangelizzazione: per inseguimento. Lasciarci inseguire per la nostra bellezza, pienezza e ricchezza è esattamente il contrario del proselitismo. Quando i nostri mosci inviti a portare la gente a raduni parrocchiali cadono nel vuoto, è perché non siamo attraenti (quando, peggio, non facciamo da tappo: non lasciamo entrare, ma non lasciamo neanche uscire, come se Gesù fosse nostra proprietà, e la religione qualcosa per giudicare gli altri).

Come è potuto succedere che Gesù, uno che camminava per le strade persino prima del catechismo di san Pio X, convertendo con la sua autorevolezza e innamorando con la sua misericordia, sia stato trasformato in uno schema che giudica chi non ci rientra dentro?foto

È ovvio che sia necessario il Magistero, la Tradizione, cioè la trasmissione del deposito che attraverso i santi e i martiri ci è stato lasciato nei secoli, il Catechismo, il Papa: solo tutto questo ci conferma nella nostra fede e ci garantisce che quello in cui crediamo non è un parto della nostra fantasia, né una nostra proiezione. È anche chiaro che siamo in un momento storico in cui i cristiani sono da soli, chiamati a difendere, insieme a pochi uomini di buona volontà, l’idea stessa di uomo, maschio e femmina, la vita, soprattutto quando è più fragile, alcuni fondamentali dell’umanità tutta che per la prima volta da parecchi secoli sembrano messi in discussione. Perché poi ci sono anche sacerdoti che spendono la loro vita in confessionale, e che costretti a negare l’assoluzione, si sentono chiedere “ma come, non vi siete ancora aggiornati, col nuovo Papa?”, e devono fare un paziente, eroico lavoro per spiegare che  la dottrina non è cambiata di una virgola, né pare in procinto di, visto che le regole che questa Chiesa retrograda insiste a proporre sono perché l’uomo viva.

Ma è altrettanto vero che un rapporto vivo e vero con Gesù ti scomoda in continuazione. È bellissimo, ma è una relazione, e l’unico equilibrio possibile è quello della bicicletta: ci si regge solo in movimento, mentre avere a che fare con delle regole rigide e rassicuranti è sicuramente più facile. Basta fare quello che fa la maggioranza dei cosiddetti credenti: mettiamo al posto di Dio il nostro superIo. In una sorta di sconfinamento nei confronti di Dio, lo mettiamo su quel tasto della nostra coscienza sul quale i genitori quando eravamo piccoli hanno posizionato le regole base, il senso di colpa e della punizione che servono a evitare che i bambini facciano troppi danni, a se stessi e agli altri. L’uomo è anarchico e disordinato, e il superIo che i genitori cercano di costruire serve a mettere ordine. Ma in un rapporto maturo con Dio la dinamica è tutta un’altra, si diventa figli, figli del re, si è davvero, davvero liberi, entra la misericordia e la creatività e lo Spirito Santo, senza la cui forza “nulla è nell’uomo, nulla senza colpa”. Allora, pur da sgangherati, si diventa anche fecondi, padri e madri (non solo biologicamente): se non si è fecondi, come anche tanti credenti, si perde il contatto con la realtà, e la religione diventa un modo per alimentare e confermare le nostre stramberie o nevrosi o chiamiamole come vogliamo.

Signore abbi pietà di me, delle mie fisse. Signore, perdona me e perdona gli altri che sono proprio come me, questa è la preghiera di chi vuole diventare davvero figlio. Tutti i litigi e le polemiche, le riunioni e i convegni e i seminari inutili vengono dal non avere un rapporto personale e diretto con Dio, un rapporto che nasce dall’incontro con Cristo, molto più pericoloso e avvincente dell’incontro con i cattoliconi che tanto mi piacciono. L’amore di Cristo stringe e assedia da ogni parte. Da assediati si sta un po’ scomodi. Ma “occhio non vide né orecchio udì né mai salì in cuore d’uomo quello che Dio tiene preparato per quelli che lo amano”.

Io credo che il Papa voglia ricordarcelo in un modo potentissimo, e che se a volte qualche stonatura – anche lui è una creatura – ci va contropelo non sia poi così importante.

da Il Foglio

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cristianesimo uguale vangelo? non sempre, spesso il contrario secondo L. Boff

Boff

La tradizione di Gesù contro la religione cristiana 

Leonardo Boff
Per comprendere adeguatamente il cristianesimo è necessario fare delle distinzioni, accettate dalla maggioranza degli studiosi. Così, è importante distinguere tra il Gesù storico ed il Cristo della fede. Per Gesù storico si intende il predicatore e profeta di Nazareth come esisté realmente sotto Cesare August…o e sotto Erode. Il Cristo della fede è il contenuto della predicazione dei suoi discepoli che lo vedono come il Figlio di Dio ed il Salvatore.
Un’altra distinzione importante che bisogna fare è tra il Regno di Dio e la Chiesa. Regno di Dio è il messaggio originale di Gesù. Significa una rivoluzione assoluta ridefinendo le relazioni degli esseri umani con Dio, figli e figlie, con gli altri, tutti fratelli e sorelle, con la società (centralità dei poveri), e con l’universo, la gestazione di un nuovo cielo ed una nuova terra. La Chiesa è stata possibile poiché Gesù fu respinto e, per quel motivo, non si realizzò il Regno. Si tratta di una costruzione storica che tratta di portare a termine la causa di Gesù nelle differenti culture ed epoche. L’incarnazione dominante è nella cultura occidentale, ma si è incarnato anche nella cultura orientale, nella copta ed ancora in altre.
È anche importante distinguere la Tradizione di Gesù e la religione cristiana. La Tradizione di Gesù si situa in precedenza alla redazione dei Vangeli, benché sia contenuta in essi. I Vangeli furono scritti tra 30 e 60 anni dopo l’esecuzione di Gesù. In quel tempo intermedio si erano organizzate già comunità e chiese, con le loro tensioni, conflitti interni e forme di organizzazione. I Vangeli riflettono e prendono posizione dentro questa situazione. Non pretendono di essere libri storici, bensì libri di edificazione e di diffusione della vita e del messaggio di Gesù, come Salvatore del mondo.
Dentro questo groviglio che significato assume la Tradizione di Gesù? È quel nucleo duro, il contenuto che sta in un guscio di noce e che rappresenta l’intenzione originale e la pratica di Gesù, ipsissima intentio et verbali Jesu, prima delle interpretazioni che  furono fatte. Può riassumersi nei seguenti punti: In primo luogo viene il sogno di Gesù, il Regno di Dio, come una rivoluzione assoluta della storia e dell’universo, proposta conflittuale perché si oppone al regno di Cesare. Dopo, la sua esperienza personale di Dio che egli trasmise ai suoi seguaci: Dio è Padre (Abba), pieno di amore e tenerezza. La sua caratteristica speciale è essere misericordioso, ama gli ingrati e i cattivi (Lucas 6,35). Dopo predica e vive l’amore incondizionato che mette alla stessa altezza  l’amore e Dio. Un altro punto è dare centralità ai poveri e a gli  invisibili. Essi sono i primi destinatari e beneficiari del Regno, non per la loro condizione morale, bensì perché questi sono privati della vita, e questa loro condizione è la porta che li conduce a Dio vivo e che induce Dio a optare per essi. Nel comportamento che assumiamo verso questi, si decide se ereditiamo o no la salvezza (Mt 25 ,46). Un altro punto importante è la comunità. Egli scelse a dodici uomini per vivere con lui; questo numero dodici è simbolico: rappresenta la riunione delle 12 tribù dell’Israele e la riconciliazione di tutti i popoli, fatto Popolo di Dio. Infine, l’uso del potere. Solo Lui legittima quell’uso che è servizio alla comunità ed il portatore di potere deve cercare sempre l’ultimo posto.
Questo insieme di valori e visioni è la Tradizione di Gesù. Come si deduce, non si tratta di un’istituzione, dottrina o disciplina. Quello che Gesù voleva era insegnare a vivere e non creare una nuova religione con parrocchiani come istituzione. La Tradizione di Gesù è un sogno buono, una strada spirituale che può acquisire molte forme e che può avere anche seguaci fuori della cosa religiosa ed ecclesiale.
La Tradizione di Gesù si trasformò durante la storia in una religione, la religione cristiana: un’organizzazione religiosa sotto forma di varie Chiese, specialmente la Chiesa romana-cattolica. Queste si caratterizzano per essere istituzioni con dottrine, discipline, determinazioni etiche, forme rituali di celebrazione e canoni giuridici. La Chiesa cattolica romana in concreto si organizzò intorno alla categoria del potere sacro, sacro potestas, concentrandolo nelle mani di una piccola elite che è la gerarchia con il Papa alla testa, con esclusione dei laici e delle donne. Ella detiene le decisioni ed il monopolio della parola. È gerarchica e creatrice di grandi disuguaglianze. Si identificò illegittimamente con la Tradizione di Gesù.
Questo tipo di traduzione storica coprì di ceneri gran parte dell’originalità e dell’incantesimo della Tradizione di Gesù. Per questo motivo tutte le Chiese stanno in crisi, perché non sono “gioia per tutto il popolo”, come Lc 2,11, lo furono all’inizio.
Gesù stesso, comprendendo questo sviluppo, notò che a poco serve osservare le leggi “e non preoccuparsi della cosa più importante che è la giustizia, la povertà e la fede; questo è quello che importa, senza smettere di fare la cosa altra” (Mt 23,23).
Attualizzando: Dove possiamo ritrovare il fascino della figura e dei discorsi del Papa Francesco? In ogni suo discorso si lega direttamente alla Tradizione di Gesù. Afferma che “l’amore sta prima che il dogma ed il servizio ai poveri prima che le dottrine” (Civiltà Cattolica). Senza questo investimento il cristianesimo perde “la freschezza e la fragranza del Vangelo”, si trasforma in un’ideologia religiosa e si trasforma in un’ossessione dottrinale.
Non c’è un’altra strada per recuperare la credibilità persa dalla Chiesa, se non quella di ritornare alla Tradizione di Gesù, come lo sta facendo saggiamente il Papa Francesco.
Leonardo Boff
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il biblista p. Pagola commenta il vangelo della domenica

anemoni

CHI SONO IO PER GIUDICARE?

domenica 27 ottobre, 3oa domenica del tempo ordinario
vangelo: Lc 18, 9-14 : il fariseo e il pubblicano
La parabola del fariseo ed il pubblicano normalmente sveglia non in pochi cristiani un rifiuto grande verso il fariseo che  si presenta davanti a Dio arrogante e sicuro di sé, ed una simpatia spontanea verso il pubblicano che riconosce   umilmente il suo peccato. Paradossalmente, il racconto può svegliare in noi questo sentimento: “Io ti ringrazio, perché non sono come questo fariseo.”   Per comprendere correttamente il messaggio della parabola, dobbiamo pensare che Gesù non la racconta per criticare i settori farisei, bensì per scuotere la coscienza di “alcuni che, ritenendosi giusti, si sentivano sicuri di se stessi e disprezzavano gli altri”. Tra questi ritroviamo, certamente, non pochi cattolici dei nostri giorni.   … Il discorso del fariseo ci rivela il suo atteggiamento interiore: “Oh Dio! Ti ringrazio perché non sono come quell’altro”. Che razza di discorso è questo di credersi migliore degli altri?
Un fariseo, fedele alla legge e puntuale nelle sue cose, può vivere in un atteggiamento pervertito. Questo uomo si sente giusto davanti a Dio e, proprio per questo motivo, si trasforma in giudice che disprezza e condanna quelli che non sono come lui. Il pubblicano al contrario, riesce solamente a dire: “Oh Dio! Abbi compassione di questo peccatore”. Questo uomo riconosce umilmente il suo peccato. Non può glorificarsi della sua vita. Si raccomanda alla compassione di Dio. Non si confronta con nessuno. Non giudica gli altri. Vive in realtà davanti a sé stesso e davanti a Dio.   La parabola è una penetrante critica che smaschera un atteggiamento religioso ingannevole che ci permette di vivere davanti al Signore sicuri della nostra innocenza, mentre condanniamo dalla nostra presupposta superiorità morale chiunque non pensa o agisce come noi.   Circostanze storiche e correnti trionfalistiche lontane dal vangelo ci hanno resi specialmente  noi cattolici deboli verso questa tentazione. Per questo motivo, dobbiamo leggere la parabola ognuno di noi in atteggiamento autocritico: Perché ci crediamo migliori degli agnostici? Perché ci sentiamo più vicini a Dio noi che coloro che non si interessano al Signore? Che cosa c’è in fondo a certi discorsi che si fanno in merito alla conversione dei peccatori? Che cosa significa per noi riguardo a come si deve porre riparo ai propri peccati senza vivere convertendosi a Dio?   Recentemente, davanti alla domanda di un giornalista, Papa Francesco fece questa affermazione: “Chi sono io per giudicare un gay?”. le Sue parole hanno sorpreso quasi tutti. Nessuno si aspettava una risposta tanto semplice ed evangelica di un Papa cattolico. Tuttavia, questo è l’atteggiamento di chi vive in realtà d’innanzi al Signore.
José Antonio Pagola
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p. Maggi commenta il vangelo della domenica

 

p. Maggi

commento, molto bello, al vangelo di domani 27 ottobre, 30a del tempo ordinario: Lc18, 9-14

IL PUBBLICANO TORNO’ A CASA GIUSTIFICATO, A DIFFERENZA DEL FARISEO 

 p. Alberto Maggi

 

Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.

Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

 

 

“Siate santi perché io sono santo”, questo è l’imperativo, la richiesta del Dio dell’Antico Testamento, e la santità viene intesa come la scalata verso Dio attraverso l’osservanza di regole, di precetti, di comandamenti, di pratiche religiose.

Ebbene stranamente questo invito non appare mai nella bocca di Gesù. Mai Gesù in nessuno dei vangeli chiede: “Siate santi come io sono santo”. Ma Gesù insistentemente e continuamente rivolge l’invito “Siate compassionevoli come il Padre vostro è compassionevole”. Perché tutto questo? Ce lo spiega Luca nella parabola che adesso esaminiamo, il capitolo 18, versetti 9-14, e l’evangelista ci fa vedere il differente orientamento.

Nella santità l’uomo che scala verso la santità, verso Dio – il traguardo è Dio – ha l’ambizione di portare gli uomini verso Dio. Ma chi desidera portare gli uomini verso Dio inevitabilmente fa sì che qualcuno rimanga indietro, altri rimangano esclusi. Ecco la novità di Gesù è stata che lui non ha voluto portare gli uomini verso Dio, la scalata della santità, ma lui ha fatto qualcosa di diverso: ha portato Dio verso gli uomini e se nella scalata verso la santità l’uomo va verso Dio grazie ai suoi meriti (ma non tutti possono o vogliono avere questi meriti), nel fatto che Gesù porti Dio agli uomini, quel che conta non è il merito delle persone, ma il dono d’amore di Dio per tutta l’umanità.

Un Dio che non ama le persone nonostante i loro peccati, ma proprio per questo li ama. Questa è la novità sconvolgente che Gesù ha portato. E Gesù la mette in scena con questa parabola conosciuta come del “Fariseo e pubblicano”, che ha una precisa indicazione iniziale. L’evangelista scrive che Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti – dove giusti significa “a posto con Dio” – e disprezzavano gli altri.

E presenta gli antipodi della società di Israele, il Santo per eccellenza, il Fariseo, la persona che, come dice il nome (Fariseo significa separato), si separa dagli altri attraverso la pratica religiosa, le osservanze, addirittura maniacali, e la persona ritenuta la più impura, la più distante da Dio, il pubblicano, un individuo che, anche se volesse, non può più cambiare quel mestiere che lo rende impuro.

Ebbene il Fariseo in questa preghiera ringrazia il Signore più per sé che per gli altri e cosa presenta al Signore? Presenta al Signore quelli che sono i suoi tentativi di arrivare a lui attraverso le pratiche religiose più degli altri. Dice il Fariseo: “Digiuno due volte alla settimana”, ma il digiuno obbligatorio era richiesto una sola volta all’anno. No, lui fa di più, lui digiuna tutte le settimane e addirittura due volte.

E poi si vanta: “Pago le decime”, le decime sono l’offerta di una decima parte del raccolto e del bestiame al tempio, al Signore, “di tutto quello che possiedo”. Non paga solo per ciò che è prescritto, ma per tutto quello che possiede.

Quindi è una persona che tenta di arrivare a Dio attraverso una pratica incessante e continua, e come vedremo straripante, di osservanze che Dio non ha mai chiesto. Perché Dio non ha mai chiesto queste cose, Dio già attraverso i profeti aveva detto: “Imparate cosa significa Misericordia voglio e non sacrifici”.

Ebbene quest’uomo che vuole andare verso Dio e ha l’ambizione di portare gli uomini verso Dio se ne trova escluso. Perché? Dice Gesù che da lontano c’era un pubblicano, la persona immersa nel peccato fino al collo, che pure osa rivolgere questa preghiera: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, usando la formula imperativa. Cioè gli dice: “Sii benevolo, mostrami la tua misericordia”.

Allora abbiamo da una parte la persona spirituale, ricca della sua santità, che offre i suoi meriti al Signore, dall’altra la persona che non ha nulla da presentare, se non la sua condizione di peccatore, dalla quale, ripeto, non può più venir via e mostra la sua miseria.

Da una parte il merito, dall’altra il bisogno. Ebbene la sentenza sconvolgente, sconcertante di Gesù: “Io vi dico: ‘Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato’ ”. Ricordate che all’inizio Gesù aveva detto che la parabola era per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. E aveva presentato il giusto, il Fariseo, e il disprezzato. Adesso le sorti si rovesciano.

Il pubblicano disprezzato qui diventa giusto. “Tornò a casa sua giustificato”, che significa a posto con Dio, mentre l’altro no. Quella che Gesù ha presentato è una novità che forse ancora non riusciamo a comprendere ma che ci deve spingere a questo imperativo: Il Signore non ci chiede di essere santi, perché la santità separa dagli altri, forse avvicinerà a Dio, ma inevitabilmente allontana dal resto della gente (la santità intesa come osservanza di regole, di pratiche religiose). Gesù ci chiede di essere la carezza compassionevole del Padre per ogni creatura; non amare l’altro per i suoi meriti, ma per i suoi bisogni.

Questo è l’insegnamento della buona notizia di Gesù.

 

 

 

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

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