test chock a scuola di religione

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“Essere gay è una colpa”, test shock di religione a Perugia

Tra le colpe evidenziate in un test di religione che è stato fornito agli studenti del liceo classico  Mariotti di Perugia dal loro professore di religione e al quale gli studenti dovevano rispondere assegnando un punteggio da 1 a 10 comparivano omicidio, infanticidio, abusare di bambini e smerciare droga, ma anche l’omosessualità e le esperienze prematrimoniali. In definitiva si confrontavano le “colpe” fra di loro e si doveva stilare una classifica.

Alcuni studenti immediatamente hanno segnalato il test all’associazione Omphalos di Perugia che riunisce arcigay e arcilesbica:

“L’associazione Omphalos (arcigay e arcilesbica) di Perugia, ricevuta la segnalazione da alcuni allievi, ha presentato una denuncia all’Ufficio antidiscriminazioni (Unar) del ministero per le Pari opportunità. L’Unione degli studenti ha chiesto un intervento del ministero dell’Istruzione. Un ex alunno del docente — gay dichiarato — racconta: «Quel questionario non è del professore, ma su di me ebbe un impatto forte, mi sentii offeso e discriminato. Non è un insegnante omofobo, ma ha sbagliato a non dare spiegazioni». L’associazione di Perugia aveva già denunciato per comportamenti e didattica anti-gay un docente dell’istituto professionale Cavour-Marconi”.

Ora si spera che almeno in futuro quel test non si ripeta più dopo la denuncia all’Ufficio antidiscriminazioni (Unar) del ministero per le Pari opportunità.

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dietro papa Francesco e san Francesco …

Alle spalle del Papa

Assisi

il Poverello patrono del business

(Alessandro Ferrucci).

Ad Assisi l’accoglienza non prevede neanche la possibilità di andare al bagno gratis. Se uno ha la sfortuna di un bisogno impellente deve sperare nella fortuna di avere sessanta centesimi brevi manu, altrimenti è inevitabile affidarsi a una preghiera per impietosire il responsabile della toilette costruita sotto il piazzale inferiore della Basilica di San Francesco. Niente da fare. Al pellegrino gli spicci vengono donati da un benefattore.

Soldi, incasso, business, questa è la formula vincente nel paese del Poverello. Basta camminare per le vie, inerpicarsi per le salite, prendere fiato nelle discese, leggere i prezzi (mediamente alti) fuori da negozi, bar, agenzie immobiliari, società specializzate in pellegrinaggi per capire che dello spirito evocato in questi mesi dal papa, fatto di carità, profilo basso, accoglienza, c’è veramente poco: qui è anche impossibile trovare un punto di appoggio per mangiare il proprio, tutto è organizzato per obbligare il forestiero a usufruire dei servizi locali. E spendere.Ancora peggio se prendiamo alla lettera le parole pronunciate la settimana scorsa da Francesco: “Che i conventi siano aperti ai bisognosi, non siano alberghi”.Bussiamo alla Casa di Santa Brigida, gestita dalle suore Svedesi: la struttura è stata restaurata magnificamente, nel totale rispetto della tradizione umbra, con mattoncini a vista, legno alle finestre, una rara vista sulla vallata e su Santa Maria degli Angeli. “Buongiorno vorrei sapere se avete posto a metà ottobre per un gruppo di venti fedeli”. “Mi dica i giorni esatti”, risponde una suora di colore, modi bruschi, una vaga inflessione tedesca. “Dal 14 al 16, o anche dopo, a seconda della disponibilità”. In silenzio prende il registro delle presenze. Sfoglia. Riflette, gioca con la matita. Poi sentenzia: “È tutto pieno fino a novembre. Per caso nel gruppo ci sono bambini o molto anziani?”. “Cosa, scusi?”. “Sì, i bambini causano confusione, mentre gli anziani creano problemi, meglio se li sistemate in una struttura più centrale. Non siamo attrezzati per gli ospiti disabili”. “Bene, qual è il prezzo?”. “65 euro la pensione completa, 55 la mezza. Guardi che le stanze hanno ogni comfort, compreso il bagno privato. Aspetti, le do la brochure”.

La parola magica è “offerta”

Riprendiamo il cammino. A cinquecento metri in linea d’aria incontriamo la Casa di Accoglienza di Santa Elisabetta d’Ungheria, sul portone un semplice campanello e indicazioni su orario e giorno. “Se abbiamo posto per trenta persone? Ne accogliamo fino a sessanta”, illustra una laica davanti a un bancone con sopra una lunga serie di portachiavi a forma di croce in legno. “Quanto costa una stanza? No, qui si va a offerta… comunque 55 euro a notte”. Ecco la parola magica: offerta. Ad Assisi ogni ordine ha la sua struttura, ogni ordine negli anni ha conquistato il proprio spazio per marcare una presenza in uno dei luoghi di maggior pellegrinaggio al mondo. Ogni ordine accoglie, ma solo a pagamento, un pagamento mascherato “da offerta”. Un frate da quindici anni presente nella cittadina ci dà il buongiorno, ma in stile don Abbondio preferisce evitare la pubblicazione del suo nome di battesimo: “Non vorrei avere problemi con gli altri fratelli. Comunque sì, qui funziona così, qui è business. Cosa? Lo so, non è bello, abbiamo perso completamente la via indicata da Francesco e con l’escamotage dell’offerta alcune strutture possono usufruire di benefici fiscali, come la tassa sull’immondizia o l’Imu. Ad Assisi oltre a San Francesco, si ringrazia anche un altro beato: ‘San Terremoto’”. Anno 1997: un sisma sconquassa Marche e Umbria. Danneggiate anche Foligno , Nocera Umbra, Preci, Sellano. E, appunto, Assisi dove muoiono in diretta televisiva quattro persone tra tecnici e frati, impegnati nella verifica dei danni. Le immagini del crollo vennero riprese da un cameraman di Umbria Tv, in quel momento presente all’interno della basilica. “Per la ricostruzione sono giunti miliardi su miliardi, tanti, più i fondi stanziati per il Giubileo del 2000 – spiega l’ingegner Paolo Marcucci, consigliere comunale – in ambo i casi parliamo di finanziamenti pubblici che hanno reso Assisi quello che è oggi, con qualche stortura o facilitazione a favore dei frati”. Per scoprire a cosa si riferisce l’ingegner Marcucci, dobbiamo tornare virtualmente ai bagni sotto la Basilica, quella struttura è al centro di un contenzioso tra l’ordine religioso e la stessa Assisi: la piazza è del Comune; i frati ci realizzano dei locali a spese dello Stato, “poi con un atto arbitrario modificano a loro nome l’intestazione catastale precedentemente intestata al Comune di Assisi – continua Marcucci – il Comune fa ricorso contro questa procedura, per la quale si arriva in Cassazione. Peccato che in campagna elettorale il sindaco ha promesso di risolvere la faccenda e di rinunciare al ricorso”. In sostanza l’amministrazione ha regalato ai frati la piazza inferiore e i suoi bagni “e poi vada a fare un salto al negozio sotto la Basilica, ogni tanto si dimenticano di battere lo scontrino”, sollecita di nuovo il nostro “don Abbondio”. Cartoline, ovvio. Crocefissi in tutte le forme, misure, materiali. San Francesco ovunque, Francesco anche . Calendari, tazze, ma anche vino, liquori, rossetto per le labbra, saponi e prodotti di cosmesi come il gel struccante alla calendula. A noi lo scontrino lo fanno con altri scatta la dimenticanza.

“Professore, professore!” urla un signore dall’aspetto modesto per le vie di Assisi, si rivolge a un cinquantenne dalla camminata impegnata. “Professore per caso sa dove posso dormire questa notte? Sono disposto a pagare, anche se come al solito non ho grandi disponibilità”. Il professore: “Ora ho fretta, ci penso, ma queste sono giornate difficili, con il prossimo arrivo del papa è tutto pieno”. Chi chiede aiuto si chiama Gabriele, viaggia con un paio di buste di plastica piene, si definisce un colpito dalla crisi, quindi senza lavoro. Si arrangia, magari fa qualche lavoretto per i conventi, consegna la posta. “Ma ricevere aiuto qui – racconta – è oramai impossibile”. Stesso refrain, simili racconti da Angela Serracchioli, bolognese di origine, da otto anni impegnata ad Assisi e autrice di una guida del pellegrino: “Non esistono posti dove si offrono pasti ai poveri. Da nessuna parte. Ma lo sa quanti pellegrini ho visto aggirarsi per la città stupiti e affranti perché nessun convento li ha voluti ospitare? Una volta ho rifocillato anche un frate argentino…”.

Prezzi bassi, alti benefici

Direzione suore Alcanterine. Hanno un palazzo centrale, dietro un vicoletto buio, chiuso, nascosto, ecco il portone. Dietro c’è una struttura bellissima, luminosa, curata, con un ampio chiostro. Di lato è organizzata la cucina, le suore sono impegnate a impiattare il pranzo. “C’è posto per una trentina di pellegrini a metà ottobre?”. “Aspetti controllo”. Solito registro delle presenze. “Tutto pieno fino a novembre, ma dopo c’è posto. Il costo è di 55 euro per la pensione completa, abbiamo anche la cappella”. Sul loro sito è scritto: “L’offerta del nostro servizio intende rispondere alla necessità di tutti coloro che, oggi sempre più numerosi, bussano alla nostra porta”. A quanto pare è vero, rispetto ai “numerosi”.

“Per noi albergatori tutto questo è un problema: loro hanno oggettivamente costi molto ridotti, anche solo di personale – interviene Fabrizio Leggio, proprietario dell’hotel Windsor Savoia – Le do un solo dato per farle capire: il costo vivo per ogni mia stanza è di quasi 40 euro. In sostanza non ho quasi più margine”. Ma nella zona non c’è solo il caso-Assisi. A tre, quattro chilometri, nella vallata, a Santa Maria degli Angeli sorgono due strutture di gran lusso, la “Domus pacis” e il “Cenacolo francescano”. La seconda in particolare è stata data in gestione a una società straniera previo un generoso affitto annuale. Così, come recita la pubblicità, tra uno snack, una passeggiata, un’escursione, magari la lavanderia, un drink per rilassarsi è possibile vivere “la splendida atmosfera del luogo con gli ampi spazi verdi che invitano alla riflessione e garantiscono un soggiorno perfetto, adatto alle esigenze di tutti i target di clientela (religiosi, turisti, uomini d’affari, famiglie, gruppi, meeting)”. Turisti, religiosi e uomini d’affari. Anche perché “vicino all’albergo vive una comunità di Frati Minori disponibili a rispondere alle esigenze spirituali e morali dei pellegrini e degli ospiti”. Insomma, pacchetto completo. L’importante è pagare, anche qui ad Assisi.

Da Il Fatto Quotidiano del 23/09/2013.

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‘antiziganismo 2.0’

 

Presentazione di “Antiziganismo 2.0”: il rapporto dell’Osservatorio 21 luglio sulla discriminazione attraverso i media e il web

Da secoli i rom e i sinti sono percepiti in Italia come un “problema” e attorno ad essi si sono diffusi e consolidati stereotipi e pregiudizi che ne alimentano un’immagine “negativa” nella pubblica opinione. Ma che ruolo giocano i discorsi di rappresentanti politici e istituzionali nel disseminare un clima di ostilità verso le comunità rom e sinte? E in che modo i media, nuovi e tradizionali, possono alimentare l’antiziganismo?

Giovedì 26 settembre alle ore 11 presso la sede della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (corso Vittorio Emanuele II 349, Roma), l’Associazione 21 luglio presenta “Antiziganismo 2.0”, il primo rapporto annuale dell’Osservatorio nazionale sull’incitamento alla discriminazione e all’odio razziale dell’Associazione.

“Antiziganismo 2.0” illustra i risultati del monitoraggio di giornali locali e nazionali e di blog e siti web, su scala nazionale, condotto dall’Osservatorio 21 luglio tra il 15 settembre 2012 e il 15 maggio 2013 al fine di individuare e segnalare articoli, interviste, comizi e dichiarazioni che possono ascriversi come incitanti all’odio razziale e alla discriminazione, in particolare verso le minoranze rom e sinte. Nel rapporto sono inoltre elencate le azioni correttive e legali intraprese dall’Osservatorio nei suddetti casi.

Interverranno alla presentazione di “Antiziganismo 2.0”: il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana Giovanni Rossi, il responsabile dell’Osservatorio 21 luglio Enrico Guida e il curatore del rapporto Roberto Mazzoli.

Nel corso della presentazione saranno letti stralci di discorsi politici e trasmissioni radiofoniche realizzate rispettivamente dal politico e dal giornalista che, più di tutti, si sono resi autori di dichiarazioni in grado di alimentare sentimenti di ostilità, discriminazione e odio razziale nei confronti di rom e sinti.

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G. Zagrebelsky sul dialogo fra cattolici e laici

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 Così cattolici e laici in nome della coscienza possono cercare insieme il vero, il bene e il giusto.

dopo la lettera di risposta di papa Francesco alle domande e sollecitazioni di E. Scalfari su La Repubblica continua un apprezzabile dialogo tra cattolici e laici su un possibile percorso comune

di seguito un bell’intervento di G. Zagrebelsky su come cattolici e laici possono cercare insieme “il vero, il bene e il giusto”:

LO STATO laico è un aspetto della secolarizzazione, cioè del rovesciamento della base di convivenza tra gli esseri umani: dalla trascendenza all’immanenza; dall’eternità al saeculum; da Dio agli uomini; dalla Chiesa alle istituzioni civili. Questo rovesciamento ha investito tutti gli aspetti delle relazioni sociali e quindi anche le relazioni politiche. La città degli uomini s’è resa autonoma dalla città di Dio. La secolarizzazione, tuttavia, non significa affatto poter fare a meno d’una dimensione trascendente della vita collettiva.

Senza una forma di trascendenza, non c’è società possibile. Ci sarebbe soltanto collisione d’interessi in conflitto. La società secolarizzata ha posto il rapporto tra istituzioni civili e fedi religiose in una luce diversa da quella che, per secoli, l’ha illuminato. La scena non si è affatto semplificata. La questione resta aperta, e le discussioni mai sopite ne sono la prova. Thomas Mann ha espresso questo rapporto mobile con l’immagine dello scambio della veste: «Significherebbe disconoscere l’unità del mondo ritenere religione e politica due cose fondamentalmente diverse, che nulla abbiano né debbano avere in comune, così che l’una perderebbe il proprio valore e finirebbe per essere smascherata come falsa qualora si potesse dimostrare che in essa vi è traccia dell’altra […] In verità religione e politica si scambiano per così dire le vesti […] ed è il mondo nella sua totalità che parla, quando l’una parla la lingua dell’altra». Ciò che, invece, è chiaro è che la secolarizzazione ha scalzato la Chiesa dal mono- polio della funzione culturale unificatrice ch’essa, nei secoli, ha preteso di occupare: la gerarchia è stata sostituita da patti, espliciti o impliciti, esclusivamente orizzontali. Il contrattualismo e il convenzionalismo sono le teorie politiche di questa concezione. Non esistono più sovrani di diritto divino; il governo delle società non è per grazia di Dio, ma per volontà del popolo o della nazione. Noi siamo immersi in questa visione orizzontale dei rapporti sociali. Ma, ciò significa forse che non abbiamo più bisogno di un “terzo unificatore”, d’un punto di riferimento comune che stia sopra ciascuno di noi? Di una forza culturale che c’induca ad atteggiamenti solidaristici, ci muova a obiettivi comuni, promuova atteggiamenti, se non amichevoli, almeno non ostili tra chi riconosce la propria appartenenza a una cerchia d’individui che, insieme, formano unità? La dimensione puramente intersoggettiva dei rapporti è sufficiente a creare legami nella vita concreta d’individui che, per lo più, non si sono mai incontrati, faccia a faccia? L’esigenza di qualcosa che li trascende, in cui si possa convergere, è permanente, anche se il modo di soddisfarla è vario nel tempo. Quest’esigenza, che ci pervade in misura più o meno intensa a seconda delle circostanze storiche, nasce dal fatto che la società non è la mera somma di molti rapporti bilaterali concreti, tra persone che si conoscono reciprocamente. È, invece, un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono parti d’una medesima cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Questa è la questione decisiva per ogni vita sociale: “senza conoscersi personalmente”. Come può esserci società, tra perfetti sconosciuti? Qui entra in gioco “il terzo” astratto, il punto di convergenza trascendente. Più si risale indietro nel tempo, più risulta difficile distinguere tra istituzioni religiose e istituzioni civili. Jan Assmann, il sapiente studioso del posto delle religioni nell’Antichità, ha mostrato questo intreccio, affascinante per un verso, terribile per un altro. Per molti secoli, il terzo astratto si è rappresentato come il Dio, o gli Dei, della religione ufficiale, vigente in ciascuna delle società umane. Si tratta della cosiddetta “religione civile” o, meglio, della religione in funzione d’unità sociale. Nella tradizione classica, la religio civilis, cioè il culto dovuto ai propri dei, assurgeva a fondamento della virtù repubblicana, quella virtù che induceva i singoli ad anteporre all’interesse individuale il bene comune, il bene della res publica, e li disponeva ad atti di dedizione ed eroismo, testimoniati nelle historiae della Roma repubblicana. Facciamo un salto nel tempo. Nell’“allons enfants de la Patrie” della Marsigliese c’è già tutta l’essenza del problema moderno della religione civile: la Patrie era il nuovo terzo; i citoyens erano i suoi figli, i suoi enfants: dunque fratelli tra loro; i patriotes erano i nuovi credenti che si riconoscevano tra loro per mezzo dei loro simboli politici, dopo aver abbattuti quelli teologici dell’Antico Regime. Nel 1789, si trattava della Patria. Nel 1793-1794, in pieno disfacimento della Francia rivoluzionaria, il “terzo” cambia natura, si cristallizza. L’asse su cui stava la Patria si riposiziona e si “teologizza”. Compare la Dea Ragione, con i suoi templi, spesso chiese profanate, con i suoi riti e i suoi officianti. Il 7 maggio 1794, un decreto sulle feste repubblicane istituisce il culto dell’Essere Supremo, voluto da Robespierre in persona e da lui stesso celebrato, l’8 giugno, avvolto in un manto azzurro, al campo di Marte sotto la regia di J.L. David. La vecchia religione e il vecchio Dio erano stati uccisi, ma se ne tentava una risurrezione deista, per tenere insieme una società in disgregazione. Quella cerimonia, artificiosa e ridicola perfino agli occhi di molti giacobini, era però segno di qualcosa di molto poco ridicolo, anzi di terribile. L’Essere supremo, evocato come il “terzo” della fase terminale della Rivoluzione, ne diventava l’onnipotente protettore che tutto giustificava. Sotto il suo sguardo tutelare, due giorni dopo la celebrazione, entrava in vigore la Legge di pratile, la legge che porta al colmo il regime del terrore giacobino, in nome dell’ossimoro formulato da Robespierre stesso: “dispotismo della libertà”. La vicenda rivoluzionaria è rivelatrice. “Il terzo”, quando si prospetta sulla scena, è, all’inizio della storia, un fattore di liberazione. Ma, in seguito, ciò che è stato liberatorio può trasformarsi in strumento d’oppressione morale, quando perde la sua autonomia, subordinandosi alle ragioni e agli interessi del potere e diventando propaganda e imbonimento e, perfino, “terrore”. In un saggio del 1967, dal titolo La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, il costituzionalista cattolico tedesco Ernst Wolfgang Böckenförde ha formulato un “motto” che oggi è diventato quasi una parola d’ordine per chi propugna l’esigenza di ricollocare la religione alla base della politica, nell’interesse non tanto della religione, quanto della politica stessa. È il motto della cosiddetta post-secolarizzazione: «Lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio ch’esso si è assunto per amore della libertà». Cerchiamo di comprendere. Ogni regime politico si basa su un principio dominante, una “molla”, una “passione” che alimenta l’ethos pubblico che lo fa muovere. Ed è nella natura delle cose, anche politiche, che questo principio primo – nel nostro caso, “l’amore per la libertà”, tenda a rendersi assoluto, con ciò realizzando non la perfezione ma l’inizio dell’autodissoluzione. Non c’è ragione per escludere che ciò valga anche per qualunque forma di governo, compresa la democrazia basata sulla libertà. Se essa alimenta la pura e integrale libertà, cioè l’egoismo senza freni e correttivi altruistici, realizzando integralmente la sua “molla” individualistica, sprigionerà anch’essa la forza autodistruttiva d’ogni regime che voglia rendersi assoluto. La denuncia teorica, circa l’incapacità delle democrazie liberali di garantire i propri presupposti di stabilità, si accompagna, come conferma empirica, a una fiorente letteratura sulla decadenza delle società occidentali che, per diversi aspetti, è una ripresa drammatizzata di quella diffusa nell’Europa del secolo scorso, tra le due guerre mondiali. Queste società, materialiste, disgregate, disperate, nichiliste, egoiste, prive di nerbo morale, preda di pulsioni autodistruttive, sarebbero giunte a «odiare se stesse», secondo la vibrante accusa del magistero cattolico. I sintomi sarebbero la diminuzione del tasso di natalità, l’invecchiamento delle generazioni e la chiusura alla vita e al futuro; lo sviluppo abnorme di scienze e tecniche frammentate, prive di senso e anima e dotate di ambizioni smisurate; l’edonismo e l’idolatria del denaro associato al potere. Benedetto XVI, calcando la mano, ha introdotto un’espressione sorprendente e, almeno a prima vista, perfettamente contraddittoria: la “dittatura del relativismo”. Sarebbe una “dittatura” che «lascia il proprio io solo con le sue voglie » (espressione che ricalca le più crude formule di condanna usate nei confronti del liberalismo del primo ‘800). Su questo humuss’innesta una nuova proposta del magistero cattolico come forza salvifica generale, anzi universale, valida al di sopra delle divisioni pluralistiche della società. Ovviamente, una proposta di questo genere, in quanto formulata quasi come offerta di protettorato etico da parte del magistero cattolico, contraddice la libertà e l’uguaglianza delle coscienze individuali: due aspetti irrinunciabili dello “stato liberale secolarizzato”. Essa sottintende la condanna del relativismo, che è invece l’essenza dell’uguale libertà; pretende l’esistenza di materie eticamente “non negoziabili” nelle quali il legislatore civile debba porsi al servizio delle concezioni della Chiesa; comporta disuguaglianza tra le confessioni religiose, a favore del primato di quella cristiano-cattolica a detrimento di tutte le altre, per non dire delle visioni del mondo atee. Queste – secondo un’espressione terribile, anch’essa di Böckenförde – sarebbero destinate a «vivere come nella diaspora». In altri termini, la cittadinanza piena sarebbe appannaggio dei soli cattolici, e lo Stato assumerebbe, ancora una volta, la veste confessionale. Il Concilio Vaticano II ha tentato una “conciliazione” del cattolicesimo con il “mondo moderno”, espressione sintetica per dire: col pluralismo etico e politico. L’invito ai cattolici a impegnarsi in re civili a fianco dei non cattolici, con spirito di collaborazione e autonomia di giudizio era chiaro. Così come chiaro era l’inibizione d’usare l’autorità della Chiesa per sostenere posizioni politiche (“non osino” invocarla a proprio vantaggio). Sappiamo come sono andate le cose, soprattutto nel nostro Paese. Questa indicazione, peraltro non priva di zone d’ombra, è stata oscurata, messa in disparte, a vantaggio d’una presenza molto accentuata della Chiesa nella vita politica, per affermare le proprie verità. Ora, il pendolo sembra oscillare dall’altra parte. La gerarchia, con i suoi abusi, le sue pompe, le sue ricchezze, la sua arroganza, pare lasciare il passo a un atteggiamento diverso che riscopre la parte del Concilio Vaticano II che, per mezzo secolo, è stato oscurato (non abrogato: nella storia della Chiesa nulla è mai abrogato definitivamente). Uno spirito diverso da quello del passato spira nei primi atti e nelle prime parole del papa attuale, Francesco. Nella Enciclica Lumen fidei (n. 34), troviamo scritto risultare «chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti». E, nella lettera a Eugenio Scalfari, pubblicata su questo giornale l’11 settembre scorso, il Papa indica la necessità di «cercare […], le strade lungo le quali possiamo, forse, incominciare a fare un tratto di cammino insieme». Non si dovrebbe parlare, per il Papa, «nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione». LIn ogni spirito che s’ispira alla laicità e, al contempo, crede all’utilità, anzi alla necessità che forze morali possano unirsi per combattere il materialismo nichilistico e autodistruttivo delle società basate sull’egoismo mercantile, l’invito a «reimpostare in profondità la questione» suscita non solo interesse, ma perfino entusiasmo. La premessa è che il vero, il bene, il giusto esistono, che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri. Il centro del discorso è la coscienza e la sua insopprimibile libertà. Il vero, il bene, il giusto possono dipanarsi nella storia, senza mai, però, raggiungere la pienezza. Le tappe del cammino sono i giudizi che gli esseri umani pronunciano “in coscienza”. Per i credenti, la pienezza ci sarà, ma non ora, in “questo” tempo; per i non credenti, l’idea stessa d’una raggiungibile “pienezza” è senza significato. Tuttavia, non è affatto privo di significato l’operare insieme per combattere la menzogna, il male, l’ingiustizia. Tutti siamo nella dimensione del contingente: i credenti, nella fede di poter sempre umilmente procedere verso il bene; i non credenti, nella convinzione di poter sempre provvisoriamente combattere il male. Il terreno per operare insieme, per fare un cammino insieme, è aperto. Una chiosa, però: il Papa, rispondendo a Scalfari, parla di “tratto di cammino”. Questa espressione non è priva d’ambiguità: dove si colloca, e chi decide dove si colloca la fine del “tratto”? E che cosa accadrà, allora? Su questo, un chiarimento da parte di coloro che si protendono la mano sarebbe necessaria.

Da la Repubblica del 23/09/2013.

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