questi cattolici!

altro tris

cosa fanno questi cattolici?

Vanno in pellegrinaggio a Madjugorie a pregare la Madonna degli umili; poi tornano in Italia e votano Lega, il partito dei razzisti. Si dicono “cattolici” e sono solo dei “provinciali”.

Vanno in Chiesa a festeggiare i Santi del calendario ed escono fuori e calpestano i martiri in carne ed ossa che incontrano per strada.

Si dicono cristiani e si chiamano fratelli; ma poi, se possono, si fanno le scarpe a vicenda, arrampicandosi sui cadaveri degli “altri”.

Pregano Dio per la Pace e la Giustizia, ma votano a destra, dove ingrassano i partiti di quel liberismo economico e di quel turbocapitalismo che seminano violenza e fomentano guerre.

Hanno lottato contro il divorzio, contro l’aborto, contro l’eutanasia, contro la contraccezione ed hanno spalancato la porte a quella globalizzazione che non è altro che la riduzione del mondo ad un mercato, dove investono i padroni del capitale e nel quale la condizione di cittadino interessa meno che quella di consumatore.

Hanno chiuso gli occhi pregando Dio e si sono ritrovati servi di un altro dio, il dio denaro.
Senza avvedersene, hanno voluto coniugare, in un rapporto incestuoso, ciò che il loro Maestro aveva avvertito non essere possibile: “Non potete servire Dio e la ricchezza!” (Matteo 6,24).

Sotto questa dittatura tutto si è trasformato in merce: idee, progetti, relazioni, oggetti, ecc.; perfino la religione!

Frei Betto, teologo brasiliano, incarcerato per anni e anni sotto la dittatura militare degli anni di piombo (1964-1985), denuncia: “Si vendono imprese, strade, influenze e governi. (…) Si trasforma Che Guevara in birra inglese, la liturgia in uno show business e i figli di Gandhi in un carro del carnevale. L’importante è mercificare e reificare tutto: dall’emblema rivoluzionario alle natiche della ballerina.

Rendere il superfluo necessario. Solo così si dilata il consumo. (…)

Creata per elevare le persone ad un altro livello di coscienza, perché vivano la comunione con Dio e tra loro, e fondata su valori derivati dalla rivelazione trascendente, la religione stessa, poco a poco, ha finito per perdere la sua dimensione profetica, di denuncia e di annuncio. Si sveste del suo carattere etico, di critica verso ciò che disumanizza, per adeguarsi all’imballaggio che la rende, nel mercato, un prodotto attraente. Così, essa risplende sotto le luci della ribalta, scambiando il silenzio con l’isterismo pubblico, la meditazione con l’emozione truccata, la liturgia con la danza aero¬bica. Nella sfera cattolica, rende il prodotto più appetitoso”

dal post di don A. Antonelli su ‘profezia e liberazione’: “la chiesa di papa Francesco e lo scandalo dei cattolici’

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Cristina Simonelli: “soglia come benedizione”

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una bella riflessione di Cristina Simonelli come intervento conclusivo al convegno annuale di Brescia organizzato da Missione Oggi dal titolo: “siamo gli ultimi cristiani?”

Soglia come benedizione

RINTRACCIANDO FILI E CONSONANZE
Pensare queste osservazioni come una conclusione, sia pure come si usa dire aperta, è cosa audace: non solo perché concludere lo è sempre e porta con sé una qualche arroganza di portoni e di chiavi, ma anche per lo statuto ampio e poliedrico che ha caratterizzato questo evento. Con una ragione ulteriore: riflettere e dunque anche fare teologia ha dei luoghi, co- me suggeriva Paolo Boschini. Questo di Missione Oggi è un luogo, che ha sue complicità e simpateticità che, mi sembra, hanno permesso ai partecipanti di rintracciare fili e consonanze anche tra interventi tematicamente disparati. Il mio essere qui non è privo di simpatia, ma non ha probabilmente la stessa complicità e dunque forse coglie meno nessi: di questa parziale estraneità mi scuso, cercando comunque di trarne profitto. Una seconda osservazione previa la riterrei dalla riflessione del filosofo francese Jean-Luc Nancy, che parla di comunità operosa e inoperosa: sembrerebbe dover essere positiva la prima, ma nel suo lessico è in- vece il contrario, operosa è una comunità che fa affidamento sul- l’opera e in ultima analisi si rivela ottusa e incapace di cambia- mento, mentre inoperosa sarebbe una comunità aperta all’alterità, all’inaspettato, capace dunque di integrare il limite, perché può “far spazio”. Certo, in questa accezione, ci poniamo qui in un contesto inoperoso o “insaturo” (Wilfred Bion), dunque aperto a un inedito da portare a sintesi provvisoria, sì, ma rinunciando alla tentazione di “gestirlo completamente”.
SENZA NOSTALGIA
Raccogliendo dunque in questo orizzonte alcuni spunti te- matici, penso che una chiave di lettura di questo convegno sia una delle affermazioni di Andrés Torres Queiruga: “Il rischio peggiore, in questi casi, consiste sempre nel ri- conoscere la novità del problema, ma cercare di risolverlo senza rompere i vecchi schemi”. Sono schemi superati certamente le categorie di interpretazione della questione da lui illustrate. Ma, vorrei aggiungere, altrettanto fuori luogo e fuori tempo risulta un atteggiamento di malcelata nostalgia, un modo di affrontare la situazione che si annida in al- cune visitazioni del tema, anche benintenzionate. Da questo punto di vista, dunque, se la domanda che dà il titolo a questo convegno, sottintendesse “siamo gli ultimi cristiani della cristianità”, secondo un paradigma tridentino (un paese, una Chiesa, un parroco), si potrebbe rispondere tranquillamente: no, non siamo gli ultimi… semplicemente perché tutto questo non esiste più! Può piacere di più o di meno, ma non è questo il punto, se non esiste non esiste.
ACCETTANDO LA SFIDA DEL CAMBIAMENTO
Provo a fare due esempi, di diverso peso, forse un po’ impertinenti dal punto di vista della forma, ma spero pertinenti nella sostanza al tema che qui ci interessa. È stata svolta dall’Osservatorio socio-religioso del Triveneto una ricerca sulla religiosità: realizzazione di notevole importanza, data appunto la necessità di accostare all’esame dei modelli teorici la con- siderazione delle forme pratiche, di condurre l’analisi, “non quindi direttamente il piano delle rappresentazioni mentali di oggetti cui si aderirebbe, che si ‘crederebbero’ veri o si ‘saprebbero’ corretti, ma sul piano che Michel de Certeau chiamerebbe delle ‘arti del fare’” (Pierre Gisel). Un’impresa dunque notevole, nell’ideazione e nella realizzazione. Non posso tuttavia respingere del tutto l’impressione che certe modalità di parlarne e di diffondere i dati sottintendano l’idea “ci scappano” o “ci sono scappati” – tra l’altro significativamente legata alla disaffezione mostrata dalle donne, di ogni fascia di età, e dai giovani in generale. Affrontare le questioni in questo modo non può portare altro che ulteriore frustrazione. Il secondo esempio è istituzionalmente più impegnativo. Mi riferisco infatti all’idea sottesa alla Nuova Evangelizzazione: se si pensa di declinarla come recupero di spazi senza accettare che la figura della presenza cristiana in occidente è cambiata, è un’impresa finita in partenza.
VERSO UNA DIVERSA FORMA DI VITA CRISTIANA
Altro può essere invece quel movimento di conversione a una promessa di cui pure qui si parlava: vivere una diversa forma di vita cristiana, che non si pensi più “l’intero”, ma presenza in grado di esporsi comunicando ciò per cui vive e perciò an- che di ricevere: “in definitiva, tornare all’esperienza radicale della grazia: ‘Date gratuitamente quello che gratuitamente avete ricevuto’ (Mt 10,8), che di per sé implica la reciproca ‘accogliete gratuitamente quello che gratuitamente vi è offerto’” (Torres Queiruga). In questo non c’è ansia di perdita, ma serenità di consegna e attestazione: “non sta a voi conoscere tempi e momenti, ma riceverete la forza dello Spirito mi sa- rete testimoni a Gerusalemme, in Giudea, in Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,7s). Aggiungerei a questo proposito che l’idea di inreligionazione proposta da Queiruga è molto interessante: si può forse integrare sottolineando che il confronto può e deve porsi anche sul piano di ogni vita umana, semplicemente – per evitare che si possa pensare comunque un’alleanza di religioni che, in contesto di “ritorno del sacro”, possano escludere anche un solo uomo o una sola donna perché non aderisce a nessuna di esse.
IN CUI L’EUROPA NON PARLA PER TUTTI
Si impone a questo punto, mi sembra, un’altra osservazione attorno a un’affermazione di Mendoza-Álvarez: ogni teologia è contestuale. Anche in questo caso tuttavia l’adesione teorica può permettere che ne resti in secondo piano la logica conseguenza: e plurale. Ha dunque il diritto, se si può dir così, di riflettere spinta dal peso del vecchio continente, ma ha contemporaneamente il dovere di sapere che non par- la per tutti. Certo i fenomeni di globalizzazione economica e politica producono interconnessioni di portata inedita: tuttavia i punti di vista sono molto diversi e qui lo hanno mostrato “in atto e in pratica” gli interventi proposti dall’Asia e dall’America latina. In ogni caso mi sembra corretto aggiungere che l’Europa non è solo un sogno di collaborazione fra popoli, ma è anche una potenza economica e militare. La questione dell’acquisto italiano degli F35 lo mostra, insieme a molto altro, non ultimi, dal punto di vista delle sottoculture identitarie che manifestano, gli insulti reiterati al ministro Cécile Kyenge.
E LE PERIFERIE SONO VALORIZZATE PER LA RIFORMA DELLA CHIESA
In questo quadro europeo mi proponevo dunque di riprendere la prospettiva della pluralità dei luoghi – le eterotopie di Michel Foucault – unendola a quella delle comunità di pratica proposta da Etienne Wenger: spesso sono coloro che stanno alla periferia di un gruppo a introdurre elementi esterni, perché i leaders sono troppo vincolati agli elementi più statici dell’identità. Mi chiedo ora, alla luce del contributo latinoamericano soprattutto, se applicare questa prospettiva ai luoghi minoritari – penso alle comunità Rom cui ho avuto grazia di accompagnarmi per larga parte della mia vita – o considerati tali anche a livello ecclesiale, come la produzione teologica in prospettiva di genere, possa essere comunque appropriato. La disinvoltura con cui Mendoza-Álvarez proponeva una prospettiva di genere è tuttora molto rara in Italia e comunque minoritaria in Europa: proprio per questo, comunque, non deve passare inosservata l’attenzione con cui Torres Queiruga ha sempre declinato dio al maschile e al femminile. Ritengo infatti che non sia sempre necessariotrattare estesamente la questione, ma sia sufficiente almeno interrompere l’omogeneità imperante. In ogni caso, comunque vada interpretato, per dir così, il rapporto fra centri e periferie anche nelle Chiese resta il fatto che vi sono degli appuntamenti, mancare o centrare i quali è tutt’altro che indifferente. Mi riferisco alla necessità di una riforma delle istituzioni: mi colpiva riavere tra le mani un vecchio – ma pur- troppo attuale – intervento di Karl Rahner che nel 1972 (Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance) affermava che la riforma della Chiesa non può con- tentarsi di pie affermazioni, ma necessita di cambi strutturali. Ora, di fronte all’emozione suscitata dal linguaggio e dalle posizioni pratiche e simboliche di papa Francesco, vescovo di Roma, speriamo veramente che la frase che ho appena scritto risulti presto superata e che le auspicate urgenti riforme vengano per lo meno prese in considerazione.
ABITARE LE SOGLIE DEL NUOVO
Concludendo, certamente ci troviamo su di una soglia, ma, speriamo, non volti nostalgicamente indietro, bensì protesi verso una meta che pur inedita non è ignota e pur chiedendo dedizione è accogliente e promettente. La promessa tuttavia non è quella di conquistare il mondo, ma di essere “benedizione”, come nello stupendo oracolo di Isaia 19,23-25. A tale promessa ben si accompagna l’immagi- ne della trebbiatrice riparata co- me cura per il futuro, di cui ha parlato Antonella Fucecchi. Ave- re sogno e visione (cfr. Gl 3,1 in At 2,17) è dunque accoglienza di un dono, ma è anche sfida intellettuale ed educativa: le qualità indispensabili per abitare queste soglie non si possono trasmettere come un pacco, ma si possono cura- re, come un germoglio.
CRISTINA SIMONELLI
laica, nel 1997 si è diplomata in teologia e scienze patristiche con la tesi: La fede nella resurrezione di Cristo nel “De Trinitate” di Agostino presso l’Augustinianum di Roma, dove sullo stesso tema nel 1999 ha poi difeso la tesi dottorale. È docente di teologia patristica a Verona e presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano); è socia fondatrice nonché presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane (CTI)

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l’appello di tre vescovi profeti

 

“Tornare al primo amore»

albero fiorito

questo l’appello di tre vescovi profeti per una Chiesa sinodale per rivivere una nuova primavera conciliare

Giungono da ogni parte del corpo ecclesiale le pressioni per una riforma strutturale della Chiesa: riemergendo dal panorama di desolazione lasciato dai pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI – da quel “ritorno alla grande disciplina” che ha richiuso violentemente le finestre aperte dal Concilio – le speranze legate alle parole e ai gesti del nuovo papa alimentano con crescente intensità la richiesta di cambiamenti concreti. Si tratta, sottolinea il teologo Víctor Codina, di una sfida di immane portata, considerando la quantità e la qualità dei cambiamenti necessari: «Il ritorno al Concilio e alla Chiesa dei poveri, il decentramento ecclesiale, la partecipazione del popolo all’elezione dei vescovi e la revisione dell’attuale metodo di elezione papale, la trasformazione dei sinodi episcopali da consultivi a deliberativi, la riforma dei ministeri ordinati (il celibato non obbligatorio per il clero latino, l’ordinazione di uomini sposati, l’accesso delle donne ai ministeri), il ripensamento della morale sessuale e matrimoniale e della pastorale dei divorziati, il dialogo con le scienze e con la biogenetica, l’apertura alla problematica ecologica, l’avvicinamento ecumenico tra le Chiese, il dialogo interreligioso, una maggiore considerazione nei confronti dei teologi, la riforma della Curia vaticana e un lungo eccetera». Anche solo riguardo alla riforma della Curia, a cui papa Francesco ha iniziato a porre mano attraverso la creazione del consiglio di otto cardinali (al di là del profilo controverso di alcuni di essi), il compito si annuncia tutt’altro che semplice.

È un progetto chiaramente ambizioso quello a cui guarda, per esempio, il teologo Leonardo Boff, convinto che il modo migliore di riformare la Curia sia quello di operare «un grande decentramento delle sue funzioni»: «Perché – scrive il 16 agosto sul suo blog (leonardoboff.wordpress.com) – il dicastero per l’Evangelizzazione dei Popoli non può trasferirsi in Africa? Quello del Dialogo interreligioso in Asia? Quello di Giustizia e Pace in America Latina? Quello della Promozione dell’unità dei cristiani a Ginevra, insieme al Consiglio ecumenico delle Chiese? Alcuni, per gli aspetti più immediati, resterebbero in Vaticano. Attraverso videoconferenze, skype e altre tecnologie della comunicazione, potrebbero mantenere un contatto quotidiano immediato. Si eviterebbe così la creazione di un anti-potere, su cui la Curia tradizionale è tanto esperta. Ciò renderebbe la Chiesa cattolica realmente universale».Un «decentramento del processo decisionale nella Chiesa», insieme al «riconoscimento di una responsabilità collegiale», all’«abbandono di strutture assolutiste e monarchiche», all’«emancipazione delle donne a tutti i livelli» è quanto sollecita anche il movimento internazionale Noi Siamo Chiesa, evidenziando la necessità che il processo di riforma non avvenga «a porte chiuse», ma «in maniera trasparente e in dialogo aperto con le Chiese locali». Tanto più che, come evidenzia ancora Codina, «lo Spirito opera solitamente dal basso, dalla periferia, da quanti non fanno parte del sistema sociale ed ecclesiale, dai laici, dai giovani, dalle donne, dai poveri, dagli indigeni, da quegli esclusi della storia che erano i prediletti di Gesù». È a partire da loro, conclude il teologo, che lo Spirito sta «invitando tutta la Chiesa a tornare a Gesù di Nazareth».

Nel dibattito intervengono anche tre voci d’eccezione, quelle di dom Tomás Balduino, vescovo emerito di Goiás, dom Pedro Casaldáliga, vescovo emerito di São Félix do Araguaia e dom José Maria Pires, arcivescovo emerito di Paraíba, ultimi rappresentanti dell’eroica e profetica generazione di vescovi della Chiesa della Liberazione nata a Medellín, i quali, in una lettera ai fratelli dell’episcopato brasiliano, rivolgono loro un forte e pressante invito ad agire, riprendendo concretamente «la mistica del Regno di Dio nel cammino con i poveri e a servizio della loro liberazione» e intervenendo «con più libertà e autonomia» sulle «questioni che richiedono una revisione pastorale e teologica». «Se i pastori di tutto il mondo – scrivono i tre vescovi – esercitassero con più libertà e responsabilità fraterne il dovere del dialogo ed esprimessero più liberamente la propria opinione su vari temi, certamente cadrebbero alcuni tabù e la Chiesa riuscirebbe a riprendere quel dialogo con l’umanità a cui Giovanni XXIII ha dato inizio e a cui sta guardando papa Francesco».

Di seguito, in una nostra traduzione dal portoghese, la lettera dei tre vescovi e, dallo spagnolo, il comunicato del movimento internazionale Noi Siamo Chiesa. (claudia fanti)

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Il momento di agire

di José María Pires, Tomás Balduino, Pedro Casaldáliga

Cari fratelli nell’episcopato,

siamo tre vescovi emeriti che, sulla base dell’insegnamento del Concilio Vaticano II, pur non essendo più pastori di una Chiesa locale, partecipiamo comunque al Collegio episcopale, e insieme al papa, ci sentiamo responsabili della comunione universale della Chiesa cattolica.Ci ha molto rallegrato l’elezione di papa Francesco alla guida della Chiesa, per i suoi messaggi di rinnovamento e di conversione, i suoi ripetuti appelli ad una maggiore semplicità evangelica e ad un più accentuato zelo di amore pastorale per tutta la Chiesa. Ci ha anche colpito la sua recente visita in Brasile, in particolare le sue parole ai giovani e ai vescovi. E questo ci ha richiamato alla memoria lo storico Patto delle Catacombe.Sarà possibile per noi vescovi renderci conto di cosa, teologicamente, significhi questo nuovo orizzonte ecclesiale? In Brasile, in un’intervista, il papa ha ricordato la famosa massima medievale: “Ecclesia semper renovanda”.Pensando a questa nostra responsabilità come vescovi della Chiesa cattolica, ci permettiamo questo gesto di fiducia di scrivervi queste riflessioni, rivolgendovi una richiesta fraterna a sviluppare un più intenso dialogo al riguardo.

1. LA TEOLOGIA DEL VATICANO II SUL MINISTERO EPISCOPALE

Il Decreto Christus Dominus dedica il 2º capitolo alla relazione tra il vescovo e la Chiesa locale. Ogni diocesi è presentata come «porzione del Popolo di Dio» (e non più solo come un territorio) e si afferma che «in ogni Chiesa locale è presente e opera autenticamente la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica» (CD 11), poiché ogni Chiesa locale non è solo un pezzo di Chiesa o una filiale del Vaticano, ma è veramente Chiesa di Cristo e così la designa il Nuovo Testamento (LG 22). «Ogni Chiesa locale è unita dallo Spirito Santo per mezzo del Vangelo, ha la sua propria consistenza nel servizio alla carità, cioè nella missione di trasformare il mondo e di testimoniare il Regno di Dio. Tale missione è espressa nell’Eucarestia e nei sacramenti. E vissuta nella comunione con il suo pastore, il vescovo».Tale teologia pone il vescovo non al di sopra o al di fuori della sua Chiesa, ma come cristiano inserito nel gregge con un ministero di servizio ai suoi fratelli. È a partire da questo inserimento che ogni vescovo, locale o emerito, come pure gli ausiliari e coloro che ricoprono funzioni pastorali senza diocesi, in quanto portatori del dono ricevuto da Dio nell’ordinazione sono tutti membri del Collegio Episcopale e responsabili della cattolicità della Chiesa.

2. LA SINODALITÀ NECESSARIA NEL XXI SECOLO

L’organizzazione del papato come struttura monarchica centralizzata è stata istituita a partire dal pontificato di Gregorio VII, nel 1078. Durante il primo millennio del cristianesimo, il primato del vescovo di Roma era organizzato in forma più collegiale e l’intera Chiesa presentava una maggiore sinodalità.Il Concilio Vaticano II ha orientato la Chiesa alla comprensione dell’episcopato come un ministero collegiale. Tale innovazione si è scontrata tuttavia, durante il Concilio, con l’opposizione di una minoranza critica. La questione, in realtà, non è stata sufficientemente fissata. Tanto più che il Codice di Diritto Canonico del 1983 e i documenti emanati dal Vaticano a partire da allora non danno risalto alla collegialità, ma anzi ne restringono la comprensione e creano barriere al suo esercizio. Il tutto a vantaggio della centralizzazione e del crescente potere della Curia romana e a scapito delle Conferenze nazionali e continentali e dello stesso Sinodo dei vescovi, di carattere solo consultivo e non deliberativo, organismi che pure detengono, insieme al vescovo di Roma, la piena e suprema potestà in relazione alla Chiesa intera.Ora, papa Francesco sembra voler restituire alle strutture della Chiesa cattolica e a ciascuna delle nostre diocesi un’organizzazione più sinodale e una dimensione di comunione collegiale. In questo quadro, egli ha costituito una commissione di cardinali di tutti i continenti per studiare una possibile riforma della Curia Romana. Tuttavia, per muovere passi concreti ed effettivi in questa direzione – come già sta avvenendo – egli ha bisogno della nostra partecipazione attiva e cosciente. Dobbiamo farlo come forma di comprensione della funzione stessa dei vescovi: non come meri consiglieri e ausiliari del papa, che lo aiutano nella misura in cui egli lo chiede o lo vuole, ma come pastori incaricati insieme al papa di provvedere alla comunione universale e alla cura verso tutte le Chiese.

3. IL CINQUANTENARIO DEL CONCILIO

In questo momento storico, che coincide anche con il cinquantenario del Concilio Vaticano II, il primo contributo che possiamo offrire alla Chiesa è assumere la nostra missione di pastori che esercitano il sacerdozio del Nuovo Testamento, non come sacerdoti della legge antica, ma come profeti. Ciò ci obbliga a collaborare effettivamente con il vescovo di Roma, esprimendo con più libertà e autonomia la nostra opinione su questioni che richiedono una revisione pastorale e teologica. Se i vescovi di tutto il mondo esercitassero con più libertà e responsabilità fraterne il dovere del dialogo ed esprimessero più liberamente la propria opinione su vari temi, certamente cadrebbero alcuni tabù e la Chiesa riuscirebbe a riprendere quel dialogo con l’umanità a cui Giovanni XXIII ha dato inizio e a cui sta guardando papa Francesco.L’occasione, allora, è quella di assumere un Concilio Vaticano II attualizzato, superando una volta per tutte la tentazione della Cristianità, in maniera da vivere all’interno di una Chiesa plurale e povera, segnata dall’opzione per i poveri, da un’ecclesiologia di partecipazione, di liberazione, di diaconia, di profezia, di martirio… Una Chiesa esplicitamente ecumenica, di fede e politica, attenta all’integrazione della Nostra America, alla rivendicazione piena dei diritti della donna, superando al riguardo le chiusure provenienti da un’ecclesiologia sbagliata.Concluso il Concilio, alcuni vescovi – molti dei quali brasiliani – hanno sottoscritto il Patto delle Catacombe di Santa Domitilla. E, in questo impegno di radicale e profonda conversione personale, sono stati seguiti da circa 500 vescovi . È stato così che si è inaugurata una ricezione coraggiosa e profetica del Concilio.

Oggi, varie persone, in diverse parti del mondo, stanno pensando ad un nuovo Patto delle Catacombe. Per questo, volendo contribuire alla vostra riflessione ecclesiale, vi inviamo in allegato il testo originale del Primo Patto.Il clericalismo denunciato da papa Francesco sta sequestrando la centralità del Popolo di Dio nella comprensione di una Chiesa i cui membri, attraverso il battesimo, sono innalzati alla dignità di “sacerdoti, profeti e re”. Lo stesso clericalismo sta escludendo il protagonismo ecclesiale dei laici e delle laiche, facendo sì che il sacramento dell’ordine si sovrapponga al sacramento del battesimo e alla radicale uguaglianza in Cristo di tutti i battezzati e le battezzate.Inoltre, in un contesto mondiale in cui la maggior parte dei cattolici si trova nei Paesi del Sud (America Latina e Africa), diventa importante dare alla Chiesa altri volti oltre a quello espresso nella cultura occidentale. Nei nostri Paesi, è necessario avere la libertà di de-occidentalizzare il linguaggio della fede e della liturgia latina, non per creare una Chiesa diversa, ma per arricchire la cattolicità ecclesiale.Infine, ad essere in gioco è il nostro dialogo con il mondo. È l’immagine di Dio che diamo al mondo e che testimoniamo attraverso il nostro modo di essere, il linguaggio delle nostre celebrazioni e la forma che assume la nostra pastorale. Questo è il punto che deve più preoccuparci ed esigere la nostra attenzione. Nella Bibbia, per il Popolo di Israele, “tornare al primo amore” significava riprendere la mistica e la spiritualità dell’Esodo.

Per le nostre Chiese dell’America Latina, “tornare al primo amore” significa riprendere la mistica del Regno di Dio nel cammino con i poveri e a servizio della loro liberazione. Nelle nostre diocesi, le pastorali sociali non possono essere mere appendici dell’organizzazione ecclesiale o espressioni minori della nostra cura pastorale. Al contrario, è questo che ci costituisce come Chiesa, assemblea riunita dallo Spirito per testimoniare che il Regno è vicino e che è ciò che chiediamo e vogliamo: venga il tuo Regno!

Questo è senza dubbio, soprattutto per noi vescovi, urgentemente, il momento di agire. Papa Francesco, rivolgendosi ai giovani durante la Giornata mondiale della gioventù ed esprimendo il suo appoggio alle loro mobilitazioni, così si è espresso: «Voglio che la Chiesa vada in strada». E questo fa eco all’entusiastica parola rivolta dall’apostolo Paolo ai Romani: «È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (13,11-12). Sia questa la nostra mistica e il nostro più profondo amore.Un abbraccio, con fraterna amicizia.

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p. Maggi: il potere religioso

 

 

p. Maggi

IL POTERE RELIGIOSO

Il più pericoloso di tutti.
Gli altri poteri -anche il più crudeli- comandano in nome di un uomo, e da un uomo ci si può sempre difendere, fuggire… . Il potere religioso domina in nome di Dio:
– mai si comanda sentendosi tanto a posto con la coscienza come quando si comanda in nome di Dio…
– mai si chiedono tanto facilmente sacrifici come quando si chiedono in nome di Dio,
– mai si uccide con tanto gusto come quando si uccide in nome di Dio…
Gesù – continuando nella linea dei profeti- denuncia il colpo di stato perpetrato dagli uomini della religione: hanno scalzato il Dio creatore e liberatore, ed al suo posto hanno intronizzato un Dio legislatore.
Al Dio che crea e che continuamente comunica vita all’uomo, – e la libertà è condizione indispensabile di questa vita- hanno sostituito un Dio legislatore, terribile nelle sue ire, che chiede la morte per chi osa trasgredire le sue leggi (Esd. 7,26) e si vendica punendo le colpe dei padri nei figli fino alla quarta generazione! (Dt.5,9).
Al Dio che libera il popolo oppresso in Egitto hanno sostituito un Dio mille volte più duro del Faraone nelle sue pretese (Es. 32,25-29).
Alla schiavitù dell’Egitto, la schiavitù della Legge.
E sono riusciti a far credere che tutto questo è giusto, che viene da Dio, e che quindi per l’uomo è un bene stare sottomesso, che bisogna obbedire al Sommo Sacerdote, perchè di-subbidire a lui significa disubbidire a Dio stesso…
Gesù, figlio di quel Dio che da sempre libera l’uomo dalle catene (Es.3,8), fa evadere l’uomo della prigione della religione: “Sapranno che io sono il Signore, quando avrò spezzato le spranghe del loro giogo e li avrò liberati dalle mani di coloro che li tiranneggiano” (Ez.34,27).
Vero pastore d’Israele, Gesù difende con la vita il suo gregge dall’assalto delle bestie feroci e lo mette in guardia dai “lupi travestiti da agnelli” (Mt.7,15): le autorità religiose, che vengono “solo per rubare, uccidere, distruggere!” (Cfr. Gv. 10,10).
Queste autorità sono riuscite a far credere al popolo che il Sommo Sacerdote rappresenta Dio sulla terra, ed è l’interprete della sua volontà.
Nulla di più falso -denuncia il vangelo-: proprio il Sommo Sacerdote, appellandosi alla Legge di Dio, chiederà ed otterrà la pena di morte per il Figlio di Dio. (Mt.26,63-66).
I Teologi (scribi) hanno l’autorizzazione da Dio per insegnare in nome suo?
Ebbene, dice Gesù, non ascoltateli e non imitateli: insegnano dottrine che non sono altro che precetti che essi stessi si sono inventati. La parola di Dio l’hanno abbandonata e l’hanno sostituita con le proprie povere idee!…(Mt. 15,1ss.). Pretendono guidare il popolo, ma sono ciechi: chi li segue non solo non compie la volontà di Dio, ma finisce nella rovina con loro (Mt.15,14;Mc.7,8-13).
Ambiziosi, arrivisti, ipocriti, sudicioni, pazzi ed assassini… gente pericolosa di cui è meglio non fidarsi… (Mt. 15,1ss; 23,1ss).
(Da “Dio ha messo l’eterno nel cuore dell’uomo”, libera trasposizione)

Alberto Maggi

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