all’inizio non era il clero … per una chiesa declericalizzata

 

la sfida del sacerdozio universale

per liberare la Chiesa dalla malattia del clericalismo

da: Adista Documenti n° 33 del 01/10/2016
Guarire dalla malattia del clericalismo, ritornando al messaggio originale di Gesù. È questa la grande sfida che la Chiesa è chiamata oggi a raccogliere, tornando al passato per proiettarsi nel futuro, superando chiusure e tentazioni autoreferenziali in maniera da aprirsi con fiducia alla modernità. Una sfida la cui importanza è stata chiaramente colta da Iglesia Viva, rivista trimestrale spagnola “di pensiero cristiano” e riflessione militante, che ha deciso di dedicare a questo tema il suo ultimo numero (il 266), dal titolo “Per una Chiesa declericalizzata”, proprio nella consapevolezza, evidenziata nella presentazione da Bernardo Pérez Andreo, che nessun rinnovamento sarà possibile senza estirpare definitivamente quello che è «il male per eccellenza della Chiesa», quel clericalismo che «pietrifica la fede» e la trasforma in un «pesante fardello sulle spalle della gente». Esattamente il contrario di ciò che intendeva Gesù, il quale, come sottolinea il teologo spagnolo Xabier Pikaza in uno degli interventi del numero, ripreso poi in un articolo pubblicato sul suo blog, non aveva altro fine che proclamare e instaurare il Regno di Dio, un Regno di «perdono e concordia universale», a partire «dagli infermi, dagli emarginati e dagli esclusi di Israele». Un progetto, questo, che avrebbe dovuto tenere la comunità cristiana al riparo da ogni struttura clericale e da ogni lusinga del potere, ma a cui la Chiesa ha finito per voltare le spalle, trasformandosi in un’istituzione patriarcale di tipo gerarchico alleata con il sistema dominante. Ed è così che quelli che erano stati pensati appena come servizi funzionali all’organizzazione comunitaria – quelli dei servitori (diaconi), degli anziani (presbiteri) e dei supervisori (vescovi) – nel quadro del sacerdozio universale dei fedeli hanno dato vita a un potere sacro, stabilendo una divisione non evangelica tra clero e laici.

di seguito l’articolo di Pikaza pubblicato in tre parti sul suo blog (http://blogs.periodistadigital.com/xpikaza.php; 24, 27 e 29 agosto):


Una Chiesa declericalizzata

per una chiesa declericalizzata

 

(…). Gesù era un laico, non un sacerdote. Non voleva riformare le antiche istituzioni sacre, né crearne di nuove, bensì potenziare i valori della vita partendo dagli esclusi, in una linea di gratuità, fino alle estreme conseguenze. I suoi seguaci credettero in lui e fondarono comunità per preservarne la memoria, sulla base del messaggio del Regno, del perdono e del pane condiviso, creando così diversi ministeri (…) sorti dalla stessa natura laica e messianica del Vangelo.

Successivamente, per esigenze culturali e pressioni ambientali, i cristiani trasformarono questi ministeri in istituzioni patriarcali di tipo gerarchico/clericale. Ma il tempo di questo dominio clericale sta volgendo al termine e dalla radice del Vangelo dovrà sorgere, nelle stesse comunità, un ministero evangelico in una linea non gerarchica. Non si tratta di sopprimere ministeri, ma di dare loro maggiore forza missionaria ed evangelica, per recuperare il messaggio e il cammino del Regno. (…).

AL PRINCIPIO NON ERA COSÌ

(…). Gesù non assunse titoli sacerdotali né rabbinici, ma operò come un comune essere umano (…). 

Era stato per un certo tempo discepolo del Battista (…). Ma, dopo l’assassinio di Giovanni, Gesù ebbe la certezza che Dio lo spingesse a proclamare e instaurare il suo Regno (di perdono e concordia universale), cominciando dagli infermi, dagli emarginati e dagli esclusi di Israele (…).

Animato da questa certezza, lasciò il deserto e cominciò a instaurare il Regno di Dio in Galilea, senza titoli né sigilli sacri che lo accreditassero, semplicemente come un israelita cosciente della propria identità e della propria missione. (…). Convinto che Dio fosse il Padre di tutti, promosse un movimento centrato sulla saggezza popolare, sulla cura e sulla comunione tra gli emarginati, che egli risollevò, accompagnò e animò, come destinatari ed eredi del Regno di Dio (cfr Mt 5,3; 11,5; Lc 6,20; 7,22). (…). Aveva la certezza che solo ai margini (fuori dal sistema dominante) si potesse edificare l’opera di Dio, e non certo in un’ottica di potere. Non utilizzò mezzi di reclutamento e di discriminazione classisti (…) propri dei gruppi di potere. Non addestrò un gruppo di combattenti (zeloti), né fondò una compagine di puri (farisei), né optò per un pugno di prescelti in mezzo a una massa di gente perduta. Non fece ricorso al denaro, né alle armi, né coltivò un vivaio di funzionari super competenti.

Non ebbe bisogno di edifici, né di dipendenti, ma proclamò e instaurò il Regno di Dio, senza mediazioni gerarchiche. Parlò con parabole che tutti potevano capire (…) e realizzò gesti che tutti potevano assumere, aprendo canali personali di solidarietà tra esclusi e bisognosi, come guaritore ed esorcista (…) e, soprattutto, come amico dei poveri. Accolse (perdonò) gli esclusi e condivise la mensa con chi veniva da lui, in cerca di salute, di compagnia o di speranza, prendendosi cura in maniera speciale dei bambini, degli infermi e di coloro che venivano espulsi dalla società. (…). 

Minacciati dal suo progetto, lo condannarono i sacerdoti di Gerusalemme, dove era andato a presentare la sua proposta, dopo aver trasmesso il suo messaggio e la sua solidarietà, nelle strade e nei paesi della Galilea, a uomini e donne, sani e malati, bambini e adulti. Non si era recato nelle città (Seforis, Tiberiade, Tiro, Gerasa), rifuggendo probabilmente le strutture urbane dominate da un’organizzazione classista, sotto la dominazione di Roma, e volendo diffondere un messaggio universale a partire dalle zone contadine in cui abitavano gli umili e gli esclusi della società (…), in maniera da includere tutti, al di sopra delle leggi di discriminazione sociale o religiosa della cultura dominante.

I primi destinatari del suo progetto erano i poveri, i pubblicani e le prostitute, gli affamati e gli infermi, chi era espulso dal sistema. A questi dedicò la sua vita, da questi volle far partire il suo movimento (…). Ma anche nella società dominante aveva simpatizzanti e amici, ai quali chiese che si lasciassero “curare” dai poveri, ponendosi al servizio della comunione del Regno.

Si circondò di seguaci e amici, alcuni dei quali lasciarono case e proprietà per accompagnarlo, e con essi si spostava, dando inizio al suo movimento. In questa linea, convocò i Dodici, scelti come rappresentanti e messaggeri del nuovo Israele (le dodici tribù), che inviò a predicare il messaggio, senza autorità amministrativa o sacrale (non erano sacerdoti né scribi), solo con l’autorità della vita. (…).

Morì per il delitto di aver annunciato un Regno universale, che risultava pericoloso per l’Impero e per il Tempio. (…). Morì, ma alcuni dei suoi seguaci, donne e uomini, lo scoprirono vivo (risorto) e ripresero il suo progetto.

Non tracciarono un unico camino, ma vari. Non erano pronti (pensavano che il Regno stesse per arrivare e che tutto si sarebbe risolto), né sapevano come si sarebbe dovuto organizzare il movimento, ma andarono avanti, perché il ricordo di Gesù e l’impulso dello Spirito (…) davano loro forza. (…). Inizialmente non sapevano in che modo, né fissarono un incontro istitutivo per definirne le strutture; ma il carisma e la libertà di Gesù li andò guidando nella creazione di gruppi di amici e seguaci, vincolati al suo ricordo e alla sua presenza (…).

I cristiani non avevano ministeri uguali in tutti i luoghi, ma operavano in modi diversi, in base ai gruppi e alle circostanze. Non ricrearono il sacerdozio sacro, in quanto tutti si sentivano sacerdoti, senza bisogno di un tempio come quello di Gerusalemme. A loro importava più il messaggio che l’organizzazione, più il carisma che la struttura, più la missione che il conto dei convertiti. (…). Solo più tardi, a consolidamento avvenuto, mirarono a un’unificazione dei ministeri.

Esistevano vari gruppi di cristiani, ebrei ed ellenisti, a Gerusalemme, in Galilea e nella diaspora, come fiumi che unendosi andavano a formare la Grande Chiesa, ma senza che nessuno dominasse sugli altri. Per questo, al principio non c’era uniformità, bensì diversi gruppi semi-indipendenti, vari modi di intendere l’unità e i ministeri (…).

Il Nuovo Testamento (completato verso il 150 d.C.) non conosce ministeri ordinati fissi, che sorgeranno più tardi, alla fine del II d.C. (…): «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti» (1Cor 12,4-6). (…). 

La Chiesa è pertanto un corpo centrato sulla comunione di tutti e non una gerarchia (gli uni sopra, gli altri sotto), secondo una linea di reciprocità, partendo da coloro che sono più in basso e ricevono meno onori, che, in base alla tradizione, sono i più importanti (Mc 9,33-37; 10,35-45; 1Cor 12,12-26). (…).

LA NASCITA DEL CLERO

Dopo due sconfitte (67-70 e 132-135 d.C.), gli ebrei accettarono in modo consapevole la fine del tempio (…) piangendo la propria condizione di orfani dinanzi al Muro del Pianto, per organizzarsi come federazione di sinagoghe libere, senza sacerdoti. I cristiani, invece, pur mantenendo il sacerdozio universale di tutti i credenti, “recuperarono” successivamente alcuni simbolismi sacri e gerarchici più propri dell’Antico Testamento e della politica romana che del messaggio di Cristo.

Il tema si impose a partire dal 150, quando diversi gruppi di tipo semi-gnostico (…) cercarono di separare il cristianesimo dalla sua base ebraica, per trasformarlo in una religione intimista (…). A ciò si oppose la Grande Chiesa  conservando l’origine ebraica e rafforzando alcuni elementi sacri dell’istituzione sacerdotale di Gerusalemme (…); nonché consolidando la propria indipendenza, con l’introduzione nella Scrittura di testi propri (Nuovo Testamento) e la riorganizzazione della vita e della liturgia a partire dall’Eucarestia o Memoria della Cena di Gesù, intesa in forma sacrificale, in una prospettiva che combinava elementi ebraici ed ellenisti, secondo un processo già in corso a partire del 200 d.C. (…).

Un processo, questo, che evitò il rischio di dissoluzione gnostica del cristianesimo, ma a costo di mettere a tacere importanti elementi del Vangelo, come la sacralità universale ed egualitaria di tutti i credenti. (…). Alla radice, il cristianesimo continuò a essere quello che era (…), ma accettò e sacralizzò di fatto la distinzione dei credenti su due livelli (ordini) all’interno della Chiesa.

Tale divisione, con cui le donne restarono escluse dalla gerarchia, si vincolò inoltre alla forma di celebrazione dei due grandi “sacramenti” cristiani: l’eucarestia (che doveva essere presieduta dal vescovo o da un suo delegato) e la riconciliazione o riammissione dei peccatori ufficiali nella Chiesa (che restò riservata al vescovo). E così:

– sorse il clero, formato da vescovi, presbiteri e diaconi maschi, elevati al di sopra del resto della Chiesa, come rappresentanti di Gesù, con autorità sacra: un ordine sacerdotale, come se la “grazia” di Dio passasse per loro tramite al resto dei fedeli. La Chiesa (…) si trasformò in un’istituzione di potere sacro, al servizio dei poveri, ma al di sopra di essi.

– E, dall’altra parte, restò il popolo, formato da laici: cristiani destinati ad ascoltare la parola e a ricevere i sacramenti offerti loro dal clero (…).

Questa divisione, pur non essendo evangelica, svolse una sua funzione, assicurando stabilità alla Chiesa, come organizzazione unitaria ed efficiente (sottosistema sacrale), in un mondo gerarchico. È questo il paradosso: i cristiani, che avevano rifiutato la gerarchia religiosa dell’Impero, venendone perseguitati, finirono per assumere, nel corso di un processo affascinante (e pericoloso) di rifondazione, molti dei suoi tratti sacri. (…). 

FARE RITORNO ALLE ORIGINI PER CREARE QUALCOSA DI NUOVO

Benché al principio le cose non stessero così, questa nuova situazione si consolidò a partire dal IV secolo d.C. (Costantino) e soprattutto dall’XI (Riforma Gregoriana), quando la Chiesa si trasformò in una gerarchia feudale, dipendente dal papa e dai vescovi. Il Vaticano II provò a tornare alle origini, ma non riuscì a farlo in modo coerente, dando spazio nei suoi documenti a due ecclesiologie:

– a livello teorico, predomina l’ecclesiologia di comunione, la Chiesa come Popolo di Dio, comunità di credenti, con ministeri che fioriscono dalla comunità. (…); 

– nei fatti, dominano le formulazioni giuridiche e pratiche dell’ecclesiologia gerarchica. (…). I dirigenti detengono il potere sacro, che esercitano al servizio del popolo, ma al di sopra di esso. Un’ecclesiologia rafforzatasi sul piano pratico dopo il Vaticano II, (…) ma che è messa in crisi dai tentativi di rinnovamento portati avanti da papa Francesco.

È una situazione schizofrenica: si parla di comunione (…), ma continua a dominare un’ecclesiologia del sacerdozio gerarchico, con l’avallo del nuovo Diritto Canonico (1983) e del Catechismo (1993) (…). Ciò di cui c’è bisogno non è una nuova facciata, qualche ritocco cosmetico in questioni controverse (celibato, crisi di “vocazioni”, ministeri femminili, esclusione delle donne, pedofilia…), ma un recupero in termini di identità.

Tornare al Vangelo, al sacerdozio dei poveri 

Dopo secoli di inerzia clericale (…), dobbiamo rompere la struttura clericale della gerarchia (…). Il modello sacerdotale dei ministeri è entrato in crisi, a causa della coscienza moderna di uguaglianza/fraternità e soprattutto per esigenza evangelica. (…). Vescovi e presbiteri sono ministri di una Chiesa di cui sono al servizio e da cui ricevono (con cui condividono) la Parola e il Sacramento di Gesù, nella consapevolezza che il sacerdozio appartiene all’insieme dei fedeli, in modo speciale ai poveri e agli emarginati (…). L’unità e l’autorità ecclesiale non risiedono in un potere unificato, né in un’organizzazione centrale, bensì nella comunione multiforme dei credenti, che diffondono e condividono la parola e il pane, a partire dagli esclusi.

Non si tratta di ottenere potere 

Il Vangelo non vuole conquistare il potere, ma superarlo. Il punto non è che i poveri lo assumano per governare meglio dei ricchi, ma che sconfiggano il potere (…) per creare forme distinte di legami sociali per tutti gli esseri umani. La conversione cristiana è una meta-noia (cambiamento di pensiero: Mc 1,15) e implica il superamento di un potere sociale di comando (cfr. Mc 10,41-45). Le Chiese devono creare altre forme di presenza e comunicazione che non siano in una linea di potere. Non si tratta del fatto che il papa, i vescovi e i presbiteri deleghino funzioni, concedendo alle comunità cristiane maggiore autonomia: non possono, infatti, dare quello che non è loro, bensì operare al di là del potere, (…) in maniera che le Chiese si espandano e si organizzino autonomamente, a partire dalla Vita e dalla Memoria di Gesù, per unirsi (al tempo stesso) in comunione e in dialogo, creando ministeri evangelici. È comprensibile che alcuni, in questa fase di cambiamenti, auspichino un nuovo concilio (…). Vorrebbero creare nuove strutture, risolvendo dall’alto questioni come il celibato, l’ordinazione delle donne, il potere dei vescovi, la celebrazione dell’eucarestia e la confessione. Però:

– forse non è il momento adatto per un concilio di vescovi, dal momento che la maggior parte delle nomine risponde a un principio di sacralità e persino di fondamentalismo: un Vaticano III a cui partecipassero solo loro sarebbe poco rappresentativo della Chiesa e della dinamica del Vangelo. (…).

– Bisogna cominciare dalla vita. Più che un concilio è importante che le Chiese esplorino e ricerchino cammini evangelici, in comunione mutua, senza attendere soluzioni dall’esterno. Per questo sembra necessario prendersi un tempo per la ricerca, per condividere la sofferenza degli emarginati e aprire insieme ad essi un cammino di libertà. Nessuno (dentro o fuori la Chiesa) deve dare ai cristiani l’autorità per pensare e celebrare, organizzarsi e decidere, in quanto loro stessi sono autorità (cfr. Mt 18,15-20), concilio permanente.

– Occorre superare l’endogamia. Un concilio centrato su temi ecclesiastici sarebbe un segno di egoismo, come dice papa Francesco. L’importante sono i poveri, più che le questioni di Chiesa. (…). L’autentico concilio è la vita quotidiana delle Chiese, in cui si creino forme concrete e impegnate di presenza e di servizio ai poveri, in comunione di vita.

Oltre quello che c’è. La grande utopia

(…). Sta trionfando in tutto il mondo un capitalismo anti-divino, opposto a ciò che dovrebbe essere la Chiesa: alcuni hanno addirittura proclamato l’avvento del Regno Finale del Capitale (F. Fukuyama, La fine della storia, 1992). Contro tale affermazione, continuiamo a camminare nella storia, verso la cattolicità cristiana della grazia che si esprime a partire dai poveri. Così, per coerenza storica e spirito evangelico, i ministri delle Chiese (tutti i credenti!) devono tornare al luogo in cui stava Gesù (e i primi cristiani: Maddalena, Pietro, Paolo…), tra gli affamati e gli emarginati dell’antico Impero, per riscoprire e ricreare la cattolicità del Vangelo. (…). Ciò presuppone che il sacerdozio di Gesù torni a far parte della vita delle Chiese, in quanto il battesimo, l’eucarestia e il perdono non sono un diritto di vescovi e presbiteri, ma un elemento essenziale delle comunità (…). Non è la gerarchia a creare l’eucaristia, ma il contrario: è l’eucarestia, celebrata dalla comunità, riunita nel nome di Gesù, a rendere possibile il sorgere di una comunità in cui i credenti abbiano doni e ministeri diversi, al servizio del corpo ecclesiale (cfr. 1Cor 12-14). (…). 

Ironia della storia: come delegati di Dio, alcuni sacerdoti di Gerusalemme (…), alleati con il sistema imperiale romano, condannarono Gesù (…), ma molti seguaci di quel Gesù, combattuto dal potere religioso e militare, ristabilirono una gerarchia simile, scendendo a patti con i nuovi soldati del mondo. (…).

Sacerdozio comune, ministeri nuovi 

(…). Non c’è niente e nessuno al di sopra dei fedeli, in quanto è il loro stesso amore reciproco, in comunione di Parola e Pane, a presentarsi come verità definitiva. In questo senso, tutti i cristiani possono e devono ascoltare e diffondere il Vangelo, in modi appropriati, con gesti distinti, come vuole 1Cor 12-14 e tutto il Nuovo Testamento.

Per questo, la prima cosa è potenziare il sacerdozio comune (…), in modo tale che nella Chiesa non vi sia posto per consacrati speciali, né sante sedi, né persone o luoghi santi (…). Non esiste per Gesù un mondo di Dio lassù, come sfera superiore di sacralità platonica, in quanto è questo mondo quaggiù (specialmente quello dei poveri e degli emarginati) a essere presenza di Dio.

(…). Tutto nella Chiesa è profano (laico), pur essendo al tempo stesso sacro, prossimo a Dio, espressione del suo mistero. Per questo, la missione cristiana non è creare un tras-mondo di santità, ma coltivare la vita di Dio in Cristo in questo mondo. Per essere quello che è e fare/dire quello di cui Gesù l’ha incaricata, la Chiesa non ha bisogno di una gerarchia sacra nello stile antico, né di strutture di potere (…). Bastano la Parola e l’Amore mutuo di Gesù, in modo che tutti i suoi fedeli ascoltino e dicano, condividano e celebrino la Parola, il Perdono e il Pane.

(…). In questa linea, il sacerdozio è la stessa vita cristiana, ed è solo sulla base di questo sacerdozio comune che si può e si deve parlare di ministeri speciali, al servizio della missione e della comunione cristiana. (…). 

Attualmente, l’eucarestia ufficiale dipende da un rituale complesso, presieduto da un ministro ordinato maschio (…), cosicché i battezzati non possono autonomamente proclamare e condividere la Parola e consacrare (benedire) il Pane di Gesù (…). Tale situazione contraddice la parola di Gesù («dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro», Mt 18,20) e lo scopo fondamentale del Vangelo, che è quello di scoprire e celebrare la Vita di Dio nella vita stessa degli esseri umani.

La tradizione dell’ordine gerarchico (in base a cui non esiste eucarestia senza un ministro ordinato dall’alto, celibe e maschio) ha stravolto l’esperienza di Gesù e della Chiesa primitiva, che partiva dalle comunità, le quali nominavano i propri ministri, in comunione (come è logico) con le comunità circostanti. Ma è giunto il momento di ricapovolgere tale situazione, tornando alla radice del Vangelo, in maniera che l’insieme della Chiesa recuperi la sua libertà creativa, il suo sacerdozio di base, superando l’attuale dicotomia tra clero e laici.

La prima cosa è allora il sacerdozio di base. Ogniqualvolta un gruppo di cristiani si riunisce, in buona fede, nel nome di Gesù, ascolta la sua parola e ne fa memoria nel pane e nel vino condivisi, possiamo e dobbiamo affermare che esiste eucarestia (…). Il modello attuale di Chiesa gerarchico/burocratico, con un vertice sacro a garantirne unità e missione, è secondario, successivo, e deve essere superato, così da recuperare la libertà delle prime Chiese che celebravano autonomamente l’eucarestia, in comunione con altre Chiese.

Su questa linea, la Grande Chiesa è comunione di comunità autonome, che apprendono a celebrare da sé, scegliendo a tale scopo i loro ministri. (…). 

Il sistema politico-sociale-economico è spietato con chi non gli è utile, escludendolo e negandogli i suoi benefici. Proprio tra questi emarginati la Chiesa deve edificare le sue comunità, scoprendo e celebrando la Vita a partire dall’esistenza minacciata degli esseri umani, al fine di esprimere il senso della creazione di un Dio che entra nella storia, manifestando il suo amore gratuito nell’amore che gli esseri umani provano e condividono.

Questioni aperte

(…). Non si tratta, allora, di sopprimere i ministeri, ma di far sì che abbiano più forza missionaria ed evangelica. Non sarà il vertice ecclesiale a promuovere e guidare in maniera efficiente questa ricreazione dei ministeri (…), per quanto sia auspicabile che esso partecipi, rompendo la macchina burocratica della curia romana e di altre curie episcopali per porsi al servizio del Vangelo.

Il cambiamento è iniziato già (come granello di senape) e andrà avanti per opera di persone e gruppi che assumano il Vangelo con nuovo spirito creativo, creando comunità di servizio mutuo e di contemplazione attiva. (…). 

(…). Non si tratta di trasformare alcune istituzioni, sopprimendo le vecchie e creandone di nuove, più moderne e democratiche in senso esteriore, né di sostituire le persone che oggi governano con altre migliori (cosa difficile e inutile, se si conservano le stesse strutture). Si tratta, piuttosto, di superare, partendo dal Vangelo, l’istituzione gerarchico/clericale, non per abbandonare i credenti all’improvvisazione o per condannare la comunità cristiana all’anarchia, ma per sperimentare e promuovere a partire da Gesù spazi umani in termini di affetti, di incoraggiamento, di perdono, di pane.

La risposta è tornare alle origini del messaggio di Gesù, alla sua esperienza del Regno, con lo stesso animo dei primi gruppi ecclesiali sorti per opera dello Spirito, per esplorare nuovi cammini in direzione del Vangelo. Tre sono, a mio giudizio, le questioni aperte.

– Proclamazione della Parola. (…). Non si tratterà di una Parola interpretata solo in forma privata (…), ma di una Parola ascoltata, condivisa e proclamata in nome dell’intera comunità.

– Impegno di conversione. (…). Per promuovere la conversione e affermare/celebrare il perdono devono sorgere ora ministeri che, pur non essendo gerarchico-clericali, siano profondamente efficaci, in quanto senza conversione sociale e perdono non c’è Chiesa.

– Celebrazione del Pane Condiviso, Eucarestia. Non c’è Chiesa senza memoria di Gesù e presenza di Dio nel pane concreto, pane dei poveri reali e di comunione universale, che si celebra, si vive e si canta. (…). 

 

più decisamente verso la chiesa povera per i poveri

con il Motu Proprio sui beni temporali

un passo decisivo verso la Chiesa povera per i poveri

le riforme introdotte richiamano l’attenzione della Chiesa alla sua “responsabilità di tutelare e gestire con attenzione i propri beni, alla luce della sua missione di evangelizzazione e con particolare premura verso i bisognosi”

I beni temporali, lecitamente detenuti dalla Chiesa, non possono però essere usati da quest’ultima per servire se stessa. Essi, infatti, devono essere posti a servizio della sua missione secondo l’esempio degli Apostoli: “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. (…) Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” . Le riforme introdotte richiamano l’attenzione della Chiesa alla sua “responsabilità di tutelare e gestire con attenzione i propri beni, alla luce della sua missione di evangelizzazione e con particolare premura verso i bisognosi”

Papa Francesco ha scelto di incentrare il suo pontificato sul rinnovamento della Chiesa nello spirito di povertà. È in questo senso che devono leggersi il Motu Proprio “Fidelis Dispensatur et Prudens”, gli Statuti dei tre nuovi organismi economici (Consiglio per l’Economia, Segreteria per l’Economia e Revisore Generale) ed il Motu Proprio “I beni temporali” del 4 luglio scorso.
Quest’ultimo, in particolare, ha ridisegnato i rapporti tra la Segreteria per l’economia e l’Apsa, ovvero, il soggetto giuridico che impersona la Santa Sede nei rapporti patrimoniali in Italia e all’estero, operando come una sorta di banca centrale (o meglio, di tesoreria). Esso rappresenta, dunque, il tassello ancora mancante del tentativo di importare nel governo economico-finanziario della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano il Planning- Programming-Budgeting System (PPDS system). Un sistema questo che – ormai collaudato sia nel settore pubblico che privato -, per funzionare correttamente e non creare distorsioni, rende però indispensabile un complesso sistema di controlli che vedono impegnati, con funzioni differenti, sia la Segreteria per l’Economia, sul fronte del controllo economico e della regolarità amministrativa e contabile, che l’Ufficio del Revisore Generale, su quello della revisione contabile.

Non si tratta, dunque, di mettere in discussione il diritto della Chiesa di possedere i mezzi materiali necessari per svolgere la sua missione, quanto piuttosto di interrogarsi sulla destinazione di tali beni e sul loro corretto utilizzo.

Una Chiesa povera per i poveri è, infatti, una Chiesa che mette tutti i propri averi esclusivamente al servizio della sua missione, seguendo l’esempio di Cristo e curando con attenzione quanto le è affidato, come un fidelis dispensatur et prudens (Lc, 12,42).
I beni temporali, lecitamente detenuti dalla Chiesa, non possono però essere usati da quest’ultima per servire se stessa. Essi, infatti, devono essere posti a servizio della sua missione secondo l’esempio degli Apostoli: “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. (…) Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti 2: 42.44s).
Occorre dunque, innanzitutto, sgombrare il campo dall’equivoco secondo cui una Chiesa povera per i poveri alluda a una Chiesa priva di mezzi materiali. In secondo luogo,

poiché il rinnovamento della Chiesa nello spirito di povertà va ben oltre l’esigenza di giustizia, essendo richiesto dalla stessa natura della Chiesa, quello su cui occorrerebbe soffermarsi sono invece le modalità attraverso cui assicurare un corretto uso delle risorse materiali e, di conseguenza, come costruire un solido contesto giuridico

– il cui centro è, per usare la felice espressione di Giovanni Paolo II contenuta nella Centesimus annus (42), etico e religioso – capace di fare da cornice alle attività economico-finanziarie della Chiesa.
Le riforme introdotte da Francesco richiamano l’attenzione della Chiesa alla sua “responsabilità di tutelare e gestire con attenzione i propri beni, alla luce della sua missione di evangelizzazione e con particolare premura verso i bisognosi” poiché, “la gestione dei settori economico e finanziario della Santa Sede è intimamente legata alla sua specifica missione, non solo al servizio del ministero universale del Santo Padre, ma anche in relazione al bene comune, nella prospettiva di uno sviluppo integrale della persona umana”. Infatti,

quanti più beni sono disponibili, quanto meglio vengono gestite le risorse a disposizione, tanto più la Chiesa potrà svolgere la propria missione.

Sulla scorta dell’insegnamento del Concilio Vaticano II, come i precedenti, anche questo Motu Proprio riafferma la strumentalità dell’uso dei beni temporali da parte della Chiesa rispetto al compimento della sua missione poiché è proprio in questo legame di strumentalità che si colgono le ragioni del possesso da parte della Chiesa di tali beni. Seguendo l’esempio di Cristo, infatti, che da ricco si fece povero (2 Cor 8, 9), la comunità ecclesiale è chiamata a vivere anche nella gestione dei propri beni temporali il medesimo spirito di povertà.
Sul piano pratico tali considerazioni non sono prive di conseguenze. Poiché la liceità del possesso di beni da parte della Chiesa è subordinata alla loro effettiva necessità in funzione degli scopi ecclesiali, il rapporto di necessità esistente tra beni temporali (mezzi) e fini perseguiti pone in capo a coloro che sono chiamati a svolgere ruoli di amministrazione e gestione di tali beni una particolare diligenza che passa attraverso l’esercizio delle virtù umane e l’adozione di strumenti trasparenti nella gestione del patrimonio della Chiesa, sia per i cosiddetti beni “finali” (ovvero, quelli che servono direttamente al fine) che per i beni “strumentali” (ovvero, quelli che servono solo indirettamente al fine, fornendo un reddito).
L’impegno di Francesco per una Chiesa povera per i poveri è sintomatico della volontà del Pontefice di fare del proprio pontificato un tentativo di realizzare quelle condizioni istituzionali, oltre che di natura etica e religiosa, per garantire il corretto uso delle risorse della Chiesa e la loro destinazione preferenziale in favore degli ultimi e degli esclusi dalla società dello scarto.
Queste riforme – con il loro richiamo alla responsabilità della Chiesa di tutelare e gestire con attenzione i propri bene, alla luce della sua missione e dell’opzione preferenziale per i poveri – rappresentano, perciò, la pietra angolare di una nuova cornice giuridico-istituzionale all’interno della quale dovrà inquadrarsi la gestione delle risorse ecclesiali. In tal modo, esse segnano l’avvio di un percorso che porterà la Chiesa, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II, a ridefinire il proprio assetto organizzativo e funzionale al fine di rispondere con maggiore efficacia alle esigenze contingenti del nostro tempo e a diffondere un rinnovato spirito di servizio nelle istituzioni ecclesiali.

il ruolo delle donne nella chiesa – intervista ad Antonietta Potente

  

“le diaconesse?

 è più urgente cambiare la struttura piramidale nella comunità di fedeli”

intervista con la teologa morale suor Antonietta Potente sulla spiritualità e il ruolo delle donne nella Chiesa

suor Antonietta Potente

«Non è in gioco solo il nostro essere ammesse o non ammesse come diaconesse o sacerdotesse, ma è in gioco, a mio avviso, il cambio strutturale nella comunità di credenti. Da una piramide alla circolarità»

A pensarla così è una donna. La teologa morale suor Antonietta Potente, domenicana di 57 anni, ora radicata a Torino; ha vissuto diciotto anni in Bolivia dove ha sperimentato una forma vita comunitaria con i contadini indigeni. Docente di Teologia morale presso l’Angelicum di Roma, nella Facoltà teologica dell’Italia centrale a Firenze e nell’Università Cattolica di Cochabamba (Bolivia), è stata anche membro della Conferenza latinoamericana dei Religiosi e collabora con l’Istituto ecumenico di Teologia andina di La Paz.

 

Secondo Lei le donne potrebbero avere un ruolo maggiore nella Chiesa con il magistero di papa Francesco?

«Ammetyo che papa Francesco ha dato un’altra chiave di lettura su tutto, e anche riscatta un po’ questo ignorare le donne per molto, molto tempo. Non dico per secoli perché credo che nel I secolo erano molto più protagoniste di quanto lo siamo oggi. Però certamente poi siamo cadute nell’ombra, non è che non ci venga dato un posto, ma è un posto come quello di Sara che resta nella tenda e guarda da lì. Io credo che in questo momento, come sta succedendo riguardo alle coppie separate, alla questione gay, alle unioni civili, anche su questo sta avvenendo qualcosa. A me sinceramente quello che inquieta un po’ è che comunque noi donne dobbiamo aspettare che gli uomini si mettano d’accordo per decidere se siamo ammesse o non siamo ammesse». 

 

Che cosa pensa del dibattito che si è creato intorno alla possibilità di aprire alle diaconesse?  

«La questione delle diaconesse, che è un ruolo, mi sembra un po’ come le quote rose dei partiti: vediamo qual è il partito che ha più donne. Quello che invece si dovrebbe fare e riconoscere è questa grande presenza alternativa, questa lettura alternativa che noi facciamo della storia da secoli. E anche un po’ lasciarsi criticare da noi donne. Fino a quando ci si circonderà di donne che sanno solo dare ragione, non cambierà nulla. Nella Chiesa serve davvero una certa critica, perché non è in gioco solo il nostro essere ammesse o non ammesse come diaconesse o sacerdotesse, ma è in gioco, a mio avviso, il cambio strutturale nella comunità di credenti. Da una piramide alla circolarità, perché, nonostante papa Francesco, la struttura piramidale esiste ancora». 

 

Anche quel clericalismo tante volte denunciato da papa Francesco…  

«Non va bene questo sentirsi pastori investiti di qualcosa di molto più grande di quello che è l’investitura quotidiana di tante donne e anche uomini. E poi, credo che se si ammettessero le donne al sacerdozio bisognerebbe anche ammettere tutti i laici che già si riconoscono in una vocazione di questo tipo. Però se la Chiesa continua con questa struttura piramidale, se le comunità continuano con questa struttura, mi sembra difficile. Sia riguardo alle donne, all’essere presenti nell’ambito della formazione oppure a esercitare determinati ministeri. Penso che il grande ostacolo sia questa grande struttura, che ormai ha secoli». 

 

Nella relazione finale del Sinodo sulla famiglia si legge che «la presenza dei laici e delle famiglie, in particolare la presenza femminile, nella formazione sacerdotale, favorisce l’apprezzamento per la varietà e la complementarietà delle diverse vocazioni nella Chiesa». Così le donne potrebbero trovare più spazio in generale nella vita delle comunità?

«Sì, per esempio in America Latina questo avveniva molto. La maggior parte degli studenti nella facoltà dove insegnavo in Bolivia erano seminaristi o comunque religiosi chiamati poi al sacerdozio. Il problema è che probabilmente siamo poche voci rispetto a quello che è tutto il resto della formazione. Io sono molto critica…». 

 

Lei è vissuta con i campesinos aymara della Bolivia. Cosa potrebbero imparare i laici e la Chiesa in generale dalle donne indigene?  

«Penso possano imparare tanto. Loro, le donne, hanno una grande capacità strategica e di esistenza. Mi sembra che somiglino a quelle donne bibliche, che nei momenti più disperati di un popolo riescono a trovare delle strategie particolari di vita, di vita concreta, cioè non solo di idee, di parole. In fin dei conti anche chi regge l’economia laggiù sono le donne, sia l’economia informale che quella riconosciuta. È vero che se uno guarda superficialmente, magari nelle riunioni comunitarie, sembra che parlino gli uomini e che le donne non partecipino. Stando lì, a me è sembrato il contrario. Le donne hanno comunque una forza, non è solo come ruolo, ma anche como pensiero, perché il pensiero nella cultura indigena è femminile. Non dico un femminile escludente, perché nella loro cultura c’è un netto bilanciamento». 

le scuse che i cristiani devono chiedere ai gay parola di papa Francesco

“Serve un’Europa che non litighi più e ritrovi l’unità”

intervista a papa Francesco

a cura di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 27 giugno 2016

le parole dette durante le conferenze stampa che vengono improvvisate durante i viaggi pastorali del papa vanno accolte con attenzione, ma non possono nemmeno essere enfatizzate al di là del loro significato specifico. La dottrina non cambia certamente, ma il fatto che il papa abbia ammesso che anche ai gay la chiesa debba chiedere scusa per le tante sofferenze che hanno dovuto patire per causa sua, è senz’altro un fatto molto positivo

sul volo Yerevan-Roma   papa genocidio

«Per me l’unità è sempre superiore al conflitto, ma ci sono diverse modi di stare insieme. C’è qualcosa che non va nella Unione Europea, ci vuole creatività. Serve una nuova Unione». Lo ha detto Francesco dialogando con i giornalisti sul volo di ritorno dall’Armenia.

Credo che la Chiesa, o meglio i cristiani – perché la Chiesa è santa – non solo devono chiedere scusa (ai gay) ma devono farlo anche con i poveri, le donne sfruttate, devono chiedere scusa di aver benedetto tante armi, di non aver accompagnato tante famiglie. Come cristiani, dobbiamo chiedere tante scuse, non solo su questo. Perdono Signore!

Come Giovanni Paolo II lei sembra sostenere l’Unione Europea. È preoccupato che Brexit possa portare alla disintegrazione dell’Europa e anche alla guerra?

«La guerra già c’è in Europa. Poi c’è un’aria di divisione, non solo in Europa. La Catalogna, l’anno scorso la Scozia… Queste divisioni non dico che siano pericolose, ma bisogna studiarle bene e prima di fare un passo verso la divisione, bisogna parlare e cercare soluzioni percorribili. Non ho studiato quali siano i motivi per cui il Regno Unito abbia voluto prendere questa decisione. Ci sono decisioni che si fanno per emanciparsi: ad esempio tutti i nostri Paesi latinoamericani o quelli africani, si sono emancipati dalle colonie. Invece la secessione di un Paese – non sto parlando qui del Regno Unito – può portare a una “balcanizzazione”, come la chiamano i politici. Per me sempre l’unità è superiore al conflitto, ma ci sono diverse modi di stare insieme. La fratellanza è migliore delle distanze. I ponti sono migliori dei muri. Tutto questo ci deve far riflettere: un Paese può dire sono nell’unione europea, voglio avere certe cose che sono mia cultura. Il passo che la Ue deve dare per ritrovare la forza delle sue radici è un passo di creatività e anche di sana “disunione”, cioè dare più indipendenza e più libertà ai paesi dell’Unione, pensare a un’altra forma di unione. Bisogna essere creativi nei posti di lavoro, nell’economia: in Italia il 40 per cento dei giovani dai 25 anni in giù non ha lavoro. C’è qualcosa che non va in quell’Unione massiccia. Ma non buttiamo il bambino con l’acqua sporca e cerchiamo di ricreare. Creatività e fecondità sono le due parole chiave per l’Unione europea».

Perché ha deciso di aggiungere la parola «genocidio» nel suo discorso al palazzo presidenziale?

«In Argentina quando si parlava di sterminio armeno sempre si usava la parola genocidio. Quando arrivo a Roma mi dicono che genocidio è una parola offensiva. Io sempre ho parlato dei tre genocidi del secolo scorso: quello armeno, quello di Hitler e quello di Stalin. Alcuni dicono che non è vero, che non è stato un genocidio. Un legale mi ha detto che è un parola tecnica, che non è sinonimo di sterminio. Dichiarare un genocidio comporta azioni di riparazione. L’anno scorso, quando preparavo il discorso per la celebrazione in San Pietro, ho visto che san Giovanni Paolo II ha usato la parola, e io ho citato tra virgolette ciò che lui aveva detto. Non è stato ricevuto bene, c’è stata una dichiarazione del governo turco che ha richiamato in pochi giorni l’ambasciatore ad Ankara. È tornato alcuni mesi fa. Tutti hanno diritto alla protesta. Non c’era la parola nel testo preparato, ma dopo aver sentito il tono del discorso del presidente armeno, e per il mio uso precedente della parola, sarebbe suonato molto strano non dire ciò che avevo già detto l’anno scorso. Volevo però sottolineare un’altra cosa: in questo genocidio, come negli altri due, le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte. Durante la Seconda Guerra mondiale, alcune potenze avevano la possibilità di bombardare le ferrovie che portavano ad Auschwitz, e non l’hanno fatto. Nel contesto dei tre genocidi si deve fare questa domanda: perché non avete fatto qualcosa? Non so se è vero, ma si dice che Hitler quando perseguitava gli ebrei, avesse detto: “Chi si ricorda oggi degli armeni? Facciamo lo stesso con gli ebrei”. Ma la parola genocidio mai io l’ho detta con l’animo offensivo, ma oggettivamente».

C’è il Papa e c’è il Papa emerito. Mons. Georg Gänswein è sembrato suggerire l’idea che ci sia un ministero petrino «condiviso». Ma allora ci sono due Papi? 

«C’è stata un’epoca in cui ce n’erano tre! Benedetto XVI è Papa emerito, lui ha detto chiaramente
quell’11 febbraio che dava le sue dimissioni a partire dal successivo 28 febbraio. Che si ritirava ad aiutare la Chiesa con la preghiera. Lui per me è il nonno saggio, è l’uomo che mi custodisce le spalle con la sua preghiera. Non dimentico quel discorso fatto ai cardinali il 28 febbraio quando disse: “Tra voi c’è il mio successore: prometto obbedienza a lui”. E lo ha fatto! Poi ho sentito, non so se è vero, una diceria su alcuni che sarebbero andati da lui a lamentarsi per il nuovo Papa. E li avrebbe cacciati via con il suo stile bavarese. Se non è vero, è ben trovato, perché è un uomo di parola, è retto. C’è un solo Papa, l’altro è emerito. Forse in futuro potranno essercene due o tre, ma emeriti. Benedetto è grande uomo di preghiera e di coraggio. È l’emerito, non il “secondo Papa”».

Il cardinale Marx ha detto che la Chiesa cattolica deve chiedere scusa alla comunità gay per aver marginalizzato queste persone. Che cosa ne pensa?gay

«Ripeto con il Catechismo che queste persone non vanno discriminate, devono essere rispettate e accompagnate pastoralmente. Credo che la Chiesa, o meglio i cristiani – perché la Chiesa è santa – non solo devono chiedere scusa come ha detto quel cardinale “marxista”… ma devono farlo anche con i poveri, le donne sfruttate, devono chiedere scusa di aver benedetto tante armi, di non aver accompagnato tante famiglie. Come cristiani, dobbiamo chiedere tante scuse, non solo su questo. Perdono Signore! Tutti noi siamo santi, perché abbiamo lo Spirito Santo, ma siamo tutti peccatori, io per primo».

su Vaticaninsider.it l’integrale dell’intervista

il vescovo Tardelli risponde – ancorché in modo un po’ abbottonato – alle lettera dei cristiani omosessuali

Omosessualità. Lettera aperta alla Chiesa di Pistoia

omosessualità

lettera aperta alla Chiesa di Pistoia

Siamo un gruppo di donne e di uomini cristiani omosessuali che da quattro anni hanno dato vita ad una esperienza pastorale presso la comunità parrocchiale di Vicofaro (Pt). Con la guida di don Massimo Biancalani ci incontriamo per camminare insieme, per conciliare due dimensioni fondamentali e irrinunciabili della nostra vita: la fede in Gesù Cristo e l’omosessualità

https://www.youtube.com/watch?v=mkxUbJF6HX0&feature=youtu.be

Sollecitati e incoraggiati dal magistero di papa Francesco e da una nuova stagione di apertura e dialogo della Chiesa, vogliamo far giungere alla nostra comunità diocesana un appello: che tra i credenti e nelle comunità si compia uno sforzo per superare ataviche diffidenze, storici pregiudizi e talvolta atteggiamenti discriminatori nei confronti delle persone omosessuali ma soprattutto ci si impegni ad ascoltarle e accoglierle. Ai feriti e ai delusi dalla Chiesa, come spesso si sentono le persone omosessuali, la comunità cristiana non offra semplicemente una “dottrina sull’omosessualità” ma prima di tutto disponibilità all’ascolto, misericordia e soprattutto la disponibilità a fare un cammino insieme.

Conosciamo molto bene ciò che le persone omosessuali vivono, in termini di frustrazioni e immotivati sensi di colpa, in rapporto alla vita nella Chiesa e al personale cammino di fede. Comprendiamo anche che certe “durezze” di un insegnamento antico di secoli non possono essere riviste in un giorno. Accogliamo positivamente il recente appello dei padri sinodali e di papa Francesco, i quali ribadiscono «che ogni persona, indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione». Anche questa è dottrina! Rimaniamo dunque convinti che la Chiesa non cesserà mai di essere in cammino per raggiungere «verità sempre più grandi».

Vogliamo essere fratelli e sorelle attivi protagonisti in una Chiesa che non sappia dire soltanto dei “no”, che non si chiuda dietro antiche sicurezze, paralizzata da tante paure, trincerata dietro supposti “principi non negoziabili” ma che sappia invece leggere i “segni dei tempi”. Riteniamo doveroso chiedere che le nostre comunità si aprano ad una pastorale rivolta agli omosessuali e ai transessuali: ciò aiuterebbe molte persone a sentirsi finalmente accolte, per quello che sono, nella Chiesa, abbattendo quel muro di diffidenza e incomprensione.

La nostra esperienza pastorale con e per le persone omosessuali si esprime come un gruppo aperto ed ecumenico. Molti di noi sono impegnati nella società e nella Chiesa, alcuni come catechisti, operatori pastorali e della carità. Tutti siamo passati attraverso il dolore della solitudine e  della incomprensione da parte delle persone più care, attraverso la paura di aprirsi, per condividere i propri sentimenti e le proprie angosce.

Rivolgiamo un appello alla nostra Chiesa, al vescovo, ai presbiteri, ai diaconi, alle religiose e ai religiosi, ai consigli pastorali, alle comunità parrocchiali: incontriamoci! Il dialogo e la conoscenza reciproca possono fare tanto per far crescere la nostra Chiesa nel suo intento di condividere «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi».

Spesso ci siamo detti o ci siamo sentiti dire: “Tu non puoi essere così, Dio non può volere questo”. Oggi, dopo anni di sofferenze, sappiamo che negare a se stessi o ad altri di essere ciò che nel profondo siamo, può fare più male di un’ingiusta discriminazione.

Siamo certi che Dio ci ama così come siamo, come ama l’umanità intera e che siamo chiamati a mettere a frutto la nostra capacità di amare pienamente come persone. È con questo intento colmo di speranza nel futuro che continueremo a camminare insieme.

La risposta del vescovo di Pistoia, mons. Fausto TardelliTardelli

La lettera inviatami è un invito alla riflessione e come tale la prendo.

Per ora posso dire che ogni persona, qualsiasi siano le sue tendenze sessuali, deve essere rispettata e accolta e sono assolutamente inaccettabili e condannabili tutti i tipi di offesa e tanto più gli atti di violenza.

Gli omosessuali come gli eterosessuali, come ogni persona che voglia essere cristiano d’altra parte, devono sforzarsi di vivere secondo gli insegnamenti di Cristo trasmessi dalla Chiesa.Tardelli1

Tutte le proposte pastorali, anche auspicabili, della Chiesa pistoiese non possono che muoversi su questa duplice linea.

+ Fausto Tardelli

* Immagine di Trishhhh, tratta dal sito Flickr, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

l’ecumenismo della vita al di là di tutte le barriere ideologiche

Punjab

musulmani finanziano la costruzione di una chiesa cattolica

Tonio Dell’Olio
Contadini musulmani che contribuiscono ad una raccolta fondi per la costruzione di una chiesa cattolica. È il grande gesto di generosità di cui sono protagonisti gli abitanti di Khalsabad, chak (villaggio in lingua urdu) del Punjab, situato vicino a Gojra. Lì le famiglie cristiane sono solo otto, e la cappella di fango che usavano come luogo di culto è stata distrutta dalle piogge monsoniche dell’ultimo anno. Costretti a pregare in casa, i cattolici hanno deciso di fondare una nuova chiesa e hanno chiesto aiuto alla cittadinanza

“Ho saputo di questo progetto in un incontro comunitario il mese scorso – afferma Dilawar Hussain, negoziante musulmano –. Anche una chiesa è una casa di Allah, la preghiera è ciò che conta. Noi veneriamo lo stesso Dio”. Hussain ha donato 10mila rupie (95 dollari) per la costruzione del nuovo luogo di culto, mentre un uomo d’affari locale ha deciso di devolvere 30mila rupie alla commissione del villaggio che si occupa dei lavori. Per ora sono stati eretti i muri esterni della struttura. “Questo è dialogo della vita”, afferma p. Aftab James Paul commentando le donazioni. Il sacerdote è assistente parroco della chiesa di San Fedele a Khushpur e Khalsabad è uno dei 56 villaggi a cui fa visite pastorali: “Un altro fedele musulmano ha donato 2mila rupie la domenica di Pasqua”, fa sapere. P. Paul, che per nove anni ha guidato la commissione della diocesi di Faisalabad per il dialogo interreligioso, afferma che non è la prima volta in cui i musulmani aiutano la costruzione di un luogo di culto cattolici. Nel 2005 fu finanziata una chiesa nel sotto distretto di Gojra Tehnsil. L’area, però, divenne famosa solo nel 2009 per un episodio negativo: a seguito di sospetti di blasfemia, 10 cristiani furono uccisi, almeno sette dei quali arsi vivi. Quattro chiese furono distrutte nell’attacco. “Abbiamo troppi pregiudizi – afferma il sacerdote – e lasciamo che le azioni di pochi facciano ricadere la colpa su tutti i fedeli dell’islam”.

fonte: Kamran Chaudhry in AsiaNews.it

un libro che racconta il ’68 nella chiesa

Alle radici del dissenso cattolico. Un libro racconta il ’68 nella Chiesa

alle radici del dissenso cattolico

 

un libro racconta il ’68 nella Chiesa

 da: Adista Notizie n° 19 del 21/05/2016
un libro prezioso, per chi voglia conoscere la temperie culturale, i nomi, le date, gli avvenimenti, le ragioni e le dinamiche che hanno contrassegnato, all’interno della più generale mobilitazione di una intera generazione – quella del “mitico” ’68 composta da ampi settori della sinistra di classe e dei movimenti giovanili – il cosiddetto “dissenso cattolico”. Un libro, per di più, scritto da un “esperto” della materia (ma con un linguaggio non specialistico e con un buon taglio narrativo), cioè uno storico contemporaneista. Si tratta di La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68 di Alessandro Santagata, appena pubblicato per i tipi dell’editore Viella (2016, pp. 284, euro 28) 

 

Il volume nasce dalla rielaborazione della sua tesi di dottorato all’Università degli studi di Roma Tor Vergata e trae spunto dalla conclusione delle celebrazioni del cinquantenario del Concilio Vaticano II (1962-1965) e dall’ampio dibattito che questo anniversario ha suscitato, dentro e fuori la Chiesa. È infatti il Concilio il motore stesso, secondo Santagata (ma la pensano allo stesso modo molti dei cattolici che furono protagonisti di quegli anni, a partire da Raniero La Valle) di tutte le dinamiche che a livello ecclesiale si innescarono negli anni successivi alla sua conclusione. Anche perché nell’Italia del boom economico e del post Concilio si inizia ad avvertire come insopportabile ed opprimente lo scarto tra le attese di riforma che venivano dal Vaticano II e la loro concreta attuazione in un Paese in cui era (ed è) in vigore il Concordato stipulato con il regime fascista, ma anche dentro una Chiesa che, dal centro alla periferia, era ancora strutturata ed organizzata sul modello tridentino. Vi è poi da considerare l’inizio della “diaspora” dei credenti che, rifiutando il dogma dell’unità politica del cattolici, iniziavano a guardare con sempre maggiore interesse verso sinistra, al Psi, al Pci ma anche alle formazioni della “Nuova Sinistra”. E anche la secolarizzazione avanzava in modi e forme – dentro e fuori la Chiesa (divorzio, obiezione di coscienza, libertà sessuale e legalizzazione degli anti-concezionali) – che apparivano foriere di grandi trasformazioni. Anche per questo, «dalla fine degli anni Sessanta – scrive Santagata nella sua introduzione – si era diffusa ai vertici della Chiesa l’idea che un’apertura alla contemporaneità, come quella portata avanti da certi ambienti post-conciliari, avrebbe condotto il cristianesimo romano a perdere la propria identità. Occorreva di conseguenza prendere le distanze da questa visione dell’“aggiornamento” e (ri)leggere il Concilio nella tradizione tridentina per interpretare correttamente quei punti che potevano apparire di rottura con l’insegnamento precedente». La secolarizzazione e le spinte conciliari sarebbero quindi state, ancor prima del marxismo, determinanti nelle rapide trasformazioni che investivano la Chiesa istituzionale, oltre che quella “reale” delle comunità e dei gruppi ecclesiali. Per questa ed altre ragioni, alla fine di un processo convulso e non privo di contraddizioni, l’istituzione ecclesiastica deciderà di marginalizzare, o condannare, una parte del movimento conciliare, pretendendo di porlo “fuori” dalla Chiesa; un tentativo in parte riuscito in parte fallito, visto il risultato che questa parte più radicalmente fedele al dettato conciliare riuscirà a realizzare sia nella propria militanza politica, sia nella testimonianza ecclesiale. E però, spiega Santagata, «sull’impatto del Concilio non esiste ancora un retroterra di ricerche storiche tale da tenere insieme i contesti nazionali con quello romano; il piano ecclesiale con quello culturale, sociale e politico. I contributi più importanti sono venuti dai teologi e dagli studiosi di storia della Chiesa ma, in molti casi, questi risentono di una prospettiva non sufficientemente attenta alle relazioni tra l’universo religioso e quello secolare».

Concilio: figli e figliastri

Il libro, che ha per oggetto la nascita della contestazione cattolica e non il suo successivo sviluppo, tralascia la polemica intra-ecclesiale sull’ermeneutica del Vaticano per privilegiare la ricezione politica come punto centrale dello scontro tra due letture diverse del Concilio; solo infatti all’interno della più generale trasformazione della società italiana è possibile, secondo l’autore, leggere anche quella del cattolicesimo. In questa prospettiva, la nascita del “dissenso” viene raccontata «privilegiando la chiave interpretativa politico-religiosa» (a discapito di una ricostruzione complessiva del fenomeno, dei suoi attori e campi di azione). È così possibile per Santagata mettere in luce le diverse matrici e declinazioni della contestazione, oltre che l’incidenza del fenomeno nei vari ambienti e nelle organizzazioni che ne componevano il segmento cattolico. «Il risultato – scrive l’autore – è stato restituire il dissenso alla storia della trasformazione italiana, spiegandone il significato nell’intreccio tra questa e il percorso di ricezione conciliare».

Certo, un quadro veramente esaustivo di tutte le realtà che hanno composto il mosaico della contestazione cattolica è forse impossibile da condensare in un volume. Anche per questa ragione Santagata ha scelto di privilegiare l’attenta analisi della genesi e del primo sviluppo della “contestazione cattolica”, inserita nella complessità della storia della società e della Chiesa italiana degli anni ‘50-’60. In questo modo l’autore riesce comunque a fornire alcuni elementi fondamentali per comprendere i caratteri e gli elementi unificanti anche della stagione politica ed ecclesiale successiva. Il libro prende inoltre in esame solo alcuni movimenti che hanno caratterizzato il ’68 cattolico (Gioventù studentesca e i gruppi spontanei, dai quali deriveranno da un lato esperienze come Comunione e liberazione; dall’altro movimenti come quello delle Comunità Cristiane di base) e dà ampio spazio alla pubblicistica, in particolare, alle riviste più impegnate nella discussione sui rapporti tra fede e politica dopo il Vaticano II. Le quali, rileva Santagata, svolsero un ruolo importantissimo nel creare coscienza e nel veicolare strumenti teorici e materiale di riflessione per una intera generazione di cattolici impegnati in politica. Basti pensare alla saldatura tra le istanze del movimento del ‘68 e quelle dei giovani cattolici (l’occupazione nel 1967 della Cattolica di Milano; l’occupazione, nel 1968, del duomo di Parma da parte di giovani cattolici, diversi dei quali impegnati nella Fuci); oppure l’avvicinamento fra cattolici e marxisti a partire dai temi del pacifismo, del disarmo, del terzomondismo, dell’opposizione alla guerra del Vietnam, ecc.

Tra queste riviste, anche Adista, di cui Santagata parla in diverse occasioni, rilevando in particolare il ruolo di collegamento svolto dalla nostra testata, assieme a Questitalia (che con Vladimiro Dorigo ne era stata sin dall’inizio l’ispiratrice e l’organizzatrice) ed a Settegiorni in occasione del secondo incontro nazionale del febbraio 1968 a Bologna dei gruppi spontanei della nuova sinistra (“Credenti e non credenti per una nuova sinistra”), alla presenza di circa 600 partecipanti, rappresentativi di oltre 80 circoli. Il libro accenna poi solo rapidamente agli anni della repressione e della marginalizzazione delle istanze post conciliari. La “restaurazione aggiornata” di Paolo VI, la stretta repressiva nei confronti di teologi, preti, religiosi, gruppi e realtà di base di “frontiera”, il sostegno ai movimenti carismatici ed all’Opus Dei, l’elezione di Giovanni Paolo II e la lotta senza quartiere alla Teologia della Liberazione, il “ventennio ruiniano” alla guida della Chiesa, la “notte” politico-istituzionale della Repubblica (datata almeno dal rapimento e assassinio di Aldo Moro) sono tutte ragioni che spiegano l’arretramento di quelle istanze, di quelle ragioni, di quelle speranze che avevano animato il ’68 dentro la Chiesa. Che però, come un fiume carsico, nel corso di questi 50 anni sono spesso riemerse. E tante volte hanno trasformato in profondità se non l’istituzione ecclesiastica, per lo meno le pratiche (oltre che i riferimenti teorici ed ideali) che ancora innervano il tessuto ecclesiale del Paese.

un nuovo futuro per le donne nella chiessa?

papa Francesco apre al diaconato femminile, una “possibilità per oggi”

annuncia che istituirà una Commissione di studio

papa Francesco ha annunciato che istituirà una Commissione di studio sul diaconato femminile come esisteva nella Chiesa primitiva, ritenendo che le donne diacono sono “una possibilità per oggi”. Il Papa lo ha detto durante l’udienza di oggi in Vaticano con l’Uisg, l’Unione internazionale delle superiori generali, rispondendo a una domanda

Papa Francesco, durante l’udienza cui partecipavano circa 900 rappresentanti dell’Uisg e delle comunità religiose femminili, ha annunciato che creerà una commissione per studiare la possibilità di consentire alle donne di servire come diaconi nella Chiesa, indicando così la possibilità di una storica apertura per porre fine alla prassi di un clero esclusivamente maschile. Nel corso della sessione di domande e risposte, è stato chiesto tra l’altro al Papa perché la Chiesa esclude le donne dal servire come diaconi. Le religiose hanno detto al Pontefice che le donne servivano come diaconi nella Chiesa primitiva e hanno chiesto: “Perché non costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione?”. Il Pontefice ha risposto che una volta aveva parlato della materia qualche anno fa con un “buon, saggio professore”, che aveva studiato l’uso delle donne diacono nei primi secoli della Chiesa. Francesco aveva spiegato che non gli era ancora chiaro quale ruolo avessero tali diaconi. “Che cos’erano questi diaconi femminili?”, ha ricordato il Papa di aver chiesto al professore. “Avevano l’ordinazione o no?”. “Era un po’ oscuro”, aveva detto. “Qual era il ruolo della diaconessa in quel tempo?”. “Costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione?”, ha quindi chiesto Bergoglio ad alta voce. “Credo di sì. Sarebbe bene per la Chiesa chiarire questo punto. Sono d’accordo. Io parlerò di fare qualcosa del genere”. “Accetto”, ha detto il Papa successivamente. “Mi sembra utile avere una commissione che lo chiarisca bene”.

la chiesa italiana chiede per tutti i richiedenti il permesso umanitario

la Fondazione Migrantes

“permesso umanitario per tutti i richiedenti”

Perego

È quanto ha affermato monsignor Perego, direttore dell’Ente Cei:

«Sta crescendo il popolo dei diniegati, che potrebbe arrivare a 40mila migranti. Serve valutare, da parte del Governo, questa possibilità per evitare un popolo di invisibili, sfruttati»
«Sta crescendo il popolo dei diniegati, che nel corso dell’anno potrebbe arrivare al numero di 40mila migranti. Serve valutare, da parte del Governo, la possibilità di un permesso di soggiorno umanitario per evitare che si crei un popolo di invisibili, sfruttati».

È quanto ha affermato monsignor Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes della Cei, intervenendo ieri al convegno del Cvm a Porto San Giorgio (Fermo), dal titolo «Frontiere umane, Popoli migranti».

«Le Commissioni territoriali di fatto stanno operando sulla base di una lista dei paesi sicuri e stanno negando una forma di protezione internazionale o umanitaria talvolta a nove su dieci dei richiedenti. Questa situazione creerà un fenomeno grave, perché il Governo non sarà in grado di rimpatriare le persone, le persone stesse si renderanno irreperibili e sul territorio si creerà una situazione di insicurezza per le persone migranti o residenti», ha detto Perego.
«Occorre utilizzare uno strumento che il Testo unico sull’immigrazione prevede, cioè un decreto del presidente del Consiglio che offra la possibilità di un permesso umanitario per le persone in fuga da disastri ambientali, da persecuzione politica e religiosa, da sfruttamento grave», ha aggiunto il Direttore della Migrantes.

i cristiani omosessuali attendono risposte dalla chiesa

le domande dei cristiani omosessuali

 da l’Avvenire

«la pastorale della Chiesa è chiamata ad innescare processi di cambiamento, conversione, promozione, liberazione. Questo significa optare per la formazione della coscienza che sappia scorgere la volontà di Dio nel quotidiano, qui ed ora, piuttosto che una generica e spersonalizzante affermazione di principi astratti »

Si chiamano cristiani lgbt. Pregano, riflettono sulla propria condizione e mandano ai vescovi documenti con proposte pastorali. Sono anche riuniti in un Forum che, una volta l’anno, chiama a raccolta chi, ritrovandosi in questa complessa “frontiera esistenziale”, non intende rinunciare a cercare la propria posizione nella comunità ecclesiale.

Se pensiamo a carnevalate di dubbio gusto, con ostentazioni plateali e rivendicazioni espresse in modo sgangherato tipo Gay Pride, siamo decisamente fuori strada. Il Forum dei cristiani lgbt, che si è riunito nei giorni scorsi ad Albano laziale, ha discusso di legge naturale e di formazione delle coscienze, di accompagnamento spirituale e di progetti pastorali. Tra le decine di partecipanti, oltre a sacerdoti e religiose, anche non pochi genitori con figli omosessuali. I partecipanti del Forum di Albano hanno avuto l’opportunità di incontrare il vescovo diocesano, Marcello Semeraro, che è anche segretario del C9 (Il Consiglio dei cardinali). Parlando alla mamma di un figlio omosessuale che chiedeva fino a che punto una persona lgbt si possono considerare “dentro” la Chiesa, Semeraro ha ricordato che non è evangelico, in riferimento all’appartenenza alla comunità ecclesiale, usare termini come “dentro” o “fuori”. Si tratta piuttosto di accompagnare e integrare tutte le persone, a partire dalla condizione di ciascuno. Semeraro ha fatto riferimento all’Amoris laetitia, dove il Papa ribadisce che «ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto». Mentre per quanto riguarda le famiglie «si tratta di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita» ( Al 250).

Ma come tradurre concretamente queste indicazioni in prassi pastorale? Come mostrare il volto di una Chiesa chiamata ad accogliere, accompagnare, integrare tutti coloro che bussano alla sua porta? Ne ha parlato padre Pino Piva, coordinatore nazionale dell’apostolato degli esercizi spirituali ignaziani: «La pastorale per persone omosessuali cristiane, che desiderano essere parte della vita della Chiesa a partire dalla loro identità, ha soprattutto il dovere di aiutare queste persone a conservare la speranza in Dio, nella Chiesa, nella comunità». Secondo il gesuita, anche per le persone omosessuali, «la pastorale della Chiesa è chiamata ad innescare processi di cambiamento, conversione, promozione, liberazione. Questo significa optare per la formazione della coscienza che sappia scorgere la volontà di Dio nel quotidiano, qui ed ora, piuttosto che una generica e spersonalizzante affermazione di principi astratti ». Padre Piva, che segue abitualmente gruppi di preghiera con la presenza di cristiani lgbt, si è detto convinto che la pastorale per le persone omosessuali «non possa più essere considerata “straordinaria” o “di frontiera”, per evitare sofferenze inutili, provocate da ignoranza del Vangelo e da una falsa concezione di verità senza misericordia».

Più impegnative, non solo dal punto di vista teorico, le considerazioni offerte al Forum dal filosofo Damiano Migliorini, autore tra l’altro con Beatrice Brogliato, di un monumentale saggio, quasi 500 pagine, sull’amore omosessuale (vedi box qui accanto). Secondo l’esperto la questione omosessuale e la nuova questione gender «sono nel loro insieme un vero e proprio test per la teologia cattolica » perché implicano la necessità di «andare alle radici più profonde dei propri dispositivi, in morale come in ecclesiologia, in sacramentaria come in teologia dogmatica». Se è vero che Amoris laetitia apre prospettive nuove, tutte però da mettere a fuoco, si tratta – ha spiegato Migliorini – di porsi una serie di domande e di riflettere sulle possibili conseguenze. Eccone alcune: «Davvero la dottrina della legge morale naturale applicata alle questioni di morale sessuale non permette un’integrazione delle istanze provenienti dalle minoranze sessuali? Nella ragionevolezza della dottrina morale quale posto si può rovare per l’amore omosessuale?». Per arrivare alla questione forse più drammatica: «Fino a che punto possiamo spingerci nel valutare la presenza di omosessuali, transessuali, bisessuali nel piano di Dio?». Domande che dal Forum dei cristiani lgbt tornano adesso nelle associazioni, nei gruppi di preghiera già impegnati in percorsi di ascolto. Una rete più vasta di quanto ci si possa immaginare. A dimostrazione che questa realtà esiste, bussa alle porte delle nostre comunità e chiede spazio, ascolto, accoglienza non discriminante. Tanto che anche l’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia ha avviato un sondaggio per censire le proposte di accompagnamento rivolte alle persone omosessuali presenti nelle comunità e per valutare iniziative future. «La condizione omosessuale – ha concluso padre Piva – non è un problema per la fede, semmai una opportunità di progressiva comprensione dell’essenziale».

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