per una vera cultura della pace
Elaborare una cultura della pace cristianamente ispirata richiede prima una migliore comprensione di cosa sia la pace…
Quello della pace è un tema importante e attuale. Basta accedere a qualsiasi piattaforma social o sintonizzarsi su di un’emittente televisiva per intendere che viviamo in un tempo abitato dalla logica di guerra alla quale bisogna rispondere con la cultura della pace. Quest’ultima non riguarda soltanto l’opera dei grandi politici o dei leader delle multinazionali, bensì di ciascuno di noi. Così la pace non è un tema impersonale ma storico e concreto per il quale necessita il contributo di tutti.
Le decine di conflitti attivi nel mondo, oltre a quello russo-ucraino e israelo-palestinese, manifestano l’impotenza della comunità internazionale e l’avvento di una logica da guerra fredda del terzo millennio. Inoltre l’aumento della produzione di armi leggere e pesanti, e della loro distribuzione finalizzata all’utilizzo, sembra affossare ogni tentativo di promozione della fraternità fra i popoli a favore di quella che a più riprese da papa Francesco è stata definita come la terza guerra mondiale a pezzi.
Tuttavia è proprio in questo frangente storico che siamo chiamati a sostenere la cultura della pace attraverso una pedagogia che appare centrale tanto nella costituzione italiana quanto nel messaggio cristiano. Nel nostro dettato costituzionale, infatti, il rispetto della dignità umana e il rifiuto della guerra appaiono come punti fermi sui quali edificare la nostra comunità nazionale e le relazioni internazionali. Nell’insegnamento della Chiesa poi, come anche nella testimonianza dei santi di ogni epoca, si evidenzia il radicale rifiuto della logica della guerra e l’impegno per la diffusione di una cultura della pace.
Per provare a delineare sommariamente alcune caratteristiche dell’apporto cristiano alla cultura della pace dobbiamo intanto rispondere a questa domanda: da cosa è costituita una cultura della pace? Nel 1986 il filosofo Italo Mancini sosteneva che la pace consiste nel «mettere in primo piano la coesistenza dei volti, fare dei volti l’assoluto dei nostri atteggiamenti». Per definire ulteriormente il profilo di una cultura di pace possiamo rifarci alla Pacem in terris di Giovanni XXIII secondo la quale il contributo evangelico si fonda sulla validità sociale e politica di valori come verità e giustizia, amore e libertà i quali si declinano in un’opera concreta destinata alla diffusione dell’istruzione per tutti, al riconoscimento della proprietà privata nel grande orizzonte della destinazione universale dei beni, alla tutela della dignità umana strettamente congiunta alla salvaguardia del creato.
Va poi registrata la ricchezza di significato del termine pace. La parola pace, ad esempio, rimanda ad un’azione diplomatica fra due parti in lotta fra loro ma anche al mantenimento dell’ordine sociale o ancora al rispetto dei diritti umani e alla tutela dell’ambiente. Nondimeno il termine ebraico per indicare la pace nel testo biblico, shalòm, possiede un significato connesso all’interezza, alla pienezza di vita, alla fecondità. Si tratta di una sorta di condizione umana che è parimenti un processo individuale e collettivo ovvero non vi è pace senza giustizia. Inoltre dalla fonte biblica affiora il legame tra la pace e il perdono inteso come elemento sociale teso più che alla dimenticanza del dolore e delle vittime, al ricominciamento, alla trasformazione, alla conversione. In questi termini, l’apporto cristiano ad una cultura di pace delinea che questa non è soltanto un traguardo escatologico donato dal Signore bensì un obiettivo della storia umana poiché nella visione biblica la storia della salvezza e quella dell’umanità sono strettamente congiunte.
Allora per il cristiano la pace non inizia con la fine della guerra ma quando le tensioni e l’odio lasciano il posto alla ricerca della giustizia. Cioè la pace costituisce una radicale alternativa al conflitto e pertanto spinge all’assunzione di una responsabilità volta a ispirare modelli di coesistenza sociale e politica più giusti. Secondo tale proposta, quando viene meno la giustizia e l’uguaglianza la pace è a rischio e, quindi, il nostro quotidiano impegno va indirizzato alla lotta alle diseguaglianze e a tutti quei sistemi che deturpano la dignità umana.
Da quanto emerge si può affermare che l’apporto cristiano alla cultura della pace si muova verso il raggiungimento di due finalità: dire basta ad ogni forma di conflitto e generare spazi di stabilità, di giustizia, di sviluppo e di reintegrazione sociale nei quali si radichi una fraternità in grado di porre a centro l’uomo.
si può immaginare un mondo senza guerre?
le guerre non sono una tappa necessaria della storia
di Enrico Peyretti
in “La Voce e il Tempo ” del 2 marzo 2025
Caro Direttore,
nel numero de La Voce e il Tempo del 16 febbraio scorso (pagina 31) una lettera del signor Guido Celoni afferma che «non si può e non si deve immaginare un mondo senza guerre, perché questa può essere una delle più grandi illusioni del maligno. Le guerre accompagneranno sempre la storia dell’umanità».
Mi permetto di pensare, invece, che dobbiamo sperare e operare fino alla liberazione dalla guerra, anche dalla difesa militare, che imita e riproduce l’offesa bellica. Nell’era attuale, più che mai ogni guerra è una pazzia (Giovanni XXIII: «Bellum alienum a ratione»), e non difende veramente nessun valore (papa Francesco: «La guerra è sempre una sconfitta»).
È proprio «il maligno» che ci illude giustificando la guerra come difesa. La difesa dell’umanità e
della giustizia verrà per le vie della nonviolenza attiva e coraggiosa, disobbediente ai poteri armati,
che anche storicamente si dimostra più efficace delle armi: dal 1900 al 2019 le lotte non violente
hanno avuto successo nella difesa dei diritti umani nel 50% dei casi e le lotte violente solo nel 26%
(vedi pag. 42 di Erica Chenoweth, Università di Harvard, «Come risolvere i conflitti senza armi e
senza odio con la resistenza civile» (ed. Sonda).
La violenza fa male a tutti, produce violenza, e non ottiene giustizia. Uccidere non difende, e
peggiora la società. La storia è un cammino travagliato, il male c’è, ma il Vangelo della fraternità
non è rinviato nell’aldilà: è un seme che può crescere nel tempo. L’umanità ha compiuto altri veri
progressi morali e può ancora compierne, con fatica e impegno, con errori e riprese. Il fatalismo
sulla guerra favorisce i violenti, rafforza le strutture e le economie di guerra. Speriamo e lavoriamo.
Enrico Peyrett
il commento al vangelo della domenica
la Palestina colonizzata e l’uso distorto della religione
«La colonizzazione della Palestina non ha a che fare con la religione»
intervista a Munther Isaac a cura di Annaflavia Merluzzi
in “il manifesto” del 21 febbraio 2025
Il 19 febbraio si è tenuto alla Fondazione Basso di Roma un incontro con una delegazione di Kairos Palestine, movimento palestinese cristiano non-violento, nato a seguito della pubblicazione dell’Appello Kairos Palestine: A moment of truth (2009). Presenti Rifat Kassis (coautore dell’appello e coordinatore di Global Kairos for Justice), Sahar Francis (avvocata e direttrice dell’associazione Addameer, che fornisce patrocinio legale ai prigionieri politici palestinesi) e Munther Isaac (pastore e teologo, preside del Bethlehem Bible college) che abbiamo intervistato a margine della conferenza.
Lei è prima di tutto un pastore cristiano, in questi 16 mesi quanto sono aumentate le
restrizioni alla libertà di culto?
Le restrizioni sono quelle che tutti in palestinesi vivono: confisca di terre, checkpoint. Impediscono
ai cristiani di Betlemme di andare a pregare a Gerusalemme. Non dovremmo aver bisogno di un
permesso per muoverci nella nostra terra, ma almeno in passato ce lo concedevano durante le
festività. Oggi non possiamo più farlo, è una violazione della nostra libertà di culto nella nostra
stessa terra. Le maggiori violazioni ci riguardano in quanto palestinesi, prima che cristiani.
Sono state distrutte moltissime chiese e moschee, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania.
Le case di culto sono state colpite e distrutte specialmente a Gaza, Israele non ha nessun rispetto per
le istituzioni religiose, la santità dei luoghi – cristiani e musulmani – e la vita umana. La situazione
in Cisgiordania è diversa, lì abbiamo attacchi dai coloni, che fanno scritte d’odio, a Gerusalemme
est attaccano le chiese e le bruciano. Il problema è il governo che li supporta e non gli attribuisce
responsabilità. Se un palestinese attaccasse una sinagoga verrebbe messo in prigione per anni.
Com’è la vita oggi in Cisgiordania, a Betlemme?
Betlemme è una prigione a cielo aperto, una nuova Gaza, Israele ha bloccato e chiuso tutte le strade
che portano alla città con checkpoint, cancelli, blocchi di cemento, e controllano tutto il movimento
fuori e dentro Betlemme. I coloni attaccano i villaggi, le aree rurali, il movimento è molto difficile.
I checkpoint sono quasi sempre chiusi, chi deve passare aspetta finché i soldati decidono di aprirli,
si può aspettare una quantità indefinita di tempo. Spesso chiedono di uscire dalle macchine e
molestano, picchiano, torturano. In Cisgiordania hanno espulso forzatamente 45.000 palestinesi
dalle proprie terre. Il messaggio è che vogliono che ce ne andiamo.
Che rapporto c’è tra le comunità palestinesi cristiane e quelle musulmane, con gli altri leader
vi confrontate?
In Palestina siamo un solo popolo, cristiani e musulmani, non facciamo differenza. Israele ci
opprime allo stesso modo. Abbiamo la stessa cultura, parliamo la stessa lingua, mangiamo lo stesso
cibo, abbiamo la stessa storia. Anche la forma di resistenza è simile, la maggioranza dei palestinesi
sceglie la resistenza non violenta a prescindere dal culto.
Nel Natale 2023 in un discorso ha affermato che «il mondo non ci vede come uguali, forse per
il colore della nostra pelle, forse perché siamo nel lato sbagliato di un’equazione politica».
Com’è composta quest’equazione?
Molti cristiani occidentali preferiscono supportare Israele piuttosto che i palestinesi cristiani: è
perché non siamo bianchi? Perché non serviamo l’interesse degli Stati Uniti? Sono condiscendenti
verso di noi, credono di sapere meglio di noi quale sia la soluzione per il popolo palestinese, e
vorrebbero imporcela. Molti leader di Chiesa ci fanno lezioni sui diritti umani in quanto palestinesi
e mediorientali cristiani, sui diritti delle donne ad esempio, ma quando i palestinesi sono massacrati
stanno in silenzio. Per me l’unico modo per descriverlo è razzismo, double standard. Quando i loro
alleati violano le leggi va bene, il messaggio è che il potente può violare i diritti umani. È l’opposto
del credo cristiano, Gesù stava dalla parte di vulnerabili, oppressi, marginalizzati. Tutto ciò ha a che
fare con la «teologia dell’impero», per cui la religione viene usata per giustificare l’oppressione. La
colonizzazione della Palestina è giustificata come ritorno alla patria degli ebrei. In questo modo
hanno permesso che qualsiasi ebreo in qualsiasi parte del mondo avesse più diritto a vivere in
Palestina dei palestinesi stessi. È colonialismo, non ha a che fare con la religione.
Nel suo discorso ha detto: «Gaza oggi è la bussola morale del mondo, era un inferno prima del
7 ottobre e il mondo stava in silenzio».
Quanto è disorientato il mondo dopo 16 mesi di genocidio?
È molto peggio di quando ho pronunciato queste parole, il genocidio continua, la complicità del
mondo continua. L’umanità è in una vera crisi, i politici israeliani, che acquistano potere dalle
parole di Trump, ci pongono di fronte al rischio di pulizia etnica di 2 milioni di palestinesi. Per me
Gaza rimane la bussola morale del mondo, stanno permettendo che chi commette questi atroci
crimini sfugga alla responsabilità. Il presidente di Israele, Isaac Herzog, è ora a Roma, il messaggio
che ci arriva è che il genocidio e la pulizia etnica sono normalizzati e accettati.
uso politico sfacciato della religione
I TheoBros nello studio Ovale: l’America attua il volere di Dio
di Luca Celada
in “il manifesto” del 21 febbraio 2025
È una coalizione improbabile e per certi versi paradossale, quella allineata dietro al demagogo
Donald Trump che con la complicità di una corte suprema deviata, un partito succube e di un
elettorato che ha scelto (pur con solo il 49,7% dei voti) di rimettersi nelle sue mani – si è trovato in
un fatidico inverno del 2025, con i mezzi per decostruire la democrazia americana e l’ordine
globale.
Vi sono ovviamente sovrapposizioni fra sovranisti, la destra religiosa e i neoreazionari del tech che
hanno riportato al potere Trump. I suprematisti del neo-apartheid, i teocratici e “broligarchi” hanno
ad esempio una fede comune nella «supremazia morale» dell’occidente, che sostituisce ora la
democrazia come valore assoluto. Ed un’identità decisamente bianca che trova ad esempio
un’affinità naturale con la Russia putiniana.
Ma vi sono anche evidenti discrepanze. Fra il fondamentalismo biblico degli integralisti e le
fantasie eugenetiche e transumaniste dei tecnologi, per dirne una, e fra gli oligarchi tecnomonarchici di Silicon Valley e gli estremisti blue-collar della galassia alt-right, per fare un altro
esempio. Causa, quest’ultima, degli screzi che continuano ad affiorare fra Elon Musk e Steve
Bannon, il quale è da poco tornato ad apostrofare il miliardario sudafricano come «parassitico
immigrato illegale».
È un’anomalia anche che fazioni così fervidamente dottrinarie abbiano trovato un portabandiera in
una figura agnostica rispetto ad ogni ideologia e religione, profondamente opportunista e
squisitamente amorale. Ma il suo successo è propedeutico all’altra principale ambizione comune:
l’annientamento rivoluzionario dello stato liberale e sociale per sostituirlo con un modello radicale
di società.
Una delle figure che più riassume queste idea nella sua triplice accezione (di guerra santa, eversione
politica ed efficienza “aziendale”) è JD Vance, espressione del conservatorismo bianco e religioso
degli Ozarks dell’Ohio e successivamente “iniziato” alla broligarchia della Silicon Valley da Peter
Thiel. Convertito al cattolicesimo tradizionalista, Vance primo vicepresidente millennial veicola per
una nuova generazione una lunga tradizione fondamentalista americana giunta oggi al cuore dello
stato.
La componente religiosa ha ricoperto un ruolo specifico nella parabola nazionale e l’integralismo è
stato componente fondativa sin dall’insediamento delle sette puritane nel nuovo mondo.
Quell’impulso è stato inglobato nella mitopoietica nazionale, in constante tensione con il
razionalismo di matrice illuminista. La religione ha vissuto poi ciclici momenti di prevalenza
culturale (i Great Revivals) nella vita del paese e la deriva fanatica è stata infine strategicamente
cooptata dalla destra politica con l’alleanza di Reagan con gli evangelici. Attualmente la
componente cristo-nazionalista, reazionaria e fondamentalista, spesso apocalittica (raccolta sotto la
dicitura di New Apostolic Reformation) forma la base più solida e compatta del sostegno a Trump e
punta ad un modello “originalista”, fondamentalmente teocratico della società.
In questo ambito, una figura come Vance esprime in maniera assai più articolata di Trump, l’idea di
un’America “originale” a cui fare ritorno come ad una terra promessa. Un concetto che circola
liberamente fra predicatori cosiddetti “TheoBros”, spesso quarantenni, ben vestiti, quasi sempre con
barba ben tosata, eloquenti e attivi online ma che per fanatismo religioso discendono in linea diretta
dal retroterra evangelico carismatico e pentecostale così prevalente specie nella bible belt
americana.
Va da sé, come espresso apertamente da Vance ed altri, che l’Eden ove rifuggire sia riservato agli
Americani “autentici” (leggasi bianchi). L’America non è l’idea spuria di melting pot che ne ha
corrotto gli ideali originali ma una nazione creata dai coloni fondativi che occorre riportare ad uno
stato di purezza politica, etnica e religiosa. È un oltranzismo estremo che oggi viene espresso
apertamente da politici Maga come Mike Johnson, speaker della Camera e Pete Hesgeth, ministro
della Difesa. Le sette a cui appartengono considerano essenziale azzerare oltre allo stato laico e le
sue istituzioni più prestigiose – dal New York Times alle grandi università, coacervi di corrosivo
materialismo, per ripristinare una nazione cristiana «fondata sui dieci comandamenti». Dietro alle
barbe ben tosate che portano molti TheoBros si nasconde una concezione di patriarcato che ricorda
quello distopico del Racconto dell’ancella fino all’ipotesi di abolire il suffragio per le donne.
Si tratta di idee da sempre circolate in congregazioni fondamentaliste che oggi appartengono ai
vertici politici e che questa settimana saranno al centro del Cpac, la convention dei conservatori che
si preannuncia come celebrazione di un trionfo in cui teologia e policy si sovrappongono senza
soluzione di continuità. Ad esempio Vance ha espresso una dottrina cara ai neo teocratici anti
solidale affermando che i Cristiani debbano «amare la propria famiglia, poi il prossimo, poi la
comunità, il concittadino, la patria e solo dopo possono eventualmente pensare al resto del mondo».
Un vangelo dell’egoismo – smentita dal papa stesso – che ha trovato espressione concreta
nell’abrogazione dell’Agenzia per la cooperazione internazionale (Usaid).
Nel mondo di Trump, i TheoBros sono garanti del più intransigente fanatismo e la retorica in cui
l’americanità è indistinguibile dalla cristianità è destinata a dominare certamente anche questo
Cpac, oltre a produrre altre immagini come l’imposizione rituale delle mani sul presidente che gli
integralisti considerano alla stregua di un messia. Quelle che in era pre Trump potevano ancora
passare per colorite bizzarrie, sono ormai pericolosi presagi. Per definizione infatti la dottrina non
ammette pluralismo o alternative alla vittoria, biblica e definitiva.
E se qualcosa insegnano gli eventi di queste settimane, è come nozioni che sembravano
appannaggio di frange estreme, possano trovarsi assai rapidamente stampate su di un prossimo
decreto. E come ha reso ben chiaro proprio JD Vance, non si tratta più di un problema interno
americano – quando gli integralisti controllano lo studio del vicepresidente o il Pentagono, gli
integralismi a stelle e strisce investono il mondo intero
il cristianesimo senza il Cristo del vangelo di Trump
Trump e il cristianesimo
L’interlocuzione di Trump con il cristianesimo e la sua messa in scena come rappresentazione politica non è una novità. Ministri di culto cristiani raccolti in preghiera ostentata intorno a Trump per benedirlo, la pastora Paula White-Cain messa a dirigere il White House Faith Office, sono immagini che si ricompattano a distanza di otto anni. L’unico scostamento dal copione del primo termine, è l’interpretazione messianica che si è potuta dare a questo suo secondo mandato dopo gli attentati durante la campagna elettorale. Ma anche il messianismo non è nulla di nuovo nell’auto-comprensione della nazione americana.
Che Trump creda davvero al carattere messianico della sua presidenza, o che sia semplicemente uno strumento retorico che egli usa, non cambia molto nei fatti delle cose –se fosse il primo caso, però, il giudizio critico della religiosità americana dovrebbe farsi un po’ più desto, sul lato dei sostenitori, e più efficace, sul lato dei detrattori di Trump.
Discernimento
Le Chiese, e ogni singolo cristiano, hanno il potere di discernere alla luce del Vangelo l’operato di Trump – riconoscendovi o meno un’aderenza effettiva al grande e variegato patrimonio di valori delle tradizioni cristiane. La storia politica degli Stati Uniti è fatta anche dalle sviste o dalle omissioni di questo potere di discernimento che ogni cittadino riceve dalle Scritture. Oggi, come in passato, l’esito di questo discernimento andrà a pesare sulla responsabilità di ogni singolo credente. Nella consapevolezza che, a partire dalla propria fede e dai propri principi morali, non si può né rigettare in toto né appoggiare senza riserve Trump e l’operato della sua amministrazione.
Quello che il discernimento religioso della fede può e deve fare è decidere se e come sostenere le politiche di Trump (o viceversa) – e, soprattutto, dare ragione di perché farlo anche quando i principi della fede cristiana direbbero di fare diversamente.
Non per nulla, in questo momento, stiamo assistendo a una inusuale quaestio disputata teologica legata alla giustificazione o meno di scelte politiche compiute dall’amministrazione Trump. Quaestio aperta dal vicepresidente JD. Vance quando ha chiamato in causa l’ordo amoris di Tommaso per legittimare, come cattolico, la sospensione degli aiuti umanitari internazionali voluta da Trump. L’uso politico di questa categoria teologica diventa così funzionale alla immunizzazione della coscienza cristiana rispetto a quel dovere di discernimento storico che le compete per essere degna di questo nome.
Si può essere totalmente a favore o totalmente contro Trump solo se ci si risparmia questo travaglio che la coscienza cristiana è chiamata ad attraversare. Oppure, lo si può essere per interessi del tutto mondani eventualmente camuffati da un’aura di religiosità cristiana. Ma quando si fa questo, si dà a Cesare un onore che appartiene solo a Dio – su questo il Vangelo è chiaro.
Francesco e gli Stati Uniti
Una fede disposta a pagare il prezzo del discernimento, e ad assumersene la responsabilità pubblica senza cadere nell’estremismo dell’asservimento supino o di una ostinata opposizione, è la lettera che papa Francesco ha scritto ai vescovi cattolici americani per far sentire loro il suo appoggio nella critica che hanno articolato nei confronti dell’amministrazione Trump in materia di deportazione di massa degli immigrati illegali.
«La coscienza rettamente formata non può non compiere un giudizio critico ed esprimere il suo dissenso verso qualsiasi misura che tacitamente o esplicitamente identifica lo status illegale di alcuni migranti con la criminalità. Al tempo stesso, bisogna riconoscere il diritto di una nazione a difendersi e a mantenere le comunità al sicuro da coloro che hanno commesso crimini violenti o gravi durante la permanenza nel Paese o prima del loro arrivo. (…) uno Stato di diritto autentico si dimostra proprio nel trattamento dignitoso che tutte le persone meritano, specialmente quelle più povere ed emarginate. Il vero bene comune viene promosso quando la società e il governo, con creatività e rigoroso rispetto dei diritti di tutti — come ho affermato in numerose occasioni — accolgono, proteggono, promuovono e integrano i più fragili, indifesi, vulnerabili. Ciò non ostacola lo sviluppo di una politica che regolamenti una migrazione ordinata e legale. Tuttavia, tale sviluppo non può avvenire attraverso il privilegio di alcuni e il sacrificio di altri. Ciò che viene costruito sul fondamento della forza e non sulla verità riguardo alla pari dignità di ogni essere umano incomincia male e finirà male».
Sostenendo in questo modo i vescovi cattolici americani, papa Francesco si muove all’interno degli sviluppi della tradizione costituzionale e giuridica degli Stati Uniti – e i cittadini americani dovrebbero apprezzare questa sua capacità di entrare nelle pieghe dell’anima fondante della Nazione, anche se non sono d’accordo con il papa sul piano politico.
Stato di eccezione
L’alternativa a quanto indicato dal papa in materia di immigrazione è l’affermazione tacita di quello che Agamben chiama «stato di eccezione» come forma abituale dell’esercizio del potere esecutivo da parte del presidente americano. Un uso parziale dello stato di eccezione è stato messo in opera molte volte prima di Trump, sia da presidenti democratici che repubblicani. L’estensione della sua applicazione effettiva, e non nella retorica delle parole, è la misura su cui cittadini, Congresso e Corte Suprema dovrebbero vigilare con attenzione – perché una volta che il genio dello stato di eccezione è fuoriuscito dalla lampada magica della democrazia non c’è poi più verso di farlo rientrare in essa.
Lo stato di eccezione, ossia l’assolutizzazione del potere esecutivo che in una democrazia come quella americana rimane costituzionalmente sempre latente, ossia come fondamentalmente possibile in maniera legittima, ha indubbiamente una matrice religiosa. Ed è su questa matrice che le teologie dovrebbero investire il loro discernimento critico, senza perdersi in diatribe che, in questo momento, sono francamente di secondo piano.
Il bene comune
Sembra invece che i teologi si siano lasciati infatuare dalle sirene che cercano di occultare la vera questione teologico-religiosa che si lega al futuro della democrazia – o a una democrazia che verrà. Affinare di nuovo le armi per il duello con la cosiddetta «prosperity theology» vuol dire, da ultimo, lasciare del tutto non sorvegliato il campo in cui si gioca il futuro dell’ordine internazionale – e con esso il destino concreto dei popoli e dei nostri nipoti.
Chi ha bisogno di una prosperity theology per giustificare religiosamente la propria ricchezza e il proprio benessere, consegnando la stragrande maggioranza dell’umanità alla irrilevanza per la fede cristiana, mostra da sé quanto quella ricchezza e benessere siano un problema per la loro stessa coscienza. Una teologia che esalta il destino di un’esigua minoranza della popolazione mondiale, per quanto essa possa essere potente, è funzionale più alla immunizzazione della sua coscienza che essere la chiave per conquistare il mondo e piegarlo alle ragioni di Dio.
È affare privato esclusivo di pochi, per quanto influenti e strategici essi possano essere. Altre, quindi, dovrebbero essere le preoccupazioni della teologia in questo momento, soprattutto qui da noi – preoccupazioni che riguardano il bene pubblico e lo stato costituzionale che la vecchia Europa è stata capace di forgiare tra il primo e secondo dopoguerra nel XX secolo.
Gli Stati Uniti non sono uno stato costituzionale dal punto di vista giuridico – sono un esperimento democratico a se stante, il cui destino ha però ripercussioni globali. Due sembrano essere le questioni dirimenti in questo momento della storia umana: l’uso presidenziale del potere esecutivo nella massima estensione concessa dalla Costituzione degli Stati Uniti (con l’aura teologica che lo stato di eccezione comporta); e l’uso delle istituzioni politiche pubbliche per privatizzare il governo della Nazione (per farne una sorta di consiglio di amministrazione a rappresentanza degli azionisti di maggioranza).
Cristianesimo politico post-confessionale
Entrambe non solo chiedono una capacità di giudizio critico da parte della teologia, ma hanno in sé un risvolto teologico nel quadro della storia politica americana – che non riesce a non essere anche una storia religiosa e cristiana, anche oggi. È all’interno di questo quadro che va letto, e compreso fino in fondo, l’uso politico del cristianesimo da parte di Trump e della sua amministrazione – oggi molto più esposto a derive difficili da governare alle stesse mani che ne concepiscono l’architettura perché, rispetto al primo mandato di Trump, è cambiato in maniera profonda il quadro internazionale su cui esso impatta.
Probabilmente, nella declinazione politico-religiosa del cristianesimo messa in atto da Trump, stiamo assistendo a una paradossale riterritorializzazione della «religione senza cultura» (O. Roy), alla creazione di un cristianesimo sovra-confessionale che produce una comunità politico-religiosa trasversale alle Chiese, sottraendosi alla loro giurisdizione anche in materia di fede. Fenomeni, questi, che dovrebbero interessare la teologia cristiana se essa non vuole rimanere archeologia di un mondo che non esiste più.
i ‘lupi’ al capezzale di papa Francesco
scontro tra fazioni dietro la salute del papa
di Paolo Rodari
in “il manifesto” del 20 febbraio 202
Involontariamente, è Giorgia Meloni, in visita dal Papa al Gemelli, a smentire le vulgate più
estremiste sulla salute di Bergoglio. La premier dice di aver trovato Francesco «vigile e reattivo.
Abbiamo scherzato come sempre. Non ha perso il suo proverbiale senso dell’umorismo».
A conferma del fatto che, seppure complesse, le condizioni fisiche di Bergoglio restano al momento
stazionarie con un «lieve miglioramento», come ha comunicato ieri il Vaticano. Certo, il futuro è
un’incognita, avendo il Papa 88 anni compiuti, ma nello stesso tempo le parole di Meloni spingono
a pensare che la possibilità che si ristabilisca c’è e non è campata per aria.
Da tempo, tuttavia, si rincorrono voci sulla possibilità di dimissioni che aprano la strada a un nuovo
conclave. Nelle scorse ore, addirittura, il rientro a Roma del cardinale Pietro Parolin dal Burkina
Faso, è stato letto dai settori più anti bergogliani come un segnale di aggravamento della salute di
Bergoglio, tralasciando tuttavia che l’agenda del segretario di Stato era già stata decisa da cinque
mesi. E fra l’altro, ignorando il fatto che, in caso di sede vacante, non è il segretario di Stato a dover
gestire l’eventuale post pontificato, ma rispettivamente il camerlengo e il decano del collegio
cardinalizio, Kevin Joseph Farrell e Giovanni Battista Re.
Voci che coprono altre voci. Da giorni le diverse fazioni presenti nella Chiesa provano a tirare
acqua al proprio mulino. Da una parte ci sono quelli che descrivono lo stato di salute di Francesco
come ormai irreversibilmente compromesso per spingerlo alle dimissioni, forti del fatto che fu lo
stesso Pontefice a dichiarare che si sarebbe fatto da parte se non fosse stato più in grado di svolgere
pienamente le proprie mansioni.
Dall’altra, c’è chi minimizza e parla al massimo della necessità di una riduzione degli impegni nel
caso di un ritorno a Santa Marta, senza però comprendere che Francesco decide da solo e che,
insieme, difficilmente accetterebbe un ridimensionamento nelle proprie funzioni. Certo, nei
prossimi mesi, se riprenderà in mano l’attività pubblica ordinaria, non è escluso che venga
rimodulato il calendario delle presenze papali agli eventi giubilari in modo da impedire ricadute a
quel punto assai pericolose.
Ma la rimodulazione sarebbe solo temporanea e non sarebbe in alcun modo un ridimensionamento.
L’antagonismo a Bergoglio ha radici lontane e non è una novità. Dall’inizio del pontificato c’è chi
pensa al dopo, senza così fermarsi a cogliere e a comprendere la spinta di novità del suo magistero.
All’inizio un’importante opposizione fu alimentata da una parte dell’episcopato nordamericano,
vicino a un mondo repubblicano statunitense spaventato dall’imprevedibilità e dalla non
controllabilità del primo Papa venuto dal Sudamerica, dalla sua visione sull’ambiente, le
migrazioni, gli armamenti, e dalle sue aperture a Est, alla Cina soprattutto. Settori romani
minoritari, ma combattivi, hanno cavalcato quest’onda antagonista, nel tempo tuttavia perdendo
terreno.
L’arrivo a Roma di Victor Manuel Fernandez come prefetto dell’ex Sant’Uffizio, quello stesso
Fernandez contro il quale durante il pontificato di Ratzinger erano stati costruiti dossier per
bloccarne l’ascesa, ha sancito definitivamente e fragorosamente la vittoria di un’altra linea
teologica: dai princìpi non negoziabili di ratzingeriana memoria alla «Chiesa per tutti», che accoglie
senza chiedere patenti d’identità, di Francesco.
Che a primeggiare, oggi, sia questa visione lo dimostra anche quanto avvenuto recentemente negli
Stati uniti. Dopo anni di ammiccamenti al mondo repubblicano, l’episcopato del Paese si è espresso
pubblicamente contro le politiche migratorie di Trump facendo sentire nei palazzi che contano l’eco
di una sola voce.
Francesco è stato comunque capace di aggregare un certo consenso anche nel mondo sulla carta a
lui più ostile. Ricevendo a Santa Marta anche in forma privata diversi capi di Stato di destra, fra cui
Meloni, e dicendo a tutti di lavorare al di là delle rispettive appartenenze politiche – «Quello è di
sinistra, tu sei di destra, ma siete giovani ambedue, parlate», ha detto recentemente – si è smarcato
dalle diverse fazioni che tendono a usarlo per i propri interessi. Gli intramontabili bergogliani e
antibergogliani.