il cristianesimo senza il Cristo del vangelo di Trump

Trump e il cristianesimo

di: Marcello Neri

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L’interlocuzione di Trump con il cristianesimo e la sua messa in scena come rappresentazione politica non è una novità. Ministri di culto cristiani raccolti in preghiera ostentata intorno a Trump per benedirlo, la pastora Paula White-Cain messa a dirigere il White House Faith Office, sono immagini che si ricompattano a distanza di otto anni. L’unico scostamento dal copione del primo termine, è l’interpretazione messianica che si è potuta dare a questo suo secondo mandato dopo gli attentati durante la campagna elettorale. Ma anche il messianismo non è nulla di nuovo nell’auto-comprensione della nazione americana.

Che Trump creda davvero al carattere messianico della sua presidenza, o che sia semplicemente uno strumento retorico che egli usa, non cambia molto nei fatti delle cose –se fosse il primo caso, però, il giudizio critico della religiosità americana dovrebbe farsi un po’ più desto, sul lato dei sostenitori, e più efficace, sul lato dei detrattori di Trump.

Discernimento

Le Chiese, e ogni singolo cristiano, hanno il potere di discernere alla luce del Vangelo l’operato di Trump – riconoscendovi o meno un’aderenza effettiva al grande e variegato patrimonio di valori delle tradizioni cristiane. La storia politica degli Stati Uniti è fatta anche dalle sviste o dalle omissioni di questo potere di discernimento che ogni cittadino riceve dalle Scritture. Oggi, come in passato, l’esito di questo discernimento andrà a pesare sulla responsabilità di ogni singolo credente. Nella consapevolezza che, a partire dalla propria fede e dai propri principi morali, non si può né rigettare in toto né appoggiare senza riserve Trump e l’operato della sua amministrazione.

Quello che il discernimento religioso della fede può e deve fare è decidere se e come sostenere le politiche di Trump (o viceversa) – e, soprattutto, dare ragione di perché farlo anche quando i principi della fede cristiana direbbero di fare diversamente.

Non per nulla, in questo momento, stiamo assistendo a una inusuale quaestio disputata teologica legata alla giustificazione o meno di scelte politiche compiute dall’amministrazione Trump. Quaestio aperta dal vicepresidente JD. Vance quando ha chiamato in causa l’ordo amoris di Tommaso per legittimare, come cattolico, la sospensione degli aiuti umanitari internazionali voluta da Trump. L’uso politico di questa categoria teologica diventa così funzionale alla immunizzazione della coscienza cristiana rispetto a quel dovere di discernimento storico che le compete per essere degna di questo nome.

Si può essere totalmente a favore o totalmente contro Trump solo se ci si risparmia questo travaglio che la coscienza cristiana è chiamata ad attraversare. Oppure, lo si può essere per interessi del tutto mondani eventualmente camuffati da un’aura di religiosità cristiana. Ma quando si fa questo, si dà a Cesare un onore che appartiene solo a Dio – su questo il Vangelo è chiaro.

Francesco e gli Stati Uniti

Una fede disposta a pagare il prezzo del discernimento, e ad assumersene la responsabilità pubblica senza cadere nell’estremismo dell’asservimento supino o di una ostinata opposizione, è la lettera che papa Francesco ha scritto ai vescovi cattolici americani per far sentire loro il suo appoggio nella critica che hanno articolato nei confronti dell’amministrazione Trump in materia di deportazione di massa degli immigrati illegali.

«La coscienza rettamente formata non può non compiere un giudizio critico ed esprimere il suo dissenso verso qualsiasi misura che tacitamente o esplicitamente identifica lo status illegale di alcuni migranti con la criminalità. Al tempo stesso, bisogna riconoscere il diritto di una nazione a difendersi e a mantenere le comunità al sicuro da coloro che hanno commesso crimini violenti o gravi durante la permanenza nel Paese o prima del loro arrivo. (…) uno Stato di diritto autentico si dimostra proprio nel trattamento dignitoso che tutte le persone meritano, specialmente quelle più povere ed emarginate. Il vero bene comune viene promosso quando la società e il governo, con creatività e rigoroso rispetto dei diritti di tutti — come ho affermato in numerose occasioni — accolgono, proteggono, promuovono e integrano i più fragili, indifesi, vulnerabili. Ciò non ostacola lo sviluppo di una politica che regolamenti una migrazione ordinata e legale. Tuttavia, tale sviluppo non può avvenire attraverso il privilegio di alcuni e il sacrificio di altri. Ciò che viene costruito sul fondamento della forza e non sulla verità riguardo alla pari dignità di ogni essere umano incomincia male e finirà male».

Sostenendo in questo modo i vescovi cattolici americani, papa Francesco si muove all’interno degli sviluppi della tradizione costituzionale e giuridica degli Stati Uniti – e i cittadini americani dovrebbero apprezzare questa sua capacità di entrare nelle pieghe dell’anima fondante della Nazione, anche se non sono d’accordo con il papa sul piano politico.

Stato di eccezione

L’alternativa a quanto indicato dal papa in materia di immigrazione è l’affermazione tacita di quello che Agamben chiama «stato di eccezione» come forma abituale dell’esercizio del potere esecutivo da parte del presidente americano. Un uso parziale dello stato di eccezione è stato messo in opera molte volte prima di Trump, sia da presidenti democratici che repubblicani. L’estensione della sua applicazione effettiva, e non nella retorica delle parole, è la misura su cui cittadini, Congresso e Corte Suprema dovrebbero vigilare con attenzione – perché una volta che il genio dello stato di eccezione è fuoriuscito dalla lampada magica della democrazia non c’è poi più verso di farlo rientrare in essa.

Lo stato di eccezione, ossia l’assolutizzazione del potere esecutivo che in una democrazia come quella americana rimane costituzionalmente sempre latente, ossia come fondamentalmente possibile in maniera legittima, ha indubbiamente una matrice religiosa. Ed è su questa matrice che le teologie dovrebbero investire il loro discernimento critico, senza perdersi in diatribe che, in questo momento, sono francamente di secondo piano.

Il bene comune

Sembra invece che i teologi si siano lasciati infatuare dalle sirene che cercano di occultare la vera questione teologico-religiosa che si lega al futuro della democrazia – o a una democrazia che verrà. Affinare di nuovo le armi per il duello con la cosiddetta «prosperity theology» vuol dire, da ultimo, lasciare del tutto non sorvegliato il campo in cui si gioca il futuro dell’ordine internazionale – e con esso il destino concreto dei popoli e dei nostri nipoti.

Chi ha bisogno di una prosperity theology per giustificare religiosamente la propria ricchezza e il proprio benessere, consegnando la stragrande maggioranza dell’umanità alla irrilevanza per la fede cristiana, mostra da sé quanto quella ricchezza e benessere siano un problema per la loro stessa coscienza. Una teologia che esalta il destino di un’esigua minoranza della popolazione mondiale, per quanto essa possa essere potente, è funzionale più alla immunizzazione della sua coscienza che essere la chiave per conquistare il mondo e piegarlo alle ragioni di Dio.

È affare privato esclusivo di pochi, per quanto influenti e strategici essi possano essere. Altre, quindi, dovrebbero essere le preoccupazioni della teologia in questo momento, soprattutto qui da noi – preoccupazioni che riguardano il bene pubblico e lo stato costituzionale che la vecchia Europa è stata capace di forgiare tra il primo e secondo dopoguerra nel XX secolo.

Gli Stati Uniti non sono uno stato costituzionale dal punto di vista giuridico – sono un esperimento democratico a se stante, il cui destino ha però ripercussioni globali. Due sembrano essere le questioni dirimenti in questo momento della storia umana: l’uso presidenziale del potere esecutivo nella massima estensione concessa dalla Costituzione degli Stati Uniti (con l’aura teologica che lo stato di eccezione comporta); e l’uso delle istituzioni politiche pubbliche per privatizzare il governo della Nazione (per farne una sorta di consiglio di amministrazione a rappresentanza degli azionisti di maggioranza).

Cristianesimo politico post-confessionale

Entrambe non solo chiedono una capacità di giudizio critico da parte della teologia, ma hanno in sé un risvolto teologico nel quadro della storia politica americana – che non riesce a non essere anche una storia religiosa e cristiana, anche oggi. È all’interno di questo quadro che va letto, e compreso fino in fondo, l’uso politico del cristianesimo da parte di Trump e della sua amministrazione – oggi molto più esposto a derive difficili da governare alle stesse mani che ne concepiscono l’architettura perché, rispetto al primo mandato di Trump, è cambiato in maniera profonda il quadro internazionale su cui esso impatta.

Probabilmente, nella declinazione politico-religiosa del cristianesimo messa in atto da Trump, stiamo assistendo a una paradossale riterritorializzazione della «religione senza cultura» (O. Roy), alla creazione di un cristianesimo sovra-confessionale che produce una comunità politico-religiosa trasversale alle Chiese, sottraendosi alla loro giurisdizione anche in materia di fede. Fenomeni, questi, che dovrebbero interessare la teologia cristiana se essa non vuole rimanere archeologia di un mondo che non esiste più.