l’utero in affitto è vecchio quanto la bibbia

Sara e Rachele l’utero in affitto ai tempi dei patriarchi

di Riccardo Di Segni*

stralci dell’articolo tratto da «Pagine Ebraiche»

Riccardo di Segni

Nella animata discussione che si sta sviluppando sul tema della maternità surrogata è stata tirata in ballo la matriarca Rachele come modello antico e sacro. La storia biblica racconta che la moglie prediletta del patriarca Giacobbe non riusciva ad avere figli e questo la faceva molto soffrire, fino al punto di offrire al marito la serva Bilhà: «unisciti a lei, che partorisca sulle mie ginocchia, e anche io possa avere figli da lei» (Gen. 30:3). Giacobbe obbedisce, Bilhà partorisce e Rachele dice: «il Signore mi ha giudicato e ha anche ascoltato la mia voce e mi ha dato un figlio» (v. 6)

Il paragone con la maternità surrogata starebbe nel fatto che una donna che non riesce ad avere figli ricorre a un’altra donna per averli. Ma fino a che punto il paragone regge? Intanto bisogna ricordare ai frequentatori casuali della Bibbia che la storia di Rachele che citano è la seconda di questo tipo, essendo preceduta da quella di Sara, moglie di Abramo, nonno di Giacobbe. Al capitolo 16 della Genesi si racconta che Sara non avendo figli consegna al marito Hagàr, la sua serva con la speranza di avere figli da lei; Abramo obbedisce, la mette incinta e a questo punto si scatena un dramma tra le due donne che porta alla cacciata di Hagàr, poi al suo ritorno e alla nascita di un figlio: «Abramo chiamò il nome di suo figlio che aveva generato Hagàr, Ismaele» (v. 15; si noti l’attribuzione della paternità e maternità). Anche qui c’è una situazione di sterilità che viene gestita con l’aiuto di una seconda figura femminile. L’analogia con la maternità surrogata ci sarebbe solo nel primo caso, ma con una fondamentale differenza: nella surrogata («in affitto») la madre biologica scompare del tutto di scena, nella storia biblica la madre affronta diverse vicende: Bilhà resta in famiglia, fa un altro figlio e alla morte di Rachele diventa la favorita; Hagàr entra in contrasto definitivo con Sara che la caccia via di nuovo e per sempre (almeno finché vivrà Sara); quanto ai figli, altra differenza essenziale: quelli di Bilhà, benché Rachel dica «mi ha dato un figlio», restano figli della madre biologica, divenuta «moglie» (Gen. 37:2), e quello di Sara rimane legato al destino di Hagàr e per questo vittima di una violenta reazione di rigetto («caccia via questa amà e suo figlio», ibid. 21:10). Nel caso di Rachele, quindi, il tentativo di appropriarsi di un figlio altrui sottraendolo alla madre biologica riesce solo in parte e questa madre non scompare; nel caso di Sara tutta la procedura sembra essere piuttosto una cura contro la sterilità, e il legame naturale tra madre e figlio non si interrompe. Tutto molto diverso dalla maternità surrogata. E ovviamente non si può dimenticare l’altra differenza: l’inevitabile necessità – in tempi biblici – di ricorso alle vie naturali di procreazione, mentre, e solo ai nostri giorni, queste possono essere sostituite dalla più asettica e certo meno appassionante soluzione della provetta. In più il modello biblico è quello di una famiglia patriarcale dove c’è un uomo fecondo con la sua signora sterile, diverso da alcune situazioni di single o di coppia in cui oggi si ricorre alla maternità surrogata; nella Bibbia in queste storie si apprezza il desiderio di maternità, non quello di paternità. Il messaggio biblico poi insegna una morale: nel caso di Bilhà il dramma si ricompone integrando in famiglia madre e figli, che però restano con una connotazione un po’ secondaria, come figli di una madre meno importante; nel caso di Sara c’è solo dramma, e addirittura, secondo la spiegazione di Nachmanide, questo dramma starebbe all’origine del risentimento storico dei discendenti di Ismaele nei confronti dei discendenti del figlio naturale di Sara, Isacco. Come a dire: andiamoci piano con certe procedure. Un’ultima considerazione: le persone che vengono usate per questo «esperimento» biologico sono delle serve. Se si fanno confronti tra maternità surrogata e storia di Rachele e Sara, per dire che c’è un precedente che la giustifica, va tenuto ben chiaro che si tratta di sfruttamento di persone non libere. Il che non è un bel modo per giustificare moralmente una procedura attuale.
*Rabbino capo di Roma Vicepresidente del Comitato nazionale di Bioetica

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una voce così ‘altra’ da interpellare tutti, anche i non credenti

nella chiesa una voce che è “altra”

di Francesco Jori
in “Trentino”

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quando Francesco mette costantemente al centro gli ultimi, lo fa perché li conosce da vicino, e perché crede che la dignità della persona di qualsiasi fede e razza venga prima di ogni altra cosa. Non è questa in fondo l’essenza del Vangelo? In realtà, …la Chiesa proposta da Bergoglio interpella in primo luogo un Occidente ripiegato sull’illusoria difesa delle proprie sicurezze, a partire da quelle economiche. E chiama in causa tutti, compreso chi non crede

Tremate fratres. Il Papa venuto dalla fine del mondo porta con sé l’inizio della fine di un piccolo mondo antico proprio dell’Occidente cattolico; e che ha radici robuste soprattutto a Roma, nei palazzi vaticani. Dove c’è chi è rimasto fermo a una concezione di Chiesa molto più vicina alle pur legittime logiche del potere che alle questioni concrete della vita reale; più attaccata alla forma che alla sostanza; più attenta alle regole che alle persone. Il nuovo corso di Francesco evidenzia una distanza profonda da queste prassi. Lasciamo stare le polemiche spicciole, che rischiano di far perdere di vista la questione vera: a confronto sono due visioni non solo diverse ma opposte di essere Chiesa. Per anni, anzi di più, la voce plurale dei vescovi italiani è stata compressa e costretta nella posizione ufficiale della Cei, la conferenza episcopale. I cui vertici hanno scelto come via preferenziale il rapporto con il potere politico, facendosi paladini di un’unità dei cattolici che nei fatti si era dissolta da tempo: già da quando la Dc era ben viva e vegeta, come segnalato dai referendum sul divorzio e sull’aborto. Una linea non necessariamente adottata (salvo malandrine eccezioni…) per riceverne favori o comunque per scopi poco trasparenti, ma nella convinzione che questo corrispondesse alle esigenze del mondo cattolico; con larghi strati del quale i vertici della Chiesa italiana, ma pure non pochi vescovi, avevano peraltro perso la sintonia. E’ una strategia che ha avuto a lungo come interprete principale il cardinal Ruini, ma che non si è certo esaurita con la conclusione della sua presidenza della Cei nel 2007: come conferma l’attuale scottante dibattito sulle unioni civili. Solo che la vecchia unanimità di facciata non regge più, e per la Chiesa non può essere che un bene: c’è una sostanziale differenza tra i Bagnasco e i Bertone da una parte, i Parolin e i Galantino dall’altra. E non solo di stile pastorale. D’altra parte, le recenti scelte di tanti nuovi vescovi ridimensionano sempre di più le vecchie logiche di quella parte della Cei che non a caso nell’elezione del nuovo pontefice si era maldestramente sbilanciata sul cardinale Scola, fino a dare quasi per fatta la sua successione a papa Ratzinger. Anche qui, tuttavia, bisogna stare molto al di sopra delle polemiche di giornata. Non è in gioco solo la fede. Sta cambiando il baricentro del pianeta, con un Occidente in vistosa decadenza e un Sud che sta affacciandosi alla ribalta della Storia: dove c’è un’altra Chiesa, vitale nei numeri ma soprattutto nella sostanza. Che è poi quella più autentica: quando Francesco mette costantemente al centro gli ultimi, lo fa perché li conosce da vicino, e perché crede che la dignità della persona di qualsiasi fede e razza venga prima di ogni altra cosa. Non è questa in fondo l’essenza del Vangelo? In realtà, al di là delle singole e magari controverse questioni, la Chiesa proposta da Bergoglio interpella in primo luogo un Occidente ripiegato sull’illusoria difesa delle proprie sicurezze, a partire da quelle economiche. E chiama in causa tutti, compreso chi non crede. Non è un papa venuto dalla fine del mondo, come si era descritto egli stesso la sera dell’elezione; ma da un altro mondo. Che facciamo fatica a vedere. Ma al quale, che ci piaccia o no, dovremo abituarci.

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vergognati Europa disumana!

Europa dove sono le radici cristiane?

Tonio Dell’Olio

Tonio Dell'Olio

Come uomo prima e come abitante dell’Europa che vanta radici cristiane mi sono vergognato davanti alle immagini dei profughi respinti con la forza e con lancio di gas lacrimogeni alla frontiera tra Grecia e Macedonia

migranti

Persone che fuggono dalle bombe, dalla distruzione delle loro case e dalle persecuzioni dell’Isis/Daesh, che hanno dovuto affrontare i pericoli della traversata sicuri che, se mai ce l’avessero fatta, avrebbero ricevuto l’accoglienza che si riserva a tutte le persone in pericolo di vita, vengono trattati come i più pericolosi dei criminali. Non è giusto. Non è umano.
Prima che appellarsi ai trattati e al diritto internazionali, è il nostro semplice buon senso che deve ribellarsi a questa mancanza di umanità. Eppure c’è da credere che le difficoltà che i governanti delle nazioni europee oppongono, potrebbero essere facilmente superate con la creazione di corridoi umanitari che distribuiscano in modo proporzionato bambini, uomini e donne vittime della guerra e del terrorismo.migranti2
Possibile che si faccia ancora tanta fatica a mettersi nei loro panni, a immaginarsi nella loro tragedia? Possibile che la storia non insegni che anche noi europei siamo stati tante volte profughi e migranti?  È in gioco sicuramente la vita di migliaia di persone ma anche il senso della nostra civiltà. E se ripenso a quanti si sono affannati nel dibattito perché le radici cristiane venissero riconosciute nella Carta d’Europa… mi convinco ancora di più che prima e più del riconoscimento formale, avremmo dovuto vivere coerentemente il Vangelo dell’accoglienza.

http://www.mosaicodipace.it/mosaico/i/3053.html

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il ‘mea culpa’ dell’arcivescovo di Malta Charles Scicluna

l’arcivescovo di Malta ammette di aver sbagliato

nell’aver sostenuto le terapie riparative nei confronti degli omosessuali

Scicluna

“un vescovo deve imparare ad ascoltare prima di parlare pastoralmente”

 

l’arcivescovo di Malta è uno dei primi arcivescovi cattolici a scusarsi pubblicamente per aver sostenuto le cosidette terapie riparative che proclamano di poter curare l’omosessualità come fosse una malattia da debellare contro ogni evidenza scientifica… Un vescovo, sostiene, deve imparare ad ascoltare prima di parlare pastoralmente

Il massimo prelato di Malta riconosce che i leader cattolici erano in errore quando hanno rilasciato una controversa dichiarazione che si opponeva al disegno di legge mirante a proibire le terapie riparative nella nazione insulare. Intervistato dal quotidiano Times of Malta l’arcivescovo Charles Scicluna afferma che non avrebbe mai “rilasciato quella dichiarazione” se avesse saputo ciò che sa oggi.

Il disegno di legge, intitolato Difesa dell’orientamento sessuale, dell’identità e delle espressioni di genere, mira a “proibire le terapie riparative condotte da professionisti”, in particolare “sulle persone vulnerabili” come minori e disabili. Se il disegno di legge verrà approvato i professionisti, come gli psicoterapeuti e i ministri di culto, e i non professionisti rischieranno multe e il carcere se pubblicizzeranno o metteranno in atto terapie riparative. La dichiarazione ufficiale dei vescovi maltesi ha attirato forti critiche, in particolare per aver affermato che il disegno di legge avrebbe favorito l’omosessualità e per aver collegato l’orientamento omosessuale alla pedofilia. Gli attivisti LGBT e alcuni membri del governo si sono affrettati a condannare le otto pagine del documento. Drachma LGBTI e il suo Gruppo Genitori, le maggiori organizzazioni LGBTI cristiane del Paese, hanno definito il documento in questione un’occasione mancata per costruire ponti, come riporta il quotidiano The Independent. I due gruppi hanno rilasciato una dichiarazione che afferma che “le persone LGBTQI che vivono questa realtà” avrebbero dovuto far parte degli esperti consultati dai vescovi: “Sarebbe stato giusto che la Chiesa dialogasse con noi su questo delicato argomento, soprattutto dopo il suo significativo gesto di alcuni mesi fa, quando un membro di Drachma è stato invitato a far parte della commissione che ha preparato la dichiarazione a proposito del disegno di legge sugli embrioni e a tenere una conferenza su questioni LGBTIQ al Collegio dei Parroci. […] Ci aspettavamo che la Chiesa non perdesse questa opportunità di costruire un ponte con la comunità LGBTIQ dicendo chiaramente di essere contro le terapie riparative, anche se ci sono alcuni elementi nel disegno di legge che andrebbero approfonditi”. I due gruppi affermano che la Chiesa dovrebbe chiedere perdono a chi ha subito le terapie riparative e dovrebbe riconoscere i forti danni, anche spirituali, provocati alle vittime. Il primo ministro maltese Joseph Muscat afferma di opporsi “al concetto che l’omosessualità sia una malattia o equivalente alla pedofilia”, come riporta il sito Gay Star News. Helena Dalli, ministro del dialogo sociale, dei consumatori e delle libertà civili e patrona del disegno di legge, afferma che la dichiarazione della Chiesa “è basata su false premesse”, come riporta il bisettimanale Malta Today. Mark Josef Rapa di We Are (Noi siamo), un’organizzazione di giovani LGBTQI, ha detto a The Independent che non si aspettava un simile documento, che mostra come i leader della Chiesa credono ancora “che l’omosessualità si possa curare”. Il Movimento Maltese per i Diritti Gay (MGRM) afferma, in una dichiarazione riportata dal Times of Malta, che il disegno di legge non fa altro che “assicurare che ogni persona, indipendentemente dall’orientamento sessuale, dall’identità e dall’espressione di genere, venga trattata con equità”. Il Movimento fa notare “il serio pregiudizio verso le persone bisessuali” nel documento della Chiesa, il quale suggerisce che tali persone abbiano difficoltà a mantenersi monogame.
Come se non bastasse, il documento afferma che il disegno di legge porta avanti “una discriminazione fondamentale e manifesta”, in quanto apparentemente permetterebbe alle persone eterosessuali le terapie riparative per diventare gay o bisessuali. Secondo la dichiarazione, stesa da teologi e giuristi maltesi, il disegno di legge ignora “le aree grigie di orientamenti sessuali complessi” e pregiudicherebbe chi cerca di “prevenire le sue inclinazioni omosessuali” per rimanere celibe/nubile o favorire un matrimonio eterosessuale; la dichiarazione, inoltre, azzarda una sottile critica della legge maltese sull’identità e l’espressione di genere e le caratteristiche sessuali, approvata nel 2014 e considerata una pietra miliare per la protezione delle persone transgender in Europa. Di fronte a tante critiche provenienti da ogni dove, l’intervista dell’arcivescovo Scicluna contiene l’ammissione, degna di nota, che la Chiesa avrebbe dovuto intervenire nella questione in modo diverso: “Ogni terapia riparativa che obblighi qualcuno ad andare contro le sue decisioni o le sue scelte di vita è una cosa inammissibile – inammissibile – e voglio che questo sia assolutamente chiaro”. Invitato ad approfondire la sua posizione, monsignor Scicluna ha affermato che, se gli esperti dicono che tali terapie sono “del tutto dannose, allora dovrebbero essere evitate”. Ha poi aggiunto che, essendo un tema sensibile dal punto di vista pastorale, l’approccio degli esperti avrebbe dovuto essere “meno tecnico e più pastorale”. In retrospettiva, la Chiesa “non avrebbe proprio dovuto rilasciare quel documento […] L’esperienza mi ha insegnato che, quando si discute una legge, non basta contribuire al dibattito mettendo in campo degli esperti: bisogna tenere conto anche dell’impatto sull’emotività della gente e di come questa recepirà il documento”. Monsignor Scicluna si è assunto la responsabilità del documento, proveniente dal vertice della Chiesa maltese e da lui approvato. La dichiarazione, come riporta il Times of Malta, afferma che il disegno di legge negherebbe “il diritto di ricevere un trattamento psicologico” agli adulti consenzienti. Quando gli è stato chiesto se la commissione di esperti che ha preparato il documento avrebbe dovuto includere “qualche rappresentante della comunità omosessuale”, l’arcivescovo ha risposto: “Sarebbe stato di enorme aiuto coinvolgere i membri di Drachma nella preparazione della dichiarazione, avendo essi già contribuito validamente ad altri documenti. Quando l’ho chiesto al professor [Emanuel] Agius [membro della commissione di esperti], questi ha risposto che avremmo potuto e dovuto farlo, come abbiamo fatto per altre dichiarazioni presentate in tempi recenti”. Monsignor Scicluna ha ammesso che il documento è nato male ed è errato nell’approccio, se non nella sostanza, e ha rinnovato la sua disponibilità al dialogo con le persone LGB: “Sento però che devo costruire ponti con la comunità omosessuale, che ritiene il nostro linguaggio troppo tecnico, troppo freddo e distante […] Voglio rassicurarli sul fatto che siamo fermamente contrari alle terapie riparative perché crediamo, come loro e come il governo, che vadano contro la dignità umana. […] Non siamo d’accordo con chi crede che le persone omosessuali siano malate […] Queste sono etichette che le sminuiscono. E certamente non facciamo collegamenti tra loro e la pedofilia”. Commentando il Giubileo della Misericordia inaugurato da papa Francesco, l’arcivescovo ha ammesso che nella storia della Chiesa “le nostre azioni e il nostro linguaggio non sono sempre stati inclusivi”: questo anno porta con sé “un messaggio di compassione e inclusione” che deve guidare gli sforzi della Chiesa. Monsignor Scicluna ha riaffermato il suo desiderio di dialogo e di collaborazione, descrivendo il suo stile di ministero cristiano come “molto collegiale” e dicendo di preferire consultarsi con dei consiglieri e intavolare discussioni prima di prendere le sue decisioni. È ancora più importante il fatto, evidente in questa vicenda, che il prelato abbia l’abitudine di tornare sulle sue decisioni e di modificare quelle rivelatesi inefficaci o scorrette. Monsignor Scicluna ha anche parlato del ruolo della Chiesa Cattolica nello spazio pubblico e della sua guida aperta e franca della Chiesa maltese: la gente apprezza una Chiesa impegnata nella società, ma questa stessa Chiesa deve “accettare di essere una voce in mezzo a molte altre” perché sta “in una società pluralistica”. I leader ecclesiastici non possono pretendere di avere l’ultima parola su tutto; l’ambiente democratico richiede “la capacità di discutere con rispetto e di non prendere nulla sul personale”.
L’intervista al Times of Malta, che merita di essere letta per intero, continua parlando del cammino dell’arcivescovo riguardo le questioni LGBT. Si oppone fortemente al matrimonio omosessuale e, prima che il governo maltese approvasse le unioni civili, disse no alla legge assieme al vertice della Chiesa. Nello stesso tempo, però, chiese scusa alle lesbiche e ai gay le cui vite erano state rese ancora più difficili dalla Chiesa. Tra le altre cose, ha difeso l’amore che può esistere tra partner dello stesso sesso, dicendo in una intervista che “L’amore non è mai un peccato. Dio è amore”. L’arcivescovo rifiutò di punire un sacerdote domenicano che aveva benedetto gli anelli di una coppia omosessuale, esortandolo invece a continuare il suo ministero con le persone LGB ma di farlo nel rispetto dei riti della Chiesa così come essa li pratica oggigiorno. L’atteggiamento generalmente positivo dell’arcivescovo convinse il Movimento Maltese per i Diritti Gay a conferirgli nel 2014 il Premio della Comunità LGBTI, rifiutato dall’allora vescovo ausiliario in quanto non vuole riceve premi o onorificenze solo perché “ho fatto il mio dovere di Vescovo”. Lo stesso anno partecipò alla Giornata Internazionale Contro l’Omofobia. Le sue ultime dichiarazioni sul disegno di legge e sul suo episcopato lo faranno apprezzare ancora di più dalle persone LGBT. I leader della Chiesa maltese hanno proposto al governo e al pubblico una presa di posizione sull’omosessualità non troppo diversa da quella di altri vescovi: per questo motivo hanno ricevuto forti e persistenti critiche da molte voci di questo Paese così cattolico. La chiave dell’episodio è la profonda umiltà che sta alla base del ”Vescovo Francesco” che monsignor Scicluna sembra esemplificare, disponibile ad ascoltare ed imparare, a riconoscere i suoi errori, a cercare la riconciliazione, ad essere più a suo agio della maggior parte dei vescovi con le complessità della vita. Un rimpianto da lui espresso nell’intervista è di non avere ancora programmato visite pastorali. Il venerdì, secondo lui, “il vescovo deve stare dov’è la sofferenza e io non sono riuscito a farlo”. Sembra sapere che c’è molta sofferenza ai margini della Chiesa e della società. Spero che l’arcivescovo Scicluna passi molti venerdì a coltivare relazioni e costruire ponti con le persone LGBT e i loro cari, perché errori pastorali come la dichiarazione sulle terapie riparative non avvengano più in futuro.
Testo originale: Archbishop Admits Church’s Mistake in Supporting Reparative  Therapy

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il commento al vangelo della domenica

QUESTO TUO FRATELLO ERA MORTO ED E’ TORNATO IN VITA 

commento al vangelo della quarta domenica di quaresima (6 marzo 2016) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Lc  15,1-3.11-32

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.
Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è 1
tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Quello che farisei e scribi, rappresentanti dell’istituzione religiosa non hanno mai capito è che Dio, anziché preoccuparsi di essere obbedito e rispettato, è preoccupato della felicità degli esseri umani. Per cui scribi e farisei se non cambiano non potranno mai conoscere l’allegria del Padre.
E’ quanto ci esprime l’evangelista Luca nel capitolo 15, con quella che è senz’altro una delle parabole più conosciute e più amate. Quella del figlio prodigo. Vediamo.
Scrive Luca, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori. L’evangelista è tassativo, tutti. Quindi tutti coloro che vivono nel peccato hanno sentito in Gesù un tono diverso. Non più minacce, non più castighi, ma amore offerto anche per loro. Non solo amore, ma anche rispetto.
Si avvicinavano per ascoltarlo. Ebbene, la reazione consueta delle autorità religiose: i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui…”. Notiamo che nei vangeli i capi religiosi, le autorità religiose, l’élite spirituale, evitano sempre di pronunziare il nome di Gesù, rivolgendosi a lui col massimo del disprezzo.
 “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Non solo li accoglie ma  mangia con loro; mangiare significa condivisione di vita. E poi Gesù disse loro qualcosa, ma questa parabola non è rivolta ai discepoli di Gesù, ma è rivolta a queste autorità religiose – scribi e farisei.
Ed egli disse loro questa parabola (quella conosciutissima del figliol prodigo, e la vediamo soltanto nei tratti essenziali perché è abbastanza lunga e non c’è il tempo per commentarla tutta): un uomo aveva due figli, il più giovane chiede la sua parte di eredità. Ed è importante per la comprensione del brano che il padre divise tra loro le sue sostanze.
Quindi ha dato quello che era dovuto al figlio minore, ma il doppio – secondo la legislazione ebraica – al figlio maggiore. Questo figlio più giovane se ne va, partì per un paese lontano, cioè un paese pagano e si dimostra incapace, infatti in poco tempo sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
Poi cade in disgrazia perché arriva una grande carestia. Lui che ha puntato tutto sul denaro, quando non ha più denaro, si ritrova ad essere un niente. Lui che era un padrone in casa sua, si trova ad andare sotto un padrone. Da padrone diventa servo.
L’evangelista specifica che andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, ma cade proprio nell’abiezione, perché andò a pascolare i porci. E sappiamo che il maiale è un animale impuro, quindi è il massimo del degrado. Ebbene a questo punto, preso dai morsi della fame – perché non gli davano neanche da mangiare – questo figliolo dice: : “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza …”, quindi si vede che questo padre era generoso non solo con i figli, ma anche con i suoi operai, “e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò…”
Attenzione per comprendere bene questo brano, a volte questo figliolo viene presentato come modello di conversione, di pentimento. Nulla di tutto questo. Questo è un ragazzo che ragiona sempre per il proprio interesse, e in base ai soldi. Quello che gli manca non è il padre, ma gli manca il pane. Non è il rimorso che ora lo spinge a tornare dal padre, ma il morso della fame. Quindi non c’è nessun accenno al dolore che ha recato alla sua famiglia.
“Padre, ho peccato verso il Cielo (quindi contro Dio) e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.” Quindi è decaduto dei diritti; non può essere più trattato come un figlio perché ha ricevuto la sua parte, “Trattami come uno dei tuoi salariati”.
Quindi lui non sa cosa significa la relazione di un figlio col padre, e chiede di essere trattato come uno dei servi. Si alzò e tornò da suo padre. Ribadisco che non va perché pentito, ma va per interesse. Non gli manca il padre, ma gli manca il pane.
La figura sulla quale l’evangelista ora centra la nostra attenzione è quella del padre, immagine di Dio. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide.  Quindi il padre ha rispettato la volontà del figlio ma non lo ha dimenticato, lo ha atteso.
Ebbe compassione.  Avere compassione è un’azione divina con la quale si restituisce vita a chi vita non ce l’ha. E’ la terza volta che compare nel vangelo di Luca. La prima nell’episodio della vedova di Nain, quando Gesù ebbe compassione e le resuscita il figlio, la seconda col samaritano, l’uomo che ha compassione del ferito e gli restituisce la vita.
Quindi l’azione del padre non è di risentimento, di rabbia, di offesa, ma un desiderio di restituire vita.
 Gli corse incontro. Questo è inconcepibile nella cultura medio orientale. Correre è sempre un segno di disonore, e mai una persona anziana o un genitore corre incontro al figlio, ma per il padre il desiderio di onorare il figlio è più importante del proprio onore. Il padre si disonora per onorare il figlio.
Gli si gettò al collo. Quando leggiamo il vangelo mettiamoci nei panni dei primi ascoltatori che non sapevano come andava poi a finire il racconto. Noi ci saremmo immaginati che, dopo essersi gettato al collo lo avrebbe strozzato. Questo imbecille che ha sperperato tutto e si è ridotto a fare il guardiano dei porci.
Invece ecco la sorpresa: E lo baciò. L’evangelista qui si rifà al primo grande perdono nella Bibbia, quando Esaù perdonò il fratello Giacobbe che gli aveva sottratto l’eredità. Quando Esaù si incontra con Giacobbe lo bacia. Il bacio è segno di perdono. Allora il padre, immagine di Dio, perdona il figlio prima che questo gli chieda perdono. Il figlio non si fida e attacca il suo “atto di dolore” … “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te…” Il padre non lo fa terminare.
Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello”. Il vestito era una onorificenza che conferiva dignità a una persona. Questo ragazzo, questo figlio che ha perso la sua dignità, ora ritorna nello splendore della sua dignità. Ma quello che più sorprende è il seguito.
“Mettetegli l’anello al dito”. L’anello non è un qualcosa che addobba, un gingilletto. Ma l’anello era il sigillo che deteneva l’amministratore della casa. Quindi il padre a questo figlio incapace, che ha sperperato tutto il suo patrimonio, gli restituisce la dignità e una fiducia più grande di quella che godeva. Gli mette in mano l’amministrazione della casa, senza sapere poi che ne farà questo figlio.
“E i sandali ai piedi.” Ricordate che il ragazzo aveva chiesto di essere trattato come uno dei salariati e il padre dice: “No, mettetegli i sandali ai piedi”. Nelle case i proprietari portavano i sandali, i servi andavano scalzi.
E poi dice: “Facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Ed ecco che entra in scena colui al quale è rivolta la parabola.
Il figlio maggiore – immagine di scribi e farisei, che non vuole entrare in casa, protesta. Il padre esce anche verso di lui, e lui piagnucola. Si vede un Gesù che critica l’infantilismo nel quale la religione tiene i suoi adepti. E dice: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici.” Ricordiamo all’inizio il padre ha diviso il suo patrimonio tra i due figli e al figlio maggiore ha dato il doppio di quello che ha dato al minore.
Quindi era tutto suo, perché non se l’è preso? E’ la religione. La religione mantiene le persone in uno stato infantile, non hanno un rapporto d’amore con Dio, ma un rapporto di obbedienza, di servizio, e si attendono sempre una ricompensa. Ma soprattutto attendono l’autorizzazione per gioire o meno.
Allora il padre com’è andato incontro al figlio che si era smarrito, va incontro anche a questo figlio che non vuole entrare in casa e a questo figlio che, nella rimostranza ha detto “Tuo figlio…”, il padre gli ricorda che è suo fratello.
Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”. Solo che lui ha vissuto nella condizione di servo e non di figlio e non ha saputo gustare. 
“Ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello..” Ecco lui ha detto “Perché tuo figlio..” il padre gli ricorda “Tuo fratello”…  “Era morto ed è tornato in vita”. Quindi Gesù invita questi scribi e farisei a rallegrarsi che attorno a lui vadano questi peccatori, i miscredenti, ma purtroppo sappiamo dal seguito del vangelo che scribi e farisei, accecati dalla trave della loro giustizia, della loro fedeltà alla legge, non comprenderanno mai la misericordia di Dio.

 

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