un popolo nel mirino … capro espiatorio delle nostre paure

Rom e Sinti, tra sgomberi forzati, parole d’odio e falsi miti

di Andrea Scutellà

‘il rapporto dell’Associazione 21 Luglio’ : “aumentano gli sgomberi per il Giubileo”

 in Italia abita lo 0,25% dei Rom; solo il 3% di loro è nomade. In 40mila vivono nei campi. C’è chi in Tv li definisce “feccia della società”: ma i bambini hanno un’aspettativa di vita è inferiore di 10 anni e all’Università non arrivano mai

Roma – È il 9 luglio 2014, in riva al fiume Aniene. Trentanove  persone di etnia Rom subiscono uno sgombero forzato dal loro accampamento, in via di Val d’Ala. Supportate da Amnesty International e dall’Associazione 21 Luglio chiedono una sistemazione alternativa. “Dopo ore di intense trattative – riporta una nota dell’Associazione 21 Luglio – ai rom viene offerta l’accoglienza all’interno dell’ex Fiera di Roma”. Il 30 novembre, però, arriva la notifica di uno sgombero imminente. I 15 nuclei familiari verranno rimpatriati in Romania. Salvo trovarsi, di nuovo, a fine febbraio 2015, in riva al fiume Aniene. “Lo sgombero forzato ha avuto un costo totale di 168.400 euro, senza che sia stata trovata alcuna risposta adeguata alle famiglie coinvolte”. Ecco un chiaro esempio di “Gioco dell’Oca”, che 21 Luglio denuncia nel suo primo rapporto nazionale: presentato proprio l’8 aprile, nella giornata internazionale dedicata ai Rom, Sinti e Camminanti.

Giubileo in vista: aumentano gli sgomberi. “Dopo l’annuncio del Giubileo, nel periodo compreso tra il 13 e il 30 marzo – spiega Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio – si è passati da una media 2 sgomberi al mese a 6 a settimana. C’è un libro di Tano D’Amico sull’evento del 2000, che si intitola Il Giubileo nero degli zingari. Alle istituzioni suggerirei di evitare questo rischio”. Una preoccupazione condivisa da Riccardo Magi, presidente dei Radicali italiani e consigliere comunale di Roma. “Il rischio – precisa – è quello di cedere a interventi di decoro o pulizia della città in netto contrasto con le politiche sociali”. L’esempio della comunità di via Val d’Ala è dietro l’angolo. “Gli sgomberi, lasciando la situazione invariata, muovono tre cose – conclude Stasolla -: i rom, i soldi e i voti”. Cacciare una comunità rom, infatti, è di sicuro appeal elettorale.

A Milano si sgombera per l’Expo. “Lo sgombero come metodo è legittimo” precisa Carlo Stasolla “ma diventa forzato quando non si rispettano i parametri stabiliti dalle organizzazioni internazionali”, cioè quando manca un preavviso sufficiente e le giuste alternative alla vita in strada per le famiglie. A Roma, lo scorso anno 34 sgomberi forzati hanno coinvolto circa 1.135 persone, secondo i dati forniti da 21 Luglio. A Milano, invece, 191 sgomberi hanno riguardato oltre 2.200 persone. Secondo le Associazioni Naga e Errc vengono chiamati “allontanamenti medio-grandi” quelli eseguiti per opere legate all’Expo e “micro-allontamenti” quelli “frutto della pressione di cittadini” che spesso non rispettano “la normativa vigente”.

Il sistema dei campi e i flussi di denaro in aumento. “Dal 2000 l’Italia è stata definita il Paese dei campi”. L’Associazione 21 luglio nel suo rapporto denuncia con forza “la politica segregante volta a gestire e a mantenere un sistema abitativo parallelo per soli rom, ovvero su base etnica“. Un sistema che è costato alla sola città di Roma circa 22 milioni di euro nel 2013, secondo “Campi Nomadi spa”, un documento prodotto da 21 luglio nel 2014, che aveva anticipato la collusione tra politiche sociali e malaffare emersa con l’inchiesta Mafia Capitale. L’Associazione annuncia un “Campi nomadi bis” in uscita il 6 maggio, focalizzato sullo scandalo dei centri di raccolta “temporanei” dei rom. Stasolla non si sbottona troppo sui flussi di denaro diretti verso i campi, ma anticipa che “non sono diminuiti, anzi sono aumentati rispetto al passato”.

La longa manus della Cooperativa 29 giugno. Il solo “villaggio” di Castel Romano, su cui era stesa la longa manus della Cooperativa 29 Giugno, sarebbe costato, secondo le stime di 21 Luglio, oltre 5 milioni di euro. Ancor più preoccupante diviene il fatto se paragonato “con quanto il Governo italiano ha dichiarato di avere destinato a politiche di inclusione rivolte ai rom nel documento presentato in sede di Revisione Periodica Universale presso le Nazioni Unite (senza specificare l’arco temporale): 19.830.000 euro”.

?Dall’emergenza all’inclusione.? Erede della sciagurata stagione della “emergenza nomadi” (2008-2011)  –  che permise di agire in deroga a diverse leggi nella gestione dei campi  –  la Strategia nazionale di inclusione dei Rom, Sinti e Camminanti  (2012) “ce l’ha chiesta l’Europa” ed è imperniata su 4 cardini: alloggio, salute, impiego e istruzione. La stagione “emergenziale” si è conclusa a suon di sentenze, considerata illegittima dal Consiglio di Stato nel 2011, con conferma della Cassazione nel 2013. Ad oggi, nonostante i buoni propositi, l’attuazione del nuovo piano vive di ritardi e confusioni.

I rischi della discrezionalità dei Comuni. La discrezionalità degli enti locali non solo nei confronti delle istituzioni nazionali, ma anche nei rapporti reciproci, per l’applicazione dei provvedimenti “può condurre a situazioni in contrasto con la Strategia”, sottolinea 21 Luglio. “I Comuni possono attivare misure proprie a prescindere dagli orientamenti delle Regioni (…) come di fatto avviene”. Le politiche figlie delle vecchie logiche emergenziali, come la costruzione di nuovi campi, sono costate dal 2012 ad oggi, secondo i calcoli di 21 luglio, circa 13 milioni di euro. Inoltre l’attivazione dei tavoli regionali, fulcro del piano, procede a rilento: a febbraio 2015 erano operativi appena 10 su 20 previsti. Regioni con una consistente percentuale di popolazione rom, come Lombardia e Veneto, sono ferme al palo. Il tavolo del Lazio, invece, pur istituito, non è ancora stato convocato.

Numeri di una percezione sballata. Gli organismi internazionali hanno spesso sottolineato come in Italia manchino adeguati strumenti di monitoraggio per valutare l’inclusione dei Rom, Sinti e Camminanti. I pochi numeri che ci sono, frutto di stime e non di censimenti, bastano a confutare alcuni luoghi comuni. Non solo l’Italia non è “invasa” dai rom, ma, tra i paesi europei, è quello che ne ha le percentuali più basse: appena lo 0,25% sul totale dei residenti. Metà di loro ha la cittadinanza italiana. Le stime del Consiglio d’Europa oscillano tra le 120mila e le 180mila persone, di cui 40mila vivono nei “campi nomadi”. A proposito di nomadismo, c’è un altro mito da sfatare: appena il 3% dei rom continua a viaggiare, secondo il Rapporto Conclusivo dell’indagine sulla condizione di Rom, Sinti e Camminanti in Italia diffuso dalla Commissione Diritti Umani del Senato nel 2011.

Baraccopoli e magazzini. I luoghi in cui abitano i rom rientrano spesso nella definizione di baraccopoli stabilita dall’Un-Habitat delle Nazioni Unite. Gli abitati “sono spesso delimitati da recinzioni” e “videosorvegliati”, si legge nel rapporto di 21 Luglio. Sono “al di fuori del tessuto urbano e distanti dai servizi primari, come scuole, ospedali e supermercati” tantoché “l’isolamento spaziale spesso si traduce in isolamento sociale”. Le “condizioni igienico-sanitarie” sono “critiche” e le “unità abitative sono temporanee, solitamente bungalow, container o roulotte”. Il “Best House Rom”, il discusso centro di raccolta temporaneo di Roma senza luce e aria naturale in cui vivono 300 rom ormai da 2 anni, è accastato come magazzino. La segregazione sulla base dell’origine etnica, inoltre, potrebbe costare all’Italia l’ennesima procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea.

I minori rom. Oltre il 60% dei rom presenti in Italia hanno meno di 18 anni, secondo Opera Nomadi. Di questi “almeno 15mila” sarebbero “a rischio apolidia”. La condizione, cioè, di inesistenza di fatto per la burocrazia italiana, che ha ripercussioni gravissime sulla vita quotidiana: l’impossibilità di avere un pediatra o un medico di famiglia, di iscriversi a scuola, di contrarre un prestito, un mutuo, di prendere la patente di guida, di iscriversi alle liste di collocamento. Di vivere, insomma.

Un bambino ha  possibilità di laurearsi prossime allo zero. Un bambino che vive in un “campo nomadi” in Italia, secondo le stime raccolte da 21 Luglio, ha possibilità prossime allo 0 di intraprendere un percorso universitario e neanche l’1% di frequentare le scuole superiori. Tra la scuola primaria e la secondaria di primo grado abbandonano il 50% dei minori rom e sinti. Circa il 95%, invece, getta la spugna tra le medie e le superiori. Infine un bambino appartenente alle minoranze zigane ha un’aspettativa di vita di 10 anni inferiore rispetto a un collega gagè. E dire che i progetti di scolarizzazione dei rom, nel solo Comune di Roma, sono costati 3,2 milioni nell’anno solare 2014.

E tocca pure sentire quello della Lega: “Sono la feccia della società”. “I rom sono la feccia della società” dice in diretta Tv l’europarlamentare della Lega Nord, Gianluca Buonanno. Un’affermazione dell’arguto deputato che ha scatenato l’applauso del pubblico di Piazza Pulita, immediatamente stigmatizzato dal conduttore Corrado Formigli. Nel 2014 altri 442 discorsi d’odio  –  calco dell’inglese hate speech  –  hanno afflitto il dibattito pubblico italiano, “di cui 204 ritenuti di particolare gravità”. L’87% dei questi discorsi sono stati pronunciati da uomini politici. Ne risulta un bombardamento quotidiano da parte di alcune forze politiche contro i Rom, i Sinti e i Camminanti.

Sentimenti antizigani. Non deve stupire, allora, il triste primato risultato dal sondaggio del Pew Research Centre, secondo cui l’85% degli italiani esprime sentimenti antizigani. Per ogni Buonanno che parla c’è una folla pronta ad applaudire. Una volta acclamata, la parola, non fatica a trasformarsi in azione: da parte dell’istituzioni  –  Borgaro, provincia di Torino: un sindaco Pd e un assessore ai trasporti di Sel hanno pensato a una linea bus dedicata esclusivamente al servizio tra il campo rom e il capolinea  –  della società civile  –  “È  severamente vietato l’accesso agli zingari” recitava il cartello appeso all’ingresso dell’esercizio commerciale romano  –  e dei singoli individui, probabili autori dei numerosi incendi che hanno interessato molti “campi nomadi” nel 2014.

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‘romano dives’, la giornata internazionale di rom e sinti

La giornata internazionale di Rom e Sinti

L’8 aprile è il Romano Dives, la giornata internazionale dei rom e sinti, che ricorda il primo congresso di intellettuali romanì avvenuto a Londra nel 1971. Stabilì il termine “rom” (uomo) come denominazione ufficiale, l’inno Djelem Djelem in memoria del genocidio nei lager nazifascisti e la bandiera con ruota indiana su sfondo per metà verde, a simboleggiare la terra coperta d’erba, e per metà azzurra come il cielo. Ha senso oggi questa Giornata? La risposta sta in un’altra domanda: conosciamo la complessità di questa presenza o ne abbiamo un’immagine stereotipata?

In Italia i rom e sinti sono pochi: lo 0,23 della popolazione, una delle percentuali più basse d’Europa. La metà sono di cittadinanza italiana, 160mila vivono in casa, solo 40mila in campi e baraccopoli. Quasi nessuno pratica più il nomadismo, con l’eccezione di alcune famiglie circensi come i Togni e gli Orfei. Il 60% è minorenne, sono un popolo di bambini. E ancora: chi oggi sente parte della nostra memoria collettiva i nomi di Agnone, Boiano e Prignano? Questi e altri sono campi di concentramento in Italia, dove sono stati detenuti rom e sinti con cognomi italiani, poi deportati in Germania e Polonia. Ad Auschwitz c’era lo Zigeunerlager, 32 baracche circondate di filo spinato dedicate ai rom e sinti. I loro bambini divennero le cavie del dottor Mengele, che sperimentava le sue teorie eugenetiche iniettando inchiostri negli occhi per cambiare il colore dell’iride.

Proprio dalla memoria dimenticata del genocidio di almeno 500mila rom e sinti parte il progetto “Giving memory a future” (www.romsintimemory.it) del Centro di Ricerca sulle relazioni interculturali dell’Università Cattolica di Milano e della Shoah Foundation, l’istituzione di Los Angeles voluta da Steven Spielberg. Questa risorsa multimediale è stata presentata al convegno “International Roma Day 2015. Rom e Sinti dalla scuola al lavoro” alla Presidenza del Consiglio di Largo Chigi ed è alla base del percorso di formazione “Porrajmos, lo sterminio dimenticato” del Ministero dell’Istruzione. Il sito è composto da tre sezioni. Nella prima sono ricostruite le fasi che nell’Europa nazifascista hanno segnato l’ostilità contro i rom e sinti, con documenti e saggi storici, foto e videoclip di sopravvissuti ai lager. La crescita del pregiudizio e dell’odio fu progressiva.

Quando il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler divenne Cancelliere, i rom e sinti erano una piccola minoranza (26.000) per la quale il gruppo dirigente nazista mostrava scarso interesse. L’indifferenza iniziale cambiò in seguito alle “pulsioni” antizigane dell’opinione pubblica, della gente comune come degli accademici e degli amministratori locali. Negli anni Trenta, fu un crescendo di controlli, custodie preventive di polizia, sgomberi, fotografie e impronte digitali, espulsioni dalle case popolari, limitazioni delle licenze per il commercio ambulante, condanne per “essersi spostati in orda”, espulsioni di “elementi turbolenti” e retate contro i mendicanti. Fin da subito, l’allarme sociale si intrecciò al discorso razziale. Psichiatri e antropologi come Robert Ritter e Eva Justin effettuarono misurazioni antropometriche per definire i geni dell’inferiorità degli zingari. Individuarono la tara ereditaria nel wandertrieb, “l’istinto al nomadismo”, che giustificava “l’asocialità zingara” su base razziale.

Dall’erosione dei diritti in nome della pubblica sicurezza si arrivò alla deportazione e ai camini di Auschwitz. Le altre sezioni di “Giving memory a future” si spostano invece sul presente. La seconda aiuta a capire chi sono i rom e sinti e a conoscere la loro storia, mentre la terza affronta i diritti alla scuola, casa, lavoro e salute, la sfida del convivere tra pregiudizi e stereotipi, buone prassi e veri e propri pogrom in Italia (Opera, Torino, Ponticelli) e in Europa (Francia, Ungheria, i paesi dell’Est). Il sito unisce quindi passato e presente. Non significa voler inchiodare la realtà odierna a un semplicistico e sterile rimando al passato. È la proposta della memoria non come retorica ma come impegno per la tutela dei diritti umani nel presente.

Come guardiamo oggi ai rom e sinti? Un esempio: lo Stato di Emergenza Nomadi proclamato dal 2008 al 2011 in cinque Regioni, che prevedeva misure giuridiche «straordinarie» per gruppi, italiani e stranieri, individuati su base etnica. Era la prima volta che accadeva dalle Leggi Razziali del 1938. Secondo l’ordinamento italiano, lo Stato di emergenza si attua per «una calamità, una catastrofe» o eventi «che per intensità ed estensione debbano essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari». Ecco come abbiamo guardato alla presenza di rom e sinti negli ultimi anni, come al terremoto in Abruzzo o ai rifiuti in Campania. Del resto, i ghetti in cui confiniamo i rom delle nostre città non sono solo quelli fisici, i campi e le baraccopoli. Ci sono anche quelli mentali. Per l’Eurobarometro solo il 7% degli italiani risponde positivamente alla domanda «Sei disponibile ad avere amici rom?». È uno dei valori più bassi in tutta Europa.

L’anno scorso il dodicenne A. camminava per andare a scuola su una strada di Milano. Una macchina nera gli si accostò, il guidatore abbassò il finestrino e gli sputò in faccia: aveva riconosciuto che il ragazzino era rom. Quella mattina A. buttò lo zaino a terra e non riuscì a entrare in classe. Sempre nel capoluogo lombardo, V. accoglierà i visitatori di Expo nell’hotel a 5 stelle in cui lavora. Ai colleghi non ha mai rivelato di essere rom (V. è biondo con occhi azzurri) e che fino l’anno scorso viveva in una baracca. Suo fratello F. ha 18 anni e lavora come giardiniere in una cooperativa. Ha una bambina di due anni, ma ha rinunciato a chiedere gli assegni familiari che gli spetterebbero. «Se il mio capo venisse a sapere che ho avuto una figlia da giovane – dice – capirebbe subito che sono rom e mi licenzierebbe».

Ha senso la Giornata dell’8 aprile? Forse sì. Almeno finché non potremo pubblicare le foto di A., finché non si potrà scrivere per intero il nome di V. e finché F. non potrà chiedere l’assegno familiare per la figlia senza paura di ritorsioni.

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rapporto 2014 su Rom e Sinti

 

i ‘campi’ di Torino, Palermo, Roma e Napoli definiti dall’ ‘associazione 21 luglio’ “luoghi di sospensione dei diritti umani”

 “Solo 1 rom su 5 vive nei campi”

rom Torre del Lago

 

 

una delegazione dell’ ‘associazione 21 luglio’ insieme a 12 donne rom, ha presentato lo studio alla presidente della Camera Laura Boldrini in occasione della Giornata Internazione dei Rom e dei Sinti. L’approccio emergenziale resta quello più utilizzato dall’amministrazione. Campi di Torino, Palermo, Roma e Napoli definiti “luoghi di sospensione dei diritti umani”

Sono circa 180mila i rom e i sinti che vivono in Italia e rappresentano lo 0,25% della popolazione presente sul territorio nazionale. Questo il dato dell’Associazione 21 luglio che in occasione della Giornata Internazionale dei rom e dei sinti ha presentato il suo Rapporto annuale 2014 e ha incontrato Laura Boldrini alla Camera con un gruppo di dodici donne rom. Della totalità dei Rom e sinti presenti sul territorio, il 50% ha la cittadinanza italiana e 4 di loro su 5 vivono in regolari abitazioni: studiano, lavorano e conducono una vita simile a quella di ogni altro cittadino italiano o straniero. Solo uno su cinque dei rom del paese vivono nei cosiddetti “campi”, per un totale di 40mila persone. Ma la loro vita – sottolinea il rapporto – è ben più esposta agli occhi dell’opinione pubblica e dei commenti degli esponenti politici di quella dei restanti 140mila.

Per coloro che vivono nel Paese in condizioni di emergenza abitativa, sembra che la Strategia Nazionale per l’Inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti non abbia portato ad un sostanziale cambiamento delle condizioni di vita. Il leitmotiv di ogni azione pubblica è rimasto quello dell’approccio emergenziale, che nei propositi doveva essere abbandanato, e che si è declinato in azioni di sgombero forzato (più di 230 nelle città di Roma e Milano) e nell’ideazione e progettazione di nuovi campi nomadi. La questione abitativa resta quindi centrale nelle politiche delle amministrazioni locali. Negli ultimi tre anni sono stati costruiti nuovi insediamenti a Roma, Milano, Giugliano e Carpi e in molte città italiane del centro-sud sono in discussione progetti relativi alla costruzione di nuovi insediamenti per finanziamenti che superano 20 milioni di euro.

Molte le criticità emerse in numerosi campi italiani, anche tra quelli organizzati e gestiti dalle autorità, che da Torino a Palermo, passando per Roma e Napoli, sono stati definiti luoghi di sospensione dei diritti umani. Non semplice anche il quadro registrato per la qualità della vita dei minori, per cui la probabilità di accedere un giorno a un percorso universitario è tendente allo zero e quella di accedere alle scuole superiori si attesta all’1%. In un caso su cinque non verrà mai intrapreso un percorso scolastico. Anche l’aspettativa di vita è più bassa, circa 10 anni in meno rispetto al resto della popolazione e la possibilità di sentirsi discriminato raggiunta la maggiore età a causa della propria etnia è del 70%. Per quanto riguarda gli atti di violenza: gli episodi di odio registrati dall’Osservatorio di Associazione 21  luglio sono 443 e l’87% dei casi risulta riconducibile a esponenti politici. Nel 2014 è emerso un forte nesso tra le politiche discriminatorie e segregative e un radicato antizingarismo.

Il Rapporto fotografa la situazione di Roma, considerata “cartina al tornasole” della situazione del Paese, facendo riferimento al “gioco dell’oca” degli sgomberi  – 34 solo nel 2014 – che hanno spinto le comunità rom a spostarsi da un punto all’altro della città subendo una violazione dei diritti umani e provocando sperpero del denaro pubblico.
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‘no all’esclusione dei rom e sinti’ : appello delle chiese europee

appello ecumenico per i rom: no all’esclusione

 

appello per rom e sinti
l’8 aprile ricorre la Giornata internazionale dei Rom. Per l’occasione è stato lanciato un appello ai cristiani d’Europa perché diventino “sempre più aperti nei confronti dei Rom, che sono spesso esclusi e vivono in povertà ai margini della società”. A sottoscriverlo sono le Chiese europee, con i due loro organismi di rappresentanza, la Kek (per le chiese protestanti, ortodosse, anglicana) e il Ccee (per le Conferenze episcopali cattoliche).
“Ogni essere umano è creato a immagine di Dio, qualunque sia la sua lingua e la sua cultura”, scrivono Kek e Ccee.

 

Le minoranze Rom hanno mantenuto una ricca cultura
“Nonostante la difficoltà vissute lungo tutta la loro storia – affermano – le minoranze Rom hanno mantenuto una ricca cultura che include valori come la vita familiare, l’amore per i bambini, la fede in Dio, il rispetto verso i defunti, il piacere della musica e della danza. Consideriamo questa cultura come un dono del Creatore, che merita rispetto e sostegno”.
La realtà vissuta da questa popolazione nel continente europeo, come riporta l’agenzia Sir, è dappertutto estremamente difficile.
Le Chiese ne danno testimonianza: “La situazione attuale di molte persone Rom in tutta Europa – scrivono nel messaggio – è deplorevole. I principali problemi sono l’antigitanismo verbale e d’azione in tutta Europa, l’alto tasso di disoccupazione, la mancanza di formazione professionale e, di conseguenza, l’estrema povertà”.

Cresciuta la sensibilità nei confronti dei Rom
“Allo stesso tempo – si legge nel messaggio -, si possono osservare alcune tendenze positive nelle società europee. È cresciuto il numero dei giovani Rom che studiano nelle scuole superiori e nelle università. La conoscenza della popolazione Rom e la sensibilità nei loro confronti è in crescita”. In prima linea nell’aiuto ai “loro fratelli e sorelle Rom” ci sono le Chiese cristiane, i sacerdoti, i pastori e i fedeli. “La nostra convinzione è – scrivono Kek e Ccee – che, accanto all’istruzione e all’occupazione, il cuore umano sia un terzo pilastro importante nello sviluppo delle relazioni con il popolo Rom”.

Chiese europee: appello alla riconciliazione con il popolo Rom
Le Chiese aiutano le comunità Rom a migliorare la loro integrazione sociale, “preservando la cultura Rom” e questo aiuto passa per l’insegnamento del doposcuola, i servizi medici, gli aiuti alimentari, consulenze legali e altre forme di consulenza, ecc. “Chiediamo alle nostre comunità – è l’appello delle Chiese europee – di sostenere queste iniziative, per diventare veri fratelli e sorelle di queste persone nel bisogno. Operare per la giustizia significa lavorare per una riconciliazione con questo passato. Dobbiamo costruire nuove relazioni giuste con il popolo Rom e impegnarci nel difficile ma essenziale compito del risanamento e della riconciliazione”.

 

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“e se domani trovassero una tomba con le ossa di Gesù …?”

 

la risurrezione di Gesù e la salvezza degli uomini secondo Vito Mancuso

risurrezione.jpg “Se domani si ritrovasse un’urna con le ossa di Gesù di Nazaret, per i miei valori e la mia visione del mondo non cambierebbe molto”

La tesi di questo articolo consiste nel sostenere che occorre distinguere la risurrezione quale evento concreto accaduto a Gesù di Nazaret (un evento dotato di uno statuto storico del tutto particolare su cui mi soffermerò) dalla risurrezione quale evento salvifico. Occorre distinguere il significato della risurrezione per Gesù, dal significato della risurrezione per noi.

Io aderisco alla risurrezione quale evento accaduto a Gesù, ma nego che tale evento accaduto a lui abbia il valore salvifico assoluto per noi e per gli uomini di tutti i tempi che gli si attribuisce. Io penso che la vita eterna non dipenda dal fatto che Gesù è risorto, ma che il fatto che Gesù è risorto sia un segno della vita eterna nella sua effettiva realtà.

Perché sono cristiano

Io credo alla risurrezione di Gesù sulla base di quanto dicono i testi sacri e la predicazione della Chiesa. Credo alla risurrezione, ma non è su di essa che appoggio la “mia” fede, la mia fede “interiore”, viva, quella che ripeto a me stesso nella solitudine, in quei momenti nei quali ricerco un punto fermo su cui appoggiarmi per sussistere di fronte alle tempeste del mondo. La risurrezione non è il centro della mia fede personale. L’accetto, mi fido degli antichi testimoni evangelici che ne parlano e della Chiesa che mi ha messo in contatto con loro, e quando la domenica a Messa recito il Credo niceno-costantinopolitano non ho difficoltà a pronunciare “et resurrexit tertia die secundum scripturas”. Anzi, quando talora si canta il credo in latino e la musica sale, sento anche un fremito di gioia e penso “che bello, se è davvero così”. Però non lego la mia vita alla risurrezione, non strutturo la mia visione del mondo e il quadro dei miei valori morali a partire da essa. Se domani si ritrovasse un’urna con le ossa di Gesù di Nazaret, per i miei valori e la mia visione del mondo non cambierebbe molto. Continuerei a insegnare ai miei figli a basare la loro vita sul bene e sulla giustizia, continuerei a pensare che il bene e la giustizia sono immortali. Non è perché è risorto che Gesù è il mio maestro. Lo è per le cose che ha detto e per lo stile con cui ha vissuto, per la sua umanità, il suo senso di giustizia. Lo è per la sua maniera di parlare di Dio (“Abbà, Padre”) e per la sua maniera di parlare degli uomini (“vi ho chiamati amici”). Come disse Simon Pietro quel giorno, anch’io ripeto “Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. Io sono discepolo di Gesù, non perché Gesù è risorto, ma perché credo che le sue parole conducono alla vita eterna presso il Padre, della quale la sua risurrezione è un segno. Non mi piacciono quelle modalità di considerare Gesù solo in funzione del sangue che ha versato o della tomba che ha lasciato, senza assegnare un’adeguata importanza al suo messaggio e alle sue azioni, ritenendo che tutto si giochi solo nel fatto che è morto e risorto, agnello destinato all’immolazione prima ancora di essere nato. Non è così, Gesù non è un agnello, Gesù è Gesù.

Valore storico della risurrezione

Penso che non ci possano essere dubbi sul fatto che la risurrezione di Gesù costituisca l’inizio del cristianesimo storico. La crocifissione è un fatto storicamente accertato, l’attestano anche fonti extracristiane quali il Talmud Babilonese, lo storico ebreo Giuseppe Flavio e lo storico romano Tacito. L’espansione entusiasta e coraggiosa del cristianesimo primitivo è, a sua volta, un fatto storico. Occorre perciò un nesso che colleghi questi due eventi ben poco coordinabili tra loro, e questo nesso, secondo il Nuovo Testamento, è la risurrezione, ovvero, per stare a ciò che è storicamente accertabile, il fatto che i primi cristiani credessero all’evento inaudito della risurrezione del crocifisso. Questo ovviamente non prova che la risurrezione come evento sia realmente accaduto, questo prova solo che la fede dei primi cristiani era basata su qualcosa di inaudito. La risurrezione attribuita a Gesù costituisce l’evento generatore del cristianesimo storico, il big bang che l’ha portato a essere quel fenomeno mondiale destinato a mutare il mondo occidentale. Senza la fede dei discepoli in quell’evento inaudito, ultimo, risolutorio, non sarebbe sorto il cristianesimo storico. In questo senso va compreso il celebre passo di 1 Corinzi 15, 14: “Se Cristo non è risuscitato, vana è la nostra predicazione, vana la vostra fede”. L’inoppugnabile dato storico della fede dei discepoli non prova nulla, beninteso, ma è un fatto cui lo storico deve cercare una causa, e l’autosuggestione o il furto del cadavere non mi sembrano portare molto lontano. Tutti gli apostoli, salvo Giovanni, risultano essere morti martiri, ed è poco plausibile pensare che una decina di uomini diano la vita per una truffa da loro stessi ideata.

Ma ciò che i discepoli credevano, cioè l’evento della risurrezione di Cristo, era una loro auto-suggestione oppure un evento storicamente accaduto? A questa domanda, dal punto di vista storico, non è possibile dare una risposta. Dal punto di vista della storia, oltre la fede dei discepoli non è possibile andare. Poniamo che ci fosse stata una telecamera di fronte al sepolcro di Gesù nella notte di Pasqua. Essa non avrebbe registrato nulla, nessuna scena da potersi vedere sullo schermo. Nulla. Se è vero ciò che la risurrezione pretende di essere, cioè l’ingresso di Dio nella storia, essa non può essere un evento empirico. Questo non significa che non sia reale, anzi è reale al sommo grado, ma proprio per questo non è empirica, cioè soggetta ai sensi umani. Esattamente come Dio, che è reale ma non empirico. La risurrezione, se c’è stata, va considerata un evento escatologico, che cioè supera la dimensione del tempo e dello spazio e che immette nella dimensione ultima dell’eterno.

Del resto prove storiche della risurrezione non ce ne sono. Nessuno dei primi testimoni ha mai detto: il sepolcro è vuoto, quindi Gesù è risorto. Il sepolcro avrebbe potuto risultare vuoto anche per sottrazione del cadavere o per un caso di morte apparente. Dal sepolcro vuoto non consegue che Gesù è risorto. Forse per questo il sepolcro vuoto non è mai menzionato da san Paolo e dai primitivi compendi della predicazione apostolica riportati dal libro degli Atti degli apostoli. D’altro lato è probabile che, se il sepolcro non fosse risultato effettivamente vuoto, l’annuncio dei discepoli sarebbe stato screditato facilmente dagli abitanti di Gerusalemme.

Per quanto concerne le apparizioni, è decisivo notare che tutti i destinatari erano già credenti. Non credevano nella risurrezione, è ovvio, perché non sapevano che era avvenuta, ma credevano nel messaggio di Gesù, erano suoi discepoli. Ne viene che la fede si mostra come la condizione a priori dell’apparizione. Senza fede, nessuna apparizione. Quindi neppure le apparizioni sono una prova. Se Gesù avesse voluto dare una prova, avrebbe dovuto apparire pubblicamente a coloro che l’avevano crocifisso.

Non c’è nessuna prova della risurrezione. Se del resto ve ne fossero, si tratterebbe di un evento storico, non escatologico, e la risurrezione non sarebbe ciò che è, ma una delle varie rianimazioni di cadaveri conosciute nel mondo antico (comprese le tre attribuite a Gesù di Nazaret). Io penso che molti si raffigurino la risurrezione come rianimazione del cadavere. Ma non è così: la risurrezione di Lazzaro è stata una rianimazione del cadavere, quella di Gesù no. La risurrezione di Gesù non è rianimazione del cadavere, e però il cadavere non c’è più, perché il sepolcro è vuoto. Che fine ha fatto il cadavere di Gesù?

Il cristiano si trova tra Scilla e Cariddi, perché da un lato deve ritenere che la risurrezione non è un evento puramente spirituale senza tracce nella storia (non è l’immortalità dell’anima, ha a che fare con un corpo materiale), e dall’altro lato deve ritenere che la risurrezione non è un evento storico come un altro, empiricamente constatabile, come per esempio la risurrezione di Lazzaro.

Io non vedo altra via per chiarirsi le idee se non pensare che il cadavere sia stato per così dire “assorbito” in una dimensione dell’essere di cui non abbiamo idea che è quella divina, avendo ricevuto una specie di decomposizione istantanea nella nostra dimensione per poi venire ricomposto in modo del tutto diverso e del tutto nuovo nella dimensione dell’eterno. Quando il suo “corpo spirituale” (espressione contraddittoria per dire la novità indicibile del fenomeno) si è mostrato di nuovo in questo mondo, ha mostrato la sua singolarissima peculiarità apparendo e disparendo. Ma una cosa è sicura: nella dimensione senza tempo e senza spazio che è propria dell’eternità di Dio, non può sussistere nulla di materiale. Il corpo in carne e ossa di Gesù “in cielo” non esiste. Gesù risorto mantiene la sua individualità personale (e per questo è lecito parlare di “corpo”), ma non la sua materialità carnale (e per questo il NT parla di corpo “spirituale”).

Valore teologico e soteriologico della risurrezione

La questione decisiva però a mio avviso non riguarda la risurrezione in quanto evento accaduto a Gesù, ma piuttosto il significato di tale evento per noi. Come uomo legato alla sorte degli uomini prima e dopo di me, rifletto sul senso di quell’evento particolare per la storia e il destino di tutti e non attribuisco ad esso un valore salvifico assoluto. Nego cioè che per essere salvi di fronte a Dio occorra credere che quell’evento sia avvenuto (aspetto soggettivo) oppure che Dio a seguito di quell’evento abbia mutato il suo atteggiamento verso gli uomini o che sia mutato qualcosa nell’ordine del mondo che Dio non avrebbe potuto mutare prima e da sé (aspetto oggettivo).

Mi soffermo sulla dimensione oggettiva. Si dice che la risurrezione costituisce la vittoria sulla morte. Ma in che senso? Qui da noi, su questa terra, la morte non è vinta, anzi. Di là, nel regno dell’eterno, Dio non aveva bisogno di vincerla, perché lì egli regna da sempre e per sempre, lì c’è solo lui e il suo regno. L’aldilà, se esiste, è precisamente la dimensione escatologica, eterna, dove Dio è tutto in tutti. In che senso quindi si dice che la risurrezione ha vinto la morte? Qui non è vinta, e di là non c’era bisogno di vincerla. La risurrezione non costituisce la vittoria sulla morte, se non nel senso di manifestare al livello storico che questa vittoria al livello dell’eterno c’è sempre stata, perché Dio è sempre stato il signore della vita e della morte, e non aveva certo bisogno di un evento storico particolare per diventarlo. Il valore di quell’evento (in sé unico) è solo dimostrativo: è il segno della possibilità reale di una vita personale oltre la morte.

Se però quel segno non fosse avvenuto, non cambierebbe nulla da un punto di vista ontologico e assiologico. Certo, senza quel segno non ci sarebbe stato il cristianesimo storico e l’occidente sarebbe molto diverso, ritengo per lo più in peggio. Ma dal punto di vista del rapporto di Dio Padre con l’umanità nulla può mutare. E questo dimostra che non è il cristianesimo a salvare gli uomini, come non li salva nessun altra religione. Non è la religione che salva gli uomini, gli uomini non si salvano perché sono religiosi. Gli uomini si salvano (al di là di che cosa questa espressione possa significare) perché sono giusti. Ciò che salva è la vita buona e giusta, come ha insegnato Gesù (cf. Matteo 25) in perfetta continuità con la tradizione ebraica.

Pubblicato su “Il Foglio”, 23 marzo 2008.

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parla il vescovo che canta a messa canzonette pop

 

 

 

il vescovo pop che canta a messa: ‘Così racconto Gesù ai giovani’

IL VESCOVO POP CHE CANTA A MESSA: ‘ COSI’ RACCONTO GESU’ AI GIOVANI’

articolo pubblicato sul Qn (il Giorno, la Nazione, il Resto del Carlino), edizione del 4 aprile 2015

 

vescovo pop

 

«chi canta prega due volte», insegnava Sant’Agostino. E «magari riesce a farsi comprendere meglio nelle sue omelie», aggiunge monsignor Antonio Staglianò, schiarendosi la voce ‘sanremese’. In queste ore è lui l’idolo del web, il cinquantacinqueenne vescovo di Noto, teologo di rango, dal sangue calabrese trapiantato oltre lo Stretto. Tutta‘colpa’ di un video in cui lo si vede intonare tre brani di due stelle del pop, Noemi e Mengoni, nel bel mezzo dell’omelia per i cresimandi di Scicli, nel Ragusano.

Eccellenza, complimenti per la voce, tra lei e suor Cristina è proprio una bella sfida…

«Grazie, grazie, ma adesso non dite che faccio le omelie cantando. Il mio non è e non sarà mai uno show. Quelli immortalati dal video sono solo quattro dei ventottominuti della predica».

Quanto basta comunque per strappare l’attenzione dei ragazzi, non trova?

«Un anno fa, in occasione della Giornata diocesana della gioventù, ho parlato dell’amore, quello vero, illuminato dalla luce di Gesù. L’ho fatto cantando e spiegando brani di Arisa, Vecchioni, Nek, Noemi e Mengoni. In questo modo sono riuscito a spingere i ragazzi a compiere un discernimento critico che forse, parlando normalmente, non sarei stato in grado di suscitare. ‘Ti amo’, ‘amore’, oggi le parole si sprecano, ma rischiano di diventare vuote, se non andiamo al cuore che riempe la parola ‘amore’ del suo contenuto umano. Bisogna tornare all’essenziale».

Ancora Mengoni… Lei ormai fa solo citazioni pop.

«Le citazioni nelle omelie le ho sempre fatte. Whitman, Dante… ma non vedo perché, se mi trovo davanti a dei giovani, non posso citare delle canzonette che mi permettono di essere capito meglio. Sono convinto che il vescovo debba utilizzare il registro comunicativo migliore per farsi comprendere da chi l’ascolta. Il problema non è l’omelia lunga o corta, ma la passione che uno ci mette e il linguaggio che usa. E allora ben vengano le canzonette».

Il Vangelo nudo e crudo non basta più?

«Quello non è mai bastato, anzi non è mai esistito. Il Gesù reale, che s’incontra nella Bibbia, altro non è che quanto la comunità cristiana delle orgini ha trasmesso della propria fede. L’umano dell’uomo è già dentro al Vangelo. Per questo, se io intercetto in un ateo o in un anticristiano un testo nel quale viene a galla la profondità dell’uomo, per me quelle parole saranno già Vangelo. Da cantare, perché no, anche in un’omelia».

Certo che il nuovo corso ‘estroverso’, avviato da Papa Francesco, l’aiuta.

«Non so se questo mio stile possa piacergli. Forse a qualcuno di chi gli sta vicino potrebbe non andare troppo a genio… Ma i ragazzi della Cresima lo apprezzano e io andrò avanti, almeno fin quando non mi diranno di smettere».

Il vescovo rock di Noto “Canto Mengoni e Noemi: copiano le mie omelie”

intervista a Antonio Staglianò, a cura di Salvo Palazzolo
in “la Repubblica” del 4 aprile 2015


i suoi ragazzi lo chiamano già il “vescovorock”. E hanno postato su You-Tube qualche minuto dell’ultima omelia fatta a un gruppo di cresimandi: monsignor Antonio Staglianò, vescovo di Noto, canta Noemi e Marco Mengoni per spiegare «cos’è amore», per mettere in guardia dalle «facili mode», per invitare tutti «all’essenzialità». E adesso il video girato per caso in una chiesa di Scicli — la città set del commissario Montalbano — impazza sul web, come fosse il videoclip di uno dei cantautori più gettonati nelle hit-parade

Monsignore, canta da molti anni all’omelia

«L’anno scorso ho accennato a una strofa di Marco Mengoni durante la giornata della gioventù. L’ho buttata lì, senza pensarci troppo, perché a un certo punto qualche ragazzo mi sembrava un po’ distratto. E, all’improvviso, ho riconquistato tutti. Mi sono sorpreso anch’io dell’effetto che possono fare le canzonette. Anche un minuto su ventotto, com’è accaduto a Scicli».

Durante l’ultima cresima, però, non ha improvvisato. O è solo molto intonato?

«Da ragazzo suonavo la chitarra. Sono cresciuto cantando Bennato, De Gregori, Renato Zero. Mi piaceva molto la “Locomotiva” di Guccini. Poi, per tanti anni, non ho più coltivato la passione per il canto. Però, la musica mi è rimasta dentro».

E adesso quale canzone sta preparando per parlare ai suoi ragazzi?

«Non una, ma cinque canzoni. Alla prossima giornata della gioventù, che si terrà a maggio, proporrò “Guerriero” ed “Esseri umani” di Marco Mengoni; poi, “Fatti avanti amore” di Nek, la “Cura” di Franco Battiato e “Ritornerò da te” di Giovanni Caccamo, il bravo cantante che ha vinto Sanremo giovani, è originario di Modica, diocesi di Noto».

Dica la verità, qualche tema lo ha anche tratto dalle canzoni dei suoi autori preferiti?

«Guardi, qualche mese fa un sacerdote è venuto di corsa da me con un cd di Marco Mengoni. L’ha inserito nello stereo e abbiamo ascoltato alcune canzoni, tutte bellissime. Poi, mi ha detto: “Eminenza, ma questo cantante le ha rubato i temi delle sue omelie”. “È vero”, gli ho risposto. E abbiamo riso un po’».

Alla cresima di Scicli, il 22 marzo, i ragazzi hanno finito per cantare in coro con lei. Se l’aspettava?

«Ho citato la canzone “Vuoto a perdere” di Noemi per rimarcare il rischio che troppo spesso corriamo, anche senza accorgercene. La frase di Mengoni “Mentre il mondo cade a pezzi” è stato un altro pretesto, perché giovani e meno giovani capiscano meglio. Tante altre citazioni autorevoli scivolerebbero via. Sa quante volte ho recitato versi di Dante, di Leopardi o di Whitman? Purtroppo, non fa lo stesso effetto».

Lei è da sei anni alla guida della diocesi di Noto, prima è stato parroco nella sua Calabria, è anche docente di teologia. Le omelie in musica sono un altro passaggio della Chiesa del rinnovamento voluta da Papa Francesco?

«La missione principale della Chiesa è annunciare il Vangelo e la bellezza umana di Gesù per il mondo. La musica ci può aiutare davvero tanto a parlare ai giovani. E non solo a loro, perché uno dei temi principali su cui invito a riflettere è questo: come restare umani oggi».

A Scicli, partendo da Marco Mengoni è arrivato a una condanna pesantissima dei funzionari pubblici corrotti.

«Chi prende una mazzetta non è più un essere umano. Canto Mengoni anche per aprire il cuore di chi ha responsabilità nelle nostre comunità. E voglio che tutti i miei ragazzi cantino assieme a me, così ci sentiranno anche fuori dalle chiese».

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una nuova malattia: la ‘nomofobia’

 

 

“Senza smartphone non riuscirei a vivere, mi verrebbe l’ansia”, dicono in molti.

 è la nomofobia, la sindrome da ‘no-mobile’

video: http://bit.ly/19V8qBA

 

Senza smartphone non riuscirei a vivere, mi verrebbe l’ansia”, dicono in molti. Si scrive nomofobia, si legge ‘stato ansioso che si manifesta quando non è possibile usare il telefono cellulare‘. La parola deriva proprio da ‘no-mobile‘ e un numero sempre maggiore di italiani sembra soffrirne, tanto che il termine è stato inserito all’interno del vocabolario Zingarelli 2015 come nuovo lemma. “In concreto viene meno l’accedere alla dimensione online delle relazioni”, spiega il dottor Federico Tonioni, psichiatra dell’Ospedale Gemelli di Roma. E questo può provocare reazioni differenti, a seconda dell’età. “Negli adolescenti – aggiunge Tonioni – che sono nativi digitali e non hanno mai conosciuto un vita prima del computer, quella online è davvero un nuovo modo di comunicare e pensare. Negli adulti, invece, che un prima del computer lo hanno conosciuto, ci sono più i caratteri della dipendenza patologica e, quindi, è ipotizzabile che un adulto senza il suo telefonino si senta un po’ mutilato, come se perdesse il controllo della realtà”. In genere “il nomofobico – continua Tonioni – è un soggetto ansioso, può anche avere degli spunti paranoidei, difficoltà nel perdere il controllo sugli altri, ma potrebbe essere anche una persona con dei tratti narcisistici molto spiccati, che ha sempre bisogno di avere una conferma da parte degli altri, di sapere che ha un seguito”. “Questa però – specifica lo psichiatra – non è considerabile come una vera e propria patologia. Per questo si parla di fobia: è una paura non giustificata dalla realtà. Non devo essere io a ricordare che senza telefonino non si muore”, conclude il medico.

 

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complimenti, signor vescovo!

 

 

 Vescovo canta Noemi e Mengoni e il video dell’omelia diventa virale

il vescovo di Noto, Antonio Staglianò, ha intonato due brani dei cantanti tanto amati dai ragazzi durante la cerimonia per i cresimandi che si è svolta lo scorso 22 marzo a Scicli: “Se cantiamo, le cose si capiscono”, ha detto
è il caso di dire: complimenti davvero, signor vescovo, anche se è lecito avere la sensazione che non tutto sia riducibile al farsi capire col canto

 

le canzoni di Noemi e di Mengoni
e il video dell’esibizione spopola su Internet
La curiosità degli utenti del web è stata scatenata dal ruolo e dall’identità del cantante d’eccezione e il momento della ‘performance’: il vescovo di Noto (Siracusa), Antonio Staglianò, ha cantato due brani ‘pop’ durante la cerimonia per i cresimandi che si è svolta lo scorso 22 marzo a Scicli. Il vescovo forse avrà pensato che il miglior modo di rendere chiari i messaggi della propria omelia fosse quello di veicolarli attraverso alcuni brani amati dai giovani. Di Noemi, Staglianò ha scelto “Vuoto a perdere”, canzone scritta da Vasco Rossi. Il vescovo ha insistito sul vuoto e ammonito i giovani a ritrovare se stessi aggirando le mode dell’ipermercato, dove la gente ti guarda se hai i soldi e non il cuore. Quindi Staglianò, per denunciare il consumismo dei nostri tempi, si è fatto aiutare da due brani di Marco Mengoni “Guerriero” ed “Essere umani”. E così il vescovo ha intonato: “Mentre il mondo cade a pezzi io compongo nuovi spazi e desideri”. Infine, il prelato ha sottolineato come le sue citazioni abbiano comunque una funzione pastorale. Staglianò ha detto, rivolgendosi ai fedeli che lo applaudivano, che bisogna “citare per fare capire le cose, “altrimenti non capiamo nulla. Se cantiamo, le cose si capiscono”.

 

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stragi di cristiani e non solo … i ‘martiri della croce’ (V: Mancuso)

 

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strage jihadista in Kenya

oltre 70 morti e oltre 500 studenti cristiani presi in ostaggio dai seguaci di Al Qaeda somali

Lucandrea Massaro
Nuovo drammatico massacro di studenti cristiani, questa volta accade all’Università di Garissa in Kenya. A compierlo un commando delle milizie fondamentaliste somale degli Shabaab che è penetrato nel campus alle 5,30 del mattino, ha ucciso due guardie di sorveglianza e si è diretto verso i dormitori, armato di mitra. Sono già almeno 18 i morti, tra i quali due ufficiali di polizia e oltre 60 i feriti. Le forze dell’ordine hanno ingaggiato una battaglia con gli assalitori per cercare di liberare gli studenti.
Liberi gli studenti islamici, altri 535 in ostaggio
Un portavoce del gruppo islamista somalo ha confermato che sono stati presi studenti in ostaggio che sono stati divisi tra musulmani e non musulmani. E che 15 ostaggi islamici sono stati liberati. Circa 60 persone sono state ferite. Non si hanno al momento notizie di oltre 500 studenti. Secondo il ministro degli Interni keniano, Joseph Nkaissery, di 815 studenti, ne mancherebbero per ora all’appello esattamente 535 (Il Messaggero, 2 aprile).

I martiri della croce

 

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 3 aprile 2015

Ci fu un tempo in cui essere cristiani significava stare dalla parte dei vincitori e dei dominatori del mondo. Era l’epoca in cui la croce campeggiava quale emblema di potenza alla testa degli eserciti e delle flotte, e veniva scelta dagli Stati quale simbolo privilegiato per le loro bandiere (per esempio quella inglese e quelle scandinave) e dalle città per i loro stemmi (per esempio Milano, Bologna, Genova). La croce incuteva timore, era il simbolo di un Occidente dominante e signore, che oltre a conquistare il mondo economicamente e militarmente ambiva a farlo suo religiosamente. Durante quei secoli, che grossomodo possono essere collocati dall’inizio delle scoperte geografiche nel 1492 alla fine del colonialismo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, essere cristiani al di fuori dell’Occidente generalmente non comportava pericoli, anzi significava godere di una qualche recondita posizione di privilegio assegnata istintivamente dalle popolazioni alla religione dei vincitori.

Da qualche anno la situazione è completamente mutata: oggi in molte parti del mondo essere cristiani significa rischiare concretamente e quotidianamente la vita. Si può dire che per il cristianesimo stia tornando il tempo delle sue origini, quei primi tre secoli nei quali la fede cristiana veniva spesso perseguitata dal potere, a partire da Nerone che scaricò sui cristiani la responsabilità dell’incendio di Roma, fino alle estese persecuzioni di Decio, Valeriano e Domiziano.

Si attaccano i luoghi più vulnerabili: le chiese, le scuole. Ieri in un college della città di Garissa nel nord del Kenya si è avuta l’ennesima strage di innocenti a opera di un gruppo terrorista di matrice islamica legato ad Al Qaeda. Quello che colpisce è che secondo il portavoce dei terroristi gli ostaggi siano stati selezionati in base alla religione: rilasciati i musulmani, trattenuti i cristiani. Ma si tratta solo dell’ultimo episodio. Non passa settimana infatti in cui in Africa o in Asia non si segnali un grave episodio di intolleranza verso i cristiani, spesso sfociato nella violenza assassina. Per quanto concerne la dimensione quantitativa del fenomeno è difficile giungere a una stima certa, perché le diverse organizzazioni producono cifre non omogenee. In una lettera della Santa Sede alle Nazioni Unite datata 27 maggio 2013 si afferma che sono oltre centomila all’anno i cristiani uccisi per un legame più o meno diretto con la loro fede: il che, se risultasse fondato, significherebbe la media shock di 274 persone ogni giorno! Ma al di là delle cifre, i continui episodi di violenza di cui sono oggetto i cristiani sono sotto gli occhi di tutti: ora in Kenya, pochi giorni fa in Libia, in Siria, in Iraq, in Egitto, in Pakistan… Credo che si possano distinguere tre diverse forme di persecuzioni a seconda delle differenti aree geopolitiche: 1) il terrorismo dell’estremismo islamico legato ad Al Qaeda, all’Is, a Boko Haram o ad altre sigle di questo genere; 2) la repressione pianificata da parte degli Stati centrali, come avveniva fino a pochi anni fa nei regimi comunisti europei; 3) una più sottile forma di discriminazione statale, in sé generalmente non violenta ma tale da coprire o persino indurre alla violenza.

Al primo gruppo appartengono gli episodi maggiormente all’onore della cronaca: il Kenya, la fredda esecuzione mediante sgozzamento dei 21 cristiani copti sulle rive libiche del Mediterraneo, la persecuzione dei cristiani in Egitto, le stragi in Nigeria, i missionari uccisi e le missionarie anche violentate. Al secondo gruppo appartengono Stati in cui la libertà religiosa è spesso violata per la natura stessa della loro costituzione: mi riferisco in particolare all’Arabia Saudita, all’Iran, alla Corea del Nord. Vi è infine il terzo gruppo di Stati che di per sé sulla carta garantiscono la libertà religiosa, ma che ciononostante spesso mettono in atto politiche preoccupanti sotto il profilo della libertà religiosa tali da incoraggiare anche l’intolleranza violenta, mi riferisco in particolare alla

Cina e all’India. In quest’ultimo Stato, come riporta il sito Vatican Insider citando l’All India Christian Council, nei primi 300 giorni del governo Modi si conterebbero 600 episodi di intolleranza religiosa. Persino la patria del pluralismo religioso oggi produce persecuzione anti- cristiana. Perché? Come spiegare questa infuocata ventata anticristiana oggi nel mondo?

Eccoci alla principale questione critica formulabile in questo modo: chi attacca e uccide i cristiani intende colpire la religione di Gesù oppure la religione dell’Occidente? Non ci sono risposte facili, e io certo non ne ho. È vero che il terrorismo jihadista odia qualsiasi fede che non sia la sua: gli attacchi alle moschee “avversarie” in Iraq ne sono una tragica dimostrazione. Ma è indubbio che oggi punti ad un salto di qualità, parla sempre più spesso alla lotta contro i “crociati occidentali”, annuncia di voler colpire Roma, identificata nella cupola del Vaticano. Queste funeste grida di guerra aumentano il pericolo delle comunità cristiane sparse nel mondo, esponendole al rischio di un nuovo, moderno, martirio. E costringendo noi a porci la drammatica domanda: come non lasciarle sole, indifese, davanti ai fanatici assassini.

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un venerdì santo accanto a tutti i perseguitati

«ti preghiamo per i cristiani perseguitati»

nella sua predica davanti al Papa, in San Pietro durante la celebrazione della Passione del Signore, padre Raniero Cantalamessa ha ricordato i cristiani perseguitati in tante parti del mondo. Coloro che sono capaci anche di affrontare la morte pur di segure Gesù

Nei loro confronti “rischiamo di essere tutti, istituzioni e persone del mondo occidentale, dei Pilati che si lavano le mani – ha detto il predicatore pontificio -. I cristiani non sono certamente le sole vittime della violenza omicida che c’è nel mondo, ma non si può ignorare che in molti paesi essi sono le vittime designate e più frequenti”. E ha ricordato anche i 147 studenti cristiani uccisi dagli jihadisti ieri in Kenya.

“Un vescovo del III secolo, Dionigi di Alessandria, ci ha lasciato la testimonianza di una Pasqua celebrata dai cristiani durante la feroce persecuzione dell’imperatore romano Decio: ‘Ci esiliarono e, soli fra tutti, fummo perseguitati e messi a morte. Ma anche allora abbiamo celebrato la Pasqua. Ogni luogo dove si pativa divenne per noi un posto per celebrare la festa: fosse un campo, un deserto, una nave, una locanda, una prigione. I martiri perfetti celebrarono la più splendida delle feste pasquali, essendo ammessi al festino celeste’. Sarà così per molti cristiani anche la Pasqua di questo anno, il 2015 dopo Cristo”.

“A noi, però – ha proseguito il cappuccino – in questo giorno non è consentito fare alcuna denuncia. Tradiremmo il mistero che stiamo celebrando. Gesú morì gridando: ‘Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno’. I veri martiri di Cristo non muoiono con i pugni chiusi, ma con le mani giunte. Ne abbiamo avuto tanti esempi recenti. È Lui che ai 21 cristiani copti uccisi dall’Isis in Libia il 22 Febbraio scorso, ha dato la forza di morire sotto i colpi, mormorando il nome di Gesú”.

“E anche noi – ha detto Cantalamessa – preghiamo: Signore Gesù Cristo, ti preghiamo per i nostri fratelli di fede perseguitati, e per tutti gli Ecce homo che ci sono, in questo momento, sulla faccia della terra, cristiani e non cristiani. Maria, sotto la croce tu ti sei unita al Figlio e hai mormorato dietro di lui: ‘Padre, perdona loro!’: aiutaci a vincere il male con il bene, non solo sullo scenario grande del mondo, ma anche nella vita quotidiana, dentro le stesse mura di casa nostra. Tu, che, “soffrendo col Figlio tuo morente sulla croce, hai cooperato in modo tutto speciale all’opera del Salvatore con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità”[8], ispira agli uomini e alle donne del nostro tempo pensieri di pace, di misericordia. E di perdono. Così sia”.

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