la fede che talvolta si deve fare ‘politica’

la fede ha poco a che fare con le sagrestie soprattutto quando fuori vampa l’incendio
il giudizio di oggi sul martirio e la santificazione di O. Romero equivale alla dichiarazione che è talvolta necessario che la fede sia politica… È anche un’implicita critica di quei capi della Chiesa in America Latina e altrove che permisero a dei poteri corrotti e crudeli di continuare ad imporsi senza alcuna opposizione… la lotta per i diritti umani, per la libertà e per la dignità è parte della liberazione dal peccato promessa da Cristo

 

Romero,il martire che morì per i poveri

editoriale The Tablet
in “www.thetablet.co.uk” del 5 febbraio 2015

Romero

Stare dalla parte dei poveri anche a rischio della propria vita è parte essenziale della fede cattolica? L’arcivescovo Romero lo pensava. Fu ucciso da uno squadrone della morte del governo mentre celebrava la messa a San Salvador nel 1980. Papa Francesco evidentemente è dello stesso avviso. Ha confermato l’opinione dei cardinali della Congregazione per le Cause dei Santi, che ratifica le conclusioni di un comitato di teologi, secondo cui l’arcivescovo deve essere considerato un martire cattolico. Il movente della sua morte fu “odio alla fede” – per le sue instancabili proteste, in nome di Cristo, contro l’oppressione dei poveri. Questo significa che Romero sarà subito beatificato, che è un passo verso la santificazione.
È l’inizio della fine di un lungo e tortuoso processo, che ha incontrato continue resistenze. Le motivazioni di quelle resistenze spiegano il significato importantissimo del giudizio di oggi, in quanto i suoi oppositori lo accusavano di politicizzazione della fede. Etichettavano il suo interessamento per i poveri come marxismo. Il giudizio di oggi equivale alla dichiarazione che è talvolta necessario che la fede sia politica – quando un vero uomo o donna di fede non ha altra scelta. È anche un’implicita critica di quei capi della Chiesa in America Latina e altrove che permisero a dei poteri corrotti e crudeli di continuare ad imporsi senza alcuna opposizione. Alcuni furono anche collaboratori di regimi militari violenti per difendere privilegi delle élite agiate, e spesso gli interessi degli affari nordamericani.
Le generazioni precedenti di vecchi ledader della Chiesa sudamericana erano tristemente noti per essersi posti dalla parte degli oppressori piuttosto che degli oppressi. Dopo il Concilio Vaticano II, le cose cominciarono a cambiare, ma anche a provocare reazioni. L’arcivescovo Romero fu nominato quando si tentava all’interno della Chiesa cattolica di tenere a freno uomini coraggiosi come i cardinali Evaristo Arns e Aloisio Lorscheider, l’arcivescovo Helder Camara ed altri. Molti di loro furono sostituiti da quelli che il Vaticano considerava uomini più sicuri – il che significava meno politicizzati. Fu in questo contesto che la diffusione della teologia della liberazione fu criticata e alcuni dei suoi difensori furono obbligati al silenzio.
L’arcivescovo Romero aveva una certa simpatia per la teologia della liberazione, una teologia che sostiene che non c’è un luogo neutrale, né al di fuori né al di sopra della politica e della storia, dove la Chiesa possa mettersi stando da parte. O si è con i poveri o si è contro di loro. La proclamazione del suo martirio è la conferma che questo modo di vedere è stato alla fine considerato corretto. È risaputo che perfino il cardinale Gerhard Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha un atteggiamento positivo nei confronti della teologia della liberazione.
Come diceva l’arcivescovo Romero, la lotta per i diritti umani, per la libertà e per la dignità è parte della liberazione dal peccato promessa da Cristo. “La Chiesa sa che salva il mondo quando si impegna a parlare anche di tali cose”. Quindi, un arcivescovo a cui hanno sparato per impedirgli di continuare a parlare di tali cose è stato ucciso per la fede. Milioni di cattolici latinoamericani si rallegreranno del fatto che un papa latinoamericano abbia confermato ciò che loro già credevano: che Oscar Romero è con i santi in paradiso, alla presenza di Dio.

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ragazzi sinti e rom gridano ai giornali la loro rabbia

 

dodici giovani nomadi scrivono una lettera aperta: “Tv e giornali dicono che siamo tutti delinquenti e viviamo ai margini della società: è falso, gran figli di troia”

Rom e Sinti prendono carta e penna e scrivono una lettera aperta ai media italiani: per esprimere, dicono, i propri sentimenti –  sentimenti di paura.
 camponomadi24

Una paura provocata “da tv e giornali che sostanzialmente dicono che i Rom e i Sinti rubano, sono tutti delinquenti, vogliono vivere ai margini della società in baracche fatiscenti, non vogliono lavorare e nessuno di loro vuole studiare”. La lettera, pubblicata tra gli altri in versione integrale sul Secolo XIX e firmata da dodici ragazzi rom e sinti tra i 17 e i 33 anni, rivendica l’impegno a dar voce a un popolo “rimasto sinora legato e imbavagliato”.

Questo perché, proseguono Rom e Sinti, “alcuni di noi sono italiani, altri stranieri, ma tutti crediamo nell’onestà, nella giustizia, nei diritti e nei doveri di ogni essere umano”. Cosa imparerà un bambino che cresce “con un germoglio di odio nel cuore”, si chiedono gli autori della lettera? “La paura è che questi ragazzi e alcune persone per bene gradualmente assimilino questi gravi concetti e che da un semplice pregiudizio cresca nel cuore della gente l’odio”.

 L’appello, insomma, è rivolto ai professionisti dell’informazione, perché non creino “odio e paura”, aumentando le distanze tra le persone; la lettera si conclude infine con l’invito a creare “politiche di inclusione sociale“, che partano da quanto Rom e Sinti hanno da raccontare sulla cultura dei rispettivi popoli. La denuncia del clima d’odio si conclude con un’esortazione a scrivere una “pagina nuova”. E a porre fine a quel clima di odio da cui, ad oggi, dicono di sentirsi assediati.
 
 la lettera aperta ai media italiani inviata da undici giovani attivisti rom e sinti:

 

Siamo un gruppo di ragazze e ragazzi, Rom e Sinti. Alcuni di noi sono italiani, altri provengono da vari paesi europei, altri ancora sono nati in Italia ma di fatto sono sempre stranieri grazie all’accoglienza burocratica del nostro paese.

Tutti noi crediamo nell’onestà, nella giustizia, nei diritti e nei doveri di ogni essere umano; noi ci stiamo impegnando e formando come attivisti per dare voce al nostro popolo, fin ora rimasto legato e imbavagliato.

Vogliamo esprimervi una sensazione che stiamo vivendo in questo periodo, la sensazione si chiama PAURA. Sì paura, perché sono giorni, forse oramai mesi, che tv e giornali ci bombardano con messaggi che sostanzialmente dicono: “i Rom e i Sinti rubano, sono TUTTI delinquenti, vogliono vivere ai margini della società in baracche fatiscenti, non vogliono lavorare e nessuno di loro vuole studiare, ecc.”

Bene, mettendoci nei panni di chi non sa niente di questo antichissimo popolo, inizieremmo a crederci e inizieremmo a non volerli più nella nostra Italia. E se fossimo BAMBINI, che cosa impareremmo? Sicuramente, con un germoglio di odio nel cuore così potente e annaffiato bene tutti i giorni, da grande non solo odieremmo i Rom e i Sinti, ma saremo pronti a ucciderli, non per cattiveria ma per difenderci e per difendere la “Nostra” Italia dai cattivi e sporchi Rom e Sinti.

Il nostro pensiero va a tutti quei bambini che direttamente o indirettamente assimilano concetti senza alcun filtro, tramite i vari talk show, programmi d’intrattenimento e tg, che quotidianamente accompagnano alcuni momenti della giornata dei nostri figli.

LA PAURA è che questi ragazzi, e alcune persone per bene, gradualmente assimilino questi gravi concetti e che da un semplice pregiudizio cresca nel cuore della gente L’ODIO. Questo è un fatto grave, che non deve succedere, sarebbe da irresponsabili non fermarlo.

Quindi chiediamo a tutti i professionisti della comunicazione, di non macchiarsi di questa grave colpa, di non essere complici e artefici dell’istigazione all’ODIO, della PAURA e della distanza tra la gente.

Chiediamo di non essere usati dai vari politici nelle loro finte campagne elettorali, ma chiediamo a loro di agire insieme a “noi” Rom e Sinti per politiche di VERA inclusione sociale compartecipata.

Chiediamo di non essere usati dai vari giornalisti di turno scatenatori di ODIO e PAURA, per fare audience o vendere qualche copia in più.

Chiediamo a tutti i professionisti della comunicazione di ascoltare noi Rom e Sinti, perché abbiamo molte storie da raccontare sulla magnifica cultura millenaria del nostro popolo, così come sulle difficoltà che quotidianamente affrontiamo, nonostante non arrivino mai sulle prime pagine dei giornali.

Chiediamo di discutere con noi i perché di certe realtà e chiediamo di far emergere le fallimentari politiche di ghettizzazione subite da nostro popolo, molte delle quali emerse negli ultimi tempi.

Vostro è l’Onore e il Dovere di raccontare i fatti, voi siete coloro che danno gli strumenti alle masse per capire e agire. Siate portatori di giustizia sociale. Date voce anche alle positività e alle tantissime storie di normalità, oscurate dall’ e nell’ODIO mediatico.

Chiediamo verità.
Chiediamo dignità.
Per il nostro popolo.

Con questa lettera chiediamo ufficialmente il vostro IMPEGNO per fare luce e dare voce al nostro popolo, noi vi offriamo il nostro. Insieme possiamo e dobbiamo scrivere una nuova pagina.

Da oggi è ufficiale, potete contattarci quando volete.
Grazie.

In fede
Lebbiati Fiorello Miguel, sinto, rom, 33 anni, Capannori (Lucca), italiano
Lebbiati Joselito, rom, sinto, 32 anni, S. Alessio (Lucca), italiano
Cavazza Damiano, sinto, Nave Lucca, 32 anni, italiano
Lacatus Lacramioara Gladiola , rom, 21 anni, Roma, rumena
Nedzad Husovic, rom, 24 anni, Roma, nato in Italia ma senza cittadinanza
Raggi Serena, sinta, 26 anni, Bologna, italiana
Barbetta Dolores, rom, 29 anni, Melfi, italiana
Nikolic Ivana, rom, 23 anni, Torino, serba e croata
Dobreva Sead, rom, 32 anni, Rovigo, serbo
Milanovic Sabrina, rom 25 anni, San Nicolo D’Arcidano (OR)
Salkanovic Pamela, rom 17 anni ,nata a Roma, ma senza cittadinanza

INFORMAZIONI DI CONTATTO:
lebbiati.fiorello@gmail.com;  tel. 334/7631636; 340/7954281

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il commento al vangelo della domenica

GUARI’ MOLTI CHE ERANO AFFETTI DA VARIE MALATTIE 

commento al Vangelo della quinta domenica del tempo ordinario (8 febbraio 2015) di p. Alberto Maggi:

maggi

Mc 1,29-39

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

Per comprendere il brano di questa domenica occorre inserirlo nel suo contesto che è il giorno del sabato, giorno nel quale sono proibiti ben 1.521 azioni. Questo numero nasce dai 39 lavori che furono necessari per la costruzione del tempio di Gerusalemme, dei quali ognuno è suddiviso in altrettanti 39 attività, per un totale di 1.521 azioni. E tra queste c’è la proibizione di far visita o curare gli ammalati.
Sentiamo Marco. “E subito, usciti dalla sinagoga”, nella sinagoga c’è stato l’incidente, Gesù è stato contestato dalla persona con  lo spirito impuro, “andarono nella casa di Simone e Andrea”, che a quanto pare non sono stati al culto in sinagoga, “in compagnia di Giacomo e Giovanni” che invece evidentemente erano con Gesù in sinagoga.
Quindi abbiamo due coppie di fratelli, una più osservante, Giacomo e Giovanni, e l’altra a quanto pare meno. Infatti hanno dei nomi di origine greca, Simone e Andrea. “La suocera di Simone era a letto con la febbre”. E’ una donna, e le donne sono considerate una nullità, e per di più è ammalata per cui è in una condizione di impurità.
Una donna in quelle condizioni va evitata. E invece, “subito”, immediatamente all’uscita della sinagoga, “gli parlarono di lei”. E’ l’effetto della buona notizia che Gesù  ha proclamato nella sinagoga, una notizia che non divide gli uomini tra puri e impuri, tra emarginati e non, ma a tutti comunica il suo amore.  
“Egli si avvicinò e la fece alzare”, quindi Gesù cerca di curarla, “prendendola per la mano”. E’ proibito, perché toccare una persona impura significa assumere la sua impurità. Ebbene Gesù ignora la regola del sabato. Tutte le volte in cui Gesù si è trovato in conflitto tra l’osservanza della legge di Dio e il bene dell’uomo, non ha avuto esitazioni, ha scelto sempre il bene dell’uomo.
Facendo il bene dell’uomo si è sicuri anche di fare il bene di Dio, spesso per il bene di Dio, per l’onore di Dio, si fa male all’uomo. Quindi Gesù prende per la mano, trasgredisce la legge, “la febbre la lasciò ed ella li serviva”.
Il verbo adoperato dall’evangelista è lo stesso da cui deriva la parola che tutti conosciamo “diacono”. Chi è il diacono? E’ colui che liberamente serve per amore. Ebbene quest’espressione era già stata usata per gli angeli che, dopo le tentazioni, servivano Gesù nel deserto. Quindi Marco equipara il ruolo delle donne a quello degli angeli, sono gli esseri più vicini a Dio. Quindi la donna, considerata l’individuo più lontano da Dio, in realtà secondo l’evangelista è la più vicina a Dio.
Mentre in casa la necessità di una persona è stata più importante del sabato, in città il sabato è più importante della necessità delle persone. Infatti, “venuta la sera”, espressione che in Marco è sempre negativa, “dopo il tramonto del sole”, quindi attendono che sia passato il giorno del sabato nel quale è proibito visitare e curare gli ammalati, “gli portarono tutti i malati”. L’evangelista adopera l’espressione “stavano  male”, ed è un’allusione al profeta Ezechiele, al capitolo 34,4, dove il Signore denuncia i pastori e dice “non avete curato quelle pecore che stavano male”.
Quindi non si tratta tanto di infermi, ma quanto di popolo oppresso dai suoi pastori. “E gli indemoniati”. Indemoniato è colui che è posseduto da uno spirito impuro e che manifesta abitualmente il suo comportamento ed è conosciuto per questo. “Tutta la città era riunita”, letteralmente congregata, la radice del verbo è la stessa da cui deriva la radice “sinagoga”, “davanti alla porta”. E’ un momento di grande successo per Gesù.
“Guarì  molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”. Abbiamo già visto altre volte che liberare, scacciare i demoni significa liberare da ideologie religiose nazionaliste che rendono refrattari o ostili all’annunzio della buona notizia di Gesù. “Ma on permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano”.
Cioè indicano Gesù come il messia atteso dalla tradizione, esattamente come aveva fatto la persona posseduta da uno spirito impuro dentro la sinagoga. Ebbene Gesù di fronte a tutta una città che lo sta seguendo, che è pronta a seguirlo, Gesù rifiuta la tentazione del potere, del successo. “Al mattino presto si alzò quando ancora era buio”, quindi quando mancava la luce, “e uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”.
E’ la prima delle tre volte nelle quali l’evangelista presenta Gesù in preghiera. E tutte e tre le volte è sempre per una situazione di pericolo o difficoltà per i propri discepoli. Qui prega perché, come vedremo, i discepoli sono esaltati da questo successo di Gesù, poi prega dopo la condivisione dei pani quando c’è la tentazione di vedere in Gesù il leader che può risolvere i problemi della società; e infine  prega al Getzemani poco prima della sua cattura. Prega appunto per i discepoli che non saranno capaci di affrontare questo dramma, questo momento.
“Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce”. L’evangelista adopera la stessa espressione che nel libro dell’Esodo si trova per indicare il faraone che si mette sulle tracce del popolo ebraico per impedirne l’esodo, la liberazione.
“Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano»”. Questo verbo “cercare” in Marco è sempre negativo. Ebbene Gesù non resta a Cafarnao, ma invita a seguirlo. Non c’è la tentazione del potere. “E disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là»”. Gesù comincia a predicare, non più a insegnare. Ha insegnato nella sinagoga dove insegnare significa annunciare qualcosa poggiandosi sui testi della scrittura, quindi l’Antico Testamento.
Gesù, dopo il fiasco della sinagoga, non insegna, ma predica. Predicare significa annunziare la novità del regno di Dio senza poggiarsi sulla tradizione del passato. “«Per questo infatti sono venuto!»” Qui la traduzione “venuto” non è esatta; sembra che Gesù sia venuto al mondo per questo. No, il verbo adoperato dall’evangelista è “uscire”, cioè, “per questo sono uscito, per questo ho lasciato Cafarnao perché non mi limito a Cafarnao, ma devo andare ad annunciare per tutta l’umanità.
“E andò per tutta la Galilea, predicando”, ecco Gesù già non insegna più, ma predica, “nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni”. L’evangelista sembra alludere al fatto che il luogo dove i demoni sono annidati sono proprio le sinagoghe, i luoghi di culto. Era l’istituzione religiosa che indemoniava le persone presentando loro un’immagine di Dio completamente deviata da quella che sarà la forma con la quale Gesù presenterà suo Padre.

 

 una chiesa in uscita

il commento di p. Agostino Rota Martir dal suo luogo di condivisione della vita con un gruppo di rom

 

p. agostino

Il Vangelo di questa domenica racconta una delle tante giornate di Gesù, che inizia uscendo dalla sinagoga e termina nel dire,  che Gesù “predica nelle loro sinagoghe”. 

Dalla sinagoga di Cafarnao alle sinagoghe della Galilea. Ma in mezzo ci sta la vita con le sue esigenze, contrasti, gli incontri con amici, i conoscenti, i malati che desiderano o pretendono di guarire, è un Gesù che vive la città..che si lascia avvolgere dalle case, dalle sue strade, piazze, dall’ascolto dei suoi abitanti..ma anche capace di isolarsi per pregare in un luogo deserto. 

Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!” 

Sono gli inizi della vita pubblica di Gesù, da un lato Gesù è preso dal desiderio di raggiungere e toccare più villaggi possibili, non manca certo l’entusiasmo, e dall’altro il Vangelo racconta lo stile di annuncio che sarà tipico di Gesù: uscire per incontrare la gente, là dove vive, lavora e soffre. Predica la Buona Notizia, ma si lascia anche annunciare dalla vita che incontra lungo la strada.  Gesù non si lascia ingabbiare dalla sinagoga, ma è proprio fuori da essa che bisogna stare, andare, incontrare i poveri, guarire le loro ferite, ascoltare con il cuore i lamenti, raccogliere desideri nascosti di più vita..altrimenti si corre il rischio di tradire la Parola stessa o di farne un totem sacro di sole regole e prescrizioni. 

Il Vangelo di questa domenica è lo “schizzo” di una Chiesa in uscita, capace di uscire dalle sacrestie per raggiungere le periferie, per ascoltarle dal di dentro, per assumere il loro odore, non basta certo andarci con la bomboletta spray per spruzzare sulla gente e sui poveri in genere un po’ di “deodorante del nostro insegnamento”,  per coprire il loro odore che ci da fastidio e sentirci dei bravi cristiani impegnati.. Uscire anche per interrogare la nostra fede, per raccogliere la presenza di Dio nascosta fuori la Chiesa, fra gli scarti della società, capaci forse di evangelizzare anche  le nostre stesse comunità cristiane. 

La Parola ha sempre e ovunque bisogno di incarnarsi in situazioni concrete, per mostrare la sua bellezza e poter guarire le nostre ferite aperte con il suo balsamo. 

“..si ritirò in un luogo deserto, e là pregava.”  Anche la Parola per sapersi incarnare ha bisogno di silenzio, di preghiera, di deserto in ognuno di noi..per non rischiare di sentirci noi i “padroni della Parola” o gli amministratori di successi sulla pelle degli esclusi.  La preghiera è parte dell’incarnazione, è essenziale per una Chiesa in uscita e non può farne a meno, perché quando la  preghiera si nutre di volti, di situazioni, di conoscenze e condivisioni, è in grado di alimentare e far pulsare il cuore di Dio..è anche capace di rendere la Chiesa umile, povera e gioiosa di stare a fianco dei poveri, fedele alla sua missione di essere Chiesa discepola di Gesù, sempre in uscita, itinerante, ovunque: “perché io predichi anche là.”   Non rintanata per odorare di incensi la propria bellezza, ma disposta a sporcarsi i piedi e di “puzzare di pecora”, pur di annunciare il Vangelo della Gioia. 

 

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