papa Francesco e gli zingari

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL’INCONTRO PROMOSSO
DAL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA PASTORALE
PER I MIGRANTI E GLI ITINERANTI
“LA CHIESA E GLI ZINGARI: ANNUNCIARE IL VANGELO NELLE PERIFERIE”

Sala Clementina
Giovedì, 5 giugno 2014

papa-francesco

 

 

 

 

Cari fratelli e sorelle,

in occasione dell’Incontro mondiale dei promotori episcopali e dei direttori nazionali della pastorale degli zingari, vi do il mio benvenuto e vi saluto tutti cordialmente. Ringrazio il Cardinale Antonio Maria Vegliò per le sue parole di introduzione. Il vostro convegno ha come tema «La Chiesa e gli zingari: annunciare il Vangelo nelle periferie». In questo tema c’è anzitutto la memoria di un rapporto, quello tra la comunità ecclesiale e il popolo zingaro, la storia di un cammino per conoscersi, per incontrarsi; e poi c’è la sfida per l’oggi, una sfida che riguarda sia la pastorale ordinaria, sia la nuova evangelizzazione.

Spesso gli zingari si trovano ai margini della società, e a volte sono visti con ostilità e sospetto – io ricordo tante volte, qui a Roma, quando salivano sul bus alcuni zingari, l’autista diceva: “Attenti ai portafogli”! Questo è disprezzo. Forse sarà vero, ma è disprezzo… – ; sono scarsamente coinvolti nelle dinamiche politiche, economiche e sociali del territorio. Sappiamo che è una realtà complessa, ma certo anche il popolo zingaro è chiamato a contribuire al bene comune, e questo è possibile con adeguati itinerari di corresponsabilità, nell’osservanza dei doveri e nella promozione dei diritti di ciascuno.

Tra le cause che nell’odierna società provocano situazioni di miseria in una parte della popolazione, possiamo individuare la mancanza di strutture educative per la formazione culturale e professionale, il difficile accesso all’assistenza sanitaria, la discriminazione nel mercato del lavoro e la carenza di alloggi dignitosi. Se queste piaghe del tessuto sociale colpiscono tutti indistintamente, i gruppi più deboli sono quelli che più facilmente diventano vittime delle nuove forme di schiavitù. Sono infatti le persone meno tutelate che cadono nella trappola dello sfruttamento, dell’accattonaggio forzato e di diverse forme di abuso. Gli zingari sono tra i più vulnerabili, soprattutto quando mancano gli aiuti per l’integrazione e la promozione della persona nelle varie dimensioni del vivere civile.

Qui si innesta la sollecitudine della Chiesa e il vostro specifico contributo. Il Vangelo, infatti, è annuncio di gioia per tutti e in modo speciale per i più deboli e gli emarginati. Ad essi siamo chiamati ad assicurare la nostra vicinanza e la nostra solidarietà, sull’esempio di Gesù Cristo che ha testimoniato loro la predilezione del Padre.

È necessario che, accanto a questa azione solidale in favore del popolo zingaro, vi sia l’impegno delle istituzioni locali e nazionali e il supporto della comunità internazionale, per individuare progetti e interventi volti al miglioramento della qualità della vita. Di fronte alle difficoltà e ai disagi dei fratelli, tutti devono sentirsi interpellati a porre al centro delle loro attenzioni la dignità di ogni persona umana. Per quanto riguarda la situazione degli zingari in tutto il mondo, oggi è quanto mai necessario elaborare nuovi approcci in ambito civile, culturale e sociale, come pure nella strategia pastorale della Chiesa, per far fronte alle sfide che emergono da forme moderne di persecuzione, di oppressione e, talvolta, anche di schiavitù.

Vi incoraggio a proseguire con generosità la vostra importante opera, a non scoraggiarvi, ma a continuare a impegnarvi in favore di chi maggiormente versa in condizioni di bisogno e di emarginazione, nelle periferie umane. Gli zingari possano trovare in voi dei fratelli e delle sorelle che li amano con lo stesso amore con cui Cristo ha amato i più emarginati. Siate per essi il volto accogliente e gioioso della Chiesa.

Su ciascuno di voi e sul vostro lavoro invoco la materna protezione della Vergine Maria. Grazie tante e pregate per me.

 

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il pregiudizio è disprezzo: papa Francesco tira le orecchie ai romani

Papa Francesco: «Ho visto
i romani disprezzare gli zingari»

bambini rom

 

 

 

 

 

 

Papa Bergoglio rievoca un ricordo personale nell’incontro con i promotori episcopali e la Pastorale degli zingari: «Quando prendevo il bus a Roma e salivano nomadi, l’autista spesso diceva ai passeggeri: `Guardate i portafogli´. Questo è disprezzo»
di Redazione Online Rom
Bergoglio in metrò a Buenos Aires quando era cardinale (foto Ap)

Bergoglio in metrò a Buenos Aires quando era cardinale

Papa Francesco accusa i romani di non rispettare i nomadi. Di più, sostiene che alcuni li disprezzano: «Quando prendevo il bus a Roma e salivano degli zingari, l’autista spesso diceva ai passeggeri: `Guardate i portafogli´. Questo è disprezzo, forse è vero, ma è disprezzo». Così il pontefice ha evocato un ricordo personale, giovedì 5 giugno, parlando ai partecipanti all’incontro mondiale dei promotori episcopali e dei direttori nazionali della Pastorale degli zingari. L’evento – organizzato dal Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti – si è tenuto giovedì nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico, sul tema «La Chiesa e gli zingari: annunciare il Vangelo nelle periferie».

In difesa dei piccoli rom

Nella Capitale è noto l’aneddoto di un vescovo gesuita latino-americano, il brasiliano Don Luciano de Almeida – amico di Bergoglio e del quale oggi è in corso il processo di beatificazione -, il quale, girando anche lui in bus, prendeva sempre le difese dei ragazzini rom, che venivano trattati con disprezzo dai passeggeri. Il Santo Padre è poi tornato sull’argomento aggiungendo che «spesso gli zingari si trovano ai margini della società e a volte sono visti con ostilità e con sospetto». E ha aggiunto: «Sono tra i più vulnerabili, soprattutto quando mancano gli aiuti per l’integrazione e per la promozione della persona umana nelle varie dimensioni del vivere civile».

«Vittime di nuove forme di schiavitù»

Papa Francesco sottolinea che «i gruppi più deboli sono quelli che più facilmente diventano vittime delle nuove forme di schiavitù: sono infatti le persone meno tutelate che cadono nella trappola dello sfruttamento, dell’accattonaggio forzato e di diverse forme di abuso». E spiega: «Tra le cause che nell’odierna società provocano situazioni di miseria in una parte della popolazione, possiamo individuare la mancanza di strutture educative per la formazione culturale e professionale, il difficile accesso all’assistenza sanitaria, la discriminazione nel mercato del lavoro e la carenza di alloggi dignitosi».

«I pastori siano loro fratelli»

Bergoglio non si nasconde che quella dei nomadi «è una realtà complessa», e precisa che «certo anche il popolo zingaro è chiamato a contribuire al bene comune e questo è possibile con adeguati itinerari di corresponsabilità, nell’osservanza dei doveri e nella promozione dei diritti di ciascuno». Tuttavia c’è bisogno di aiutarli e per questo indirizza ai responsabili della Pastorale per gli zingari un «incoraggiamento a proseguire con generosità la vostra importante opera, a non scoraggiarvi ma a continuare a impegnarvi in favore di chi maggiormente versa in condizioni di bisogno e di emarginazione nelle periferie umane». «Gli zingari -conclude – possano trovare in voi dei fratelli e delle sorelle che li amano con lo stesso amore con cui Cristo ha amato i più emarginati: siate per essi il volto accogliente e gioioso della Chiesa»

«Tra noi disoccupazione al 95%»

Sottoscrive in pieno le parole di Papa Francesco la `Federazione Rom e Sinti Insieme. Anche se Djana Pavlovic, vice presidente della federazione, chiede al pontefice «di non utilizzare il termine `zingari´». «Nessun dubbio, è ovvio, sulla volontà di usare questa parola con un’accezione positiva, ma noi preferiamo essere chiamati `Rom´». «Nessuno al di fuori dell’Italia usa la parola zingaro, Rom nella nostra lingua significa `uomo´ ed è sicuramente la denominazione più adatta». Quanto al discorso del pontefice, «il Papa è da ringraziare perché ha sottolineato una situazione che è riportata in tutti i rapporti sulle condizioni di vita del popolo Rom e Sinti. La disoccupazione è al 95%, il tasso di mortalità infantile è elevatissimo, solo il 3% della popolazione Rom supera il 60mo anno di vita». «La nostra condizione è la conseguenza di un razzismo che dura da secoli. In Italia -denuncia Pavlovic – trent’anni di politiche di assistenzialismo e mancata responsabilizzazione hanno ostacolato l’inclusione sociale. Manca la volontà politica di mettere fine alle discriminazioni e ad una strumentalizzazione che spesso viene usata a fini politici».

Il Paese dei Campi (di segregazione)

L’associazione «21 Luglio» che da anni si occupa dei problemi dei rom nella capitale osserva che «è la prima volta che un Pontefice individua nella mancanza di alloggi adeguati una delle cause principali dello stato di discriminazione e di segregazione in cui vivono le comunità rom e sinte nel nostro Paese». L’Associazione sottolinea poi come l’Italia, denominata il «Paese dei campi», sia lo Stato che più degli altri ha «promosso politiche segnate dalla segregazione abitativa nei confronti di rom e sinti». «Le parole di Papa Francesco, in perfetta sintonia con le raccomandazioni delle istituzioni internazionali ed europee – continua 21 luglio – indicano nel superamento dei “campi nomadi” la strada maestra per una piena inclusione della minoranza rom. Un superamento urgente ma finora disatteso, visto che in molte città italiane, a partire dalla Capitale, gli amministratori continuano a proporre il “campo” come il luogo del margine in cui collocare, su base etnica, uomini, donne e bambini rom

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elogio del sorriso sulle labbra del credente

il riso abbonda sulle labbra di chi crede

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un bell’articolo sull’importanza del ‘sorriso’ nella persona credente apparso sul quotidiano ‘l’Avvenire’ a firma del vescovo teologo B. Forte

peccato che sia macchiato del tipico peccato ‘cattolico’ quale quello di voler monopolizzare le cose belle e buone, magari dopo averle screditate o sottovalutate per secoli, o di volere sempre distinguersi e prendere le distanze separandosi (per autoaffermarsi) sia da chi ‘pretende di cambiare il mondo’ sia da chi assume un ‘pensiero debole’ per meglio dialogare e fare spazio ad altre verità in un cammino comune, magari, verso la Verità …

L’importanza del sorriso

Alla luce della fede biblica la domanda se Dio possa ridere o, almeno, sorridere, non è così ingenua come potrebbe sembrare, quasi fosse voce di un’indebita proiezione della nostra leggerezza sull’indicibile. In realtà, riso e sorriso riferiti a Dio sono temi tutt’altro che assenti nella Sacra Scrittura, come nell’intera tradizione ebraico-cristiana.
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L’ebraismo può, dunque, essere considerato la religione del riso e del sorriso? Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto si mescola delicatamente al riso, non esita a rispondere affermativamente: «L’identità ebraica è uno scoppio di risa». E una delle feste più care alla coscienza collettiva d’Israele è quella di purim, festa della gioia per il dono della salvezza ricevuta da Dio per mano di una donna, Ester, festa dello scampato pericolo e del rivolgimento delle sorti, dove il cattivo Aman muore sul palo cui voleva appendere il giusto Mardocheo. 
Purim è, perciò, festa dello scambio dei destini, rappresentato mediante le maschere in cui ciascuno deve rappresentarsi nel segno del suo contrario (con fine auto-ironia, il professore serioso si vestirà da pagliaccio, il ricco avaro da mendicante prodigo, il poveraccio da gran signore, da donna giovane e bella chi obiettivamente non lo è…). 
Moni Ovadia offre una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo. Così il povero ebreo, cui è capitato veramente di tutto, sussurra timidamente all’Eterno: «Noi ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma, ascolta: un’altra volta non potresti scegliere qualcun altro?».
Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione che conosce il riso e il sorriso: in esso è perfino la Verità in persona ad ammiccare un sorriso… Che la Verità sorrida, potrebbe apparire perfino imbarazzante a chi pensasse la stessa Verità nei termini dell’ideologia moderna, per la quale il Vero è il campo di dominio di una ragione “forte”, che non conosce debolezze e non tollera differenze, neanche quelle sottolineate dalla levità di un sorriso. 
Al contrario, per il cosiddetto «pensiero debole» la Verità non sorride, ma sghignazza: essa è solo una maschera, che si fa gioco di chi ancora creda che esista una verità. Il sorriso della Verità è, dunque, lontano tanto da chi pretende di cambiare il mondo e la vita con le sole forze della ragione umana, quanto da chi nega semplicemente ogni fondamento forte all’impegno dell’uomo sulla Terra.
Chi dunque può amare il sorriso della Verità? Chi crede nell’Onnipotente che per amore si fa debole, nel Signore crocifisso, in cui riconosce la follia dell’amore divino per gli uomini. La debolezza di Dio è il sorriso della Verità, che non ha nulla dell’assolutezza astratta! Né questo scorgere il sorriso della Verità ne diminuisce la forza e l’attraente bellezza: ciò che conta è corrispondervi, prendendo sul serio la fedeltà del Dio, fattosi debole e vicino per amore, e non prendendoci troppo sul serio. 
In realtà, la Verità sorridente ci invita a sorridere di noi, nell’atto di abbandonarci umilmente nelle braccia di quel Dio, che è venuto a sorriderci nel volto di un Bambino. Da allora sappiamo che – fin quando ci sarà spazio per il sorriso della Verità – il mondo potrà ancora avere una speranza più forte del dolore e della morte, che troppo spesso sembrano averla vinta…
Lo aveva ben compreso Francesco, «giullare di Dio» in tempi non certo tranquilli come furono i suoi. Lo esprimeva nel Medio Evo europeo la diffusa tradizione del risus paschalis, che prevedeva il racconto del maggior numero di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…), affinché dappertutto esplodesse la gioia, unico sentimento ritenuto consono alla vittoria pasquale della vita. 
Forse anche per questo san Filippo Neri, detto «Pippo il buono», non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e sorridere davanti al mondo e alla vita.
Se ci si chiede perché ebraismo e cristianesimo siano religioni del riso e del sorriso, la risposta risiede forse nel fatto che riso e sorriso possono nascere solo nello spazio che sta tra la prossimità e la lontananza. Se vivi solo la prossimità, ne resti schiacciato, non riuscendo a respirare e a guardare oltre le sfide e i problemi. Se vivi solo la lontananza, rischi di costruirti un mondo ideale, evadendo dalla realtà. 
Se vuoi aprirti alla verità della vita, devi stare tra la prossimità e la lontananza: allora sorriderai. È la condizione del popolo ebraico, totalmente radicato tra gli altri popoli, e tuttavia popolo eletto. È lo scandalo del Cristo, Uomo tra gli uomini, appeso alla croce e tuttavia Figlio di Dio. Questi paradossi creano lo spazio del riso e del sorriso.
In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura è umile e aperta alle sorprese di Dio, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano – teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua limitatezza. 
Chi è libero da sé, sa ridere e far ridere con gioia. Perciò i paradossi dell’amore sono quelli del riso e del sorriso: l’amore incapace di gioia non può esistere; i suoi eccessi e le tristezze sono gli stessi del sorriso e del pianto, dell’amarezza e del riso. 
E qui emerge una differenza non di poco conto tra la tradizione ebraico-cristiana e l’islàm, religione che insiste sul dualismo fra Dio e il mondo, piuttosto che sul gioco amoroso della lontananza e della prossimità: nell’islàm più radicale il sorriso rischia di essere escluso. Dove non c’è sorriso in questo mondo, può esserci anche più facilmente una deriva fondamentalista.
Bruno Forte
 
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la festa dei sinti e dei rom a ‘les saintes Maries de la mer’

 

 

anche quest’anno, negli ultimi giorni di maggio, ha avuto luogo nella Camargue la tradizionale festa dei sinti e dei rom in onore di santa Sara: qui sotto alcune notizie su questa tradizionale e partecipatissima festa e il resoconto giornalistico che A. Corlazzoli ne ha fatto per ‘il Fatto Quotidiano:

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  Il pellegrinaggio dei sinti e  dei rom

Rom e Sintii arrivano dai quattro angoli di Europa e anche da altri continenti per venerare la loro Santa, Sara la Nera. Si sistemano nelle strade, sulle piazze, lungo il mare. Per otto o dieci giorni, qui è come se fossero a casa loro. Il pellegrinaggio è anche l’occasione per ritrovarsi e la maggior parte dei bambini viene battezzata nella chiesa delle Saintes Maries.
Dopo la discesa delle reliquie il 24 maggio, la statua di Sara è portata dai gitani fino al mare per simboleggiare l’attesa e l’accoglienza delle Saintes Maries da Sara, patrona dei gitani. La processione ritorna allora alla chiesa con tutta la gioia delle acclamazioni, degli strumenti musicali e del carillon delle campane della chiesa.
La statua di Sara si trova nella cripta della chiesa, a destra dell’altare, vestita di abiti multicolore e di gioielli.

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  il pellegrinaggio delle Sante

Fin dal XII secolo, le Saintes Maries sono luogo di pellegrinaggi. Le reliquie delle Sante scoperte nel 1448 in occasione degli scavi ordinati dal Re René sono venerate in modo particolare durante due pellegrinaggi.
Il più conosciuto ha luogo perennemente tutti i 24 e 25 maggio di ogni anno con la partecipazione dei gitani. La giornata del 25 è consacrata alle Sante del villaggio, Marie Jacobé e Marie Salomé, entrambe portate in processione fino al mare. Vengono portate dai gitani, attorniate dalla folla di fedeli, delle arlesienne e dei guardiani in costume tradizionale e anche dei pellegrini provenienti da tutto il mondo e vengono benedette dal Vescovo.

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Durante questi due giorni, nella chiesa si susseguono, una dopo l’altra, messe e preghiere.
Il secondo pellegrinaggio si svolge la domenica più vicina al 22 ottobre, non ha la stessa risonanza e vi partecipano solo gli abitanti del paese.

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Vittime di persecuzioni in Palestina, le Sante furono arrestate, imbarcate su un naviglio e poi abbandonate su un’imbarcazione senza vela e senza remi. Guidate dalla provvidenza, approdarono lungo la riva provenzale.

Marie Jacobé e Marie Salomé, vicine a Gesù e a Maria, sarebbero sbarcate in questo luogo accompagnate da Lazzaro, Maria Maddalena, Marta, Massimino…
Mentre i discepoli partivano per andare lontano a portare la parola del Vangelo, le Sante, signore già anziane in quanto madri di apostoli, rimanevano su questa riva che porta il loro nome. Per quanto riguarda Sara, una domanda rimane senza risposta :

Sara prestava servizio presso di loro o le ha accolte sul nostro litorale

 

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Il battesimo del mare dei gitani

la Camargue diventa ‘capitale’

di Alex Corlazzoli
in “il Fatto Quotidiano” del 31 maggio 2014

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“Vive les Sainte Maries, vive Sainte Sara”. Ancora una volta, i gitani di tutta Europa, si sono riuniti a Sainte Maries de la Mer, in Camargue, per onorare la loro patrona, giunta secondo la tradizione, sulle coste francesi a bordo di una barca con Maria Salomé e Maria Jacobé, ad annunciare la buona novella. Per due giorni, nello scorso weekend, i Rom, rifiutati da tutti, respinti, etichettati da mille
pregiudizi, hanno formato un solo popolo con le migliaia di turisti arrivati dalla Francia, dalla Spagna, dall’Italia, dall’Olanda e da altri Paesi, in un pellegrinaggio di “pace e unità”.

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LA MUSICA GITANA, le vivaci melodie dei violini e delle fisarmoniche, il ritmo del flamenco, i colori sgargianti delle lunghe vesti delle donne zingare, hanno travolto ogni piazza, ogni angolo di questa meravigliosa terra. Le antiche roulotte di legno “des gens du voyage”, come chiamano qui i gitani, hanno occupato, accanto alle moderne abitazioni su quattro ruote, le piazze e le periferie
della minuscola cittadina. Uno spettacolo mistico, miscelato alla tradizione religiosa che fa della Camargue un angolo di Terra Santa. La statua di Saint Sara, la Nera, portata in trionfo dai gitani in costume, ha attraversato, scortata da bianchi cavalli, il centro storico fino all’immersione in mare per la benedizione. Un tripudio di devozione capace di far suonare per ore chitarre e far ballare
Erika, con la lunga veste nera con la scritta “Alma Gitana” in un flamenco estatico: “Sono qui per tutti i gitani. Per mio nonno che non c’è più. Noi siamo l’alma, lo spirito, la libertà”, mi spiega la bionda zingara mentre riprende ad agitarsi seguendo il magico suono delle chitarre. L’arrivo di Saint Sara sulla spiaggia, che precede di un giorno la discesa al mare delle statue di Maria Jacobé e Maria Salomé, è accolto da centinaia di gitani accalcati sulla spiaggia, immersi in
acqua con i loro sontuosi abiti. Alla solenne festa è arrivato anche il ministro della Cultura francese Aurelie Filippetti, accolta come tutti gli altri pellegrini, senza auto blu e scorta al seguito. Non manca il vescovo della diocesi che sembra a suo agio mentre benedice giovanissime ragazze gitane che gli porgono i loro figli.
E il mare diventa una sorta di fonte battesimale, l’acqua santa nella quale, i gitani si buttano con i loro cavalli. Le donne immergono lenzuola, bagnano il viso, dalla carnagione olivastra, dei bambini; entrano con le loro vesti. La spiaggia diventa un luogo sacro, una sorta di cattedrale all’aria aperta. Uno spettacolo meraviglioso che lascia i turisti senza parole: qualcuno si getta in mare con il popolo zingaro per condividere con loro la gioia di quel momento. La processione non finisce mai: prosegue nella notte tra sabato e domenica, quando “les gens du voyage”, ravvivano la lunga sera con i loro canti, con le loro storie raccontate ai crocchi di turisti che si radunano, attorno loro, nella piazza della chiesa romanica.
Non c’è tempo per dormire a Saintes Marie de la mer. Per due giorni siamo tutti gitani. Mirella, che i 50 anni li ha superati da un pezzo, e’ arrivata in autostop dalla Liguria con un’amica: si sono vestite come le donne zingare, con gonnoni rossi e neri, un fiore tra i capelli e lunghi orecchini. Non si fermano un istante, gridano: “Vive les gitanes”.
L’urlo di gioia per il popolo zingaro si ripete in una sorta di cantilena, quando una band di suonatori rallegra un angolo del paese o quando Marika, arrivata dalla Spagna, si mette in mostra per i fotografi mentre balla il flamenco. Una notte senza fine che annuncia la giornata dedicata alle sante donne, Maria Salomé, madre di Giovanni e Giacomo e Maria-Jacobé: “Con la Vergine Maria esse hanno vissuto la Pasqua, il disastro del venerdì santo, la lunga speranza del sabato, l’imprevedibile
sorpresa della domenica di Pasqua. Esse sono state – spiega Marc Prunier, curato di Saint Marie, in una chiesa affollata all’inverosimile – le prime testimoni dirette della tomba vuota. È grazie a esse che gli apostoli ne sono stati informati ed è poi grazie a loro che la novella è giunta sino alla nostra Camargue”. Grazie a quelle due sante, a Saint Marie, celebrano la resurrezione più volte l’anno: in maggio, in ottobre e in dicembre. Giorni in cui la Camargue si trasforma.

LA PIAZZA È DI NUOVO IN FESTA

Si prepara a ridiscendere verso quella spiaggia dove le due sante donne sarebbero arrivate nel primo secolo. L’ultimo atto, di questa teatrale processione, si
compie in chiesa quando le reliquie delle sante esposte in una “cassa” sull’altare, vengono riposte nella cappella che si trova sopra l’abside. I gitani, si accalcano attorno al reliquiario, gridano nuovamente “Vive les Saint Maries, vive sainte Sara”, tra i ceri accesi e la voce del celebrante che prega la litania dei santi. Il popolo dei viaggianti è pronto a rimettersi in cammino. In chiesa, il curato, azzarda persino un invito a Papa Francesco per il prossimo anno. Le campane suonano a
festa. La musica torna nelle piazze, travolge chiunque. Impossibile star fermi. Ricomincia un’altra notte gitana. L’ultima prima della partenza del popolo che in Camargue ha  trovato  una terra accogliente.le sante5

 

 

 

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