‘misericordia’ non è ‘fare la carità’

Il valore profetico della misericordia (di J. Moltmann)

Vi sono strutture della misericordia? Finora abbiamo considerato la misericordia, secondo il suo contenuto letterale, solo nella pietà personale e spontanea verso i bisognosi. Ma la misericordia funziona solo nell’ambito personale? Il vescovo brasiliano dom Hélder Câmara una volta ha detto: «Quando provavo pietà per i poveri, mi si lodava e mi si chiamava santo. Quando chiedevo pubblicamente perché i poveri sono tali, mi si insultava e mi si chiamava comunista». Se vi sono leggi inumane e strutture asociali, vi sono anche leggi umanamente giuste e strutture socialmente eque. Dunque vi sono anche strutture misericordiose o meno.

Le prime comunità cristiane non affrontavano la povertà solo individualmente come il “samaritano misericordioso”; praticavano la nota comunione dei beni protocristiana che ancora oggi vige negli ordini cristiani dei monaci e delle suore: «Non c’era infatti tra loro alcun bisognoso» (Atti, 4, 34). La comunità originaria di Gerusalemme aveva ordinato persino «sette assistenti ai poveri» (Atti, 6, 3) che si prendevano cura di vedove e orfani privi di diritti e indifesi. A quanto pare alcune comunità si prendevano cura non solo dei propri poveri, ma — come constatavano i contemporanei ammirati — anche di vedove e orfani dell’intera città. In entrambi gli istituti riconosciamo le radici cristiane della solidarietà.

La solidarietà qui si può riconoscere come fedeltà comunitaria: non lasciamo che nessuno cada, ma ci preoccupiamo di tutti quelli che appartengono a noi. Ma vediamo anche una solidarietà aperta verso tutti i miseri della città o della società. Di fronte alle chiese medievali sedevano sempre molti mendicanti in modo che i pii fedeli potessero esercitare verso di loro le buone opere di misericordia e raccogliere per sé un tesoro nei cieli. Certo, nelle società medioevali vi erano anche fratellanze per compiere le sette opere di misericordia. Anche se gli uomini oggi non credono più nei cieli, si sentono “bene” quando sono “benevoli” e fanno offerte alla Caritas. Dalla Riforma non vi sono più mendicanti di fronte alle chiese evangeliche. I cristiani protestanti non sono allora più misericordiosi perché credono alla giustificazione solo per fede e non mediante opere buone? No. La Riforma è stata nelle città una riforma non solo della Chiesa, ma anche della società. A partire dalla Riforma i diaconi hanno assunto il compito dell’assistenza ai poveri e ai malati, preparando in questo modo per la società la via verso lo Stato sociale.

La legislazione sociale di Bismarck era orientata al modello Erbenfeld, creato dalla comunità olandese-riformata. Il barone von der Heydt è stato il mediatore di questi primi inizi di Stato sociale in Germania. Max Weber ha certo enunciato la tesi per cui il calvinismo avrebbe ispirato il capitalismo, ma ciò è storicamente falso. Si potrebbe dire ugualmente che il calvinismo abbia ispirato attraverso il diaconato il socialismo e attraverso l’ordinamento ecclesiale presbiteriano-sinodale la democrazia. La pietà personale porta logicamente verso strutture di misericordia. Entrambe le Chiese nel corso del XIX secolo hanno sostenuto nei territori tedeschi il movimento cooperativo e fondato esse stesse molte cooperative in campagna e in città per combattere povertà e disoccupazione. Se ci si unisce autonomamente in cooperative, si diventa forti.

L’alternativa alla povertà non è la ricchezza, l’alternativa a povertà e ricchezza è la comunità. Quando sentiamo la parola misericordia, pensiamo solitamente all’uomo misericordioso, non all’uomo misero. Come si sentono i poveri che sono rimessi ai buoni doni dell’uomo misericordioso? Come si sentono i disoccupati e senzatetto che dipendono dalle mense e da un luogo caldo nelle chiese? Se la misericordia viene dall’alto verso il basso, essi si sentono doppiamente umiliati. Dare è un bene, accettare è più difficile. Per questo appartiene alla pietà sempre anche il riconoscimento della dignità dell’uomo e il rispetto di fronte all’amore di sé del bisognoso. L’aiuto migliore è “aiutare ad aiutarsi”. L’«opzione primaria per i poveri» latino-americana (Medellin 1968) è buona per coloro che non sono poveri e non è dunque un’«opzione dei poveri». Infatti i poveri non hanno optato per la povertà, ne sono prigionieri e cercano una via per uscire dalla povertà verso una vita buona e in comune. I poveri sono tali solo in confronto ai ricchi, non lo sono in sé e sotto altri aspetti; essi hanno doti ed energie proprie che vogliono essere risvegliate e mobilitate. I poveri non vogliono — come tutti noi — essere richiamati a ciò che non hanno, ma essere riconosciuti in ciò che sono. Per questo hanno bisogno non solo di misericordia, ma anche di solidarietà umana, e la sperimentano in una comunità umana solidale.

Cos’è e come funziona una comunità umana solidale? La misericordia viene dal cuore ed è — come mostra la parabola del buon samaritano — personale, spontanea e momentanea. La solidarietà è invece senso civico e fedeltà comunitaria ed è sociale, istituzionale e duratura. In una comunità solidale vi è la partecipazione pubblica di tutti e la suddivisione del bene comune per ciascuno. Fiducia e affidabilità, diritti e doveri qualificano la vita. Il modello cristiano non è nel samaritano misericordioso, ma nella comunione dei beni protocristiana. Il moderno Stato sociale europeo è una conseguenza della solidarietà organizzata tra forti e deboli, sani e malati, giovani e anziani. Lo Stato sociale trasforma i poveri, i malati, gli anziani da oggetti di pietà a soggetti di diritti ed esigenze: l’assicurazione sociale, l’assicurazione previdenziale, le pensioni di anzianità. Tutto ciò è qualcosa di più che «misericordia strutturale» (Wolfgang Thierse); è fondato sugli universali diritti umani e civili ed è piuttosto solidarietà strutturale.

Lo Stato moderno di diritto non si occupa solo di coloro i quali sono «incappati nei briganti», si sforza anche di eliminare rapine e omicidi e di socializzare i briganti. E se il moderno Stato sociale diventa anche ecologico, può dare forma a misericordia e solidarietà con animali e piante e con la terra intera. Quanto più vengono utilizzate energie rinnovabili e l’industria si converte da waste-making industry in recycling industry, tanto meglio sarà per l’intero ecosistema della terra, patria di noi tutti. Diventano così superflue misericordia e pietà? No. La misericordia è l’anima della giustizia sociale. Senza una cultura della misericordia va perduta la motivazione alla base di una legislazione sociale. L’etica della pietà verso i deboli, i malati e gli anziani deve essere oggi difesa contro la freddezza sociale del neoliberalismo; infatti solo un’etica universale della pietà può giustificare le leggi sociali e non solo deplorare individualmente l’omissione di soccorso, ma anche punirla. Anche negli Stati sociali la misericordia personale è necessaria. La Caritas nella Chiesa cattolica e il Diakonische Werk in quella protestante sono irrinunciabili in Germania.

Anche se la rete sociale dell’assistenza statale intercetta i bisogni più acuti, vi sono molti disoccupati e senzatetto, malati e anziani di cui nessuno si preoccupa. Come mostra l’esperienza, le leggi sociali hanno sempre delle falle perché la vita è irregolare. Nelle agenzie sociali predomina spesso il sospetto per la frode invece del rispetto per la dignità umana dei bisognosi. La misericordia apre la comunità solidale nazionale ai perseguitati e ai profughi, per quanto sia possibile e ragionevole. Per questo Papa Francesco è stato a Lampedusa. La misericordia è, per così dire, il vertice missionario di uno Stato sociale aperto. Infine, la misericordia diventa fonte del soccorso internazionale. Ciò è ovvio in caso di catastrofi naturali, terremoti e tsunami, come anni fa ad Haiti. In caso di catastrofi politiche come in Siria e in Iraq, in occasione di guerre civili e Stati che si disgregano, invece, per la comunità degli Stati la questione è complessa. L’Onu deve intervenire in caso di genocidio. Interi popoli, gruppi etnici e singole etnie possono infatti incappare «nei briganti», come mostrano le catastrofi umanitarie in Ruanda e Burundi.

La comunità solidale e lo Stato sociale funzionano soltanto finché il mondo morale viene connotato da solidarietà e misericordia e non dall’ideologia capitalistica dell’avidità, dell’avarizia e dell’egomania. In fondo la pietà personale non è solo necessaria, ma anche buona e bella. La pietà personale è la traduzione della misericordia divina nella nostra convivenza umana. La nostra piccola pietà consacra questa vita ed è una risonanza della grande misericordia divina. La pietà personale è incondizionata e immediata nelle attenzioni verso l’altro. La pietà personale è generosa e non calcola. La pietà personale è ovvia e dimentica di sé. La pietà personale è anche nello sdegno verso l’inumanità di certe condizioni e la spietatezza degli uomini. La pietà personale è una vita felice nel vasto spazio della misericordia di Dio.

 
 
da nicodemo.net

E. Bianchi mette a nudo il nostro tradimento del vangelo

“Delitto e castigo. La tentazione di noi credenti”

di Enzo Bianchi

Bianchi

Dobbiamo confessarlo: ciò che di Gesù ancora oggi scandalizza non sono le sue parole di giudizio, le sue parole severe, a volte dure; non scandalizza neppure il suo operare, perché si riconosce il suo “fare il bene” (cfr. Mc 7,37; At 10,38). No, ciò che scandalizza è la misericordia, interpretata da Gesù in un modo che è all’opposto di quello pensato dagli uomini religiosi, da noi!
A volte sembra che la misericordia sia invocata da Dio, sia augurata e facile da mettersi in atto, e invece — dobbiamo riconoscerlo umilmente — in tutta la storia della chiesa la misericordia ha scandalizzato, e per questo è stata poco esercitata. Quasi sempre è apparso più attestato il ministero di condanna piuttosto che quello della misericordia e della riconciliazione. Basterebbe leggere la storia con attenzione, soprattutto quella dei concili, per vedere con quale sicurezza lungo i secoli si è usata la parabola della zizzania (cfr. Mt 13,24-30), pervertendola. In essa Gesù chiede di non sradicare la zizzania, anche se minaccia il buon grano, e di attendere la mietitura e il giudizio alla fine dei tempi. E invece nella chiesa si è indicato il nemico, il diverso come zizzania, autorizzando il suo sradicamento, fino alla sua condanna al rogo. O si guardi alle nostre storie personali: quanto ci è difficile perdonare, fare concretamente misericordia, lasciarci commuovere da chi è nel bisogno, fino a fare per lui il bene, omettendo di compiere ciò che avevamo pensato contro di lui…
Di più, se è vero che la parola misericordia sembra indicare nella nostra società un sentimento che manca di vigore e di verità — per questo si arriva a dire: “La misericordia, troppo facile!” —, quando poi essa è praticata in modo autentico, in realtà turba, desta obiezioni. Questo perché la misericordia è temibile più della giustizia: “é un ripudio del male in nome della condivisione di un amore”. Il messaggio della misericordia scandalizza, non è capito da quanti si sentono giusti, in pace con Dio (e per i quali Gesù non è venuto: cfr. Mc 2,17), mentre invece è compreso e atteso da chi si sente nel peccato, bisognoso del perdono di Dio. I credenti “religiosi” di ieri e di oggi hanno difficoltà a sentirsi fratelli e sorelle dei peccatori, delle peccatrici, perché nella loro vita non hanno commesso peccati “gravi”, quindi si mettono dalla parte dei giusti, di quelli che possono vantarsi di qualcosa presso il Signore: vantarsi di non aver sbagliato gravemente. é stato così durante il ministero di Gesù, è stato così nella storia della chiesa, è così ancora ai nostri giorni, quando siamo interrogati da papa Francesco proprio sulla nostra capacità di misericordia: misericordia della chiesa, misericordia di ognuno di noi verso chi ha sbagliato o chi ha bisogno del nostro amore. Spesso siamo disposti a fare misericordia se c’è stata punizione, castigo di chi ha fatto il male (e diciamo che questa è giustizia!), se il peccatore è stato sufficientemente umiliato e solo se chiede misericordia come un mendicante. In ogni caso, stabiliamo dei precisi confini alla misericordia, perché pensiamo che certi errori, certi sbagli, certe scelte avvenute nel male e non più riparabili debbano essere punite per sempre dalla disciplina ecclesiastica: per alcuni errori dai quali non si può tornare indietro non c’è misericordia, dunque la misericordia non è infinita, ma può essere concessa solo a precise condizioni…
 

Ecco il nostro tradimento del Vangelo, ecco come la misericordia ci scandalizza.

 

sulla misericordia …

“misericordia voglio e non sacrifici”

di José María Castillo

Castillo
in “www.periodistadigital.com” del 10 dicembre 2015

Il vangelo di Matteo cita due volte il testo del profeta Osea (6, 6) che ho messo come titolo di questa riflessione. Lo ricorda quando riferisce che Gesù mangiava con pubblicani e peccatori (Mt 9, 13). E lo ripete nello spiegare perché i discepoli, quando avevano fame, violavano le norme religiose sul riposo del sabato (Mt 12, 7). Se l’evangelista Matteo ripete due volte la stessa massima sul tema della misericordia, senza alcun dubbio questo si deve al fatto che l’evangelista pensava che in questo punto si dice qualcosa di molto importante. In cosa consiste questa importanza? Come è logico, Gesù in questo passo afferma che Dio vuole che noi esseri umani abbiamo viscere di bontà e di misericordia con gli altri, anche se sono gente cattiva e persino quando la pratica della bontà comporti la violazione di una legge religiosa. Questo – benché risulti scandaloso per i più puritani – è quello che dice il Vangelo. Ma non si tratta solo di questo. Quello che dice Gesù è molto più forte. Perchè stabilisce una “antitesi” tra la “misericordia” ed il “sacrificio” (Ulrich Luz). Ossia, quello che Gesù dice è che, se bisogna scegliere tra l’“etica” ed il “culto” (tra la “giustizia” e la “religione”), la prima cosa è l’etica, l’onestà, la difesa della giustizia ed i diritti delle persone. Se questo non si antepone a tutto il resto, Dio non vuole che tranquillizziamo le nostre coscienze con messe, preghiere, devozioni e cose simili. È decisivo ricordare questo proprio ora. Quando celebriamo l’anno della misericordia. E quando vediamo che la corruzione, la sfrontatezza, le disuguaglianze e la prepotenza sui più indifesi gridano al cielo. Io non so perché, ma di fatto molto frequentemente la gente che accumula più denaro, più potere e più privilegi è allo stesso tempo la gente che ha le migliori relazioni con la Chiesa, che difende con le unghie e con i denti i privilegi della religione e le migliori relazioni possibili con il clero. Termino ricordando che, come è ben dimostrato, i rituali religiosi (osservati e compiuti nei minimi dettagli) di solito producono due effetti: 1) tranquillizzano la coscienza dell’osservante che li compie; 2) nella maggior parte dei casi si trasformano in abitudine, ma non modificano il comportamento, soprattutto quando si vede che questo comportamento è mal visto dalla religione. Da quello che raccontano si vangeli, Gesù andava “con cattive compagnie” e non era un modello di “osservanza religiosa”. Ed è in questo modo che in Gesù si è rivelato a noi Dio. Se questo ci risulta strano e anzi ci scandalizza, probabilmente è perché assomigliamo più ai farisei che ai veri seguaci di Gesù. Se non pensiamo a questo seriamente, praticheremo poca misericordia.

I

si aprono le porte, devono cadere i muri

la caduta di un muro

a proposito dell’apertura della ‘porta santa’ all’inizio del giubileo

di Enzo Bianchi
in “la Repubblica”

Bianchi

il gesto di apertura della porta chiusa è stato compiuto da papa Francesco innanzitutto in Africa, tra i poveri della terra, e ieri anche a Roma, nella basilica di San Pietro. In Vaticano, dove egli esercita il suo ministero di servo della comunione nella chiesa e tra le chiese e di annunciatore della buona notizia a tutta l’umanità. In un’epoca in cui si sono ricostruiti muri e si sono di nuovo innalzate barriere di filo spinato, in cui molti vorrebbero chiudere le frontiere, e alcuni le chiudono, infondendo nella gente ansia e paura, papa Francesco fa il gesto così semplice, quotidiano, umano di aprire una porta chiusa

Purtroppo temo che molti di quelli che passeranno per le porte sante aperte nelle chiese non arriveranno neppure a pensare che potrebbero aprire o tenere aperta la porta della propria casa: aperta per chi giunge inaspettato, straniero o povero, conosciuto o sconosciuto, aperta per un atto di fede-fiducia fatto nei confronti degli altri umani, tutti legati dalla fraternità, valore per il quale pochi oggi combattono, ma senza il quale anche la libertà e l’uguaglianza diventano fragili e non sono concretamente instaurabili. Papa Francesco ha compiuto lo stesso atto in un microcosmo come quello di Bangui, dove sono in atto violenza, intolleranza, scontro di religioni, e a Roma, dove per ora è lontana la violenza dello scontro culturale; potrebbe però essere più vicina di quanto pensiamo, e non perché i terroristi vengono da noi, ma perché alcune forze nostrane continuano ad alimentare diffidenza, odio, non accoglienza, atteggiamenti che possono solo trasformarsi in risentimento, humus su cui crescono risposte all’insegna della violenza. Aprire e tenere aperta una porta è invece una decisione umanizzante, un’azione antropologica che non dovrebbe essere così estranea a cristiani e a non cristiani. Ma per giungere a tale comportamento occorre con urgenza che la convinzione e la prassi di misericordia, compassione e perdono siano inoculate come diastasi nelle nostre società, dando vita a un’ospitalità culturale reciproca che ci permetta di far cadere pregiudizi e di conoscerci meglio. Nell’omelia di apertura del giubileo papa Francesco ha chiesto che questo sia «un anno in cui crescere nella convinzione della misericordia». Sì, il primo passo è essere convinti della misericordia, così come la Scrittura ce la propone quale nome di Dio, e diventarne realizzatori nelle nostre società, a livello personale, ma anche comunitario, economico e politico. Per i credenti tutto nasce dall’immagine di Dio che hanno, perché questa plasma la loro fede e il comportamento. Secoli di storia cristiana testimoniano che la misericordia di Dio non è compresa, scandalizza i credenti stessi, sembra un eccesso che va temperato con le nozioni di verità e giustizia. Il papa lo sa bene e lo denuncia con forza: «Quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto » — e solo i cristiani possono pronunciarlo — «che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza invece affermare prima che sono perdonati dalla sua misericordia… Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia», perché «la misericordia ha sempre la meglio sul giudizio» (Giacomo 2,13). Poche parole, eppure parole di grande rottura con una certa vulgata cattolica, attestata soprattutto negli ultimi secoli, secondo la quale è doverosa l’intransigenza, è necessario l’esercizio del ministero di condanna: secoli in cui l’immagine prevalente di Dio era quella del Dio irato e giudice, del “Dio ti vede”, quale occhio in un triangolo ovunque presente, del Dio che castiga, che va placato con sofferenze e fatiche a lui offerte affinché arresti il braccio della sua giustizia divina. Papa Giovanni diede inizio a una nuova stagione della chiesa non innovando la dottrina, ma proclamando: «Oggi la sposa di Cristo, la chiesa, preferisce ricorrere alla medicina della misericordia piuttosto che brandire le armi della severità» (11 ottobre 1962, Allocuzione di apertura del concilio Vaticano II). E Papa Francesco manifesta l’urgenza della misericordia come la sua più intima convinzione: «Questo nostro tempo è proprio il tempo della misericordia. Di questo sono sicuro… Noi stiamo vivendo in tempo di misericordia » (6 marzo 2014, Discorso ai parroci di Roma).
Lo stesso Francesco ha esplicitato a più riprese che la misericordia, la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio non sono da intendersi come un correttivo della giustizia divina, non sono in tensione con il suo giudizio, ma semplicemente sono la giustizia di Dio messa in atto verso l’essere umano. In Dio c’è un prevalere della misericordia sulla giustizia, se così possiamo dire. Addirittura, secondo il profeta Osea, la misericordia è la manifestazione della santità di Dio, il quale è Santo, cioè è differente, altro dall’uomo proprio nel giudicare e nel sentire la giustizia. Osea arriva a dire che nel cuore di Dio c’è una sorta di “rivolta” del sentimento di misericordia contro la volontà di giustizia: questo sentimento impedisce a Dio di castigare secondo l’alleanza, di andare in collera contro chi ha peccato (cf. Osea 11,8-9). Gesù sottolinea questo prevalere in Dio della misericordia sulla giustizia citando per ben due volte un’altra parola dello stesso profeta: “Andate a imparare che cosa vuol dire: voglio misericordia e non sacrifici (Osea 6,6)” (Matteo 9,13 e 12,7). Con i suoi incontri e con le sue parole, in particolare con le parabole, Gesù attesta che la giustizia di Dio è oltre la giustizia umana, trascende la giustizia della legge, perché non è “giustizia bendata” (Adriano Prosperi) ma vede, discerne, guarda in volto ogni umano; per questo non è retributiva, né punitiva, né meritocratica, secondo i concetti della “nostra” giustizia umana che proiettiamo in Dio. La giustizia di Dio proclamata nella Bibbia attesta che Dio non è indifferente al male compiuto dagli umani, perciò, anche quando va in collera, tale comportamento è l’altra faccia della compassione. Di fronte a questa verità molti cristiani continuano a chiedersi: «Ma allora che ne è della giustizia, della responsabilità umana?». Ha risposto bene il cardinale Pietro Parolin: «La misericordia esercitata non è buonismo, non è timidezza di fronte al male, ma è esercizio di responsabilità». Il segretario di Stato, con la sua profonda consonanza con papa Francesco, arriva a parlare di «misericordia necessaria, prima ancora dei trattati, per poter spianare i terreni di pace e le tante vie degli esodi forzati che stanno mutando il mondo», perché anche a livello economico, politico e giuridico la misericordia e il perdono devono trovare realizzazioni che aprano a una convivenza buona tra i popoli e le genti. È la stessa convinzione alla quale era giunto papa Giovanni Paolo II che, nel messaggio per giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002, arrivò a chiedere che il perdono, negando la giustizia punitiva, trovasse realizzazione in «una politica del perdono espressa in atteggiamenti sociali e in istituti giuridici» e non fosse relegato nella coscienza del privato cittadino. Davvero, come recita il titolo di quel messaggio profetico, «non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono »: giustizia e perdono sono immanenti l’una all’altra. E all’Angelus di ieri papa Francesco con una delle sue frasi, aforismi che colpiscono, ha detto: «Non si può capire un cristiano che non sia misericordioso, come non si può capire Dio senza misericordia». Di fronte a questo cammino percorso dalla chiesa cattolica e all’insegnamento di papa Francesco non si possono più elevare accuse di spiritualismo o di evasione dalla storia. Questo è il cammino storico fatto dal Vaticano II a oggi. Con il concilio «si sono spalancate al mondo le porte chiuse… per un autentico incontro tra la chiesa e gli uomini del nostro tempo», ha detto papa Francesco. E ha anche chiesto che il giubileo in corso «non trascuri lo spirito emerso dal Vaticano II», lo spirito di una chiesa che si piega verso l’uomo sofferente, sull’esempio del samaritano il quale, secondo il vangelo, “ha fatto misericordia”. Questo è semplicissimo, è umanissimo. Priore della comunità monastica di Bose

un anno della misericordia per aprire un’età della misericordia

dove sono i leoni

di Raniero La Valle

La Valle

il papa va a Bangui ad aprire l’anno santo della misericordia e siccome le grandi idee hanno bisogno di simboli concreti il papa, per significare l’ingresso in questo anno di misericordia, aprirà una porta. Ma per lo stupore di tutte le generazioni che si sono succedute dal giubileo di Bonifacio VIII ad oggi, la porta che aprirà non sarà la porta “santa” della basilica di san Pietro, ma la porta della cattedrale di Bangui, il posto, ai nostri appannati occhi occidentali, più povero, più derelitto e più pericoloso della terra.

ma si tratta non solo di cominciare un anno di misericordia. Che ce ne facciamo di un anno solo in cui ritorni la pietà? Quello che il papa vuol fare, da quando ha messo piede sulla soglia di Pietro, è di aprire un’età della misericordia, cioè di prendere atto che un’epoca è finita e un’altra deve cominciare

Perché, come accadde dopo l’altra guerra mondiale e la Shoà, e Hiroshima e Nagasaki, abbiamo toccato con mano che senza misericordia il mondo non può continuare, anzi, come ha detto in termini laici papa Francesco all’assemblea generale dell’ONU, è compromesso “il diritto all’esistenza della stessa natura umana”. Il diritto!

Di fronte alla gravità di questo compito, si vede tutta la futilità di quelli che dicono che, per via del terrorismo, il papa dovrebbe rinunziare ad andare in Africa (“dove sono i leoni” come dicevano senza curarsi di riconoscere alcun altra identità le antiche carte geografiche europee) e addirittura dovrebbe revocare l’indizione del giubileo, per non dare altri grattacapi al povero Alfano.

Ma il papa, che ha come compito peculiare del suo ministero evangelico di “aprire la vista ai ciechi”, ci ha spiegato che il vero mostro che ci sfida, che è “maledetto”, non è il terrorismo, ma è la guerra. Il terrorismo è il figlio della guerra e non se ne può venire a capo finché la guerra non sia soppressa. La guerra si fa con le bombe, il terrorismo con le cinture esplosive. Non c’è più proporzione, c’è una totale asimmetria, le portaerei e i droni non possono farci niente. Possiamo nei bla bla televisivi o governativi fare affidamento sull’”intelligence”, ma si è già visto che è una bella illusione.

Questo vuol dire che per battere il terrorismo occorre di nuovo ripudiare quella guerra di cui, dal primo conflitto del Golfo in poi, l’Occidente si è riappropriato mettendola al servizio della sua idea del mercato globale, e che da allora ha provocato tormenti senza fine, ha distrutto popoli e ordinamenti, suscitato torture e vendette, inventato fondamentalismi e trasformato atei e non credenti in terroristi di Dio.

E che cosa è rimasto di tutte queste guerre?, ha chiesto il papa nella sua omelia del 19 novembre, la prima dopo le stragi di Parigi. Sono rimaste “rovine, migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti! E tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi”; ed è rimasto che perfino le luci, le feste, gli alberi luminosi, anche i presepi del Natale che ci apprestiamo a celebrare, sarà “tutto truccato”.

E’ rimasto il grande movente della guerra e l’inesauribile riserva del terrorismo: il commercio delle armi, sia per incrementare le ricchezze private che per migliorare un po’ i bilanci pubblici. “Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’ – ha ironizzato papa Francesco – e andiamo avanti con il nostro interesse”.

Rendiamo le armi beni illegittimi se non per le legittime esigenze di difesa di Stati sovrani, disarmiamo il dominio, l’oppressione, l’ingiustizia, l’ineguaglianza, la discriminazione e finiranno non solo le guerre ma finirà anche il mondo di guerra “questo mondo che non è un operatore di pace”, e così anche il terrorismo si inaridirà e diverrà sempre più residuale.

E se decideremo di smetterla con i bombardamenti e la guerra, potremo promuovere una vera operazione di polizia internazionale, non solo autorizzata, ma eseguita dall’ONU, e non sotto un comando nazionale, per ristabilire il diritto nelle terre devastate dall’ISIS e dunque ripristinare l’integrità territoriale dell’Iraq e della Siria, lasciando ai siriani di decidere cosa fare con Assad. Il papa aveva detto, già dopo Charlie Hebdo, tornando dalla Corea del Sud, che “l’aggressore ingiusto ha il diritto di essere fermato, perché non faccia del male”. Non è solo nostro dovere è suo diritto; e anche i giovani estremisti che vengono reclutati per andare in Siria a indottrinarsi e poi tornare in Europa a suicidarsi hanno il diritto di essere salvati da noi e di non avere alcuna Siria in cui andare a buttare la vita. Questo è ciò che richiede il diritto internazionale se finalmente si darà attuazione al capitolo VII della Carta dell’ONU, ed è la cosa più “nonviolenta” che si può fare per neutralizzare e battere l’ISIS.

Raniero La Valle

un giubileo universale

il Giubileo della misericordia

e il nuovo disordine mondiale


GIUBILEO

nel giorno numero mille dalla sua elezione, Papa Francesco apre il Giubileo, che rappresenta, assieme al Sinodo dei vescovi del 2014-2015, uno dei momenti forti del pontificato: un anno dedicato alla parola chiave scelta da Jorge Mario Bergoglio, “misericordia”. Si annuncia come un Giubileo in buona parte diverso dal Grande Giubileo del 2000 di Giovanni Paolo II

In primo luogo, la chiesa di Francesco sta andando incontro a un radicale “aggiornamento” aperto al futuro, molto più che verso un piano di oculate “riforme”: un aggiornamento di roncalliana memoria e di sapore conciliare. La scelta dell’apertura del Giubileo il giorno 8 dicembre, a cinquanta anni esatti dalla conclusione del concilio Vaticano II, non è casuale. Francesco ha le capacità dello stratega, ma non è un pianificatore: il concetto di “discernimento” ha molto più a che fare con un processo spirituale aperto alle novità e alle sorprese, come fu il Vaticano II, che con la razionalità burocratica. Invece il Giubileo di Giovanni Paolo II del 2000 arrivò dopo un lungo periodo di preparazione che era iniziato con la lettera apostolica “Tertio Millennio Adveniente” del 1994. Il Giubileo del 2000, in altre parole, fu pensato e programmato da Giovanni Paolo II nel suo lungo pontificato, rimase centrato sulla Roma del Papa, e cambiò alcune coordinate del rapporto tra la chiesa e la dimensione ad extra come con l’ebraismo (le conferenze di studio sponsorizzate dalla Santa Sede sulla storia dell’antigiudaismo, il documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah del 1998 legato alla “purificazione della memoria”) e l’ecumenismo (l’apertura della Porta Santa con leader di altre chiese), ma non ebbe grandi effetti all’interno della chiesa cattolica in quanto tale.

In altre parole, il Giubileo del 2000 faceva parte di un complesso piano teologico e spirituale di Giovanni Paolo II, in cui gli elementi ad extra (l’ecumenismo, il dialogo interreligioso, le richieste di perdono nei confronti del mondo esterno) erano molto più importanti degli sforzi di Giovanni Paolo II per riconciliare la Chiesa ad intra e per ricondurre ad unità le tensioni interne alla chiesa che già allora erano percepibili e che ora Francesco si trova a gestire. Quello di Giovanni Paolo II fu anche un Giubileo con alcuni elementi di contraddizione tipici di quel lungo pontificato. Il Giubileo del 2000 fu molto più romano che universale, in tutte le chiese locali, come sarà quello di Francesco. La logistica degli eventi giubilari del 2000 fu anche una grande opportunità per cementare il già poco trasparente rapporto tra il Vaticano, l’Italia, e la città di Roma: il Giubileo venne utilizzato non solo per spostare pellegrini a Roma, ma anche per spostare ingenti somme di denaro. La ferma intenzione di tenere a debita distanza i politici e la politica italiana è tipica di Papa Francesco e rende diverso il rapporto tra il Papa e l’Italia anche durante il Giubileo. La dislocazione del centro di gravità della cattolicità dal Vaticano alle periferie ha conseguenze anche per Roma e l’Italia.

In secondo luogo, il Giubileo del 2000 occupò la scena di una Chiesa cattolica che era allora molto più sicura di sé. Da questo punto di vista sembrano essere passati molto più di quindici anni. La chiesa cattolica dell’anno 2000 era molto più sicura di sé non solo a causa della popolarità della star globale Giovanni Paolo II, ma perché era una Chiesa in cui, per esempio, la stragrande maggioranza dei cattolici non era a conoscenza della dimensione della tragedia degli abusi sessuali commessi del clero in tutto il mondo (molti vescovi, cardinali, avvocati e canonisti sapevano ma non agirono). Nel 2000 la questione della corruzione in Vaticano era materia per pochi esperti o per gli storici, e non era sulle pagine dei giornali tutti i giorni come oggi. Il Giubileo della misericordia si apre invece in una Chiesa che negli ultimi anni, con Papa Francesco, ha visto preti in prigione, vescovi condannati dalla giustizia secolare, e in un caso anche un vescovo del servizio diplomatico della Santa Sede arrestato per ordine del Papa e condotto nelle prigioni del Vaticano. È finita l’epoca dei prelati (anche cardinali) sottratti alla giurisdizione, come accadde sotto Giovanni Paolo II.

Terzo elemento di differenza: la chiesa vive e opera nel mondo reale, e il mondo del 2015 è molto diverso dal mondo di soltanto quindici anni fa. Il mondo del 2000 era molto più ottimista e pieno di speranza: l’Unione europea stava preparando la transizione dalle monete nazionali all’Euro, e l’Unione europea era ancora un potente attore per l’unità e la stabilità del vecchio continente; in Medio Oriente la “seconda Intifada” iniziò solo verso la fine del 2000 e c’erano ancora speranze per la “soluzione dei due Stati” tra Israele e palestinesi; nel mondo occidentale gli Stati Uniti avevano ancora un ruolo di leadership, non offuscata dalle catastrofiche decisioni strategiche prese nel decennio successivo da Bush prima e da Obama poi; la questione ambientale non sembrava così disastrosa e potenzialmente apocalittica come oggi. Soprattutto, il giubileo del 2000 venne celebrato in un mondo pre-11 settembre, un mondo in cui il rapporto tra religione e violenza era importante in alcune aree geografiche del globo ma non pervasivo come oggi: il problema del legame tra religione e violenza sembra ora dominare l’immaginario sul ruolo delle fedi nel mondo globale.

Pochi mesi dopo la conclusione del Giubileo del 2000 Giovanni Paolo II potè visitare i luoghi santi dei musulmani a Damasco. La Siria era già allora e da lungo tempo sotto una dittatura terribile e sanguinaria, ma quel paese era un modello di convivenza interreligiosa in Medio Oriente, un luogo sicuro per i cristiani, e non l’incubo odierno di una guerra apparentemente senza via di uscita. Diversa dal 2000 è la percezione di un cristianesimo che oggi è tornato all’epoca delle persecuzioni – “l’ecumenismo del sangue” di cui ha parlato Francesco: non solo le immagini delle decapitazioni trasmesse via internet, ma anche le conseguenze delle persecuzioni (guerre civili, rifugiati, minacce alla stabilità dell’intera area euro-mediterranea) fanno impallidire la memoria delle persecuzioni che i cristiani subirono nell’Impero romano prima della legalizzazione del cristianesimo da parte di Costantino nel quarto secolo. La pressione esercitata su di noi da quelle immagini e da quelle notizie rendono l’enfasi di Papa Francesco sul Dio della misericordia tanto psicologicamente paradossale quanto teologicamente necessaria.

Il Giubileo di Papa Francesco va a far parte della storia dei giubilei. Ma questo Giubileo della misericordia non è solo l’ennesima puntata di una storia già vista, e quello di Francesco non è un pontificato di transizione. Quello che si apre l’8 dicembre è un Giubileo con un ruolo significativamente ridotto per Roma e il Vaticano, paradossalmente in una chiesa che si affida oggi a un uomo solo, Papa Francesco, più di quanto i cattolici liberal e gli atei illuminati alla Scalfari siano disposti ad ammettere. È un giubileo che esprime la teologia e la visione di chiesa del primo Papa non euro-mediterraneo e post-Vaticano II. Tipica di Francesco è una ridefinizione mistica dei rapporti tra la Chiesa e il mondo. La decisione di Francesco celebrare il Giubileo della misericordia non si basa solo su considerazioni teologiche ed ecclesiali, ma esprime una profonda comprensione da parte del Papa di quello che è il mondo di oggi. Ed è un mondo più complicato di quello di soltanto pochi anni fa

il senso universale di un ‘anno santo della misericordia’

misericordia

un appello rivolto a tutti

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 2 dicembre 2015

oggi si è perlopiù convinti che pensare in modo rigoroso conduca necessariamente al conflitto perché già la natura nella sua intima essenza è considerata come conflitto, mentre ogni prospettiva che invita all’armonia viene sentita come evasione e incapacità di cogliere la realtà

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Il Papa e l’Occidente ferito. “Avere cura dei poveri” non è esclusiva cristiana. Le parole chiave sono due: giubileo e misericordia. La domanda invece è una sola: ci sono sensati motivi oggi perché una mente razionale faccia sua la prospettiva di vivere all’insegna del giubilo e della misericordia? Dicendo “oggi” non mi riferisco solo al clima di paura dentro cui siamo immersi ogni giorno di più; mi riferisco anche e soprattutto alla filosofia di vita che pervade la mente occidentale da qualche secolo a questa parte rendendola incapace di generare pace perché concepisce l’esistenza come “guerra di tutti contro tutti” (Hobbes), “lotta per la sopravvivenza” (Darwin), “volontà di potenza” (Nietzsche). Oggi si è perlopiù convinti che pensare in modo rigoroso conduca necessariamente al conflitto perché già la natura nella sua intima essenza è considerata come conflitto, mentre ogni prospettiva che invita all’armonia viene sentita come evasione e incapacità di cogliere la realtà. Dalla destra liberista alla sinistra neodarwinista il pensiero occidentale oggi si muove all’insegna del detto di Eraclito “il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è re” (fr. 14). Si dimentica però quanto il grande filosofo aggiungeva, cioè che “da elementi che discordano si ha la più bella armonia” (fr. 24) e che “armonia invisibile è migliore della visibile” (fr. 27).

piazza_san_pietro-vaticano Il Giubileo straordinario della misericordia indetto da Francesco è una celebrazione di quell’armonia invisibile nominata da Eraclito e a cui tutti gli esseri umani, se aprono il cuore e la mente, possono partecipare. Nella bolla di indizione il Papa scrive che la misericordia “è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita” (Misericordiae vultus 2). Sono parole di intenso ottimismo secondo cui ogni essere umano, se prende sul serio la luce che pervade lo sguardo dell’altro, si apre alla dinamica della relazione interpersonale e può superare il conflitto che abita la superficie dell’essere. Francesco fonda l’appello alla misericordia in prospettiva cristiana dicendo che “Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre”. Ma non si tratta di un’esclusiva cristiana. La Bibbia ebraica istituisce il giubileo nel Levitico e celebra la misericordia divina nei Salmi. L’islam apre ognuna delle 114 sure del Corano “nel nome di Dio clemente e misericordioso”. Il buddhismo insegna la misericordia mediante la dottrina delle quattro dimore divine: gentilezza amorevole verso tutti, compassione infinita verso i sofferenti, gioia compartecipe, equanimità. Tutte le religioni genuinamente interpretate hanno al centro l’ideale di pace e misericordia. Si tratta di una prospettiva cui può giungere anche la pura ragione. Guardare gli altri con occhi sinceri significa infatti praticare l’imperativo categorico kantiano: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo” (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67). La misericordia solidale non è buonismo dolciastro, è applicazione della legge etica fondamentale dell’umanità. La quale a sua volta è riproduzione dell’armonia relazionale che informa l’energia primordiale caotica portandola a comporre sistemi sempre più complessi sotto forma di atomi, molecole, cellule, organi, apparati, organismi, fino allo splendore della mente che pensa e del cuore che ama. Papa Francesco è una mente che pensa e un cuore che ama, e per questo le sue parole e i suoi gesti giungono come un balsamo sulle piaghe della sfiduciata mente occidentale. Egli invita a prendersi cura dei poveri: facendo così forse scopriremo che la vera povertà non riguarda le tasche, riguarda gli occhi e la loro incapacità di guardare gli altri in modo sincero

i veri nemici sono quelli che ha più vicini

la misericordia di papa Francesco crea scandalo nella chiesa

Papa Francesco

papa Francesco

La Repubblica, 14 ottobre 2015
di ENZO BIANCHI

Il termine “apocalisse” non indica, come molti intendono, qualcosa di catastrofico, bensì un “alzare il velo”, una ri-velazione, l’emergere di una realtà inaspettata o nascosta. Per questo ciò che sta avvenendo non solo in questi giorni sinodali ma dall’inizio del pontificato di Francesco è un’apocalisse che fa conoscere situazioni che paiono impossibili e svela la verità delle coscienze e dei cuori, sovente nascosta dietro adulazioni, ipocrisie di linguaggio e di comportamento. Che cos’è in gioco in questo confronto sinodale che a volte appare un’aspra battaglia? Non ciò che la chiesa crede in obbedienza al vangelo. In particolare non è in gioco la dottrina cattolica sull’indissolubilità del matrimonio cristiano – e di questo papa Francesco più volte si è dichiarato garante – e nemmeno è in gioco un patteggiamento della chiesa, e in primo luogo dei pastori, circa la famiglia oggi, la sua crisi, le ferite che può registrare nelle storie di amore, la sua fragilità come le sue riuscite sempre incompiute e contraddette. No, in gioco è la dimensione pastorale, l’atteggiamento da assumere verso chi ha sbagliato e verso la società contemporanea. E in questo senso proprio la chiesa, che ha accolto i sacramenti dal Signore e crede in essi con obbedienza, per esserne ministra ha il compito di determinarne la disciplina rinnovandola e rendendola più fedele al vangelo compreso sempre meglio nella storia grazie all’azione dello Spirito santo.

Va detto con chiarezza: ciò che scandalizza è la misericordia! Sembrerebbe impossibile, ma non possiamo dimenticare che Gesù non è stato condannato e messo a morte perché si era macchiato di qualche crimine secondo il diritto romano, né perché aveva smentito la parola di Dio contenuta nelle legge e nei profeti, bensì per il suo comportamento troppo misericordioso che rompeva le barriere erette dai giusti incalliti contro i peccatori pubblici: annunciava infatti il perdono, senza far ricorso a una giustizia retributiva e punitiva, amava frequentare prostitute e peccatori noti come tali e stare alla loro tavola. Il suo modo di comportarsi ha rivelato che la misericordia non è un correttivo per mitigare la giustizia, non è neppure un soccorso per chi non conosce la verità: la giustizia di Dio è sempre misericordia anzi, è la misericordia che stabilisce la giustizia e rende splendente e non abbagliante la verità. I nemici di Gesù erano esperti della santa Scrittura (scribi) e uomini “religiosi” che confidavano in se stessi e nel loro comportamento scrupolosamente osservante.

È dunque rivelativo che un’opposizione analoga emerga anche contro papa Francesco e il cammino che tenta di tracciare per la chiesa, l’esodo verso le periferie esistenziali di un’umanità sofferente e mendicante amore, tenerezza, compassione in un mondo sempre più duro, sempre più incapace di prossimità e di fraternità. Ho già avuto modo di scriverlo fin dai primi passi di questo pontificato: se il papa sarà fedele al vangelo troverà opposizione, persino rigetto e disprezzo perché non potrà essere di più del suo Signore. L’ha profetizzato Gesù semplicemente leggendo le proprie vicende e quelle dei profeti prima di lui.

Ciò che stupisce è proprio che chi nei confronti dei papi precedenti non avanzava critiche o contestazioni ma semplicemente poneva loro domande, veniva subito additato come “non cattolico”, mentre oggi, grazie alla libertà che Francesco ha voluto assicurare al dibattito, alcuni arrivano a sospettare che lui permetta di lasciar manipolare un confronto che nella chiesa dovrebbe sempre essere ascolto dell’altro, eloquenza delle proprie convinzioni senza accanimento, riconoscimento che il successore di Pietro, il papa “fa strada insieme” (syn-odos) ai vescovi ma presiedendo la loro comunione con un carisma e un mandato proprio che proviene dal Signore stesso.

Siamo tornati al tempo del concilio, alle contestazioni più o meno manifeste, alle mormorazioni contro Giovanni XXIII e Paolo VI, ma questo non deve spaventare. Nella sua storia, la chiesa ha conosciuto ore più critiche, anche se indubbiamente queste vicende non offrono una testimonianza di parresia e di comunione fraterna. Stupisce che questa contestazione venga proprio da chi papa Francesco ha voluto tenere vicino a sé nel governo della chiesa o incaricare di aiutarlo per tracciare un cammino di riforma delle istituzioni. Ma questo dato rivela chi è l’attuale papa: non è un pontefice che scarta chi sa diverso da lui, chi ha sensibilità molto differenti, non è un “regnante” che emargina chi ha altre ottiche pastorali. Tutti possono costatare questo suo atteggiamento che certo gli nuoce e gli rende faticoso il suo servizio alla chiesa. D’altronde nella chiesa c’è chi vorrebbe che papa Francesco fosse solo una breve parentesi, chi afferma che “questo papa non gli piace”, chi lo considera “debole nella dottrina”, chi non ama il suo ecumenismo che vuole abbracciare tutti i battezzati e non creare muri nei confronti dei non cristiani e degli uomini e delle donne del mondo.

Per scelta di Benedetto XVI ho partecipato a due sinodi e non vedo in quello in corso una procedura radicalmente diversa, se non per l’invito di papa Francesco alla parresia e per una metodologia diversa pensata a servizio di questa libertà di parola: pubblicare il riassunto della discussione senza fornire i nomi dei singoli intervenuti e le frasi da loro pronunciate, per esempio, consente di non classificare i vescovi in tradizionalisti e innovatori, in conservatori e liberali sulla base di affermazioni apodittiche che non riflettono l’incidenza avuta dal confronto e dal dialogo nel corso del dibattito. Le diversità infatti sono legittime, soprattutto in un’assemblea veramente cattolica, in cui i vescovi sono portavoce del loro popolo, custodi della fede inculturata in una regione precisa che non sempre appare contemporanea ad altre.

Esser “servo della comunione” per papa Francesco è arduo, ma i cattolici credono anche che su di lui c’è la promessa fatta a Pietro da Gesù stesso: “Ho pregato perché la tua fede non venga meno e tu conferma i tuoi fratelli!”. Questa è un’ora di apocalissi nella chiesa e non sarà l’ultima: ognuno si assuma le proprie responsabilità nei confronti della comunione cattolica e, più ancora, nei confronti del vangelo al quale dice di voler obbedire.

 

migranti e misericordia evangelica

vangelo della misericordia e fenomeno dei migranti e rifugiati

mons. Nunzio Galantino, segretario generale della CEI (presentato dagli ignoranti di turno come capo dei vescovi italiani) e persino papa Francesco si sono meritati negli ultimi tempi gli strali di quanti, professionisti della politica e dunque interessati alla raccolta di consenso facile e remunerato, hanno criticato le posizioni della Chiesa cattolica sul fenomeno dei migranti.

Qualcuno, incautamente, ha gettato lì anche l’interrogativo-accusa di cosa faccia la Chiesa di concreto per tale problema globale che affligge il nostro tempo. A costui già sono state date, con cifre alla mano, risposte adeguate sull’impegno ecclesiale ai diversi livelli a favore della carità. E non da oggi, visto che per esempio la prima giornata annuale di sensibilizzazione sul fenomeno della migrazione con relativa colletta per le opere pastorali per gli emigrati Italiani e per la preparazione dei missionari d’emigrazione risale al 21 febbraio 1915!
 
Come si legge in un bollettino della Sala Stampa vaticanaMigranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia” sarà il tema che Papa Francesco ha scelto per la 102esima Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato che si celebrerà il 17 gennaio 2016. “Con la prima parte del tema, “Migranti e rifugiati ci interpellano”, si vuole fare presente la drammatica situazione di tanti uomini e donne, costretti ad abbandonare le proprie terre. Non si devono dimenticare, per esempio, le attuali tragedie del mare che hanno per vittime i migranti.” “Con la seconda parte del tema, “La risposta del Vangelo della misericordia”, si vuole collegare in modo esplicito il fenomeno della migrazione con la risposta del mondo e, in particolare, della Chiesa. In questo contesto, il Santo Padre invita al popolo cristiano a riflettere durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale, tra cui si trova quella di accogliere i forestieri. E questo senza dimenticare che Cristo stesso è presente tra i “più piccoli”, e che alla fine della vita saremmo giudicati dalla nostra risposta d’amore (cfr. Mt 25,31-45)”.
 
A tal proposito il Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti “Suggerisce che la giornata giubilare sia celebrata particolarmente a livello diocesano e nazionale, nell’ambito più vicino ai migranti e rifugiati, con la loro partecipazione, e coinvolgendo anche le comunità cristiane”; “propone che l’evento giubilare centrale sia proprio il prossimo 17 gennaio 2016, nella ricorrenza della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato”; “incoraggia le diocesi e comunità cristiane, che ancora non lo fanno, a programmare delle iniziative, approfittando dell’occasione che offre questo Anno della Misericordia”; “invita a non dimenticare l`aspetto della sensibilizzazione nelle comunità cristiane al fenomeno migratorio; “auspica che l’attenzione verso i migranti e la loro situazione non si riduca ad un’unica giornata”; “ricorda che è anche importante realizzare segni concreti di solidarietà, che abbiano un valore simbolico, e che esprimano la vicinanza e l’attenzione ai migranti e rifugiati”.
 
Un coinvolgimento fattivo, dunque, dunque della comunità ecclesiale locale, per aiutare anche quanti, all’ombra del campanile, stentano ad aprire il Vangelo in tema di accoglienza come giustamente rileva il priore della Comunità di Bose, Enzo Bianchi.
 
 

il principio ‘misericordia’ nei lavori del sinodo

tra matrimonio indissolubile e misericordia

di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 12 ottobre 2014

 

Bianchi

 

 

 

Subito dopo l’elezione di papa Francesco, il cardinal Ravasi dichiarò: «C’è un respiro nuovo che aspettavamo». Oggi, dopo venti mesi di pontificato, possiamo dire che si è creato un altro clima nel tessuto ecclesiale: un clima di libertà di parola nel quale con parresia ogni cattolico, vescovo o semplice fedele, può lasciar parlare la propria coscienza e dire quello che pensa, senza essere subito messo a tacere, censurato o addirittura punito, come avveniva negli ultimi decenni. Questo non significa clima idilliaco, perché conflitti anche aspri sono presenti in seno alla Chiesa – come testimoniato già negli scritti del Nuovo Testamento – ma se questi sono vissuti senza scomuniche reciproche, se ciascuno ascolta le ragioni dell’altro senza fare di lui un nemico, se tutti hanno cura di mantenere la comunione, allora anche i conflitti sono fecondi e servono ad approfondire e a meglio dar ragione delle speranze che abitano il cuore dei cristiani.
Purtroppo si può constatare che ormai ci sono «nemici del Papa»: persone che non si limitano a criticarlo con rispetto, come avveniva con Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, ma si spingono fino a disprezzarlo. Un vescovo che dichiara ai suoi preti che l’esortazione apostolica Evangelii gaudium «avrebbe potuto scriverla un campesino» esprime un giudizio di disprezzo, ma profeticamente dichiara che quella lettera è leggibile e comprensibile anche da un povero e semplice cristiano della periferia del mondo. Così, al di là delle intenzioni, quelle parole sprezzanti costituiscono un elogio. Alcuni giungono anche a delegittimare l’elezione di Bergoglio in un conclave che non si sarebbe svolto secondo le regole, altri sostengono che vi siano ancora due papi, entrambi successori di Pietro ma con compiti diversi… Conosciamo da tempo costoro come persone inclini a inseguire le proprie ipotesi ecclesiastiche anziché l’oggettività della grande tradizione cattolica nella quale vale il primato del vangelo.
Certamente la composizione di questo sinodo, il nuovo modo di procedere nei lavori, l’invito del Papa a parlare chiaro, con coraggio anche criticando il suo pensiero o manifestando un parere diverso, la richiesta di franchezza negli interventi hanno creato un’atmosfera sinodale inedita rispetto a tutti i sinodi precedenti. Papa Francesco vuole che l’assise sia vissuta nello spirito della collegialità episcopale e della sinodalità ecclesiale e non sia una semplice celebrazione: e Francesco ha tutta la saldezza per dire che comunque il sinodo si svolge secondo la grande tradizione cum Petro et sub Petro, cioè con il Papa presente e al quale, in quanto successore di Pietro, spetta personalmente il discernimento finale. Quanto al tema del sinodo, è incandescente perché è in gioco non tanto una disciplina diversa riguardo al matrimonio, alla famiglia e alla sessualità, bensì il volto del Dio invisibile, un volto che noi cristiani conosciamo solo nel volto di Gesù Cristo, colui che ci ha narrato, spiegato, fatto conoscere Dio. È in gioco il volto del Dio misericordioso e compassionevole, come sta scritto nel suo Nome santo dato a Mosè e come è stato raccontato da Gesù, suo figlio nel mondo, il quale non ha mai castigato i peccatori, non li ha mai puniti ma li ha perdonati ogni volta che li ha incontrati, spingendoli così al pentimento e alla conversione. È indubbio che al cuore del confronto e dell’approfondimento sinodali ci sono parole di Gesù che non possono essere dimenticate né tanto meno manomesse. Nei vangeli, infatti, di fronte al divorzio – permesso da Mosè ma condannato, non lo si dimentichi, dai profeti… – Gesù non sceglie la via della casistica ma risale all’intenzione del Legislatore e Creatore e nega ogni possibilità di rottura del vincolo nella storia d’amore tra un uomo e una donna: «Nell’in-principio non fu così… I due diventeranno una sola carne… L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto!». Linguaggio chiaro, esigente, radicale perché nel rapporto tra uomo e donna legati nell’alleanza della parola data, è significata l’alleanza fedele tra Dio e il suo popolo: se una fedeltà viene smentita, anche l’altra
non è più credibile. Messaggio esigente e duro, che i presbiteri dovrebbero annunciare alle loro comunità mettendosi in ginocchio: «È una parola del Signore, non nostra, a chiedere questa fedeltà. Noi ve la ripetiamo perché è nostro dovere farlo, ma ve la annunciamo in ginocchio, senza presunzione né arroganza, perché sappiamo che vivere il matrimonio fedelmente e nell’amore rinnovato è difficile, faticoso, impossibile senza l’aiuto della grazia di Dio…». Ma se questo è l’annuncio evangelico che non può cambiare, resta vero che nella storia, e particolarmente oggi, questo vincolo nelle storie d’amore non è sempre assunto nella fede, nell’adesione alla parola di Cristo e, comunque, a volte si deteriora, si corrompe e muore. Sì, tra coniugi occorre stare insieme fino a quando uno rende più buono l’altro, ma se questo non avviene più, dopo ripetuti tentativi, allora la separazione può essere un male minore. Ed è qui che a volte può iniziare una nuova storia d’amore che può mostrarsi portatrice di vita, vissuta nella lealtà e nella fedeltà, nella condivisione della fede e dell’appartenenza viva alla comunità cristiana. Per quanti vivono in questa condizione non è possibile celebrare altre nozze né contraddire il sacramento del matrimonio già celebrato, ma se compiono un cammino penitenziale, se mostrano con l’andare degli anni saldezza nel nuovo vincolo, non si potrebbe almeno ammetterli alla comunione che dà loro la possibilità di un viatico portatore di grazia nel cammino verso il Regno? Secondo la dottrina cattolica tradizionale l’eucarestia è sacramento anche per la remissione dei peccati. Il cardinal Martini si chiedeva: «La domanda se i divorziati possono ricevere la comunione andrebbe rovesciata: come può la Chiesa arrivare in loro aiuto con la forza dei sacramenti?». La risposta a queste domande può venire solo dal Papa, dopo aver ascoltato la Chiesa attraverso il sinodo. Si rifletta inoltre su un dato: perché preti, monaci, religiosi che emettono una pubblica promessa a Dio al cuore della Chiesa, pur avendo abbandonato la vocazione ricevuta e contraddetto i voti pronunciati – voti che san Tommaso d’Aquino diceva che la Chiesa non può mai sciogliere – possono partecipare pienamente alla vita anche sacramentale della Chiesa, mentre chi si trova in altre situazioni di infedeltà ne è escluso? Questa appare come ingiustizia di una disciplina fatta da chierici che vivono più o meno bene il loro celibato e non conoscono la fatica e le difficoltà del matrimonio… Cosa si attende allora dal sinodo un cattolico maturo nella fede? Che si confessi ancora e ancora l’indissolubilità del matrimonio, ma lo si faccia manifestando la misericordia di Dio, andando incontro a chi in questa esigente avventura è incorso nella contraddizione all’alleanza e invitandolo a camminare nella pienezza della vita ecclesiale. Il Dio cristiano ha un volto in cui la misericordia è immanente alla giustizia: è un Dio compassionevole che in Gesù ha camminato e cammina con chi è ferito, con chi è malato… è un Dio che vuole che tutti si convertano e vivano.

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