E. Bianchi commenta il vangelo

I frutti dell’amore

Beato Angelico (attr.), predella della Pala di Fiesole (part.), 1423-24

Beato Angelico (attr.), predella della Pala di Fiesole
1 novembre: festa di Tutti i santi
Commento al Vangelo di p. E. Bianchi
Bianchi

In questi ultimi decenni sono stati proclamati tanti santi e beati: mai c’è stata nella chiesa una stagione così ricca di canonizzazioni, segno anche di un’estesa “cattolicità” raggiunta dalla testimonianza cristiana. Eppure molti, all’interno e attorno alla chiesa, hanno la sensazione di non conoscere dei santi “vicini”, di non riuscire a discernere “l’amico di Dio” – questa la stupenda definizione patristica del santo – nella persona della porta accanto, nel cristiano quotidiano. Questo forse è dovuto anche al fatto che viviamo in una cultura in cui si privilegia l’apparire, un mondo in cui – come ha detto qualcuno – “anche la santità si misura in pollici”: molti allora cercano non il discepolo del Signore, ma l’ecclesiastico di successo, l’efficace trascinatore di folle, l’opinion leader capace di parole sociologiche, politiche, economiche, etiche, la star mediatica cui si chiede una parola a basso prezzo su qualsiasi evento, facendolo apparire il più eloquente a prescindere dalla consistenza della sua sequela del Signore.

Ma è proprio in questa ambigua ricerca della santità attorno a noi che ci viene in aiuto la festa di tutti i santi, la celebrazione della comunione dei santi del cielo e della terra. Sì, al cuore dell’autunno, dopo tutte le mietiture, i raccolti e le vendemmie nelle nostre campagne, la chiesa ci chiede di contemplare la mietitura di tutti i sacrifici viventi offerti a Dio, la messe di tutte le vite ritornate al Signore, la raccolta presso Dio di tutti i frutti maturi suscitati dall’amore e dalla grazia del Signore in mezzo agli uomini. La festa di tutti i santi è davvero un memoriale dell’autunno glorioso della chiesa, la festa contro la solitudine, contro ogni isolamento che affligge il cuore dell’uomo: se non ci fossero i santi, se non credessimo “alla comunione dei santi” – che non certo a caso fa parte della nostra professione di fede – saremmo chiusi in una solitudine disperata e disperante. In questo giorno dovremmo cantare: “Non siamo soli, siamo una comunione vivente!”; dovremmo rinnovare il canto pasquale perché, se a Pasqua contemplavamo il Cristo vivente per sempre alla destra del Padre, oggi, grazie alle energie della resurrezione, noi contempliamo quelli che sono con Cristo alla destra del Padre: i santi. A Pasqua cantavamo che la vite era vivente, risorta; oggi la chiesa ci invita a cantare che i tralci, mondati e potati dal Padre sulla vite che è Cristo, hanno dato il loro frutto, hanno prodotto una vendemmia abbondante e che questi grappoli, raccolti e spremuti insieme formano un unico vino, quello del Regno.

Noi oggi contempliamo questo mistero: i morti per Cristo, con Cristo e in Cristo sono con lui viventi e, poiché noi siamo membra del corpo di Cristo ed essi membra gloriose del corpo glorioso del Signore, noi siamo in comunione gli uni con gli altri, chiesa pellegrinante con chiesa celeste, insieme formanti l’unico e totale corpo del Signore. Oggi dalle nostre assemblee sale il profumo dell’incenso, segno del legame con la chiesa di lassù, la Gerusalemme celeste che attende il completamento del numero dei suoi figli ed è vivente, gloriosa presso Dio, con Cristo, per sempre.

Ecco il forte richiamo che risuona per noi oggi: riscoprire il santo accanto a noi, sentirci parte di un unico corpo. E’ questa consapevolezza che ha nutrito la fede e il cammino di santità di molti credenti, dai primi secoli ai nostri giorni: uomini e donne nascosti, capaci di vivere quotidianamente la lucida resistenza a sempre nuove idolatrie, nella paziente sottomissione alla volontà del Signore, nel sapiente amore per ogni essere umano, immagine del Dio invisibile. Il santo allora diviene una presenza efficace per il cristiano e per la chiesa: “Noi non siamo soli, ma avvolti da una grande nuvola di testimoni” (Eb 12,1), con loro formiamo il corpo di Cristo, con loro siamo i figli di Dio, con loro saremo una cosa sola con il Figlio. In Cristo si stabilisce tra noi e i santi una tale intimità che supera quella esistente nei nostri rapporti, anche quelli più fraterni, qui sulla terra: essi pregano per noi, intercedono, ci sono vicini come amici che non vengono mai meno. E la loro vicinanza è davvero capace di meraviglie perché la loro volontà è ormai assimilata alla volontà di Dio manifestatasi in Cristo, unico loro e nostro Signore: non sono più loro a vivere, ma Cristo in loro, avendo raggiunto il compimento di ogni vocazione cristiana, l’assunzione del volere stesso di Cristo: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta, o Padre” (Lc 22,42). Sostenuti da quanti ci hanno preceduto in questo cammino, scopriremo anche i santi che ancora operano sulla terra perché il seme dei santi non è prossimo all’estinzione: caduto a terra si prepara ancora oggi a dare il suo frutto. “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

Purtroppo oggi questa memoria dei santi, così come quella dei morti il giorno seguente, è svuotata dalla celebrazione, sempre più popolare, di Hallowen: un altro, triste segnale di come nella nostra società si scivoli con facilità e insensibilmente dal reale al virtuale. A un mondo invisibile, autentico e reale, il mondo della comunione dei santi, viene sostituito un mondo invisibile ma immaginario, una fiction fabbricata con le nostre mani per autoconsolazione. No, la comunione dei santi è sperimentabile, vivibile: noi non siamo soli qui sulla terra perché nel Cristo risorto siamo “communicantes in unum”!

Tratto da Dare senso al tempo, pp. 143-146

la responsabilità verso la terra

 

AMA LA TERRA COME TE STESSO

una riflessione di E.Bianchi sulla responsabilità umana di fronte alla terra
Bianchi
 
 “è urgente un’etica della terra, per i cristiani un’etica della creazione, che affermi la responsabilità umana di fronte all’ambiente terrestre. Quest’etica della terra richiede innanzitutto una coscienza ecologica che sia vigilante e pronta ad assumersi la responsabilità dell’ambiente. 
 
C’è una conversione planetaria da fare, c’è un nuovo comandamento da proclamare: “Amerai la terra come te stesso, e la terra ti ricompenserà”.
 
C’è un comandamento non espresso nelle tavole delle dieci parole di Mosè (cf. Es 20,1-21; Dt 5,1-22) ma che si potrebbe dedurre da ognuna di esse, ne potrebbe essere la sintesi o anche il preambolo alla loro osservanza. Da anni io lo formulo così: “Amerai la terra come te stesso”.
 
Conosciamo il comandamento che Gesù ha unito a quello dell’amore per Dio (cf. Dt 6,5): “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18; Mc 12,31 e par.). Ma io sono convinto che per amare Dio con tutto il cuore, tutta la mente e tutte le forze, e il prossimo come se stessi, occorre anche amare la terra come se stessi. La terra (adamah), da cui ogni terrestre (adam) è stato tratto (cf. Gen 2,7), è nostra matrice, di essa siamo fatti, a essa torniamo (cf. Gen 3,19). Ma la terra non è solo polvere – come si è sempre detto –, è un organismo vivente che dobbiamo rispettare, amare, contemplare e soprattutto sentire solidale con noi. Senza la terra noi non siamo, e anche la nostra vita interiore non è estranea alla terra, alle piante, agli animali, alla natura. Anzi, è vita interiore vera e viva se ingloba tutte le co-creature con le quali siamo la terra in corsa nell’universo.
 
Un cristiano, dunque, ama Dio, ama il prossimo ma ama anche la terra come se stesso, perché la terra è la realtà più prossima per ogni persona. La terra è la nostra radice, è l’humus che ci ha custodito e nutrito, ma ora tocca a noi custodire la terra, e il cammino di umanizzazione che ci attende deve avvenire nella consapevolezza che ora siamo noi responsabili davanti alla terra. Per millenni la terra ci ha fornito riparo, con i suoi alberi ci ha protetto, dei suoi frutti ci ha nutrito, ma noi verso di essa siamo diventati nemici o figli ingrati… Dipendevamo dalla terra, ma oggi è la terra che dipende da noi e ci chiede rispetto, salvaguardia, protezione, amore…
 
Diventa allora urgente un’etica della terra, per i cristiani un’etica della creazione, che affermi la responsabilità umana di fronte all’ambiente terrestre. Quest’etica della terra richiede innanzitutto una coscienza ecologica che sia vigilante e pronta ad assumersi la responsabilità dell’ambiente. 
 
C’è una conversione planetaria da fare, c’è un nuovo comandamento da proclamare: “Amerai la terra come te stesso, e la terra ti ricompenserà”.
 

il principio ‘misericordia’ nei lavori del sinodo

tra matrimonio indissolubile e misericordia

di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 12 ottobre 2014

 

Bianchi

 

 

 

Subito dopo l’elezione di papa Francesco, il cardinal Ravasi dichiarò: «C’è un respiro nuovo che aspettavamo». Oggi, dopo venti mesi di pontificato, possiamo dire che si è creato un altro clima nel tessuto ecclesiale: un clima di libertà di parola nel quale con parresia ogni cattolico, vescovo o semplice fedele, può lasciar parlare la propria coscienza e dire quello che pensa, senza essere subito messo a tacere, censurato o addirittura punito, come avveniva negli ultimi decenni. Questo non significa clima idilliaco, perché conflitti anche aspri sono presenti in seno alla Chiesa – come testimoniato già negli scritti del Nuovo Testamento – ma se questi sono vissuti senza scomuniche reciproche, se ciascuno ascolta le ragioni dell’altro senza fare di lui un nemico, se tutti hanno cura di mantenere la comunione, allora anche i conflitti sono fecondi e servono ad approfondire e a meglio dar ragione delle speranze che abitano il cuore dei cristiani.
Purtroppo si può constatare che ormai ci sono «nemici del Papa»: persone che non si limitano a criticarlo con rispetto, come avveniva con Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, ma si spingono fino a disprezzarlo. Un vescovo che dichiara ai suoi preti che l’esortazione apostolica Evangelii gaudium «avrebbe potuto scriverla un campesino» esprime un giudizio di disprezzo, ma profeticamente dichiara che quella lettera è leggibile e comprensibile anche da un povero e semplice cristiano della periferia del mondo. Così, al di là delle intenzioni, quelle parole sprezzanti costituiscono un elogio. Alcuni giungono anche a delegittimare l’elezione di Bergoglio in un conclave che non si sarebbe svolto secondo le regole, altri sostengono che vi siano ancora due papi, entrambi successori di Pietro ma con compiti diversi… Conosciamo da tempo costoro come persone inclini a inseguire le proprie ipotesi ecclesiastiche anziché l’oggettività della grande tradizione cattolica nella quale vale il primato del vangelo.
Certamente la composizione di questo sinodo, il nuovo modo di procedere nei lavori, l’invito del Papa a parlare chiaro, con coraggio anche criticando il suo pensiero o manifestando un parere diverso, la richiesta di franchezza negli interventi hanno creato un’atmosfera sinodale inedita rispetto a tutti i sinodi precedenti. Papa Francesco vuole che l’assise sia vissuta nello spirito della collegialità episcopale e della sinodalità ecclesiale e non sia una semplice celebrazione: e Francesco ha tutta la saldezza per dire che comunque il sinodo si svolge secondo la grande tradizione cum Petro et sub Petro, cioè con il Papa presente e al quale, in quanto successore di Pietro, spetta personalmente il discernimento finale. Quanto al tema del sinodo, è incandescente perché è in gioco non tanto una disciplina diversa riguardo al matrimonio, alla famiglia e alla sessualità, bensì il volto del Dio invisibile, un volto che noi cristiani conosciamo solo nel volto di Gesù Cristo, colui che ci ha narrato, spiegato, fatto conoscere Dio. È in gioco il volto del Dio misericordioso e compassionevole, come sta scritto nel suo Nome santo dato a Mosè e come è stato raccontato da Gesù, suo figlio nel mondo, il quale non ha mai castigato i peccatori, non li ha mai puniti ma li ha perdonati ogni volta che li ha incontrati, spingendoli così al pentimento e alla conversione. È indubbio che al cuore del confronto e dell’approfondimento sinodali ci sono parole di Gesù che non possono essere dimenticate né tanto meno manomesse. Nei vangeli, infatti, di fronte al divorzio – permesso da Mosè ma condannato, non lo si dimentichi, dai profeti… – Gesù non sceglie la via della casistica ma risale all’intenzione del Legislatore e Creatore e nega ogni possibilità di rottura del vincolo nella storia d’amore tra un uomo e una donna: «Nell’in-principio non fu così… I due diventeranno una sola carne… L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto!». Linguaggio chiaro, esigente, radicale perché nel rapporto tra uomo e donna legati nell’alleanza della parola data, è significata l’alleanza fedele tra Dio e il suo popolo: se una fedeltà viene smentita, anche l’altra
non è più credibile. Messaggio esigente e duro, che i presbiteri dovrebbero annunciare alle loro comunità mettendosi in ginocchio: «È una parola del Signore, non nostra, a chiedere questa fedeltà. Noi ve la ripetiamo perché è nostro dovere farlo, ma ve la annunciamo in ginocchio, senza presunzione né arroganza, perché sappiamo che vivere il matrimonio fedelmente e nell’amore rinnovato è difficile, faticoso, impossibile senza l’aiuto della grazia di Dio…». Ma se questo è l’annuncio evangelico che non può cambiare, resta vero che nella storia, e particolarmente oggi, questo vincolo nelle storie d’amore non è sempre assunto nella fede, nell’adesione alla parola di Cristo e, comunque, a volte si deteriora, si corrompe e muore. Sì, tra coniugi occorre stare insieme fino a quando uno rende più buono l’altro, ma se questo non avviene più, dopo ripetuti tentativi, allora la separazione può essere un male minore. Ed è qui che a volte può iniziare una nuova storia d’amore che può mostrarsi portatrice di vita, vissuta nella lealtà e nella fedeltà, nella condivisione della fede e dell’appartenenza viva alla comunità cristiana. Per quanti vivono in questa condizione non è possibile celebrare altre nozze né contraddire il sacramento del matrimonio già celebrato, ma se compiono un cammino penitenziale, se mostrano con l’andare degli anni saldezza nel nuovo vincolo, non si potrebbe almeno ammetterli alla comunione che dà loro la possibilità di un viatico portatore di grazia nel cammino verso il Regno? Secondo la dottrina cattolica tradizionale l’eucarestia è sacramento anche per la remissione dei peccati. Il cardinal Martini si chiedeva: «La domanda se i divorziati possono ricevere la comunione andrebbe rovesciata: come può la Chiesa arrivare in loro aiuto con la forza dei sacramenti?». La risposta a queste domande può venire solo dal Papa, dopo aver ascoltato la Chiesa attraverso il sinodo. Si rifletta inoltre su un dato: perché preti, monaci, religiosi che emettono una pubblica promessa a Dio al cuore della Chiesa, pur avendo abbandonato la vocazione ricevuta e contraddetto i voti pronunciati – voti che san Tommaso d’Aquino diceva che la Chiesa non può mai sciogliere – possono partecipare pienamente alla vita anche sacramentale della Chiesa, mentre chi si trova in altre situazioni di infedeltà ne è escluso? Questa appare come ingiustizia di una disciplina fatta da chierici che vivono più o meno bene il loro celibato e non conoscono la fatica e le difficoltà del matrimonio… Cosa si attende allora dal sinodo un cattolico maturo nella fede? Che si confessi ancora e ancora l’indissolubilità del matrimonio, ma lo si faccia manifestando la misericordia di Dio, andando incontro a chi in questa esigente avventura è incorso nella contraddizione all’alleanza e invitandolo a camminare nella pienezza della vita ecclesiale. Il Dio cristiano ha un volto in cui la misericordia è immanente alla giustizia: è un Dio compassionevole che in Gesù ha camminato e cammina con chi è ferito, con chi è malato… è un Dio che vuole che tutti si convertano e vivano.

E. Bianchi: puntualizzazioni sui vari ‘Gesù superstar’ e il nuovo ‘Son of Gog’

 il film ‘Son of God’, uscito nei giorni scorsi in America, fa il pieno ai botteghini: oltre 26 milioni di dollari nel primo week-end e sembra ormai vicino, negli ultimi giorni ai cinquanta milioni

ma le polemiche arrivano puntuali: dieci anni fa toccò a Mel Gibson e al suo ‘la passione di Cristo’ (seicento milioni di dollari): gli incassi crescono proporzionalmente ai veleni: “è un horror!”

“c’è voglia di religione”, giurano nei dibattiti gli esperti di fede dichiarata: in realtà c’è voglia di “un Messia che cammini in mezzo a noi”, come canta il rapper Kanye West, strappando urla di gioia tra il pubblico

di seguito, oltre all’analisi fenomenologica del vero e proprio ‘evento’ nell’articolo di M. Vincenzi, anche in merito opportune riflessioni di p. E. Bianchi

(i due titoli in colore viola sono anche i link che rimandano ai rispettivi articoli)

 

 

di Massimo Vincenzi in la Repubblica del 16 marzo 2014

Quando non ci sono più idee, serve un miracolo e chi meglio di Cristo? Un famoso manager di Hollywood commenta così il ritorno sulla scena americana di produzioni a sfondo religioso. E il miracolo arriva anche questa volta, l’ultimo della serie, Son of  God, fa il pieno ai botteghini Usa con oltre 26 milioni di dollari nel primo week-end…
Bianchi

di Enzo Bianchi in la Repubblica del 16 marzo 2014

Spesso si coglie in queste riscritture una simpatia per Gesù e una denuncia dell'”addomesticamento” che di lui è stato fatto. Queste riletture non a caso oggi valorizzano la dimensione umana che per secoli a Gesù è stata negata a favore della sua qualità divina. Si rilegge e si racconta di nuovo la vicenda di Gesù perché in essa si percepisce la presenza di un’umanità vera, profonda, semplice, praticabile

riflessioni di p. E. Bianchi a proposito della ‘giornata della memoria

auswitz

Credenti di buona memoria

riflessioni di p. Enzo Bianchi per il ‘giorno della memoria’ :”una giornata in cui fa bene a tutti ricordare: a chi vorrebbe dimenticare perché il dolore subito è troppo grande e a chi vorrebbe farsi dimenticare perché di quel dolore è stato complice. E ricordare fa bene anche e soprattutto a chi l’inferno della Shoah non l’ha vissuto, né direttamente né attraverso persone care”:

di Enzo Bianchi

in “Avvenire” del 24 gennaio 2014

 

La Giornata della memoria è un momento privilegiato di etica condivisa, un’occasione che l’umanità si è data per esercitarsi nel discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male, per riconoscere che anche nelle buie stagioni di barbarie la responsabilità delle proprie azioni – e dei pensieri che le muovono – è personale. Una giornata, allora, in cui fa bene a tutti ricordare: a chi vorrebbe dimenticare perché il dolore subito è troppo grande e a chi vorrebbe farsi dimenticare perché di quel dolore è stato complice. E ricordare fa bene anche e soprattutto a chi l’inferno della Shoah non l’ha vissuto, né direttamente né attraverso persone care.

Ma cosa significa in particolare questa Giornata di etica universale per ebrei e cristiani – per i credenti nel Dio biblico – e per le loro relazioni? Ebraismo e cristianesimo non solo hanno dimestichezza con la memoria, ma trovano in questa categoria del “memoriale”, del ricordo attualizzante, il cuore delle celebrazioni della loro fede. Fare memoria  dell’esodo dall’Egitto, della liberazione dalla condizione di schiavitù è l’essenza stessa della  esta della Pasqua ebraica. Il Dio di Israele è il Dio che ha liberato e libera il suo popolo da ogni condizione di estraneità: ogni comandamento donato dal Signore al Sinai prende le mosse da quel «Ricordati che eri straniero nel paese d’Egitto!». Se questa  emoria accompagnerà ogni tuo istante di vita, non potrai che comportarti come il tuo Dio misericordioso e compassionevole ti chiede di comportarti

.Ma anche per i cristiani la Pasqua è memoriale di un esodo decisivo nella storia della salvezza: ilpassaggio di Gesù di Nazareth dalla morte alla vita, il dono fatto dal Messia, Figlio di Dio, del suo corpo e del suo sangue, da celebrare osservando la sua parola: «Fate questo in memoria di me». Per questo parlare di “memoria” per ebrei e cristiani significa andare al cuore della loro fede e non solo rievocare eventi tragici perché non si ripetano più o gesti di profonda umanità perché servano da esempio.

In questo senso la Giornata della memoria è anche l’occasione perché ebrei e cristiani si chiedano quanta est nobis via?, quanto cammino ancora ci resta da compiere sulla strada del dialogo, della conoscenza reciproca, dell’obbedienza all’unico Signore? E, come sappiamo, questo cammino è fatto sì di incontri ufficiali, di dichiarazioni comuni, di studi e  appondimenti storici e scientifici, riaperture di archivi, di riletture di eventi, ma è fatto anche di persone concrete, di ascolto cordiale, di incontri cuore a cuore più ancora che faccia a faccia. In questo senso abbiamo visto come l’elezione a vescovo di Roma di un cardinale proveniente dal Paese dell’America Latina con la comunità ebraica più consistente – e nello stesso tempo in cui ha trovato rifugio un gran numero di artefici della Shoah – e legato da cordiale amicizia con il rettore del seminario rabbinico di  Buenos Aires abbia conferito agli scambi formali una connotazione di umana simpatia e solidarietà.

Ora, “fare memoria insieme” significa anche ammettere che purtroppo per oltre diciannove secoli l’atteggiamento dei cristiani verso gli ebrei è stato modellato dall’emulazione, dalla condanna, dal disprezzo, dalla persecuzione, è stato cioè un antigiudaismo perdurante, mai contraddetto in modo decisivo da parte delle istituzioni, dei magisteri, delle voci autorevoli delle diverse Chiese. Un atteggiamento, questo dell’antigiudaismo cristiano, che, pur distinto dall’antisemitismo, lo ha accompagnato producendo una ricaduta con effetti di potenziamento; antigiudaismo cristiano teologico e pratico che di fatto ha favorito il silenzio, l’indifferenza e la passività della quasi totalità dei cristiani e delle Chiese nell’ora del male assoluto, l’ora della Shoah. Ma è innegabile che papa Giovanni XXIII, il Vaticano II e il suo decreto Nostra aetate abbiano rappresentato in questo senso una svolta epocale. Dopo quella stagione primaverile, che molti ritrovano nell’ora attuale, è possibile per le due religioni essere una accanto all’altra nella forma non della loro reciproca negazione ma del riconoscimento, ammettendo che nessuna forma religiosa può esprimere pienamente la verità, né la sua unità integrale. Questo richiede però di perseverare in un lungo cammino che non si accontenta di liquidare l’antigiudaismo come “errore teologico” e di condannarne la prassi nella storia, ma che diventa anche esame critico delle sue motivazioni e ispirazioni. Cammino lungo, faticoso, che comporta un lavoro su di sé, ma cammino assolutamente necessario se non vogliamo arrestarci alla cura dei sintomi senza sanare le cause. Da almeno una dozzina d’anni, poi, è iniziata anche la ricezione della svolta da parte degli ebrei, come testimoniato sia da documenti e dichiarazioni sia da un mutato atteggiamento nel vissuto quotidiano di tante comunità. Anche questo dato non fa che accrescere la speranza di un nuovo rapporto che sia confronto e cordiale dialettica tra le due religioni. 

Del resto, la Giornata della memoria non ricorda solo il male assoluto e le sue vittime, ma anche la “banalità del bene” di coloro – e sono stati tanti, anche tra i cristiani – che a rischio della  ropria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati, i “Giusti fra le Nazioni”. È doveroso allora ricordare come alcuni giorni fa papa Francesco abbia ricevuto per un lungo colloquio personale uno di loro, fratello Arturo Paoli, ultracentenario prete da sempre vicino ai poveri e alle vittime della storia: un testimone del Vangelo che ha molto sofferto a causa della giustizia, anche a opera di fratelli nella fede che lo hanno emarginato. Presenze e incontri come questo sono allora un richiamo alla responsabilità personale di ciascuno: nessuno potrà più invocare a propria scusante l’ignoranza su quanto accaduto nella storia. Ciascuno di noi è e sarà responsabile in prima persona di una conferma o di una contraddizione alla svolta nel dialogo tra ebrei e cristiani. Anche questo ci ricorda la Giornata della memoria.

riforma della chiesa a caro prezzo

Bianchi

 

mentre esultiamo per la determinazione che papa Francesco esprime nella direzione di una ‘rivoluzione’ spirituale dentro la chiesa che sia più evangelica e sappia dialogare davvero col mondo contemporaneo sentiamo che tutto ciò non sarà facile

si rende espressione di questo nostro comune timore e delle oggettive difficoltà che inevitabilmente papa Francesco troverà l’articolo di p. Enzo Bianchi uscito su ‘Jesus’ di questo mese:

La riforma della Chiesa sarà a caro prezzo, prepariamoci!

di Enzo Bianchi
in “Jesus” del dicembre 2013

Non posso dimenticare che uno dei miei primi interventi pubblici con una certa risonanza avvenne
durante un convegno organizzato da p. Balducci e p. Turoldo a Firenze, nel primo post-concilio, e
divenne poi un articolo pubblicato su Rocca. Era la stagione dell’entusiasmo dovuto alla primavera
inaugurata da papa Giovanni e dal Vaticano II: stagione della “vittoria” di un nuovo modo di vivere
la chiesa e di edificarla da parte di tutti i cristiani; stagione di “riforma” contrassegnata da
un’atmosfera di fervore e di impazienza; stagione sulla quale io avvertivo però tanta presunzione,
circa gli sviluppi possibili di quella straordinaria svolta.
Sorprendendo non poco gli amici con i quali si dialogava intensamente di riforma liturgica, allora
ancora allo studio, di vita ecclesiale in stato di conversione per una conformità più profonda alla
chiesa come il Signore l’aveva voluta e di dialogo nella mitezza e nella povertà dei mezzi con
l’umanità contemporanea, io misi in guardia da un facile ottimismo. Se davvero si fosse imboccata
la strada della riforma evangelica della chiesa e del suo ordinamento (papato, episcopato, laicato) –
dissi –, si sarebbe andati incontro a un tempo in cui ogni trionfalismo sarebbe stato contrastato da
fatica, da sofferenza e finanche da lacerazioni, perché c’è una necessitas passionis della chiesa che è
dovuta alla necessitas passionis vissuta dal suo Signore Gesù Cristo. Sarebbe avvenuto per la chiesa
come per Gesù: le potenze messe al muro dalla “logica della croce” (1Cor 1,18) si sarebbero
scatenate e ci sarebbe stato un “urto” anche con il mondo, sicché nella vita ecclesiale molti
avrebbero dovuto soffrire (sì, occorre dirlo, patire!). Se infatti la conversione personale richiede
rinuncia, fatica, distacchi e quindi sofferenza, tanto più la conversione delle comunità e delle chiese.
Si sarebbe soprattutto vissuta una duplice tentazione. O arrendersi al mondo, mondanizzandosi, non
mostrando più la differenza cristiana, svuotando la croce, annacquando il Vangelo, piegandosi alle
richieste del mondo; oppure affrontare il mondo con intransigenza e munirsi delle sue stesse armi:
presenza gridata, volontà di contare e di contarsi, atteggiamento da gruppo di pressione, assunzione
di compiti non assegnati dal Signore. In ogni caso, restava più difficile la via di “una chiesa povera
e di poveri”, di una chiesa che contasse solo sul Signore e non sui “potenti di questo mondo” (1Cor
2,6.8; cf. Mt 20,25), di una chiesa dialogante con gli uomini nella mitezza e nella libertà, senza
paura e senza l’ossessione di doversi difendere e vivere come cittadella assediata.
Le chiese sono diverse e si può dire che tutte queste scelte sono state imboccate, ora qui ora là, e in
modo diverso nelle diverse chiese. Sappiamo bene cosa abbia scelto la chiesa italiana, dimenticando
che la sua libertà non può essere vissuta al pari delle altre libertà di cui parla il mondo, perché la
chiesa non è mai tanto libera come quando il mondo la contraddice e la umilia. Sì, per la chiesa c’è
una pace che è più malefica di ogni guerra, “pax gravior omni bello”!
Oggi è nuovamente in atto per la chiesa una primavera, inaugurata da papa Francesco. L’entusiasmo
è molto: non voglio certo spegnerlo, ma ancora una volta sento il dovere di mettere in guardia me
stesso e i miei fratelli e sorelle nella fede. Siamo disposti a bere il calice che Gesù ha bevuto (cf. Mc
10,38; Mt 20,22)? Ogni riforma della chiesa, se è evangelica, è a caro prezzo: per tutti e anche per il
successore di Pietro che non potrà attendersi, almeno dall’interno della chiesa, dai suoi, dalla sua
casa, facile riconoscimento e facile obbedienza. Sarà più facile che lo ascoltino – come è avvenuto
per il Battista e per Gesù – “pubblicani e prostitute” (cf. Mt 21,2; Lc 7,34; 15,1), “samaritani e
stranieri” (cf. Lc 17,38; Gv 4,39-40).
Queste ipotesi turbano e non vorremmo sentirle; eppure, se è accaduto a Gesù, al Signore, c’è forse
un discepolo che è più grande del maestro (cf. Mt 10,24; Lc 6,40; Gv 15,20)? O un un successore di
Pietro che non conosca la passione e la tentazione di sfuggirla rinnegando il Signore e il Vangelo? Èora più che mai di pregare per Pietro, non per una gloria mondana che non può essere sua, ma
perché, consolato dal suo Signore, resti saldo e possa confermare noi suoi fratelli (cf. Lc 22,31-32)
nel faticoso cammino verso il Regno.

il valore antropologico e teologico del silenzio

bei fiori

“l’uomo è diventato un’appendice del rumore” dice Max Picard

purtroppo oggi il silenzio è raro, è forse la realtà più assente nelle nostre giornate, eppure abbiamo bisogno di esso perché questo è linguaggio d’amore, di profondità, di presenza vera dell’altro, di ascolto autentico

in merito una bella riflessione di Enzo Bianchi:

 

La profezia del silenzio 

Se nella nostra società «l’uomo è diventato un’appendice del rumore» (Max Picard), si fa sempre più urgente l’esigenza che ciascuno ritrovi la propria umanità attraverso la riscoperta del silenzio e l’apprendimento dell’antichissima arte di “ascoltare il silenzio”. Impresa certo non semplice, se già Eraclito definiva i propri simili come «incapaci di ascoltare e di parlare»: da allora forse abbiamo l’impressione di aver compiuto passi in avanti nella capacità di parlare, ma certo quanto ad ascolto sembriamo tornati indietro di secoli. Abbiamo bisogno di una pedagogia dell’ascolto che può prendere le mosse solo dal silenzio. Sì, “ascoltare il silenzio” può sembrare un ossimoro, invece è la chiave che apre il mondo dell’ascolto autentico e della comprensione di ciò che si sente.
La tradizione spirituale non solo cristiana ha sempre riconosciuto l’essenzialità del silenzio per una vita interiore autentica. «La preghiera – ha detto il Savonarola, che pur di discorsi appassionati ben si intendeva – ha per padre il silenzio e per madre la solitudine». Solo il silenzio, infatti, rende possibile l’ascolto, cioè l’accoglienza in sé non soltanto della parola pronunciata, ma anche della presenza di colui che parla. Il silenzio è linguaggio di amore, di profondità, di presenza all’altro. Del resto, nell’esperienza amorosa il silenzio è spesso linguaggio molto più eloquente, intenso e comunicativo delle parole.
Purtroppo oggi il silenzio è raro, è forse la realtà maggiormente assente nelle nostre giornate: siamo bombardati da messaggi sonori e visivi, i rumori ci derubano della nostra interiorità e le parole stesse vengono immiserite dal loro essere urlate, ridotte a slogan o invettive. Ora, «quando diminuisce il prestigio del linguaggio aumenta quello del silenzio» (Susan Sontag). Dobbiamo confessarlo: abbiamo bisogno del silenzio! Ci è necessario da un punto di vista prettamente antropologico, perché l’uomo, che è un essere di relazione, comunica in modo equilibrato e significativo soltanto grazie all’armonico rapporto fra parola e silenzio.
Ma abbiamo bisogno del silenzio anche dal punto di vista spirituale. Per la fede ebraica e cristiana il silenzio è una dimensione teologica: sul monte Oreb, il profeta Elia percepì di essere alla presenza di Dio non nel frastuono di venti, tuoni e terremoto ma solo quando ascoltò «la voce di un silenzio sottile» (1Re 19,12). Ignazio di Antiochia dirà che Cristo è «la Parola che procede dal silenzio». Non si tratta semplicemente dell’astenersi dal parlare o dell’assenza di rumori, ma del silenzio interiore, quella dimensione che ci restituisce a noi stessi, ci pone sul piano dell’essere, di fronte all’essenziale. «Nel silenzio è insito un meraviglioso potere di osservazione, di chiarificazione, di concentrazione sulle cose essenziali» (Dietrich Bonhoeffer).
Il silenzio è custode dell’interiorità in quanto ci conduce da una dimensione primaria e “negativa” di sobrietà, disciplina nel parlare o addirittura di astensione da parole, a un livello più profondo, di intensa vita spirituale: cioè al far tacere i pensieri, le immagini, le ribellioni, i giudizi, le mormorazioni che nascono nel cuore. È il difficile silenzio interiore, quello che trova il proprio ambito vitale nel cuore, luogo della lotta spirituale. Ma proprio questo silenzio profondo genera l’attenzione, l’accoglienza, l’empatia nei confronti dell’altro. Il silenzio scava nel nostro profondo uno spazio per farvi abitare l’alterità, per farne risuonare la parola e, al tempo stesso, ci dispone all’ascolto intelligente, al parlare misurato, al discernimento di ciò che brucia nel cuore dell’altro e che è celato nel silenzio da cui nascono le sue parole. Il silenzio, allora, quel silenzio, suscita in noi la carità, l’amore del fratello. «Il silenzioso diventa fonte di grazia per chi ascolta», aveva affermato san Basilio. Per il cristiano, il rimando all’ascolto obbediente della Parola di Dio, all’accoglienza del Verbo fatto carne è evidente ed estremamente eloquente.
Non a caso è questo il silenzio che proviene a noi da una lunga storia spirituale: è il silenzio cercato e praticato dagli esicasti per ottenere l’unificazione del cuore, il silenzio della tradizione monastica finalizzato all’accoglienza in sé della parola di Dio, il silenzio della preghiera di adorazione della presenza di Dio. Ma è anche il silenzio caro ai mistici di ogni tradizione religiosa e, ancor prima, è il silenzio di cui è intriso il linguaggio poetico, il silenzio che costituisce la materia stessa della musica, il silenzio essenziale a ogni atto comunicativo. Il silenzio, evento di profondità e di unificazione, rende il corpo eloquente conducendoci ad abitare il nostro corpo, a nutrire la nostra vita interiore, guidandoci a quell’habitare secum così prezioso per la tradizione monastica come per quella filosofica. Il corpo abitato dal silenzio diviene rivelazione della persona intera.
Proviamo allora a ricavare nel ritmo del nostro vivere un tempo per ascoltare il silenzio: riusciremo a cogliere gli sforzi compiuti per crearlo e custodirlo, a discernere i suoni impercettibili della presenza di altre creature accanto a noi, a comprendere il non-detto che abita la gran quantità di parole, ad avere intelligenza di quanto accade – cioè, letteralmente, a “leggere dentro” gli eventi – e, finalmente, anche ad ascoltare meglio noi stessi e gli altri quando parlano al nostro cuore e alla nostra mente, e non solo ai nostri orecchi.

la valigia di Francesco

 

il papa

non ho sottomano la foto di papa Francesco per cui metto la prima che trovo: è il pretesto per indirizzare la nostra attenzione e riflessione su una bella pagina di E. Bianchi che ricostruisce, a partire da alcuni segni (come questa borsa) il nuovo stile e il nuovo corso del papato di papa Francesco

(vedi link qui sotto)

 

LA VALIGIA DI FRANCESCO

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