papa Francesco e la malattia della nostra economia

  papa Francesco

la pandemia ha mostrato che l’economia è malata

“pochi ricchissimi possiedono più di tutto il resto dell’umanità” ed “è un’ingiustizia che grida al cielo”

Il Papa: la pandemia ha mostrato che l’economia è malata

In un mondo solcato da profonde disuguaglianze sociali, aggravate dalla pandemia, e da un modello economico spesso indifferente ai danni inflitti alla casa comune, il Papa esorta i cristiani a condividere i propri beni, mettendoli a frutto anche per gli altri, e si richiama, per questo, all’esperienza delle prime comunità cristiane che, anche vivendo tempi difficili, mettevano i loro beni in comuni, “consapevoli di formare un solo cuore e una sola anima”:

La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali. O usciamo migliori, o usciamo peggiori. Questa è la nostra opzione. Dopo la crisi, continueremo con questo sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura dell’ambiente, del creato, della casa comune? Pensiamoci. Possano le comunità cristiane del ventunesimo secolo recuperare questa realtà, – la cura del creato e la giustizia sociale: vanno insieme… – dando così testimonianza della Risurrezione del Signore. Se ci prendiamo cura dei beni che il Creatore ci dona, se mettiamo in comune ciò che possediamo in modo che a nessuno manchi, allora davvero potremo ispirare speranza per rigenerare un mondo più sano e più equo.

La pandemia ha infatti aggravato le disuguaglianze, ribadisce più volte il Papa: alcuni bambini possono ancora ricevere un’educazione scolastica, per altri si è interrotta, alcune nazioni possono emettere moneta per affrontare l’emergenza, mentre per altre significherebbe ipotecare il futuro. Si tratta di sintomi di disuguaglianza che rivelano una precisa patologia: «Questi sintomi di disuguaglianza rivelano una malattia sociale; è un virus che viene da un’economia malata. E dobbiamo dirlo semplicemente: l’economia è malata. Si ammalò. E’ ammalata».

La malattia, afferma, è frutto di una “crescita economica iniqua” che prescinde dai valori umani fondamentali. “Nel mondo di oggi – sottolinea – pochi ricchissimi”, “un gruppetto”, “possiedono più di tutto il resto dell’umanità”. Si tratta, afferma di “un’ingiustizia che grida al cielo!”. D’altra parte questo modello di crescita economica sembra indifferente ai danni inflitti al creato, con conseguenze “gravi e irreversibili” come perdita della biodiversità, cambiamenti climatici, distruzione delle foreste tropicali. Disuguaglianze sociali e degrado ambientale hanno “la stessa radice”, segnala il Papa: il peccato di “voler possedere e dominare i fratelli e le sorelle, la natura e lo stesso Dio”. Di fronte a tutto questo, i cristiani non devono rimanere fermi: la speranza cristiana sostiene la volontà di condividere: «Quando l’ossessione di possedere e dominare esclude milioni di persone dai beni primari; quando la disuguaglianza economica e tecnologica è tale da lacerare il tessuto sociale; e quando la dipendenza da un progresso materiale illimitato minaccia la casa comune, allora non possiamo stare a guardare. No, questo è desolante. Non possiamo stare a guardare! Con lo sguardo fisso su Gesù (cfr Eb 12,2) e con la certezza che il suo amore opera mediante la comunità dei suoi discepoli, dobbiamo agire tutti insieme, nella speranza di generare qualcosa di diverso e di meglio».

Richiamandosi varie volte a Catechismo e al Libro del Genesi, Francesco ricorda che Dio ha chiesto all’uomo di dominare la terra coltivandola e custodendola. Non quindi “carta bianca per fare della terra ciò che si vuole”, nota il Papa, perché esiste una “relazione di reciprocità responsabile” fra noi e la natura. La terra infatti è stata data a tutto il genere umano e i suoi frutti devono arrivare a tutti, non solo ad alcuni. Come ricorda anche la Gaudium et spes del Concilio Vaticano II “l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri”. Quindi, come un amministratore della Provvidenza, far fruttificare i doni perché anche gli altri ne beneficino.

In sintesi, proprietà e denaro sono “strumenti” che possono essere trasformati facilmente in “fini, individuali o collettivi” ma così – avverte – vengono intaccati i valori umani essenziali: «L’homo sapiens si deforma e diventa una specie di homo œconomicus – in senso deteriore – individualista, calcolatore e dominatore. Ci dimentichiamo che, essendo creati a immagine e somiglianza di Dio, siamo esseri sociali, creativi e solidali, con un’immensa capacità di amare. Di fatto, siamo gli esseri più cooperativi tra tutte le specie, e fioriamo in comunità, come si vede bene nell’esperienza dei santi».

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‘ateo’ in nome di … Dio

manifesto su Dio

p. Pedro Serrano García

Secondo la Bibbia e l’esperienza umana, è evidente che nessuno ha mai visto DIO. Con successi ed errori, nel corso della storia noi esseri umani abbiamo cercato di conoscere l’immagine autentica del Supremo trascendente; ma provare la sua esistenza o inesistenza supera le capacità di credenti e di non credenti. Comunque, il Magnifico sconosciuto può essere intuito dietro il caso e i milioni di trilioni di coincidenze date in modo che esistano l’impressionante universo in espansione con i suoi miliardi di galassie, la meravigliosa vita manifestata in milioni di specie e, soprattutto, l’ammirevole umanità composta da esseri umani intelligenti e liberi. Allo stesso modo, sembra chiaro che noi credenti abbiamo concezioni diverse riguardo all’Essere Supremo, alcune sono errate o alienanti, e altre sono corrette e solidali. Di fronte a questa diversità sulla natura divina:

– Mi dichiaro ateo rispetto al Dio denaro, che divide gli esseri umani in classi sociali, condannando gli impoveriti alla miseria e privilegiando i ricchi nell’ opulenza.

– Mi dichiaro ateo rispetto al Dio indifferente, che guarda impassibile come gli uomini soffrono, combattono e si battono in difesa dei loro interessi e delle loro ideologie, senza intervenire nella storia affinché l’armonia tra le persone e i popoli possa risplendere nel rispetto del medio ambiente.

– Mi dichiaro ateo rispetto al Dio guerriero, sostenitore di individui potenti e di grandi potenze che praticano la violenza armata, lo sfruttamento economico, la colonizzazione politica e il saccheggio dei popoli in via di sviluppo.

– Mi dichiaro ateo rispetto al Dio Giudice, che punisce chi pecca (anche se per errore, debolezza o ignoranza nella sua marginalità); mentre premia gli autoproclamati puri (anche se praticano complimenti formali senza amore per il prossimo o compassione per gli svantaggiati).

– Mi dichiaro ateo rispetto al Dio individualista, che favorisce la spiritualità e la salvezza personale e non tiene conto della comunione fraterna con i cittadini ed i senza tetto.

– Mi dichiaro ateo rispetto al Dio autoritario, che consacra gerarchi e preti, mentre sottovaluta laici e donne come credenti di seconda classe.

– Mi dichiaro ateo rispetto al Dio dogmatico, che si manifesta in un’unica chiesa verticalista, rigettando le altre chiese come sbagliate, le altre religioni come pagane e le culture agnostiche come spregevoli.

Ma, come discepolo umile e imperfetto di GESÙ, oso affermare:

– Credo nel Dio amore, che accoglie giusti e peccatori, atei e credenti, ignoranti e saggi come i suoi figli e figlie, infondendo negli esseri umani la luce della fraternità comunitaria e universale tra le persone e i popoli.

– Credo nel Dio della Vita, che incoraggia le comunità a condividere i beni della creazione e della produzione umana in società giuste, pacifiche e umanitarie, dove i bambini, gli anziani, i malati e gli emarginati hanno la priorità.

– Credo nel Dio dei poveri, che incoraggia uomini e donne coscienziosi a costruire lo Stato Democratico del Benessere, superando la società di classi, favorendo la liberazione degli impoveriti e il lavoro dignitoso e giustamente remunerato per tutti e tutte.

– Credo nel Dio mite e umile, che, privato di ogni potere e ricchezza in Cristo, esalta i semplici e riempie gli affamati nel suo Regno fraterno, mentre si addolora perché i potenti e i ricchi preferiscono idolatrare il denaro e il dominio.

– Credo nel Dio delle Beatitudini, che rende felici le classi impoverite, le persone e le comunità solidali e perseguitate per la promozione della giustizia, mentre bisogna dispiacersi per gli uomini invischiati nelle loro ricchezze, privilegi e dominazioni che causano nel mondo tanti mali e sofferenze.

– Credo nel Dio universale, che ama immensamente ogni essere umano, qualunque sia la sua religione, razza, cultura, nazionalità e genere, promuovendo tra i suoi discepoli la lotta pacifica perché tutti noi esseri umani siamo uguali in dignità e diritti, ricevendo secondo i nostri bisogni e contribuendo secondo le nostre capacità.

 Credo nel Dio Salvatore, che instilla permanentemente negli umanisti e nei profeti la forza per liberare gli oppressi rispetto alle classi dominanti ed ai loro collaboratori, manifestandosi nel contempo come il salvatore di giusti e peccatori, dei passivi e degli impegnati, degli sfruttatori e dei solidali.

Per tutto questo e data la mia natura fallimentare, confido nell’ immensa misericordia di DIO-PADRE che, come il figliol prodigo, mi perdona e mi accoglie paternamente e maternamente, nonostante i miei errori e fallimenti.

 

articolo pubblicato il 28.08.2020 dall’Autore in Religión Digital (www.religiondigital.com)

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il commento al vangelo della domenica

quell’invito impegnativo di Gesù a seguirlo


Quell'invito impegnativo di Gesù a seguirlo
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della domenica ventiduesima del tempo ordinario (30 agosto 2020):

In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». […]

Se qualcuno vuole venire dietro a me… Vivere una storia con lui, ha un avvio così leggero e liberante: se qualcuno vuole. Se vuoi. Tu andrai o non andrai con Lui, scegli, nessuna imposizione; con lui «maestro degli uomini liberi», «fonte di libere vite» (D.M. Turoldo), se vuoi. Ma le condizioni sono da vertigine. La prima: rinnegare se stessi. Un verbo pericoloso se capito male. Rinnegarsi non significa annullarsi, appiattirsi, mortificare quelle cose che ti fanno unico. Vuol dire: smettila di pensare sempre solo a te stesso, di girarti attorno. Il nostro segreto non è in noi, è oltre noi. Martin Buber riassume così il cammino dell’uomo: «a partire da te, ma non per te». Perché chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. La seconda condizione: prendere la propria croce, e accompagnarlo fino alla fine. Una delle frasi più celebri, più citate e più fraintese del Vangelo. La croce, questo segno semplicissimo, due sole linee, lo vedi in un uccello in volo, in un uomo a braccia aperte, nell’aratro che incide il grembo di madre terra. Immagine che abita gli occhi di tutti, che pende al collo di molti, che segna vette di monti, incroci, campanili, ambulanze, che abita i discorsi come sinonimo di disgrazie e di morte. Ma il suo senso profondo è altrove. La croce è una follia. Un «suicidio per amore», sosteneva Alain Resnais. Gesù parla di una croce che ormai si profila all’orizzonte e lui sa che a quell’esito lo conduce la sua passione per Dio e per l’uomo, passioni che non può tradire: sarebbe per lui più mortale della morte stessa.Prendi la tua croce, scegli per te qualcosa della mia vita. Di lui, il coraggioso che osa toccare i lebbrosi e sfidare i boia pronti a uccidere l’adultera; il forte che caccia dal tempio buoi e mercanti; il molto tenero che si commuove per due passeri; il rabbi che ama i banchetti e le albe nel deserto; il povero che mai è entrato nei palazzi dei potenti se non da prigioniero; il libero che non si è fatto comprare da nessuno; senza nessun servo, eppure chiamato Signore; il mite che non ha vinto nessuna battaglia e ha conquistato il mondo. Con la croce, con la passione, che è appassionarsi e patire insieme. Perché «dove metti il tuo cuore là troverai anche le tue ferite» (F. Fiorillo).
Se vuoi venire dietro a me…
Ma perché seguirlo? Perché andargli dietro? È il dramma di Geremia: basta con Dio, ho chiuso con lui, è troppo. Chi non l’ha patito? Beato però chi continua, come il profeta: nel mio cuore c’era come un fuoco, mi sforzavo di contenerlo ma non potevo. Senza questo fuoco (roveto ardente, lampada, o semplice cerino nella notte), posso anche guadagnare il mondo ma perderei me stesso.
(Letture: Geremia 20,7-9; Salmo 62; Romani 12,1-2; Matteo 16,21-27)

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il commento al vangelo della domenica

la domanda con cui Gesù getta in noi un amo

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della ventunesima domenica del tempo ordinario (23 agosto 2020):

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». […]

Ogni anno, verso la fine dell’estate, la liturgia ripropone la bellissima domanda di Gesù, ogni anno con un evangelista diverso: ma voi chi dite che io sia? Inizia con un «ma», una avversativa, quasi in opposizione a ciò che dice la gente, perché non si crede per sentito dire, né per tradizione o per allinearsi alla maggioranza. Come un amo da pesca (la forma del punto di domanda ricorda quella di un amo), che scende in noi per agganciare la risposta vera: ma voi, voi dalle barche abbandonate, voi che camminate con me da anni, voi amici che ho scelto a uno a uno, che cosa sono io per voi? Gesù non cerca parole, cerca rapporti (io per te); non vuole definizioni esatte ma coinvolgimenti: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato? La sua domanda assomiglia a quelle degli innamorati: quanto conto per te? Che posto ho, che importanza ho nella tua vita? Gesù non ha bisogno della risposta dei dodici, e della mia, per sapere se è più bravo degli altri profeti, ma per sapere se sono innamorato, se gli ho aperto il cuore. Cristo non è nelle mie parole, ma in ciò che di Lui arde in me. Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio. La risposta di Pietro ha due tempi: Tu sei il Messia, sei la mano di Dio, la sua carezza, il suo progetto di libertà. Poi aggiunge: sei il figlio del Dio vivente. Colui che fa viva la vita, il miracolo che la fa fiorire, grembo gravido, fontana da cui la vita sgorga potente, inesauribile e illimitata. Beato te, Simone, roccia… Pietro decifrando la sacralità di Gesù, ha esplorato qualcosa della propria. L’ho provato anch’io: ogni volta che mi sono avvicinato a lui, che mi sono fermato e l’ho pregato davvero ho scoperto qualcosa di me; ho capito meglio chi sono e che cosa sono venuto a fare quaggiù. Forse anch’io piccola roccia? Non certo macina da mulino, ma piccola pietruzza soltanto. Eppure, per lui, nessuna piccola pietra è inutile. Ciò che legherai, ciò che scioglierai… Non si tratta del potere di assolvere o scomunicare gente, ma la rivelazione che in noi cielo e terra si abbracciano. Gesù non è venuto a instaurare altri poteri, ma ha capovolto il sistema del potere in quello del servizio. Non porta in dote un potere, ma una possibilità: diventare una presenza trasfigurante anche nelle esperienze più squallide, più impure, più alterate dell’uomo. Facendo cose che Dio solo sa fare: perdonare i nemici, trasfigurare il dolore, immedesimarsi nel prossimo, vivere vita donata, gesti che dentro hanno eternità. Un potere trasfigurante che porta Dio nel mondo, e il mondo in Dio. Che può fare di ciascuno di noi una piccola pietruzza sulla quale edificare una porzione di mondo nuovo.
(Isaia 22,19-23; Salmo 137; Romani 11,33-36; Matteo 16,13-20)

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un ricordo del vescovo santo Pedro Casaldàliga

Amazzonia

Pedro, il vescovo santo degli oppressi sepolto tra un operaio e una prostituta senza nome

di Fabrizio d’Esposito

Il suo epitaffio, scolpito su un pezzo di marmo ai piedi di una croce di legno, è questo: “Per riposare io voglio solo questa croce di legno, come pioggia e sole questi tre metri di terra e la Resurrezione!”. Ai lati della tomba – un cumulo di terra rossa – sono sepolti un operaio e una prostituta senza nome, come ha raccontato Salvatore Cernuzio su Vatican Insider della Stampa.
Dom Pedro Casaldáliga è stata una delle figure più belle del cattolicesimo novecentesco. Una santità luminosa da vescovo, profeta e poeta. Al servizio totale del Vangelo e degli ultimi, in Amazzonia. È morto l’8 agosto scorso. Aveva 92 anni, di cui gli ultimi otto vissuti da malato agli ordini di quello che chiamava “fratello Parkinson”, suo “superiore”. Alcuni versi di dom Casaldáliga tratti da Il tempo e la speranza sono citati da papa Francesco nella sua esortazione apostolica Querida Amazonia: “Galleggiano ombre di me, legni morti. Ma la stella nasce senza rimprovero sopra le mani di questo bambino, esperte, che conquistano le acque e la notte. Mi basti conoscere che Tu mi conosci interamente, prima dei miei giorni”.
Nato in Catalogna, arrivò in Brasile da missionario clarettiano nel 1968. Approdò in barca sulle rive di São Félix do Araguaia, nel Mato Grosso, e davanti a quella che sarebbe stata la sua abitazione trovò quattro neonati morti, in scatole di scarpe come bare. La sua reazione fu: “O ce ne andiamo via da qui oggi stesso o ci suicidiamo o troviamo una soluzione per tutto questo”. Tre anni dopo la sua casa divenne sede episcopale: Paolo VI lo nominò vescovo della prelatura di São Felix, “una zona periferica della foresta grande quanto metà dell’Italia” (Luciano Meli su manifesto4ottobre). Il suo motto da vescovo fu: “Nada possuir, nada carregar, nada pedir e, sobretudo, nada matar”: “Nulla possedere, nulla prendere a carico, nulla chiedere, nulla tacere e, soprattutto, non uccidere nessuno”.
Era il Brasile della dittatura militare (1964-1985) e la lotta di dom Pedro fu contro l’ingiustizia del latifondo e a favore degli indigeni e dei contadini sfruttati e oppressi nella fazendas amazzoniche. Il suo anello vescovile in legno di palma fu poi segno di riconoscimento per quanti credevano nella teologia della liberazione. Scampò a più attentati e il regime dei Gorillas se ne voleva liberare con l’espulsione dal Paese ma Paolo VI lo impedì: “Chi tocca Pietro (Pedro, ndr), tocca Paolo”. La sua radicalità rivoluzionaria contro il capitalismo e il colonialismo mise in luce le divisioni che attraversavano il cattolicesimo brasiliano, con i clericali di destra che appoggiavano i militari (si pensi al movimento Tradizione famiglia e proprietà di Plinio Corrêa de Oliveira) e oggi tornati di nuovo forti con Bolsonaro al potere. Peraltro Tfp fa parte del network fariseo e dottrinario che si oppone alla misericordia di papa Bergoglio.
Mercoledì scorso, dom Pedro Casaldáliga è stato salutato per l’ultima volta dal suo popolo a São Félix: il corpo deposto su una canoa indigena, con il remo che usava come pastorale (il “bastone” del vescovo). La scelta di essere sepolto nel cimitero di Karajá l’aveva annunciata da tempo, laddove era arrivato nel 1968, trovando quattro neonati morti.

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ricordando Armido Rizzi

La coscienza come problema

di Armido Rizzi

Credo che il modo migliore per ricordare  Armido Rizzi sia quello di invitare a leggere i suoi scritti. Di seguito una sua bellissima riflessione sul tema della coscienza. 

È più attuale, oggi, un discorso su ciò che la coscienza non è, che non una positiva attestazione e descrizione della sua qualità; è più facile mettersi, nei suoi confronti, nei panni del pubblico ministero che in quelli dell’avvocato difensore.
Ma anche per chi vuol andare controcorrente e riaffermare tutt’intera la dignità della coscienza, non è opportuno chiudere le orecchie alle accuse che le vengono rivolte né gli occhi di fronte alle sue effettive carenze; è anzi la cosa migliore guardarle subito a viso scoperto, senza differire, e tanto meno bandire, il confronto scomodo e pericoloso. Vi sono due letture indebite della coscienza: una per difetto e l’altra per eccesso.
Una lettura per difetto
La lettura per difetto è ormai moneta circolante a ogni livello del discorso: dall’elaborazione più sofisticata alla divulgazione più estesa.
Secondo questa lettura, la coscienza è un fenomeno derivato, il prodotto di condizioni psicologiche e/o sociali che determinano il nascere di questo fenomeno e ne definiscono integralmente la realtà.
Non basta dunque, secondo questa interpretazione, riconoscere la radicazione della coscienza nello psichismo o nel tessuto sociale; bisogna individuare in tale radicazione la spiegazione totale della coscienza stessa, così che essa è – ed è soltanto – effetto e funzione di qualcos’altro: la felicità individuale e l’ordine collettivo, l’identità psicologica e l’organizzazione societaria.
Di conseguenza, la sua istanza viene relativizzata: ciò che proviene da altro e ad altro è funzionale, riceve da quest’altro il suo valore e la sua consistenza.
Ora, poiché la coscienza si presenta come istanza assoluta (lo vedremo) che esige di essere obbedita senza condizioni, una interpretazione che la subordini a un valore superiore equivale a una smentita della coscienza stessa, a una «demistificazione» di ciò che essa più gelosamente considera suo. La successiva riqualificazione della coscienza come strumento necessario per lo sviluppo della persona o per la compattezza del gruppo non va certo disattesa o considerata puro risarcimento tattico; ma non basta a restituirle ciò che le ha tolto: la sua perentorietà intrinseca, la sua forza autonoma e senza riserve.
Una lettura per eccesso
La lettura per eccesso riconosce, evidentemente, alla coscienza la sua qualità e forza immanente, ma ne estende il raggio d’azione a campi che le sono estranei o, addirittura, contrari.
Più che di un’interpretazione teorica si tratta qui di un atteggiamento pratico: appellarsi alla coscienza per esigere da sé e dagli altri, come obbligatorio, il compimento di azioni che sono invece indifferenti quando non addirittura cattive. L’esempio classico di questa indebita dilatazione della coscienza è lo scrupolo; esempi più vicini e più conturbanti sono, tra altri, il rifiuto della trasfusione di sangue, anche in pericolo grave di vita, da parte di membri di confessioni religiose; o, più ancora, l’obbedienza cieca, per esempio da parte dei nazisti, a ordini palesemente ingiusti.
Questo appello alla coscienza per giustificare prestazioni mancate o per dare forza vincolante e ineluttabile a prestazioni eseguite rende comprensibile il movimento contrario già prima presentato di inquadrarla entro una razionalità più generale che ne misura la legittimazione e ne permetta il controllo.
Effettivamente, sembra ben difficile sfuggire all’alternativa seguente: o si sottopone la coscienza a un controllo critico, a un’istanza sociale, e le si nega così il suo carattere di istanza ultima; o le si conserva questo carattere, facendone un principio insindacabile, e la si abbandona allora al rischio dell’arbitrio soggettivo, fino alle più nefaste conseguenze.
L’alternativa ha una portata molto seria; tradisce però una confusione tra due problemi collegati ma distinti:
– qual è l’essenza della coscienza, il suo costitutivo?
– come riconoscerla e discernerla nel suo esercizio pratico (cioè nei suoi contenuti concreti)?
Ognuno di questi due problemi esige una riflessione appropriata, che ne colga la valenza intrinseca e insieme la necessità del rapporto con l’altro.
L’essenza della coscienza: itinerario fenomenologico
L’orizzonte escatologico
Il sorgere dell’imperativo della coscienza fa sì che il soggetto si colga situato in una posizione nuova, finora ignota: l’azione che egli porrà, aldilà della sua specifica qualità intrinseca (onestà negli affari o truffa, fedeltà coniugale o adulterio…), gli appare investita da una intenzionalità più ampia e superiore: essa sarà un «sì» o un «no» a quell’istanza di coscienza, un’adesione o un rifiuto a quell’esigenza. E questa sua dimensione qualificherà il soggetto più profondamente di ogni giudizio di valore: egli ne uscirà buono o cattivo secondo un’accezione che non si determina unicamente dall’oggetto della sua azione ma, più propriamente, dal rapporto alla coscienza interpellatrice.
In altre parole: l’individuo sente che l’appello della coscienza gli apre davanti non una nuova possibilità ma un nuovo spessore delle possibilità già note, un orizzonte che le ricrea a un livello inatteso e impensato, indeducibile da tutto quanto era prima conosciuto.
Questo orizzonte è l’ultimo; non che venga giudicato tale in base a un criterio di misura più comprensivo: da sé s’impone come l’ultima zona cui l’esistenza dell’uomo possa accedere, come misura e criterio senza appello. E non ultimo relativamente a questa o quella sfera d’azione: ultimo per l’esistenza umana come tale. Al punto che soltanto all’apparire di questo orizzonte l’esistenza si scopre nella sua più vera identità e s’accorge di essersi fino allora ignorata. Lo possiamo chiamare «orizzonte escatologico» (da eschaton, parola greca che vuol dire, appunto, ultimo).
Di qui la difficoltà di trovare termini adeguati per esprimere il mondo dell’esperienza morale; e l’inevitabile ricorso al simbolo. L’esigenza della coscienza è una «voce», la sua indicazione una «luce» interiore; la situazione che essa determina nell’esistenza umana è un «bivio» (strada del bene e strada del male); il rifiuto ad essa una «macchia» o un «debito», e chi ha mancato deve «lavare» o «pagare»… L’uso universale (e delicato!) di simboli in questo ambito di realtà non è sintomo della sua appartenenza a un mondo fantastico, ma piuttosto riflesso della sua unicità, della sua incommensurabilità al mondo comune, alle rappresentazioni e valutazioni umane normali.
La libertà
La coscienza annuncia all’uomo la sua libertà mentre gliela conferisce. Alla presenza dell’imperativo interiore, l’individuo avverte di poterglisi concedere e rifiutare; e che l’opzione tra queste due possibilità sarà totalmente sua: egli ne sarà il principio, l’autore, il responsabile. Dove quel «sua» ha una densità che manca all’uso corrente del termine. Se russo nel dormire, quest’atto è mio; se cantando arrivo al do di petto, anche questo è mio; se in un istante di collera urlo contro l’interlocutore, l’atto è ancora mio; come mia è la pagina alata che mi erompe nel momento di grazia. Ovviamente, ogni volta il «mio» subisce una variazione d’intensità, dovuta ai diversi centri attivi che, in me, sono stati all’origine dell’atto: l’organismo, il temperamento, il genio…
Ma una costante li collega: il fatto che questi centri attivi erano «già lì in me», non per mia scelta ma come un dato; e gli atti che ne derivano sono una risultante pressoché inevitabile, scontata. Potrò vergognarmi di essi e pavoneggiarmene (come farei per una deformità o una dote fisica); non me ne sento il responsabile, non li considero «miei» in senso forte e proprio.
È quanto invece avviene nell’esperienza etica.
Invano mi attarderei a cercare in me un qualcosa su cui scaricare la responsabilità dell’opzione per il «sì» o il «no». Essa non compete a qualche parte o sezione o membro dell’io, identificabile a priori: essa scaturisce da una punta dell’io che emerge nell’esercizio dell’opzione stessa. La libertà non è una qualità del soggetto, che gli inerisca sulla linea dell’avere; la libertà è la dimensione che nel soggetto spunta alla presenza dell’appello morale: non come risultante di un passato, non come patrimonio acquisito e custodito, ma come puntuale possibilità di decisione escatologica.
C’è una certa tendenza a identificare libertà e spontaneità.
La spontaneità non è libertà, è determinismo; essa si oppone sì alla coazione, alla necessità e costrizione esteriore, ma non è altro che una suadente coazione interiore, la spinta irresistibile ad agire in un determinato modo. Quando un valore o settore di valori occupa tutto lo spazio interiore dell’uomo, vi esercita un influsso deterministico: l’individuo non ha possibilità di scelta nei confronti di quel valore, perché esso è l’ispirazione delle sue scelte, la radice e la totalizzazione delle sue opzioni. È l’orizzonte della sua coscienza (intendiamo qui coscienza psicologica).
È come quando un uomo ama perdutamente una donna: inutile farlo ragionare su base obiettiva: ogni ragione viene risucchiata entro l’orizzonte della presenza affettiva di lei, che ri-significa ogni elemento e momento della vita dell’innamorato. Costui è – relativamente – libero rispetto a tutto, salvo che rispetto a quella presenza, che interamente lo invade e lo trascina. Ma se un bel giorno nella sua vita s’insinua un’altra donna, questa nuova presenza crea un’alternativa alla prima, la relativizza: da orizzonte, quella diventa oggetto d’amore, in coabitazione con un altro oggetto entro uno slargato orizzonte d’amore. Ora l’uomo è «libero» di fronte a lei: capace di valutarla, di criticarla, di formulare riserve sul suo conto; insomma, capace di scegliere.
La libertà nei confronti di un valore nasce quando il valore da orizzonte diventa oggetto, per lo spuntare di un orizzonte più vasto, che esso non riesce più confiscare.
Ora, l’orizzonte naturale della. vita dell’uomo è il desiderio, cioè la tendenza a espandersi per realizzarsi. Tutto quanto l’uomo vuole e fa è comandato da questo impulso radicale e intrascendibile a «essere di più»; impulso essenzialmente e innocentemente egocentrico (non egoistico!), che ci porta a rincorrere la ricerca di noi stessi in tutto quanto operiamo, in tutto quanto tocchiamo, in tutto quanto amiamo. Il desiderio è il nostro orizzonte connaturato.
Ebbene, l’apparizione dell’appello morale compie il miracolo. Creando l’orizzonte escatologico, l’appello trasforma il desiderio in oggetto; introducendo nella coscienza psicologica la «voce della coscienza», vi fa sorgere un nuovo io, capace di prendere posizione di fronte al desiderio: dissocia l’io dalla solidarietà essenziale con se stesso, lo rende indipendente dall’autoidentità dinamica che lo genera e lo alimenta. In una parola: lo fa libero nel senso rigoroso del termine; fa sì che le sue azioni non siano più (soltanto) il frutto di tutto quello che esso già è da sempre, ma siano davvero «sue», oggetto di una scelta di cui l’io è veramente responsabile.
La trascendenza 
Ma la voce della coscienza e il desiderio non sono due oggetti neutrali, di fronte a cui l’uomo possa scegliere a piacimento o a caso.
Se l’imperativo della coscienza si fa valere contro tutto il mondo del desiderio, è perché contiene una forza intrinseca, capace di testimoniarsi in maniera perentoria. Capire che qualcosa «è giusto», «è bene», significa comprendere che vale più dei nostri interessi, anche i più alti, significa vedere o almeno presentire che esso trascende tutto il nostro mondo, si pone di fronte ad esso come un assoluto. Quando il medico ateo, nella Peste di Camus, dice di dover restare sul posto invece che mettersi in salvo, anche se non ne capisce il perché, esprime questa misteriosa dimensione di trascendenza che inabita l’esperienza morale. Non una trascendenza cosmologica (tipo: Dio è al disopra del mondo) ma quella trascendenza esistenziale che comanda, rifonda e ristruttura l’esistenza dell’uomo.
Intendiamoci: non è che tutti i desideri debbano essere soppiantati e cambiati; è la loro qualità di desiderio che cade dal piedistallo del primato esistenziale. Fare qualcosa perché «è giusto» è rinunciare ad essere il criterio ultimo del proprio agire.
Il carattere di imperativo che la coscienza presenta, e il simbolo della voce che la esprime, sono sintomi della sua irriducibilità al volere dell’uomo: la coscienza è nell’uomo ma non dell’uomo; è l’istanza della trascendenza su di lui.
E non solo la coscienza non appartiene all’uomo, ma gli dice che neppure il mondo gli appartiene: che esso si inscrive ultimamente dentro un orizzonte non di proprietà e di dominio arbitrario ma di rispetto e di uso responsabile.
Per questo nelle culture la coscienza ha quasi sempre assunto il volto di Dio: Signore e Padre e Re dell’uomo, e poi suo Giudice inappellabile. E non che questi titoli siano derivati da altri più profondi, come creatore del mondo, causa prima, o altro; viceversa, nell’esperienza religiosa dei popoli Dio è anzitutto signore della vita dell’uomo attraverso la voce della coscienza che gli indica il «che fare», e soltanto a partire di qui si scopre anche la sua relazione – di creatore e ordinatore – con il mondo. L’esperienza della coscienza è il luogo fondamentale in cui morale e religione sorgono e si annodano. Così che la stessa esperienza morale dell’ateo è incontro anonimo con Dio, e la sua rettitudine morale è, senza saperlo, obbedienza a Dio e al suo disegno.
Il discernimento della coscienza
La fenomenologia appena tracciata non è un discorso imbastito a priori, ma il tentativo di tradurre in linguaggio concettuale quella ricchezza di significato che è già presente nel fatto morale. La coscienza è un fatto, anche se un fatto molto particolare, anzi unico; è un’esperienza, anche se un’esperienza singolarissima. La nostra descrizione ha avuto un occhio alla faccia individuale di quest’esperienza – la mia, dove nessuno mi può sostituire e che a nessuno posso delegare e un altro alla sua faccia universale – la testimonianza dei popoli lungo la storia.
Ora, questi due poli, che costituiscono la fonte di conoscenza del fatto morale e di riflessione su di esso, sono anche gli elementi della tensione che le attraversa e le inabita. L’esperienza morale è un fatto universale, ma le sue espressioni sono così variamente e profondamente differenziate da rasentare la contraddizione.
Non si tratta soltanto di accentuazioni diverse, ma di diverse strutturazioni attorno a questo o quel valore che fa da perno e da principio ordinatore; si tratta addirittura di trovare comandato da una parte ciò che in un’altra è proibito, di vedere qui esaltato ciò che là è biasimato. Daremo allora ragione al relativismo morale, che considera ogni cultura e subcultura un sistema concluso e incomparabile, per cui non ci sono valori e istanze etiche universali? Ma alla base del relativismo sta quella lettura del fatto morale che abbiamo chiamata indebita per difetto, perché lo risolve interamente nella sua funzione individuale e sociale, negando il valore assoluto della coscienza.
Chi vuol riaffermare questo valore, accogliendo la testimonianza che la coscienza dà di sé nell’esperienza viva della persona e nelle sedimentazioni della cultura, deve trovare una linea di soluzione che comprenda e rispetti la diversità senza sacrificare l’unità, deve cercare in che modo l’istanza del «giusto», del «bene» (e di Dio) si traduca in esigenza di contenuti etici coerenti, di comportamenti non contraddittori, di strade di ricerca convergenti.
Due sono le domande che, a questo proposito, si impongono: una riguarda il contenuto della morale, l’altra il metodo.
Esiste un contenuto centrale attorno a cui tutti i codici morali si organizzano, ricevendone sostanza e qualità etica?
Esiste un modo per determinare tale contenuto, nella sua valenza generale e nelle sue articolazioni e applicazioni specifiche?
Il contenuto
Malgrado la varietà di norme e di condotte morali che la storia umana presenta, non è impossibile ravvisare la presenza di un valore che su tutti emerge per continuità e per eccellenza: l’uomo. Non un’affermazione astratta dell’uomo, un’idea di umanesimo e una dichiarazione formale dei diritti umani, ma la priorità vissuta dei bisogni dell’uomo rispetto a tutto ciò che ne circonda l’esistenza.
Anche lì dove la natura appare come il principio divino della vita, come il tutto originario di cui la comunità umana è una parte, come oggetto di venerazione e di culto, si tradisce un rapporto privilegiato tra natura e uomo: il rispetto che questi le deve e le offre non è che l’altra faccia del sostentamento e della protezione che essa gli dona. Il fatto che in alcune culture vi siano animali sacri non toglie che in tutte l’uomo metta gli animali al proprio servizio – come selvaggina di cui nutrirsi o come strumenti per il lavoro – e riconosce in questo uso un fattore fondamentale dell’ordine del mondo.
Questa considerazione sincronica, fatta a livello etnologico, si integra con una considerazione diacronica, riferentesi all’evoluzione storica. Lì dove le collettività si organizzano su scala ampia, passando dalla dimensione tribale a quella nazionale, il capo re o imperatore si sente divinamente investito della responsabilità del benessere di tutta la popolazione: così avviene, per esempio, nell’antico Egitto e in Mesopotamia; così avviene, più vicino a noi nel tempo e più lontano nello spazio, nel Perù degli Incas.
Per quanto riguarda la tradizione biblica, sappiamo che essa è tutta centrata sull’alleanza Dio-Israele, dove il comandamento religioso capitale dell’amore a Dio si concretizza nel comandamento etico dell’amore al prossimo. E il suo sviluppo cristiano non fa che ribadire e accentuare la centralità etica dell’uomo, identificandolo con colui che è a un tempo Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, e facendone metro e criterio di ogni azione e di ogni giudizio morale.
È questa centralità biblica dell’uomo che diventa fermento della civiltà europea e, tradotta in termini secolarizzati, costituisce il perno solido e sempre più ricco – almeno sul piano teorico – della coscienza etica dell’Occidente.
I principi di giustizia, libertà, pace, sono conquiste assolute della coscienza; al punto che anche i popoli del Terzo Mondo se ne appropriano in ordine alla propria promozione e alla lotta contro l’Occidente stesso, la cui prassi smentisce sovente i principi proclamati.
C’è dunque nella storia una testimonianza sempre più chiara che la coscienza che parla nell’uomo parla anche dell’uomo; che il suo dettato principale è il rispetto e la promozione dell’umano, e che tutto il resto – cose e principi, profano e sacro, costumi e istituzioni va finalizzato a questo valore, se non vuole trasformarsi in idolo.
Il metodo 
Le rapide indicazioni date sul contenuto dell’etica contengono anche un fondamentale suggerimento metodologico.
Non abbiamo dedotto la centralità etica dell’uomo da principi supremi, dal concetto puro di coscienza o di bene o di Dio; abbiamo invece interrogato la coscienza morale così come di fatto si è manifestata nella storia. Non perché i fatti valgano più dei principi e delle idee, e ad essi ci si debba servilmente od opportunisticamente piegare, ma perché principi e idee morali sorgono soltanto entro il crogiolo della fattualità storica.
Anche chi crede di cercarli e trovarli altrove, senza accorgersene paga il prezzo di appartenenza alla storia degli uomini così com’è di fatto.
Chi si appella all’universalità della «ragione» o della «natura umana», in realtà carica di validità universale la propria prospettiva razionale e la propria concezione della natura umana. E chi si rifà a un’autorità morale infallibile, in realtà si affida all’autorevolezza di alcune persone, quando addirittura non cerca una delega e uno scarico di responsabilità.
Ragione e autorità sono sì criteri di cui servirsi per orientare la propria coscienza, per cercar luce sul «che fare» lungo la strada accidentata dell’esistenza. Ma nessuna di esse è criterio autosufficiente; ognuna va calata e situata in un alveo più ampio: il dialogo tra le coscienze. Non esiste un metodo morale in assoluto; esiste il luogo della ricerca morale, che è l’incontro tra le coscienze, il loro confronto: dal dibattito alla sintonia, dalla divaricazione alla convergenza.
Il soggetto dell’esperienza morale è l’individuo, ma in quanto inserito nella comunità sociale; e questo rapporto con la comunità, che parte come dipendenza, con un movimento unidirezionale, è chiamato a svilupparsi come dialogo, in un movimento di creativa interazione. Allora il soggetto plenario dell’esperienza morale è la comunità dialogante delle coscienze, dove ognuna ascolta e parla, è discepola e maestra a un tempo. Come ebbi già a scrivere, la verità etica «è affidata al soggetto collettivo della comunità umana; depositario di questa verità è l’intera umanità in quanto soggetto etico, in quanto custode dell’esperienza spirituale, della memoria storica di ciò che il passato ha vissuto di lotta tra bene e male, tra oppressione e liberazione».
La trascendenza della coscienza morale non è sinonimo di disincarnazione ma di lotta per non lasciarsi ridurre alle sue false incarnazioni; non è una stella che brilla in un cielo immobile per indicare, da quella infinita distanza, la strada da seguire, ma è la strada stessa che si illumina passo dopo passo perché inabitata da un seme di luce che le è stato deposto dentro.
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l’insegnamento di Armido Rizzi

la teologia di Armido Rizzi

una tradizione da pensare “in prima persona”

 

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Che cosa ci ha insegnato, Armido, con la sua presenza così forte e così viva nella cultura cattolica degli ultimi 50 anni? Ora, poiché da ieri pomeriggio la sua parola ci ha lasciato, dobbiamo chiedercelo con urgenza rinnovata e pressante. Molti di noi hanno imparato da lui una dirittura intellettuale e una freschezza di pensiero che sempre sorprendeva. Proviamo a rievocarla brevemente.

Anzitutto Armido Rizzi non era soltanto una delle voci della nascente teologia italiana – che si sviluppava intorno al e dal Concilio Vaticano II – ma era prima di tutto la sua voce. Chi non ha mai ascoltato Armido parlare non lo ritrova pienamente nei suoi libri. I quali mancano, appunto come tutti i libri, della sua voce. Quella voce, in apparenza così esile e quasi fragile, sottile, era in realtà un vulcano di energia, di forza, di acume, di potenza. Quanto stupore nell’ascoltare la sua voce, che prendeva la parola sempre in modo sommesso e circostanziato, per poi infiammarsi, alzarsi, accelerare, vibrare.

A Fiesole, dove fissò la sua attività per molti anni, sono stato alcune volte per partecipare alle riunioni della rivista Filosofia e Teologia, che radunava la sua redazione anche a Pisa, o a Bologna, o a Firenze. Ma anche nei Convegni dell’ATI Armido era presente e attivo. Sempre con la sua vigile commistione di pensiero filosofico e teologico. E in entrambi i campi portava, con una freschezza inimitabile, una istanza che potrei definire così: sulla scorta della grande tradizione ebraica e cristiana, occorreva rinnovare la possibilità di una “obbedienza di fede” che fosse autentica, correlata in radice alla libertà dell’uomo. Per questo, e lo ricordo con una evidenza davvero impressionante, i suoi interventi tanto in campo filosofico quanto in ambito teologico spesso mettevano in crisi un modo di “pensare secondo autorità” che lui riteneva del tutto inadeguato. Assumere le questioni “in prima persona” era la sua strada. Non era sufficiente presentare le diverse posizioni in gioco: occorreva “pensare da sé”. E questo è stato un magistero salutare, per tanti filosofi e teologi che lo hanno potuto incrociare.

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Armido era del 1933. Con tanti altri di quegli anni 30 ha di fatto costruito lo spazio di una cultura teologica italiana. Molti come lui hanno concluso la loro vicenda storica, mentre altri restano attivi ed anche vivaci. Ciò che ha caratterizzato in suo contributo specifico, in questo disegno complessivo, è stato un “lavoro di base” in cui la vocazione inevitabilmente non accademica non aveva nulla di meno fine e di meno curato rispetto a quella: anzi, egli elaborava forme di riflessione originale, collegando più strettamente tradizione classica e cultura contemporanea. Per più di 50 anni Armido ha lavorato sulla “inculturazione” e sulla “ermeneutica” nei campi più diversi, in cristologia come in etica, in teologia fondamentale come in spiritualità. Era un uomo di corpo esile e di mente possente, con una finezza e una precisione davvero rare. Ma se lo trovavi a prendere il caffè, al bar, scoprivi che riempiva la tazzina di un numero quasi sterminato di cucchiaini di zucchero. Se invece la sera, durante un convegno teologico, capitava una partita del Torino, potevi vederlo fare chilometri pur di raggiungere un televisore e seguirla con agitata passione tifosa.

Due generazioni di teologi italiani hanno imparato da Armido il gesto rigoroso e forte della tradizione che deve camminare, deve andare avanti, deve ascoltare i segni dei tempi, deve includere e non escludere. E che può farlo solo se siamo in grado di farla nostra fino in fondo. Per questo una parte non piccola del suo lavoro è stato anche quello di accurato traduttore. Molti libri tedeschi o francesi sono entrati nella cultura italiano parlando l’italiano bello di Armido. Ricordo, per fare solo un esempio, il grande libro “Simbolo e sacramento” di L.- M. Chauvet.

Nel far memoria di questo suo magistero “all’antica”, che poteva spaziare con libertà dalla filosofia alla teologia, dalla competenza biblica a quella sistematica, riconosciamo che Armido ci ha dato le parole, lo stile, la forza e lo slancio per continuare ad alimentare la grande tradizione teologica. Gli siamo grati di tutto cuore. E ne conserviamo con meticolosa precisione la raffinata composizione di due istanze che sembrano incompatibili, e che Armido, in sintesi, formulava così: l’amore può solo essere comandato; ma solo l’amore può essere comandato. Dare parole esigenti e convincenti a questo paradosso dell’amore vincolato e liberante è stato per Armido il suo compito, il suo ministero, il suo cruccio e la sua passione. Se lo seguiremo per questa via impervia ma appassionante, non lo avremo perso, ma lo ritroveremo serio e vivace, nella luce delle sue parole e nella energia della sua voce.

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il commento al vangelo della domenica

un cuore di madre che niente può fermare


In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. […]
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventesima domenica del tempo ordinario (16 agosto 2020):
Un cuore di madre che niente può fermare

La donna delle briciole, la cananea pagana, sorprende e converte Gesù: lo fa passare da maestro d’Israele a pastore di tutto il dolore del mondo. La prima delle sue tre parole è una preghiera, la più evangelica, un grido: Kyrie eleyson, pietà, Signore, di me e della mia bambina. E Gesù non le rivolge neppure una parola. Ma la madre non si arrende, si accoda al gruppo, dice e ridice il suo dolore. Fino a che provoca una risposta, ma scostante e brusca: sono venuto per quelli di Israele, e non per voi. Fragile ma indomita, lei non molla; come ogni vera madre pensa alla sua bambina, e rilancia. Si butta a terra, sbarra il passo a Gesù, e dal cuore le erompe la seconda preghiera: aiutami! E Gesù, ruvido: Non si toglie il pane ai figli per gettarlo ai cani. Ed ecco l’intelligenza delle madri, la fantasia del loro amore: è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Fai una briciola di miracolo, per noi, i cagnolini del mondo! È la svolta del racconto. Dolcemente, la donna confessa di essere là a cercare solo briciole, solo avanzi, pane perduto. Potentemente, la madre crede con tutta se stessa, che per il Dio di Gesù non ci sono figli e no, uomini e cagnolini. Ma solo fame e creature da saziare; che il Dio di Gesù è più attento al dolore dei figli che al loro credo, che preferisce la loro felicità alla fedeltà. Gesù ne è come folgorato, si commuove: Donna, grande è la tua fede! Lei che non va al tempio, che non legge le Scritture, che prega gli idoli cananei, è proclamata donna di grande fede. Non conosce il catechismo, eppure mostra di conoscere Dio dal di dentro, lo sente pulsare nel profondo delle ferite del suo cuore di madre. Lei sa che «fa piaga nel cuore di Dio la somma del dolore del mondo» (G. Ungaretti). Il dolore è sacro, c’è dell’oro nelle lacrime, c’è tutta la compassione di Dio. Può sembrare una briciola, può sembrare poca cosa la tenerezza di Dio, ma le briciole di Dio sono grandi come Dio stesso. Grande è la tua fede!. E ancora oggi è così, c’è molta fede sulla terra, dentro e fuori le chiese, sotto il cielo del Libano come sotto il cielo di Nazaret, perché grande è il numero delle madri del mondo che non sanno il Credo ma sanno che Dio ha un cuore di madre, e che misteriosamente loro ne hanno catturato e custodito un frammento. Sanno che per Lui la persona viene prima della sua fede. Avvenga per te come desideri. Gesù ribalta la domanda della madre, gliela restituisce: sei tu e il tuo desiderio che comandate. La tua fede e il tuo desiderio di madre, una scheggia di Dio, infuocata (cfr. Cantico 8,6), sono davvero un grembo che partorisce miracoli.
(Letture: Isaia 56,1.6-7; Salmo 66; Romani 11,13-15.29-32; Matteo 15,21-28)

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il commento al vangelo della festa dell’Assunta

Il Transito di Maria da questo mondo al Padre
15 agosto 2020
Assunzione della Beata Vergine Maria

Lc 1,39-56

il commento al vangelo della festa dell’Assunta (15 agosto 2020):
di Enzo Bianchi fondatore di Bose

ENZO BIANCHI

Al cuore dell’estate, nel giorno di Ferragosto, la chiesa ci chiama a celebrare la festa forse più popolare tra quelle in onore della Vergine Maria: l’Assunzione, il Transito di Maria da questo mondo al Padre.

Fin dai primi secoli i cristiani hanno percepito che in Maria – colei che aveva generato il Risorto e, a nome della creazione intera, aveva accolto il Dio fatto uomo – era prefigurata la meta che attende ogni vivente: l’assunzione dell’umano, di tutto l’umano, in Dio. Maria è icona e personalità corporativa del popolo dei credenti perché è la figlia di Sion (cf. Sof 3,14.17), l’Israele santo da cui è nato il Messia, ed è anche la chiesa, la comunità cristiana che genera figli al Signore sotto la croce (cf. Gv 19,25-27). Per questo l’autore dell’Apocalisse l’ha contemplata come donna vestita di sole, coronata dalle dodici stelle delle tribù di Israele, partoriente il Messia (cf. Ap 12,1-2), ma anche come madre della discendenza di Gesù, la chiesa (cf. Ap 12,17). Così, la prima creatura a entrare con tutta se stessa nello spazio e nel tempo del Creatore non poteva che essere colei che aveva acconsentito all’irrompere del divino nell’umano: spazio vitale donato dalla terra al cielo, la Vergine-Madre, definita «beata» già da Elisabetta nel loro umanissimo incontro, diviene germe e primizia di una creazione trasfigurata.

Maria è creduta dalla chiesa essere ormai al di là della morte e del giudizio, in quella dimensione altra dell’esistenza che sappiamo chiamare solo «cielo». E in questo termine non c’è contrapposizione ma, piuttosto, abbraccio con la terra: chi può infatti dire, guardando dentro e intorno a sé oppure scrutando l’orizzonte, dove finisce la terra e dove inizia il cielo? È terra solo la zolla dissodata o non lo è anche la crosta che indurisce il nostro cuore? Ed è cielo solo la volta stellata e non il soffio vitale che ci abita? Così Maria, assunta in Dio, resta infinitamente umana, Madre per sempre, rivolta verso la terra, attenta alle sofferenze degli uomini e delle donne di tutti i tempi e di tutti i luoghi, presente al loro peregrinare sovente incerto. Sì, per l’Oriente come per l’Occidente cristiano la Dormizione-Assunzione di Maria è un segno delle «realtà ultime», di ciò che accadrà alla fine dei tempi, un segno della pienezza cui l’umanità anela: in lei intuiamo la glorificazione che attende il cosmo intero, quando finalmente «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28) e in tutto. Maria è la porzione di umanità già redenta, figura di quella «terra promessa» cui siamo chiamati, lembo di terra trapiantato in cielo: ecco perché un inno della chiesa ortodossa serba la canta quale «terra del cielo», terra da cui noi come lei siamo tratti (cf. Gen 2,7), ma terra redenta, trasfigurata grazie alle energie dello Spirito santo, terra ormai in Dio per sempre.

Questa «speranza per tutti» è quella che la liturgia ha sempre cercato di cantare in questa festa, facendo uso del linguaggio e delle immagini di cui disponeva: forse oggi alcune espressioni liturgiche e alcune rappresentazioni iconografiche ci possono apparire inadeguate, ma l’anelito che volevano esprimere rimane lo stesso anche ai nostri giorni e anche nel frastuono del Ferragosto. Noi amiamo questa nostra terra, eppure essa ci sta stretta; ci preoccupiamo del nostro corpo, eppure sentiamo di essere più grandi della nostra fisicità; lottiamo nel tempo, eppure percepiamo che la nostra verità supera il tempo; godiamo dell’amicizia e dell’amore, eppure ne avvertiamo i limiti e ne temiamo la caducità. Forse è proprio di questa possibilità di «pensare in grande» che è pegno per noi un’umile donna di Nazareth, divenuta, per dono di Dio, Madre del Signore, terra del cielo.

Sì, il corpo di Maria trasportato verso la Luce fonte e meta di ogni luce non riguarda più la devozione di alcuni fedeli, ma la sorte ultima del creato intero assunto nella vita di Dio: è la carne stessa della terra che, trasfigurata, diviene eucaristia, ringraziamento – quello che la Vergine ha saputo elevare a Dio nel Magnificat –, diviene abbraccio con il cielo.

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il Padre Nostro di Pedro Casaldàliga

 

 

Fratelli nostri che siete nel Primo Mondo:
affinché il suo nome non sia bestemmiato,
affinché venga a noi il suo Regno;
e si faccia la sua Volontà
non solo in cielo ma anche in terra,
rispettate il nostro pane quotidiano
rinunciando voi al vostro sfruttamento quotidiano.
Non intestarditevi a ricevere da noi
il debito che non abbiamo contratto
e che continuano a pagare i nostri bambini, i nostri affamati, i nostri morti.
Non cadete più nella tentazione del lucro, del razzismo, della guerra;
noi faremo in modo di non cadere
nella tentazione dell’ozio e della sottomissione.
E liberiamoci gli uni gli altri da ogni male.
Solo così potremo recitare insieme la preghiera di famiglia
che il fratello Gesù ci ha insegnato:
Padre nostro – Madre nostra,
che sei in cielo e che sei in terra.

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