l’Europa si deve vergognare di fronte ai migranti

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il disonore dell’Europa

Dan Kitwood via Getty Images

Porti chiusi, muri alzati, frontiere blindate, quote disattese, risorse finanziarie lesinate. Europa e onore sul fronte migranti è un ossimoro. Tragico perché riguarda la vita e la morte di centinaia di migliaia di profughi. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker rende omaggio per l’impegno praticato nel salvataggio e nell’accoglienza dei migranti. Un atto dovuto, meritato. Ma l’Italia non ha potuto salvare l’onore dell’Europa, perché esso non esiste.  

L’Europa degli Orban, del “fronte dell’Est” che in ogni vertice ha sempre remato contro ogni proposta che avesse anche una lontana parvenza con principi quali solidarietà, condivisione, inclusione. Il vento dell’Est, e del Nord, ha spazzato via ogni politica europea che ponesse al proprio centro il superamento degli aspetti più anacronistici del Trattato di Dublino e ponesse all’ordine del giorno, come più volte richiesto dall’Italia, il tema del diritto d’asilo europeo.  

L’Europa non ha onore da salvare ma solo vergogna da manifestare se i suoi leader fossero capacità di una sana autocritica. Così non è. E ciò non riguarda solo gli ultranazionalisti alla Orban. Perché la mancanza di onore, e di solidarietà, si sono manifestati anche da chi sembrava voler incarnare un rinnovato europeismo.  

Un esempio: Emmanuel Macron. Al di là degli inni alla gioia e alle dichiarazioni di principio, nei fatti, che poi sono quelli che contano, il giovane inquilino dell’Eliseo, in caduta libera nei sondaggi, ha mantenuto un atteggiamento quanto meno ambiguo nei confronti dell’emergenza che ha investito l’Italia. Appena insediato all’Eliseo, il neopresidente aveva promesso che non avrebbe lasciato soli i vicini di casa. Nei fatti, non solo ha negato l’approdo nei suoi porti delle navi delle Ong ma come il suo predecessore Hollande esercita un rigido controllo sulla frontiera di Ventimiglia, rispedendo quotidianamente in Italia decine di stranieri che tentano di entrare in Francia di soppiatto.  

Parigi si attiene infatti a due accordi. Il primo è quello di Dublino sottoscritto nel 2003 anche dall’Italia, in base al quale le domande di asilo devono essere esaminate dal Paese su cui il migrante mette piede. Dunque dall’Italia; l’altra è il già citato accordo sui ricollocamenti, che riguarda appunto chi ha diritto alla protezione internazionale e non tutti i migranti indistintamente. Al tirar delle somme il criterio è: sì a più fondi all’Italia ma no all’accoglienza di migranti sul suolo francese.

Lo spettro che Parigi vuole tenere alla larga è quello di una nuova Calais, la sterminata baraccopoli dove vivevano i migranti decisi a passare in Gran Bretagna. Un passo indietro nel tempo. Venticinque giugno 2015. È stato uno scontro “violento”, secondo chi vi ha assistito. Durante il dibattito al Consiglio europeo sulla nuova politica Ue dell’immigrazione, (l’allora) presidente del Consiglio Matteo Renzi avrebbe duramente attaccato i colleghi che si sono espressi contro l’obbligatorietà della ripartizione dei richiedenti asilo da Italia e Grecia.

“Se non siete d’accordo sui 40 mila non siete degni di chiamarvi Europa”, avrebbe detto il premier, secondo quanto si apprende da una fonte, per poi aggiungere “se questa è la vostra idea di Europa, tenetevela. O c’è solidarietà, o non fateci perdere tempo”.

“Non accettiamo nessuna concessione: o fate un gesto anche simbolico oppure non preoccupatevi: l’Italia può permettersi di fare da sola. È l’Europa che non può permetterselo”, è l’atto di accusa di Renzi ai leader europei.

Il premier ha poi continuato: “Mi emoziono davanti all’Europa. Sono figlio di questa storia. Mi emoziono pensando che domani sarà qui Delors. Ma non accetterò mai che questa discussione sia così meschina e egoista. Abbiamo fondato l’Europa perché avevano ideali. Ho pianto per il muro di Berlino, ho pianto per Srebrenica. Credo in un ideale. Non accetterò mai un compromesso al ribasso”, ha affermato il premier stando a quanto riferisce chi era presente all’incontro e che parla anche di un durissimo scontro con la presidente lituana Grybausakaite.

Di tempo se n’è perso d’allora, mentre a crescere è stato il bilancio delle vittime affogate nel Mediterraneo o morte nel deserto o sulla rotta balcanica. Due anni dopo, e tanti inutili vertici Ue, il ricorso contro le “quote” sui richiedenti asilo da ospitare è stato bocciato dalla Corte di Giustizia europea. Un sistema che consisteva nel trasferimento di circa 160mila richiedenti asilo da Italia e Grecia in Europa, in base a una quota rispetto alla popolazione e alla situazione economica di ogni paese. Tra coloro che avevano partecipato al ricorso c’erano Ungheria, Slovacchia e Polonia che hanno accolto pochissimi richiedenti e ora rischiano di essere multati. Non ha funzionato granché dunque il programma di relocation, dato che nell’arco di due anni sono stati trasferiti solo il 16,6% della quota prevista.

L’Italia avrà pure “salvato l’onore dell’Europa”, ma di certo l’Europa ha sbattuto i porti in faccia all’Italia. Tallinn, 6 luglio 2017, vertice dei ministri dell’Interno dei Paesi Ue. Proprio il Belgio dice no all’accoglienza dei migranti con una dichiarazione diTheo Francken, ministro per l’Asilo e politica migratoria belga: “Non credo che apriremo i nostri porti”. Lo stesso vale per l’Olanda che si defila dichiarando che aprire i porti non risolve il problema.

Siamo alla fiera delle ipocrisie. Per la verità storica, un atto unitario l’Europa l’ha compiuto. Ma di onorevole in esso non c’è proprio nulla. È l’accordo con la Turchia del presidente-autocrate Recep Tayyp Erdogan.

“L’accordo fra Ue e Turchia ha portato migliaia di rifugiati e migranti a vivere in condizioni squallide e pericolose, e non deve essere riprodotto con altri Paesi”. È il giudizio con cui Amnesty International condanna il patto fra Ankara e Bruxelles che il 16 marzo 2017 ha compiuto un anno.

Uno semplice scambio: per garantire i controlli sulle coste dell’Egeo da parte della Guardia Costiera turca, il governo di Erdogan avrebbe ricevuto 3 miliardi di euro per accogliere i migranti prima che potessero arrivare in Europa e altri 3 miliardi di euro se i primi non fossero stati sufficienti.

E così è stato:

“Nel 2015 circa 800.000 rifugiati sono arrivati sulle isole greche, mentre nei dieci mesi trascorsi dall’accordo il numero è sceso a 27.000”, dice l’autrice del rapporto di Amnesty Irem Arf . “Il problema è che mentre prima del patto i migranti venivano immediatamente trasferiti dalle isole greche alla terraferma, ora rimangono bloccati come in un limbo in attesa di un ritorno in Turchia. Le isole Lesbos, Samos e Kos sono particolarmente sovraffollate”.

Dalla Grecia sono state spostati in altri Paesi europei solo 9.610 profughi dei 160mila previsti dal programma di ricollocamento dell’Agenda europea sull’immigrazione del maggio del 2015. Da Amnesty a Medici Senza Frontiere.

Il rapporto di MSF:

“A un anno dall’accordo UE-Turchia: sfidare i ‘fatti alternativi ‘dell’UE sfata, sulla base della realtà dal campo, tre grandi “fatti alternativi” (o false verità) che l’UE attribuisce all’accordo, ovvero che offre ai migranti un’alternativa per non rischiare la vita, che le condizioni delle isole greche sono abbastanza accettabili per sostenere l’attesa della procedura di asilo, che l’accordo rispetta i principi fondamentali dei diritti umani. In realtà le condizioni e le conseguenze dell’accordo, che ricompensa la Turchia perché “blocchi l’afflusso” di migranti e rifugiati e accetti le persone respinte dalle coste greche, sono ben diverse, come le nostre équipe testimoniano ogni giorno in Grecia e sulla rotta balcanica. Dopo un anno dalla sua entrata in vigore, uomini, donne e bambini sono bloccati in zone non sicure al di fuori dell’Europa da cui non possono scappare, costretti a rotte sempre più pericolose per raggiungere il continente o intrappolati in hotpsot sovraffollati sulle isole greche, dove vivono in condizioni inadeguate. “L’accordo sta avendo un impatto diretto sulla salute dei nostri pazienti, molti di loro sono sempre più vulnerabili”, afferma Jayne Grimes, psicologa di MSF a Samo. “Queste persone sono scappate da situazioni di violenza estrema, tortura e guerra e sono sopravvissute a viaggi molto pericolosi. Hanno subito violenze e sofferenze alle frontiere dell’Europa. E il loro stato psicologico è aggravato dalle precarie condizioni di vita e dalla mancanza di informazioni sul loro status giuridico. Stanno perdendo qualunque speranza di trovare un futuro più sicuro, migliore di quello da cui sono scappati”.

E il brutto è che l’Europa ha intenzione, dichiarata, di moltiplicare questo “modello”, in Libia ad esempio. Davvero di male in peggio. “Chiedere l’eliminazione della detenzione dei bambini” migranti in Libia, è un punto su cui l’Ue dovrebbe battere nei suoi negoziati con le autorità del Paese. “Un primo passo, a cui farne poi seguire altri”. La richiesta proviene dal direttore regionale per l’Europa dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) Eugenio Ambrosi al lancio del rapporto “Viaggi strazianti“, condotto in collaborazione con l’Unicef, che contiene le testimonianze di 22mila migranti, di cui 11mila minori.

L’Unicef critica le misure per contenere i flussi dei migranti verso l’Europa, fermandoli in Libia. Sono “inaccettabili” secondo Sandie Blanchet, direttrice dell’ufficio Unicef di Bruxelles, che, rispondendo alla conferenza stampa per il lancio del rapporto, aggiunge: “è chiaro che non si tratta di un luogo sicuro per i bambini e le loro famiglie”.

Juncker si è guardato bene, infine, da dare una risposta, anche un accenno, alla lettera aperta inviata il 6 settembre da MSF leader degli Stati membri e alle istituzioni dell’Unione Europea per denunciare leatroci sofferenze che le loro politiche sulla migrazione stanno alimentando in Libia.

“La detenzione di migranti e rifugiati in Libia è vergognosa. Dobbiamo avere il coraggio di chiamarla per quello che realmente è: un’attività fiorente che lucra su rapimenti, torture ed estorsioni” sottolinea un passaggio della lettera aperta di MSF, firmata dalla dott.ssa Joanne Liu, presidente internazionale di MSF, e da Loris De Filippi, presidente di MSF in Italia “Le persone sono trattate come merci da sfruttare. Ammassate in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costrette a vivere una sopra l’altra. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. La loro disperazione è sconvolgente”. E ancora: “La Libia è solo l’esempio più recente ed estremo di politiche migratorie europee che da diversi anni hanno come principale obiettivo quello di allontanare le persone dalla nostra vista. Tutto questo toglie qualunque alternativa alle persone che cercano modi sicuri e legali di raggiungere l’Europa e le spinge sempre più in quelle reti di trafficanti che i leader europei dichiarano insistentemente di voler smantellare. Vie legali e sicure perché le persone possano raggiungere Paesi sicuri sono l’unico modo per proteggere i diritti delle persone in fuga, assicurare un controllo legale delle frontiere europee e rimuovere quei perversi incentivi che consentono ai trafficanti di prosperare”.

Per MSF:

“Le persone intrappolate in queste ben note condizioni da incubo hanno disperato bisogno di una via di uscita. Devono poter accedere a protezione, asilo e quando possibile a migliori procedure di rimpatrio volontario. Hanno bisogno di un’uscita di emergenza verso la sicurezza, attraverso canali sicuri e legali”.

Canali umanitari, diritto d’asilo europeo, una vera politica di cooperazione con i Paesi africani di origine e di transito dei migranti. Una politica fondata sul rispetto dei diritti umani e della dignità della persona… Questo significherebbe per l’Europa “salvare l’onore”. Ma più che una speranza, è una illusione se l’onore è affidato a quanti questo “onore” hanno calpestato.

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Rita e Carla – una vita intera condivisa e vissuta tra i sinti ei rom

Torino
La comunità delle Suore da quarant’anni vive tra i sinti e rom

una presenza ecclesiale profetica

una testimonianza di Pio Caon:

Sono passati quasi 40 anni da quando la Comunità delle Suore Luigine di Alba ha deciso di vivere direttamente tra i Sinti e Rom nelle periferie torinesi.
La loro prima dimora è stata una vecchia carovana.
Era la fine degli anni 80. Poi a seguire altre sistemazioni in roulottes e baracche. Infine, in questi ultimi anni, una modesta casetta in muratura, nell’accampamento di Via Germagnano.
Una presenza di Chiesa profetica : accoglienza e rispetto del diverso.
Ogni giorno le suore hanno sperimentato, nell’incontro con i Sinti e Rom, il desiderio di rappresentare il Gesù che accoglie, che non allontana, che ascolta, perdona e non condanna.
Una presenza che non separa i buoni dai cattivi, i giusti da chi sbaglia.
Quarant’anni vissuti all’insegna dell’ accoglienza e della concreta attenzione con chi vive la sofferenza dell’emarginazione, con chi si trova in carcere, con chi è legato alle dipendenze, con chi vive situazioni di dolore e fatica.
Condivisione della cultura, lingua e tradizione del popolo sinto e rom
Vivendo tra i Sinti e Rom, le suore hanno fatto propria e rispettato la cultura nomade assumendone in pieno sfaccettature, valori e contraddizioni.
” Comunità – ponte ” tra due culture e mentalità.
La loro presenza è stata quella che il ministero missionario richiede: partecipare pienamente alla vita di un popolo vivendone le medesime condizioni sociali e culturali per poi rendere sensibili le comunità civili e cristiane a partire dal loro incontro.
Le suore infatti, oltre a vivere la vita nomade, hanno partecipato attivamente alla vita ecclesiale torinese. Le loro dimore hanno accolto indistintamente cattolici, ortodossi, mussulmani, atei.
Le porte delle loro baracche sono state aperte a tutti coloro che si avvicinavano, dal nomade al sedentario, ricco o povero, dal Sindaco di una grande città al cittadino comune, dal Vescovo all’ ultimo cristiano. Chiunque entrava nella loro carovana ne usciva beneficiato. Ciascuna persona ha sperimentato l’accoglienza, il dialogo, il confronto e la fiducia.
Chi si è seduto alla loro tavola non è uscito senza un caffè, un thè, un pasto o semplicemente un assaggio del loro cibo o un bicchiere d’acqua. Ma soprattutto attingendo dalla loro esperienza e arricchendosi della loro testimonianza.
Quarant ‘ anni all’insegna della sobrietà
Fin dall’inizio suor Carla e suor Rita hanno avvertito l’esigenza di vivere tra Sinti e Rom con uno stile di vita essenziale, esigente e sobrio.
Hanno sperimentato la povertà come scelta di libertà che riduce il consumo, le cose e i beni.
Il loro stile di vita silenzioso condannava l’ostentazione della ricchezza, sia dei Rom sia dei gagè, quando questa si esprimeva in beni di lusso, privilegi o scelte di potere.
Le diversità possono vivere insieme
La presenza di queste suore nel campo, in questi quarant’anni, lascia a chi le ha conosciute e a tutta la comunità civile e religiosa un grande messaggio: l’incontro con il diverso è possibile.
La loro vita è un segno concreto di speranza. Eppure non sono mancati momenti di tensione che hanno messo in crisi la loro scelta quando tra i nomadi sono esplosi momenti di rabbia e frustrazione scatenati da chi ha perso ogni prospettiva nel futuro e si abbandona alla violenza.
Nel campo non sempre le istituzioni sono presenti e la giustizia non è assicurata.
Ma ogni volta le suore hanno saputo ricominciare, come l’erba che si piega al vento, anche se a volte il prezzo da pagare è stato alto.
Le vostre idee camminano
Dalle righe di questo giornale vorremmo dire grazie alla Comunità delle Suore perché le loro idee camminano e vanno oltre l’esperienza, che la loro presenza ha fatto riflettere i Sinti e Rom perchè si sono sentiti amati, che la loro scelta ha incoraggiato tanti sedentari a mettersi in gioco e molti cristiani a verificare la via del confronto e dell’impegno, senza lasciarsi prendere dallo scoraggiamento.
Suor Rita e Suor Carla ci hanno insegnato che realizzare un “sogno” è ancora possibile
Pio Caon
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