il commento al vangelo della domenica

E’ IL PIU’ PICCOLO DI TUTTI I SEMI, MA DIVENTA PIU’ GRANDE DI TUTTE LE PIANTE DELL’ORTO

commento al Vangelo della undicesima domenica del tempo ordinario (14 giugno 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Mc 4,26-34

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

A conclusione del discorso della parabole, contenute nel capitolo 4 del vangelo di Marco, Gesù presenta due parabole che annunciano la potenzialità, la potenza e la forza che c’è nel suo messaggio. Sentiamo, capitolo 4 di Marco, versetto 26.
Dice Il Regno di Dio…, lo sappiamo il Regno di Dio è la società alternativa venuta a proporre da Gesù, una società in cui al posto dell’accumulare per sé ci sia la gioia di condividere, e dove anziché comandare ci sia il servire.
E’ come un uomo che getta il seme sulla terra. Già in questo capitolo Gesù ha parlato del seminatore che getta il seme. Il seme è la sua parola, il suo messaggio. La predilezione di Gesù per immagini che riflettono la vita agrícola indica che nel suo messaggio, nella sua buona notizia, c’è una forza che scatena il processo vitale per la crescita e la maturazione dell’individuo.  
Dice Gesù: Dorma o vegli, di notte e di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.  Poiché la terra produce spontaneamente (letteralmente automaticamente), prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Questa crescita si rifà a quando Gesù aveva parlato della produzione del trenta, del sessanta e del cento, e all’invito che aveva fatto ai suoi discepoli: con la misura con la quale misurate, cioè quello che date, sarete misurati.
Quello che Gesù ci assicura e che vuole dire è che l’assimilazione del messaggio è un processo intimo e personale nel quale nessuno può interferire. Quando il frutto è pronto, qui l’evangelista adopera il verbo “consegnare”, che è lo stesso che adopererà per il tradimento, la consegna di Gesù. Cosa significa “quando il frutto è pronto per consegnarsi”?
Consegnarsi significa collaborare all’azione vivificante di Gesù fino alla fine, anche a rischio della propria vita. Si mette mano alla falce perché è venuta la mietitura”.
Questa è l’immagine di grande gioia. Bisogna rifarsi al mondo agricolo quando la festa della mietitura è la festa più importante, basta pensare come viene cantata e osannata nei Salmi. Il salmo 126 dove si legge Mieterà con gioia.
Quindi non è un’immagine negativa, un’immagine di giudizio, ma è l’immagine della piena gioia, la persona realizza se stessa ed entra nella piena felicità quando, come Gesù, riesce a donare se stessa.
Quello che Gesù ci sta assicurando è che l’uomo e il messaggio di Gesù sono fatti l’uno per l’altro. Se non si incontrano rimangono sterili, ma quando si incontrano l’homo potenzia e libera tutte quelle potenzialità, quelle forze, quelle energie d’amore che l’incontro con la parola di Gesù, l’incontro con la buona notizia, riescono a liberare.
E continua Gesù: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio e con quale parabola possiamo descriverlo?” E qui Gesù si rifà a un’immagine tradizionale contenuta nel capitolo 17 del profeta Ezechiele dove il regno di Dio veniva immaginato come un cedro, il re degli alberi, sopra un monte altissimo, qualcosa che richiama l’attenzione per la sua magnificenza. Nulla di tutto questo. Dice Gesù: “Esso è come un granellino di senape”, il granellino di senape, lo sappiamo, è minuscolo, non ha neanche un millimetro di diametro, “Quando viene seminato per terra è il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra, ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti… “ e qui Gesù crea attesa.
Uno s’aspetterà, conoscendo la profezia di Ezechiele, che ne nasca il più grande di tutti gli alberi, invece Gesù dice con profonda ironia: “Diviene il più grande di tutti gli ortaggi”. L’albero della senape, l’arbusto della senape cresce nell’orto di casa. E’ un arbusto insignificante, non richiama l’attenzione per la sua magnificenza. Raggiunge un metro e mezzo nei punti più adatti, lungo il lago di Galilea a volte raggiunge anche i tre metri, ma è una pianta comune, anzi è un infestante e non richiama l’attenzione.
Cosa ci vuole dire Gesù? Che il regno, anche nel momento del suo massimo sviluppo, non sarà appariscente, trionfalistico, spettacolare, ma una realtà modesta. Quindi con queste due  
parole Gesù assicura a colui che accoglie il suo messaggio che questo porterà dei frutti, perché ha una potenza grande, soltanto che richiede pazienza, perché il processo di crescita è lento.
L’altro messaggio è che il regno di Dio c’è già, non bisogna aspettarsi chissà quali spettacolari manifestazioni di questo regno, sono piccole realtà modeste, ma vive e vivificanti. Quindi il regno di Dio esisterà dove ci sono le comunità che hanno accolto il suo messaggio.
A conclusione, Con molte parabole di questo genera annunziava loro la Parola, secondo quello che potevano intendere. Perché secondo quello che potevano intendere? Non è una questione di orecchie, di udito, ma una questione di amore, una questione di cuore.
Nella misura in cui si è capaci come Gesù del dono della propria vita, si comprende il suo messaggio. E poi conclude l’evangelista: Senza parabole non parlava loro ma, in privato … letteralmente “in disparte”. E’ la prima delle sette volte in cui l’evangelista adopererà questa chiave di lettura. Tutte le volte in cui usa l’espressione “in disparte”, significa incomprensione se non addirittura ostilità da parte dei suoi discepoli.
Ancora ci sarà tanta strada da fare prima che comprendano la realtà del regno di Dio.

 

 

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dedicato ai migranti

Stranieri e viaggiatori sulla terra

foto premio migranti

di Christine Pedotti e Bernard

“temoignagechretien.fr” del 9 giugno 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)

I “migranti”: questa parola è entrata nella nostra vita quotidiana. Non passa giorno che non si venga a sapere che diverse migliaia di loro sono stati salvati nel Mediterraneo (4000 in un fine settimana) o che un accampamento è stato smantellato a Parigi (400 persone precarie nel nord di Parigi) o ancora che l’Unione Europea vuole imporre delle quote che il governo francese rifiuta. Fanno parte del paesaggio dell’informazione, come il meteo e i risultati delle partite di calcio. Sono diventati parole, e le immagini si assomigliano tutte, uomini emaciati dalla pelle scura, donne avvolte in tessuti colorati…

E le parole parlano: sono “migranti”, participio presente, diversi dagli emigrati, participio passato. I secondi sono arrivati e bisogna “viverci insieme”, mentre i primi stanno ancora errando. “Stranieri e viaggiatori sulla terra”. Si fa fatica a sapere da dove vengono e non sanno dove stanno andando… vanno altrove, non hanno un luogo. Tutte le parole sono pesanti del loro peso di disgrazia e di miseria. Non hanno un luogo, non hanno niente. Non una pietra dove posare il capo, uno spiazzo dove piantare una tenda, né borse né valigie… Sì, la parola è entrata nelle nostre vite, ma non gli uomini e le donne che designa. Dopo i grandi drammi del Mediterraneo, passata l’emozione, sono ridiventati intrusi, indesiderabili.

Sì, la loro situazione è ingiusta e miserabile, “ma” non li si vuole. Il “ma” è pesante con tutto il suo peso di egoismo. “Non si può accogliere tutta la miseria del mondo”, è l’espressione di Michel Rocard, incessantemente ripetuta. Forse, tutta la miseria no, ma almeno la nostra parte, quella che dobbiamo al mondo, all’umanità, alla dignità, alla fraternità, e oso dire, all’onore di essere francesi.

Perché è una questione di giustizia, di fraternità, di onore…

Questi uomini e queste donne hanno quanto noi il diritto di vivere, di abitare questa terra. Non sono, sulla terra, più stranieri di noi. Eppure, secondo i sondaggi, solo il 7% delle persone interrogate pensa che si debba accoglierli. Il 7%! Possiamo dire che è ben poco, ma è già molto. Noi ne facciamo parte, con tutte le nostre forze, e sappiamo che ne fate parte anche voi, amici lettori e amiche lettrici. Un 7% di persone che pensano che questi uomini e queste donne meritano un “e”, non un “ma”. Sono esseri umani e vogliamo accoglierli. Per questo, bisognerà regolamentare, controllare, a volte rifiutare, siamo realisti. Ma lo faremo per accogliere e non per respingere. La nascita di “Témoignage chrétien” è stata segnata da un grande testo: “Francia, attenta a non perdere la tua anima”. Sulla questione dei migranti, ancora una volta, è la nostra anima ad essere in pericolo.

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Verità e legalità

di Toni Mira (Avvenire)

Il nuovo polverone sollevato da alcuni governatori di Regioni del Nord a guida o trazione leghista, giunto all’intollerabile arma della pressione ricattatoria sui Comuni che intendono rispettare le regole – quelle dello Stato italiano e quelle dell’etica dell’accoglienza – richiede soprattutto chiarezza su questi due punti. Verità sui numeri, sugli accordi presi, perfino verità (e onestà) sulle parole, sul “di che cosa si parla”. Verità su che cosa significa, di fronte ai profughi, agire «nel nome della legge». Partiamo proprio da qui. Partiamo da chi sta arrivando sulle nostre coste. I cosiddetti “invasori”. Si tratta di richiedenti asilo, di persone che fuggono da guerre, violenze, persecuzioni. Sono loro che ora chiedono di essere accolti. Ce lo chiedono i loro occhi, ce lo impongono le norme europee e italiane, in primo luogo la Costituzione, all’articolo 10: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge».
 Un diritto, dunque, che tutti devono rispettare, a partire da chi ha più responsabilità. Che, oltretutto, non può confondere le acque. Non è corretto, infatti, dire che una Regione non può accogliere questi richiedenti asilo perché già ospita tanti immigrati. Perché in questo caso si tratta di migranti per altri motivi, in gran parte economici. Comodo e cinico, troppo comodo e troppo cinico, utilizzare migranti contro profughi. Ai numeri precisi forniti dal Viminale, che denunciano la grande disparità di accoglienza dei richiedenti asilo tra Sud e Nord, non si può replicare con numeri che riguardano un altro fenomeno. Verità, dunque, rispetto dei diritti umani e del diritto italiano. E anche degli accordi presi. In primo luogo quello firmato da Governo e Regioni il 10 luglio 2014, che prevede la ripartizione dei richiedenti asilo in proporzione alla popolazione italiana residente e ai finanziamenti del Fondo sociale europeo. Un accordo, non una decisione unilaterale del Governo. Ma che ora – questa volta, sì, in modo unilaterale – tre Regioni del Nord vorrebbero violare. Anzi lo stanno già violando visto che proprio Lombardia e Veneto sono lontane dai numeri previsti. E, lo ripetiamo, non si possono giustificare tirando in ballo le “presenze” di immigrati che lavorano come operai in aziende basate nel loro territorio. Per di più, quando un anno fa misero la firma su quell’intesa, conoscevano già quei numeri.
 
  Avrebbero potuto non firmare. E sarebbe stato negativo. Ma lo è ancor più, oggi, premere sui Comuni perché non rispettino patti e regole. La legalità non è solo quella che fa più comodo. È giusto chiedere a chi giunge sulla nostre coste di rispettare le nostre regole, ed è giusto colpire, anche duramente, chi non le rispetta. Ma chi non perde occasione per riempirsi la bocca con la parola “legalità” a ogni violazione commessa da un migrante, non è poi credibile se è, lui, il primo a violare le leggi. E cercare di indurre i Comuni alla non-accoglienza è una palese illegalità, quasi un’istigazione a delinquere. Oltretutto sotto ricatto economico. Vero e assurdo ricatto, visto che le Regioni taglierebbero fondi per i residenti-contribuenti e non certo per i centri di accoglienza di profughi e richiedenti asilo che, come è noto, sono finanziati dallo Stato e, in piccolissima parte, dai Comuni stessi.
 
  C’è, insomma, una legalità della quale pretendere il rispetto da chi arriva nel nostro Paese, da chi chiede accoglienza, e che riguarda tanto quanto chi questa accoglienza la deve civilmente dare. E non è un buon motivo per smettere di fare la cosa giusta il fatto che qualcuno sull’accoglienza ha fatto sporchi affari, come sta mettendo in luce l’inchiesta “mafia Capitale”. Continuare a raccontare agli italiani, in modo interessato, che l’accoglienza dei profughi è solo un business è una grande menzogna. C’è tanta Italia che, invece, sta aprendo braccia e cuore con efficienza e rispetto delle regole. Associazioni, mondo del volontariato, sana cooperazione, imprenditori generosi, tanti Comuni (al Sud come al Nord), uomini delle istituzioni (a partire dalle Prefetture così poco amate dagli esponenti leghisti). Cercare di impedire, con le minacce e la propaganda, che le braccia e il cuore dell’accoglienza si aprano non significa tenere gli occhi aperti, vuol dire fare un “regalo” ad affaristi. È favorire la cultura dell’illegalità. Che è sempre «cultura dello scarto» di esseri umani.
migranti

il muro del nord

di Guido Viale

in “il manifesto” del 9 giugno 2015

Il capitolo «secessione», che le Regioni leghiste (la “Padania” senza più il Piemonte, ma con in più la Liguria) non erano riuscite ad aprire e legittimare in campo fiscale, viene oggi riproposto sulla questione delle «quote» di profughi e migranti da trasferire al Nord dai porti di sbarco; nonostante che a guidare la rivolta sia proprio Maroni, l’ex-ministro che quelle quote le aveva introdotte. Ma questa volta la fronda leghista avrà un impatto maggiore, perché è in perfetta sintonia con le posizioni che i paesi dell’Unione Europea stanno adottando nell’affrontare lo stesso problema: «Teneteveli».

Cioè: anche se, contro gli intenti originari, la missione Triton è costretta a salvarli, i profughi restino là dove sbarcano. E con loro se la vedano i paesi e le regioni a cui li lasciano in carico. Il default greco non è dunque più l’unica minaccia per la coesione dell’Unione Europea.

Una governance che si comporta così verso i suoi membri non è più la legittima guida dell’Ue, come non sarebbe più uno Stato unitario quello che accettasse una divisione simile tra le sue Regioni.

Le destre italiane ed europee lo sanno, anche se ancora possono — e torna loro comodo — nascondere a se stesse e agli altri le conseguenze di questa linea di condotta: che è destinare allo sterminio milioni di esseri umani. Cioè, proprio la riproposizione di ciò che la Comunità, poi Unione Europea, ha come sua ragion d’essere originaria: che le tragedie prodotte da due guerre mondiali e dai campi di sterminio «non abbiano a ripetersi mai più». Invece sono di nuovo davanti a noi, e tra noi. Non lo si può ignorare. Le deboli forze che in Italia e in Europa si battono per un mondo diverso ne devono prendere atto; anche se questa è in assoluto la più difficile delle battaglie che finora non siamo stati capaci di combattere, e soprattutto di vincere.

Che cosa significa infatti quel «teneteveli», rivolto non solo a Italia e Grecia, Sicilia e Puglia, ma anche a Libano, Giordania, Turchia, Egitto, che di profughi ne «ospitano» già non decine di migliaia, ma milioni? O rivolto a Libia, Tunisia, Sudan, Mali, Niger, ecc.? Paesi, questi, dove non si riesce neppure a fare una conta sommaria degli sbandati (displaced persons) e dove è ormai impossibile distinguere tra profughi di guerra, di persecuzioni politiche, religiose o etniche, di crisi ambientali o di fame e miseria (i cosiddetti migranti economici); anche se l’esito di queste tante concause è quasi sempre una guerra alimentata dal commercio di armi a beneficio di nazioni che le producono.

L’Italia affronta il problema affidandolo a malavita, mafia e malgoverno, gli strumenti tradizionali di gestione di tutte le emergenze vere o inventate: Expò, Mose, rifiuti, terremoti, alluvioni, elezioni, sanità, lavoro nero. Con i profughi, gli affari di mafia e malgoverno si associano a sfruttamento, umiliazione e degrado di coloro che vengono affidati alle loro «cure». Ma anche a crescenti motivi di timore, malcontento, rivolta aperta; a invocazione di poteri forti e soluzioni definitive (o «finali»?); a professioni di razzismo ostentate delle popolazioni locali.

Ma in che modo pensiamo che vengano gestiti in Medio Oriente i campi profughi di milioni di esseri umani senza alcuna prospettiva di ritorno alle loro terre per molti anni? E in Libia, in Sudan, o in tutti gli altri paesi verso cui li vorremmo risospingere? E che cosa ci aspettiamo che facciano i Buzzi o gli Alfano di quei paesi? Il loro lavoro sarà «farli sparire», dopo averli torturati, rapinati e violati in tutti i modi: unica alternativa alla mancata possibilità traghettarli in Europa.

Ma lo Stato italiano, lasciato solo a vedersela con flussi crescenti e incontrollabili, diventerà anch’esso destinatario dei respingimenti: ridotto a trasformare la polizia, come già sta facendo, in «scafisti di Stato», per cercare di far passare la frontiera, in violazione della convenzione di Dublino, al maggior numero possibile di migranti; o a «esternalizzarne» la gestione a organizzazioni alla Buzzi (ma in campo c’è già anche di peggio); o ad abbandonarli per strada, inscenando fughe di massa dai luoghi di detenzione, e creando così situazioni di degrado e di effettivo pericolo con cui alimentare rivolte sempre più diffuse di comunità locali.

Che l’Italia possa rimanere «agganciata» all’Europa in una situazione del genere è difficile. Ma che l’Europa possa continuare a occuparsi di sforamenti dei deficit dello «0 virgola», senza darsi uno straccio di politica per affrontare, in una prospettiva di pacificazione, la belligeranza endemica ai suoi confini, o le derive autoritarie, nazionalistiche e razziste al suo interno, è altrettanto surreale.

D’ora in poi tutti i progetti per cambiare la società, o la distribuzione del reddito, o per difendere lavoro, territorio, scuola, sanità, cultura, diritti, dovranno confrontarsi con il problema dei profughi e dei migranti: per cercare una via di uscita pacifica e negoziata alla crisi geopolitica del Mediterraneo; e per trovare un posto e un ruolo alle centinaia di migliaia che cercano salvezza in Europa.

Una via di uscita sostenibile, accettabile per tutti, che riduca anziché esacerbare le molte ragioni di contrasto tra locali e migranti; che permetta di vivere l’arrivo di tanti profughi non come una minaccia e un peso insostenibili, bensì – lo hanno dimostrato vicende locali esemplari, come quella di Lampedusa — come un’opportunità di nuove forme di convivenza, di crescita culturale, di apertura politica, di un approccio di respiro euro-mediterraneo ai problemi quotidiani: un approccio, cioè, che riguardi al tempo stesso il nostro continente e i paesi dell’Africa, del Maghreb e del Medio Oriente.

Con un piano che deve, sì, essere europeo, ma che va messo a punto qui, cominciando a dimostrarne la fattibilità per piccoli episodi: a partire da una vigilanza e una contestazione diffuse e di massa su tutti gli affidi in materia di accoglienza e gestione dei profughi.

Innanzitutto i cittadini italiani non devono essere messi nella condizione di temere che a loro siano riservate meno risorse e meno opportunità di quelle destinate a profughi e migranti: dunque, reddito garantito e piani generali per creare lavoro e dare occupazioni e soluzioni abitative decenti a tutti (e fine, quindi, dei patti di stabilità).

Poi, autogestione: è criminale costringere i profughi «accolti» a un ozio forzato di anni e affidare a imprese cosiddette sociali la gestione di ogni aspetto della loro vita quotidiana. Assistiti e controllati, profughi e migranti possono gestire da soli risorse ed edifici riservati alla loro permanenza.

Poi devono essere distribuiti sul territorio, con misure per facilitare contatti e scambi con i locali: accesso a scuole, sanità, attività ricreative, mediazione culturale. Infine devono potersi organizzare anche sul piano politico, valorizzando i contatti tra comunità nazionali già insediate in Europa, e con chi è restato nei paesi da cui sono fuggiti.

La costruzione di una identità regionale – di una comunità euro-mediterranea, da fondare sulle macerie dell’Unione attuale, che ha dimenticato le ragioni che l’hanno fatta nascere — ha bisogno di queste cittadine e cittadini, che qui possono mettere a punto un progetto, un embrione di governo in esilio, e una road map per il riscatto politico e sociale dei loro paesi di origine.

È una strada lunga e tortuosa (come lo è stata quella che ha portato alla fondazione dell’Unione Europea), ma ineludibile per non venir sopraffatti da una guerra permanente ai confini dell’Unione e dal trionfo del razzismo al suo interno.

P.S. Questo è un tema ineludibile per la coalizione sociale, un progetto che poteva nascere un anno fa con L’Altra Europa con Tsipras, ma che è stato disatteso a favore di un ennesimo assemblaggio di inutili partitini; ma che per fortuna è stato ripreso dalla Fiom e da tutti coloro che vi si stanno impegnando.

 

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a proposito di Medjugorie: una ‘voce (papale) dal sen fuggita’ o un nuovo corso in Vaticano?

Medjugorje, la conversione scettica del papa

di Marco Marzano*
in “il Fatto Quotidiano” del 10 giugno 2015

veggenti

 

“Ma dove sono i veggenti che ci dicono oggi la lettera che la Madonna manderà alle 4 del pomeriggio? Per esempio, no? E vivono di questo. Questa non è identità cristiana. L’ultima parola di Dio si chiama ‘Gesù’ e niente di più”.

Non ha citato esplicitamente Medjugorje Papa Francesco in questo passaggio della sua omelia di ieri a Santa Marta. E tuttavia è difficile pensare che la sua sferzante ironia non fosse riferita a quel che succede, ormai da trentaquattro anni, nella piccola cittadina dell’Erzegovina. Del resto, lo stesso pontefice aveva annunciato qualche giorno fa che la procedura di valutazione dell’autenticità delle apparizioni della Madonna a Medjugorje è quasi conclusa e che dunque una decisione definitiva sulla questione appare imminente.

Medjugorie chiesa Il sarcasmo del papa è assolutamente ragionevole: la Madonna a Medjugorje rappresenta un fenomeno decisamente “spettacolare” e ipermediatico. Essa appare ad alcuni dei veggenti a orari regolari e conosciuti con largo anticipo; su quelli viene organizzata buona parte del consistente flusso turistico organizzato di pellegrini che raggiunge la località ex jugoslava e che può assistere, dal vivo, come è capitato a me alcuni anni fa, allo spettacolo del “veggente che vede la Madonna”, diramando, subito dopo, immediatamente tradotto in tutte le lingue e poi diffuso dalle varie Radio Maria, il suo messaggio al mondo. Ha ancora ragione il pontefice quando dice che i veggenti “vivono di questo”. I veggenti non sono certo più gli ingenui giovanissimi pastorelli che, nel lontano 1981, annunciarono per la prima volta al mondo di aver visto, sul monte Podbrdo, la Vergine Maria.

Medjugorie croceAlcuni di loro sono diventati dei veri e propri “imprenditori dell’apparizione”: fanno cioè quello di mestiere, ci campano; con soddisfazioni, credo, assai consistenti. Da ogni punto di vista. Se la sentenza vaticana definitiva su Medjugorje fosse la bocciatura che questo passaggio dell’omelia di Francesco sembra evocare saremmo davvero di fronte ad una grandiosa novità storica, alla chiusura di una stagione contrassegnata dal favore vaticano verso le forme più retrive della religiosità popolare tradizionale, verso quella spiritualità miracolistica, sensazionalistica, in generale magica che piaceva tanto a Giovanni Paolo II. Nella visione culturale e politica di quest’ultimo, la religiosità popolare, in tutte le sue forme, appariva come un alleato irrinunciabile nella lotta quotidiana combattuta dalla Chiesa Cattolica contro la secolarizzazione e la scristianizzazione del continente europeo. In quella terribile battaglia era necessario, per il papa polacco, arruolare tutte le forze disponibili sul campo passando sopra alle sottigliezze eccessive, agli inutili distinguo. Per questa ragione, nel caso di Medjugorje, sono state di fatto ignorate le gravi perplessità sull’autenticità delle apparizioni che provenivano dai vescovi della Bosnia Erzegovina e che avrebbero dovuto indurre le autorità vaticane a sconfessare esplicitamente e già dal principio lo strano fenomeno delle apparizioni programmate e quotidiane. Se su questo delicatissimo versante Francesco invertisse la rotta saremmo dinanzi ad una Chiesa Cattolica che finalmente non si spaventa dei “segni dei tempi”, del cambiamento religioso del nostro tempo e che anzi immagina di poterci convivere serenamente, ribadendo il proprio messaggio e rifiutandosi di arruolare forze che provengono da un passato oscuro e premoderno. Forze che, facendosi agio dei bisogni emotivi di tanti, evocano la magia e la superstizione, rischiando di manipolare le coscienze dei più ingenui e allontanandosi così dallo spirito del Vangelo. A me pare che quando Bergoglio sostiene che quella miracolistica “non è identità cristiana” e che “l’ultima parola di Dio si chiama Gesù e niente di più” voglia significare proprio questo: che un cristianesimo nemico della modernità e disposto a compromettersi con i “professionisti della magia” sarebbe una religione che finisce per smarrire se stessa.

A Medjugorje vanno un sacco di curiosi, attirati dallo spettacolo dei “veggenti che vedono”, da quello dei fedeli che cascano in terra come in preda ad un sonno improvviso o degli indemoniati che  si scatenano durante le funzioni, delle statue che sanguinano e delle eclissi inspiegabili. Tutte cose che hanno a che vedere con una soprannaturalità posticcia e un po’ caricaturale, miseri brandelli culturali di un antico mondo incantato.

Medjugorie Madonna Cosa ha a che vedere tutto questo con l’attualità del cristianesimo? Le tantissime parole, l’infinità di messaggi (invero grosso modo tutti uguali), che la Madonna avrebbe consegnato ai veggenti in tutti questi decenni non segnalerebbero forse, se prese sul serio, proprio l’insufficienza del Vangelo, la sua sopravvenuta incapacità di fornire gli strumenti della fede alle donne e agli uomini del nostro tempo? A questa deriva mi sembra ribellarsi Francesco. Speriamo che sia sul serio così e che non si tratti solo di una battuta dal sen fuggita in una calda mattina di giugno. *professore ordinario di Sociologia all’Università di Bergamo

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e la ‘parola’ e le ‘rivelazioni’ di Medjugorie?

 

«L’ultima parola di Dio è Gesù Cristo, non ce n’è un’altra!» 

parola di papa!

Papa Francesco – S. Messa Cappella della Casa Santa Marta 
( ideo e testo)
9 giugno 2015

Non annacquiamo la nostra identità
L’«identità cristiana» trova la sua forza nella testimonianza e non conosce ambiguità: per questo il cristianesimo non può essere «annacquato», non può nascondere il suo essere «scandaloso» e trasformato in una «bella idea» per chi ha sempre bisogno di «novità». E attenzione anche alla tentazione della mondanità, propria di chi «allarga la coscienza» così tanto da farci entrare dentro tutto. Lo ha affermato il Papa nella messa celebrata martedì mattina, 9 giugno, nella cappella della Casa Santa Marta, ricordando che «l’ultima parola di Dio si chiama “Gesù” e niente di più».
 
«La liturgia di oggi ci parla dell’identità cristiana» ha fatto notare Francesco, proponendo subito la questione centrale: «Qual è questa identità cristiana?». Riferendosi alla prima lettura odierna (2 Corinzi 1, 18-22), il Papa ha ricordato che «Paolo comincia raccontando ai Corinzi le cose che hanno vissuto, alcune persecuzioni», e «la testimonianza che hanno dato di Gesù Cristo». E, in pratica, scrive loro: «Io mi vanto di questo — cioè io mi vanto della mia identità cristiana — che è andata così. E Dio è testimone che la nostra parola verso di voi è “sì”, cioè noi vi parliamo dell’identità nostra, quale sia».
 
«Per arrivare a questa identità cristiana — ha spiegato Francesco — nostro Padre, Dio, ci ha fatto fare un lungo cammino di storia, secoli e secoli, con figure allegoriche, con promesse, alleanze e così fino al momento della pienezza dei tempi, quando inviò suo Figlio nato da una donna». Si tratta, dunque, di «un lungo cammino». E, ha affermato il Papa, «anche noi dobbiamo fare nella nostra vita un lungo cammino, perché questa identità cristiana sia forte e dia testimonianza». Un cammino, ha precisato, «che possiamo definire dalla ambiguità alla vera identità».
 
Dunque, nella lettera ai Corinzi l’apostolo scrive che «la nostra parola verso di voi non è “sì” e “no”, ambigua». Infatti, aggiunge Paolo, «il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, non fu “sì” e “no”: in Lui vi fu il “sì”». Ecco, allora, ha detto il Pontefice che «la nostra identità è proprio nell’imitare, nel seguire questo Cristo Gesù, che è il “sì” di Dio verso di noi». E «questa è la nostra vita: andare tutti i giorni per rinforzare questa identità e darne testimonianza, passo passo, ma sempre verso il “sì”, non con ambiguità».
 
«È vero», ha poi riconosciuto il Pontefice, «c’è il peccato e il peccato ci fa cadere, ma noi abbiamo la forza del Signore per alzarci e andare avanti con la nostra identità». Ma, ha aggiunto, «io direi anche che il peccato è parte della nostra identità: siamo peccatori, ma peccatori con la fede in Gesù Cristo». Infatti «non è soltanto una fede di conoscenza» ma «è una fede che è un dono di Dio e che è entrata in noi da Dio». Così, ha spiegato il Papa, «è Dio stesso che ci conferma in Cristo. E ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo, ci ha dato la caparra, il pegno dello Spirito nei nostri cuori». Sì, ha ribadito Francesco, «è Dio che ci dà questo dono dell’identità» e «il problema è essere fedele a quest’identità cristiana e lasciare che lo Spirito Santo, che è proprio la garanzia, il pegno nel nostro cuore, ci porti avanti nella vita».
 
«Siamo persone che non andiamo dietro a una filosofia» ha affermato ancora il Pontefice perché «abbiamo un dono, che è la nostra identità: siamo unti, abbiamo impresso in noi il sigillo e abbiamo dentro di noi la garanzia, la garanzia dello Spirito». E «il Cielo incomincia qui, è un’identità bella che si fa vedere nella testimonianza». Per questo, ha aggiunto, «Gesù ci parla della testimonianza come il linguaggio della nostra identità cristiana» quando dice: «Voi siete il sale della terra, ma se il sale perde il sapore, con che cosa si renderà salato?». Il riferimento è al passo evangelico di Matteo proposto oggi dalla liturgia (5, 13-16).
 
Certo, ha proseguito il Papa, «l’identità cristiana, perché siamo peccatori, è anche tentata, viene tentata — le tentazioni vengono sempre — e può andare indietro, può indebolirsi e può perdersi». Ma come può avvenire questo? «Io penso — ha suggerito il Pontefice — che si può andare indietro per due strade principalmente».
 
La prima, ha spiegato, è «quella del passare dalla testimonianza alle idee» e cioè «annacquare la testimonianza». Come a dire: «Eh sì, sono cristiano, il cristianesimo è questo, una bella idea, io prego Dio». Ma «così dal Cristo concreto, perché l’identità cristiana è concreta — lo leggiamo nelle Beatitudini; questa concretezza è anche nel capitolo 25 di Matteo — passiamo a questa religione un po’ soft, sull’aria e sulla strada degli gnostici». Dietro, invece, «c’è lo scandalo: questa identità cristiana è scandalosa». Di conseguenza «la tentazione è dire “no, no, senza scandalo; la croce è uno scandalo; che Dio si sia fatto uomo» è «un altro scandalo» e si lascia da parte; cerchiamo cioè Dio «con queste spiritualità cristiane un po’ eteree, ariose». Tanto che, ha affermato il Papa, «ci sono degli gnostici moderni e ti propongono questo, questo: no, l’ultima parola di Dio è Gesù Cristo, non ce n’è un’altra!».
 
«Su questa strada», ha proseguito Francesco, ci sono anche «quelli che sempre hanno bisogno di novità dell’identità cristiana: hanno dimenticato che sono stati scelti, unti, che hanno la garanzia dello Spirito, e cercano: “Ma dove sono i veggenti che ci dicono oggi la lettera che la Madonna ci manderà alle 4 del pomeriggio?”. Per esempio, no? E vivono di questo». Ma «questa non è identità cristiana. l’ultima parola di Dio si chiama “Gesù” e niente di più».
 
«Un’altra strada per andare indietro dall’identità cristiana è la mondanità», ha proseguito il Papa. E cioè «allargare tanto la coscienza che lì c’entra tutto: “Sì, noi siamo cristiani, ma questo sì…”, non solo moralmente, ma anche umanamente». Perché «la mondanità è umana, e così il sale perde il sapore». Ecco perché, ha spiegato il Papa, «vediamo comunità cristiane, anche cristiani, che si dicono cristiani, ma non possono e non sanno dare testimonianza di Gesù Cristo». E «così l’identità va indietro, indietro e si perde» ed è «questo nominalismo mondano che noi vediamo tutti i giorni».

 

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”Padre Nostro che sei in Terra”

 Vito Mancuso: “Ripensare il mondo, ma anche l’idea di Dio se non dà più energia”

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agli incontri genovesi di ‘Repubblica delle Idee’, l’intervento del teologo a partire dal quesito eterno sul luogo della presenza divina: “Se un’idea viene superata, va ripensata, così anche il modo di pensare il divino, se non riesce più a interpretare gioie, speranze e dolori degli uomini”

 

di AMALIA MATTEUCCI

 Ti do un fiorino se mi dici dove abita Dio. E io ti do due fiorini se mi sai dire dove non abita”. Nella frase del filosofo viennese Martin Buber è racchiuso tutto il senso di uno dei grandi interrogativi che l’uomo si pone da sempre: dov’è Dio? Una domanda che si fanno da sempre i credenti, ma forse anche più frequentemente di loro gli atei e a cui non è facile dare una risposta. Un applauso lunghissimo accoglie il teologo Vito Mancuso, ospite a Genova per Repubblica delle Idee con l’intervento “Padre nostro che sei in terra”. Ripensare il mondo, tema della manifestazione di Genova, secondo il teologo implica necessariamente ripensare Dio e il suo rapporto con il mondo e con gli uomini

Dov’è Dio? È una domanda che l’uomo si pone da sempre. “Dio, uomo e mondo sono i tre elementi che costituiscono la realtà. Al vertice di questo che possiamo definire una sorta di triangolo filosofico ideale c’è Dio, introiettando il quale gli esseri umani, da massa informe di individui, si trasformano in societas”. Parte da qui e dal bisogno di trovare un punto di riferimento comune il discorso del teologo. Gli uomini, per sentirsi ‘soci’, devono condividere un’idea che trascende l’individualità e che li attrae. Un’idea in grado di farli uscire dalla loro sfera particolare per costruire un’architettura della società. È probabile che la crisi che stiamo vivendo dipenda anche dalla crisi del vertice di quel triangolo che ha perso la forza attrattiva che lo contraddistingue.

Senza rimpianti. “Non voglio dare l’idea di piangere sul presente devastato in nome di un passato ormai andato. Se un’idea viene superata, vuol dire che andava rivista e superata, se la modalità di pensare il divino non è più in grado di interpretare le gioie e le speranze, ma anche i dolori degli uomini, va ripensata”. C’è bisogno di un’idea del divino che infonda energia, dunque, e non che richieda da parte dell’uomo energia per essere sostenuta.

Dio in terra. “Il titolo che ho dato al mio intervento – spiega Mancuso – è un modo per contrastare l’idea tradizionale veicolata dall’incipit del Padre nostro come riportata da San Matteo, cioè che ci sia una distanza tra il luogo in cui risiediamo noi e il luogo  in cui è Dio. Nei quadri a tema sacro si vedono sempre i protagonisti che guardano verso il cielo. Tutti danno questo senso di alienazione. Se Dio è l’assoluto, non può esistere un crepaccio invalicabile tra terra e cielo, perché questo impedisce di pensare Dio come assoluto, ma determinato e quindi in qualche modo nega che sia in Terra. Si smonta la qualifica ontologica essenziale di Dio in quanto essere che abbraccia tutte le cose”. Mancuso parla di Gesù: non è stato lui, insegnandoci il modo in cui dovevamo rivolgerci al Padre, a collocarlo in un luogo determinato. “Gesù non pronunciò mai queste parole, peraltro scritte in greco nel Vangelo di Matteo. Nel Vangelo di Luca manca una collocazione spaziale”.

Dio è dentro di noi – “Gesù ha detto nel Vangelo di Luca – aggiunge Mancuso –  che il Regno di Dio è “dentro di voi” e Sant’Agostino nelle sue Confessioni colloca Dio più interiore dell’intimo, cioè nella profondità del cuore. Una sorta di Io che supera l’Io. Come se contenessimo qualcosa che va oltre noi, che ci trascende. Ma senza immaginare di avere visioni, apparizioni”.

Tre punti di vista. Ci sono, quindi, tre teorie: Dio nei Cieli, dentro di me o, come dice san Paolo nel discorso all’Areopago, il Signore come una sfera che avvolge tutto. Ma c’è modo di far coincidere le cose, di chiarirsi le idee?, chiede Mancuso alla platea. Il teologo punta sulla posta in gioco che spinge gli uomini a continuare a interrogarsi su quesiti che sembrano apparentemente senza risposta. Il discorso appare troppo complicato ammette, ma è il valore del mondo la risposta: “Credere in Dio equivale a individuare un di più rispetto a quello che indichiamo come mondo – dice ancora – . Gli uomini percepiscono una dimensione che la ragione avverte, ma che non riesce a spiegare. Sono i ‘misteri’ dietro cui il clero fa passare troppe cose”.

Sommersi dal mistero. Mancuso cita Norberto  Bobbio, padre del pensiero laico: Bobbio scrive nella sua ultima lettera, pubblicata il giorno dopo la sua morte: “Come uomo di ragione so di essere immerso nel mistero”. Non è la fede che porta al mistero, ma la ragione che ti fa comprendere di essere sommerso dal mistero.

Libertà e determinazione. Molti pensano che gli uomini sono un pezzo di un ingranaggio. Se non c’è trascendenza non c’è libertà. La trascendenza è la libertà di un pezzo di mondo di giungere a superare il suo essere mondo ambiente sociale. Fa l’esempio della mafia, il teologo. Nascendo in Sicilia qualcuno potrebbe pensare sia implicito essere mafioso. Qualcuno può dire di no. “Lasciarsi trascinare dal contesto è più facile, la trascendenza, cioè la libertà di essere altro, è quella energia in più di qualitativamente alto”. Bellezza, dedizione, intelligenza della bontà e bontà dell’intelligenza. “Per alcuni queste cose sono attimi, non la realtà. È vero, sono istanti, ma l’attimo è l’unica realtà. Sono questi attimi il segno della nostra vera natura”.

Dio ovunque. Nell’aria, nella materia, negli esseri viventi e quelli che viventi non sono, ma che sono fatti di materia, di polvere e in quella polvere, c’è il divino. Ogni cosa ha una sua capacità di accoglierlo. Se non ci fosse il principio divino in ogni cosa, ci sarebbe solo il caos. È questa la conclusione a cui arriva Mancuso. Aria, vento, atmosfera e spirito sono soffi che contengono Dio

Il mondo è un processo. Il mondo è un ‘farsi’ delle cose: ha creato la mente e la mente ha creato il cuore che si sa relazionare all’insegna dell’armonia. Si capisce solo così il mondo e si reinterpreta nel suo rapporto con Dio. “Il mondo non è perfetto o imperfetto” chiude Mancuso. Ma bisogna partire dalla parte migliore, il cuore che pensa. Anche Gesù pensava la presenza divina come non chiusa negli spazi cosmici. “Per cogliere l’essenza divina bisogna accostare la terra ai cieli e pensare la presenza divina in ogni frammento”. Questo svelerà il misterium magnum radicato nell’anima umana”.

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scartati!

gli scartati della globalizzazione

di Leonardo Becchetti*
in “La Stampa-Vatican Insider” del 3 giugno 2015

scartati
La globalizzazione doveva portare alla fine della storia, frullando in un omogeneizzato compatto tutte le culture e offrendo dividendi e partecipazione a tutti. Quello che sta accadendo è invece il paradosso di un’uniformità di visione economica e di progresso tecnologico che produce derive identitarie e quantità enormi di “scartati”. Sempre più persone nelle società occidentali non votano, non lavorano né studiano, insomma non partecipano alla vita sociale e questo inevitabilmente finisce per erodere il capitale sociale, quel collante fondamentale di fiducia, cooperazione, reciprocità, dono e senso civico che tiene insieme l’edificio sociale ed economico. La verità è che il progresso tecnologico che automatizza non solo il lavoro routinario ma anche parte di quello creativo non ha bisogno di tutti per funzionare. E’ evidente che in società come queste il problema della distribuzione diventa quello fondamentale. Se volessimo estremizzare per assurdo si potrà arrivare un giorno ad un’unica super macchina che produce e vende tutto quello di cui l’umanità ha bisogno. Il proprietario di questa super macchina sarebbe l’uomo più ricco del mondo e l’unico a percepire reddito ma qui si pone il problema di come fare a sostenere il potere d’acquisto degli esclusi che dovrebbero acquistare i prodotti. Fantapolitica, d’accordo, ma se osserviamo che già oggi gli 85 più ricchi del pianeta hanno la stessa ricchezza dei 3 miliardi dei più poveri e che le banche centrali si affannano ad inondare il mondo di liquidità per sostenere la domanda asfittica ci rendiamo conto che la realtà non è poi così lontana da questo estremo. L’altro enorme problema che abbiamo di fronte, oltre a quello della distribuzione e della sostenibilità sociale dello sviluppo, è quello della sostenibilità ambientale. Soprattutto quando consideriamo quei beni ambientali non appropriabili e non rinnovabili come il clima che rappresentano beni pubblici globali sottoposti ai tradizionali dilemmi che rendono difficile il coordinamento tra diversi paesi sovrani per la riduzione delle emissioni. La metafora più calzante è quella del surfista che “cavalca” una gigantesca onda nell’oceano. Lo osserviamo ammirati in quell’equilibrio precario e non sappiamo se alla fine riuscirà ad arrivare prima dell’onda o se l’onda che lo “insegue” lo travolgerà. In altri termini l’umanità sta correndo per cercare di sfuggire alla catastrofe ambientale (mentre già paga le conseguenze dei danni provocati) ma non sappiamo se sarà in grado di correre abbastanza veloce oppure no. Dell’ambiente parlavano fino ad una decina di anni fa solo gli ambientalisti mentre oggi la sostenibilità è diventata un fattore competitivo di business aprendo molti importanti settori (dal riciclo dei rifiuti che diventano risorsa alla ristrutturazione energetica degli edifici) ma, ancora, non sappiamo se questo basterà. Una soluzione esiste ed è l’economia civile. Il modello tradizionale a due mani dove la somma degli egoismi degli homines economici e delle imprese massimizzatrici di profitto viene riconciliata magicamente ed eroicamente in bene comune dall’azione dei due dei ex machina del mercato e delle istituzioni (benevolenti, perfettamente informate e così solide da non essere catturate dai regolati) non funziona e non può funzionare. La soluzione dell’economia civile è quella di un modello a quattro mani dove l’azione di mercato e istituzioni è integrata e complementata da quella dei cittadini responsabili che fanno cittadinanza attiva e votano col loro portafoglio e dalle imprese pioniere che abbandonano lo schema riduzionista della massimizzazione del profitto per diventare multistakeholder e creare valore economico in modo sostenibile ripartendo lo stesso in modo più equo tra i diversi portatori d’interesse. Quest’economia a quattro mani è anche la soluzione al problema da cui siamo partiti, quello degli scartati perché le aziende responsabili sono di solito aziende low profit e ad alta intensità di lavoro e perché le modalità di ingaggio dell’economia civile coinvolgono i cittadini in molte pratiche di cittadinanza attiva promuovendo inclusione e contribuendo alla creazione di capitale sociale. Al famoso esempio di Keynes che parlava delle buche da riempire come lavori pubblici per superare la
crisi del ’29 l’economia civile contrappone le iniziative di impegno civico e le palestre di capitale sociale e di cittadinanza attiva che non sono semplicemente dei riempitivi per oziosi ma un modo avvincente e coinvolgente di partecipare e di far fiorire la propria vita lavorando per promuovere benessere e dignità di tutti. La soluzione è portata di mano ma ancora non è divenuta mainstream. Cosa aspettiamo ? Dipende solo da noi. Il mercato è fatto di domanda e di offerta e la domanda siamo noi. Se useremo il voto col portafoglio per premiare le aziende leader nella sostenibilità sociale ed ambientale il problema sarà risolto. Mosè convinse gli ebrei ad uscire dall’Egitto nonostante questi ultimi sapessero che rischiavano la vita e la rappresaglia del faraone. A noi serve molto meno perché spostare le nostre scelte di risparmio e di consumo fa parte delle facoltà di scelta assolutamente ammissibili in una società liberale. Il vero faraone siamo noi ovvero l’incapacità di mettersi in moto verso la soluzione di tanti di noi per mancanza di consapevolezza e di coordinamento. La sfida affascinante della wikieconomia sta dunque nel costruire questa consapevolezza e questo coordinamento giorno dopo giorno attraverso il nostro lavoro sui social per creare quel bene comune collaborativo della nuova economia civile. E già questo è un compito bellissimo che risolve il problema dello scarto e della mancata partecipazione. Perché non si tratta di un’opera per uomini soli al comando ma di un lavoro collettivo dove siamo tutti protagonisti.
* economista, docente di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata

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gli zingari … se non esistessero bisognerebbe inventarli!

Vorrei che gli zingari sparissero

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di Matteo Saudino*

Vorrei che per un mese sparissero tutti i rom presenti in Italia. Sarei curioso di vedere contro chi si scaglierebbero gli imprenditori della paura e gli sciacalli della politica per ottenere audience, voti e potere. Contro chi saranno diretti il nostro odio e le nostre paure per celare disoccupazione, salari bassi, tasse elevate, evasione fiscale, corruzione politica, speculazione finanziaria, criminalità organizzata, scarsa innovazione tecnologica, edilizia scolastica pericolante, malasanità?

In primis contro tutti i musulmani, poi contro i profughi, i migranti, gli ebrei, i gay, le prostitute, i poveri, gli anarchici, i giocolieri, gli atei, le persone con disabilità e alla fine, pur di non guardare con intelligenza la realtà complessa che vi è intorno a noi, saremo pronti ad indirizzare la nostra rabbia e ignoranza contro un’imminente invasione aliena. È la storia che drammaticamente si ripete uguale e diversa: il marginale come capro espiatorio utile per costruire consenso politico e per indirizzare il malcontento verso minoranze socialmente sgradite, senza che i veri problemi che affliggono i cittadini siano affrontati e risolti.

Chi in questi mesi sta seminando, attraverso ogni forma di media, odio politico e razziale è e sarà il principale responsabile del clima di intolleranza e violenza che si sta creando nelle nostre città e nelle comunità in cui viviamo; clima in cui i cittadini saranno sempre più duffidenti del prossimi e insicuri.

La Lega di Salvini è il fascismo del XXI secolo: con una mano appicca gli incendi e con l’altra si propone come il duro pompiere-sceriffo che spegnerà il fuoco e ripristinerà l’ordine. Un’ordine fondato sulla discriminazione etnica-religiosa e sulla violazione dei duritti umani. L’intelligenza e la violenza di tale progetto politico è pari alla stupidità e alla volgarità morale degli italiani che lo sostengono.

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In una democrazia seria e matura chi parla di ruspe contro campi nomadi ridendo e scherzando non troverebbe editorialisti pavidi e mediocri e giornalisti compiacenti. Quelle frasi e quelle magliette sono pietre lanciate contro chi ogni giorno prova faticosamente a costruire una società più giusta e integrata. Il diritto al razzismo e all’incitamento alla violenza non esistono, non sono libertà costituzionali. Essere silenti di fronte a tale barbarie significa essere complici.

 

P.s. Martedì 2 giugno a Roma due italiani hanno aggredito un rumeno e gli hanno tagliato due dita.

 

* docente di storia e filosofia a Torino

 

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signor vescovo, non le sembra di esagerare!

l’arcivescovo di Trieste: «I matrimoni gay sono un suicidio dell’umanità»

 

«Gli attacchi al matrimonio come unione di un uomo e una donna rappresentano una sorta di suicidio dell’umanità stessa, soprattutto nei nostri Paesi occidentali». È quanto affermato dall’arcivescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi, durante un’omelia pronunciata al santuario di Monte Gria.

Secondo il personale parere del religioso, «dal punto di vista cristiano è erroneo affermare che la relazione fondamentale tra uomo e donna sia soltanto un prodotto culturale o sociale, un “dono” di un governo o la costruzione dell’uomo. I governi non possono soppiantare la primordiale responsabilità dei genitori per i loro figli, né possono negare ai bambini il diritto di crescere con una mamma e un papà». Crepaldi ha poi sostenuto che «in Cristo lo stato naturale del matrimonio, il naturale legame tra un uomo e una donna uniti in matrimonio, è elevato a sacramento».

Prosegue così l’ondata di critica che la Chiesa Cattolica ha deciso di lanciare dopo l’approvazione del matrimonio egualitario in Irlanda. Da nord e sud, una serie di prelati è pronta ad aizzare i fedeli contro il diritto alla felicità altrui, sostenendo che il principio fondamentale della famiglia non sia la sua funzione sociale ma l’eterosessualità dei componenti. Poi poco importa se i genitori costringono alla prostituzione i figli o se un padre picchia i propri familiari: l’essere eterosessuali è motivo di grazia dinnanzi a Dio in una sorta di nuova razza Ariana.

Parole dure e pericolose per chi dovrebbe ispirarsi alle predicazioni di Gesù, un bambino nato in una famiglia che è stata tutto fuorché una «famiglia tradizionale». Giuseppe non è il padre biologico di Gesù e la tanto sbandierata verginità di Maria (che ha persino portato ad uno scisma della Chiesa) è un motivo sufficiente che oggi spingerebbe la Sacra Rota a ritenere nullo il loro matrimonio. Per i leghisti che tanto si impegnano ad organizzare convegno omofobi, Gesù non sarebbe stato altro che un extracomunitario da ritenere colpevole del reato di clandestinità qualora avesse osato mettere piede in Italia. Ma ovviamente tutto ciò non importa a chi vuole usare Dio per tutelare i propri interessi, in una guerra all’umanità in cui l’amore viene additato come il nemico da abbattere.
Eppure è la Bibbia stessa a ricordarci che «nell’amore non c’è timore» (I Giovanni 4, 18) o che «chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre» (I Giovanni 2,9). Ma soprattutto ci ricorda come il volersi alla tradizione sia un errore imperdonabile: «le cose vecchie sono passate: ecco ne sono nate di nuove» ci viene ricordato nella seconda lettera ai Corinzi.

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il commento al vangelo della domenica

 

QUESTO E’ IL MIO CORPO, QUESTO E’ IL MIO SANGUE 

commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

p. Maggi

Mc 14,12-16.22-26

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 

Marco struttura il racconto della cena del Signore su quanto si legge nel Libro dell’Esodo al termine dell’alleanza. Nel capitolo 24 si legge che Mosè prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo, poi prese il sangue e ne asperse il popolo e disse “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole”. 
E’ da tener presente questo parametro per comprendere quello che ci scrive l’evangelista. 
Scrive Marco: “Mentre mangiavano prese” – non è scritto ‘il pane’, che avrebbe indicato un pane particolare rispetto al pane azzimo che si mangiava durante la cena pasquale; l’evangelista evita accuratamente qualunque riferimento alla cena pasquale. Gesù non ripete un rito antico, ma sta facendo qualcosa di completamente nuovo. Quindi Marco evita qualunque assomiglianza con la cena pasquale.
Quindi “prese un pane, benedì, lo spezzò, lo diede loro dicendo: «prendete, questo è il mio corpo»”.   
Ecco già la prima differenza con l’antica alleanza. Nell’antica alleanza Mosè ha presentato un libro, un libro che conteneva la legge, la volontà di Dio; ebbene, con Gesù inizia un’epoca nuova nel rapportarsi con Dio. 
Il credente, con Gesù, non è più, come nell’antica alleanza, colui che obbediva alle leggi del suo Signore, ma colui che accoglie l’amore del suo Signore. 
Mentre il libro della legge è un codice esterno all’uomo che l’uomo deve impegnarsi a osservare e molti non ci riescono, o non vogliono, la nuova alleanza non è basata su un agente – un libro – un qualcosa di esterno all’uomo, ma sulla effusione interiore della stessa vita divina.
Dio non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro la sua stessa capacità d’amore, il suo stesso spirito, la sua stessa forza d’amore. Quindi non più un codice, una legge, ma un uomo – Gesù – che ci comunica la sua vita. 
Poi Gesù ”prese il calice”; e qui, mentre prima per il pane ha adoperato il verbo ‘benedire’ (eÙlogšw) – un termine conosciuto nel mondo ebraico –, per il calice usa il verbo ‘eÙcaristšw’, ‘ringraziare’, da cui deriva poi la parola Eucaristia. 
Perché questi due verbi differenti e non ha usato per esempio lo stesso ‘benedire’ entrambe le volte? 
L’evangelista si rifà alle due moltiplicazioni dei pani. 
Nella prima, in terra ebraica, Gesù benedì il pane (Mc 6,41); nella seconda, in terra pagana, Gesù rese grazie (Mc 8,6).
Allora nell’Eucaristia l’evangelista vuole radunare questi due elementi. Non è soltanto per il popolo d’Israele, ma è per tutta l’umanità.
Quindi Gesù “rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti”. Mentre l’evangelista non ha detto che il pane è stato mangiato, soltanto per il calice dice che bevvero tutti. 
Non basta accogliere Gesù come modello di comportamento, ma bisogna anche bere al calice – il calice è simbolo di morte, di donazione. Allora soltanto nell’accettazione di un impegno di vita che va fino alla morte, c’è la completezza della Eucaristia.
Ebbene, questo sangue non è il sangue dei tori, spruzzato esternamente sulle persone, ma, dice Gesù, “questo è il mio sangue dell’alleanza”. Tutti gli evangelisti indicano l’azione di Gesù come colui che battezza in Spirito Santo, però, stranamente, nessun evangelista ci dice ‘dove’, ‘quando’ e ‘come’ Gesù battezzi in Spirito Santo.  
Ecco, ecco il momento in cui la comunità, il credente, riceve questa effusione nello Spirito Santo, il battesimo nello Spirito Santo. Non è un sangue, come dei tori, che viene asperso esternamente all’uomo, ma una comunicazione interiore della stessa vita divina. E’ questo che dona all’uomo la capacità d’amore. 
E questo sangue, dice Gesù, “è versato per molti”. 
Nella cena pasquale si leggeva un salmo, il salmo 79 in cui il salmista dice che “l’ira di Dio veniva versata sui pagani”. 
Ebbene, per Gesù è cambiato il rapporto con Dio, non viene più versata l’ira di Dio, ma il suo sangue, un amore che accoglie tutti quanti. Questa è la novità proposta da Gesù. Quindi non più l’osservanza di norme esterne, ma Dio governa l’uomo comunicandogli la sua stessa capacità d’amore.  

 

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amore sano e amore malato da curare?

etero o gay il vero amore non ha bisogno di essere curato

di Michela Marzano
in “la Repubblica” del 5 giugno 2015

gay

Mentre nella cattolicissima Irlanda sono stati una valanga i “sì” al matrimonio gay, in Italia, tutto resta terribilmente immobile. Anzi, forse peggiora. Come se il riconoscimento progressivo della necessità di rispettare ognuno di noi per quello che è, fosse intollerabile. E che lo sia per chi, invece di aprirsi alla tolleranza, utilizza la fede per imporre a tutti un rigido “dover essere”. Non solo allora, dopo il referendum, si è dovuto assistere al laconico commento del Cardinal Parolin, Segretario di Stato Vaticano, che non ha esitato a parlare di una “sconfitta dell’umanità”. Ma in questi giorni sembra anche tornare in auge l’assurda idea della possibilità di guarire dall’omosessualità. «Lasciatevi aiutare dal Signore. Voi non siete gay, ma solo persone con un problema», si sente dire al Centro di Spiritualità Sant’Obizio, come ha raccontato Repubblica. L’omosessualità come una malattia da sradicare, una ferita da curare, un problema da risolvere. Per poter così tornare alla normalità, ripristinando la mascolinità e la femminilità. Ma di che cosa stiamo parlando esattamente? Chi dovrebbe guarire esattamente da cosa? Perché ormai lo sappiamo bene che l’omosessualità, esattamente come l’eterosessualità, è solo un orientamento sessuale. È un modo di essere e di amare. Qualcosa che non si sceglie, non si cambia, non si cura. Perché non c’è niente da cui guarire o da curare. C’è solo qualcosa da riconoscere e accettare. Qualcosa che fa parte della propria identità, quella con la quale prima o poi tutti dobbiamo fare i conti, anche quando ci sono cose che vorremmo che fossero diverse, cose che magari non sopportiamo di noi stessi, cose con le quali, però, non possiamo far altro che convivere. Ma questo, appunto, riguarda sia gli omosessuali, sia gli eterosessuali. Senza che qualcuno venga a spiegarci che, da bambini, qualcosa non ha funzionato. Un padre distante o una madre assente. Un padre severo o una madre assillante. Tanto, quando eravamo bambini, sicuramente qualcosa non ha funzionato per ognuno di noi. E non è colpa di nessuno. È la vita. E così che vanno le cose. E, in fondo, va bene. A patto che non ci sia poi chi, senz’altro con le migliori intenzioni — ma, si sa, è l’inferno che è lastricato delle migliori intenzioni — non intervenga per farci sentire colpevoli, aggiungendo così ulteriore sofferenza alla sofferenza che, forse, si è già vissuta. Ancora una volta indipendentemente dal fatto che siamo omosessuali o eterosessuali. «La guarigione dipende da quanto si apre il nostro cuore a Gesù», dicono ancora i leader del gruppo Lot di Sant’Obizio. Ma chi lo chiude il proprio cuore a Gesù? Chi non fa altro che prendere atto di ciò che è e di chi ama — chiedendo agli altri rispetto, accettazione, riconoscimento e diritto di esistere così com’è — oppure chi decide che non va bene, che si deve cambiare, che ci si deve sforzare, che basta un piccolo sacrificio e poi tutto torna a posto? Difficile accettarsi quando intorno a noi c’è solo commiserazione. Difficile persino raccapezzarsi con le parole che si trovano nel Vangelo, dove in fondo è sempre questione di inclusione e di carità, quando si sentono invocare, nel nome della fede, la “sconfitta dell’umanità” o l’“abominio” della propria malattia. Anche se, ovviamente, non c’è proprio nulla da riparare o da correggere. A parte forse lo sguardo giudicante di chi, dimenticando persino la pietà, ci chiede di essere diversi da quello che siamo.

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