pregiudizi italiani

 

Quei pregiudizi su stranieri, mendicanti, rom

di Massimo Calvi
23 ottobre 2014

bambino rom

 

 

Più di un italiano su tre se incontra un arabo in aeroporto teme che possa trattarsi di un terrorista. Quattro italiani su cinque, invece, si mettono la mano al portafoglio se una “zingara” sale sull’autobus. È l’effetto del pregiudizio, o meglio, di quello che la narrazione collettiva trasmette alle persone, spingendole a costruirsi un’immagine degli altri diversa da quello che l’esperienza individuale ha detto loro. Ed è proprio in questo margine, tra ciò che ci hanno raccontato e ciò che abbiamo vissuto, che si annidano i germi dei pregiudizi, della discriminazione, dell’intolleranza e persino della violenza. Ma perché tutto possa detonare, arrivando al peggio, ci vogliono altri ingredienti, e uno di questi è rappresentato dalle emozioni: come la paura, l’insicurezza, l’invidia. È questo il percorso che porta ad esempio a provare antipatia per rom e tossicodipendenti, a esprimere atteggiamenti ostili verso i migranti, o non rispettosi nei confronti degli omosessuali, a discriminare una donna sul lavoro. Ad analizzare il rapporto tra gli italiani e le discriminazioni è una rilevazione demoscopica condotta per Famiglia Cristiana da Swg, e che viene presentata oggi in occasione del lancio della campagna sociale “Anche le parole possono uccidere”, cui aderiscono pure Avvenire e la Federazione dei settimanali cattolici. Ad emergere è molto più di una classifica di chi piace e chi no. Gli italiani dicono di provare “simpatia” per i giovani, le donne, gli anziani, i poveri, gli uomini, i cristiani e i meridionali. Sembrano essere “neutri” in rapporto a settentrionali, persone di colore, magri, omosessuali, persone molto grasse ed ebrei. Decisamente “antipatici” risultano invece i ricchi, i musulmani e chi chiede la carità, mentre a un livello inferiore si trovano rom e sinti e i tossicodipendenti. “Zingari” e “drogati” sono dunque le categorie che più procurano disagio: il 70% avrebbe problemi a cenare con un tossicodipendente, il 66% con un rom, il 74% si sentirebbe urtato dall’avere un “tossico” vicino di casa, il 70% un rom. Grossi problemi anche con extracomunitari e musulmani: 4 su 10 preferirebbe non averli come vicini di casa e circa uno su tre (28% e 33%) proverebbe disagio se li avesse come colleghi di lavoro. Passando al piano personale, il quadro non cambia molto: il fidanzato da evitare per la figlia? Il tossicodipendente (82%), il rom/sinti (72%), il musulmano (69%), un uomo più anziano (58%), un’altra donna (54%), un extracomunitario (50%). A colpire è anche un altro aspetto: la differenza tra la discriminazione percepita e quella realmente vissuta. Per l’87% degli intervistati, ad esempio, in Italia ci sono diffusi atteggiamenti discriminatori legati alle preferenze sessuali e per l’83% alle origini etniche. Mentre il 66% si è sentito discriminato almeno una volta nella vita. Per che cosa? Condizione economica (40%), motivi estetici (36%), peso (35%) e genere (34%). L’indagine ha poi messo in luce che le persone che fanno riferimento ai valori della patria e della tradizione cattolica sono molto più tolleranti della media, salvo nel caso degli omosessuali. Tollerante è anche chi asserisce di credere molto nel valore della scuola e della formazione. A produrre ostilità verso i migranti sono invece il senso di insicurezza e la percezione di essere esclusi dalla società. Insomma: la discriminazione non trova terreno fertile dove ci sono cultura ed educazione, prolifera quando a dominare sono le difficoltà e le paure individuali.

 

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la violenza delle parole

le parole sono pietre

di Michela MarzanoMarzano

 

in “la Repubblica” del 26 ottobre 2014

“Anche le parole possono uccidere”.

È forse provocatorio il modo in cui sono state scelte le parole con cui, alla Camera, è stata lanciata una campagna pubblicitaria ideata da Armando Testa e promossa da alcuni giornali cattolici. Ma siccome l’intento della campagna è proprio quello di sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti della violenza verbale, forse non si poteva fare altrimenti. Come attirare l’attenzione sulla banalizzazione contemporanea degli insulti? Come fare per spiegare la violenza del linguaggio? Certo, non sono le parole, di per sé, ad essere pericolose. Il pericolo comincia quando le si usa male, a sproposito, senza fare attenzione. Perché allora, invece di aiutarci a mettere ordine nel mondo, come spiega Albert Camus, non fanno altro che aumentare la quantità di sofferenza che già esiste. Tanto più che, negli ultimi anni, l’utilizzo di alcuni insulti  sembra essere stato del tutto sdoganato: sembra normale parlare di una persona di colore chiamandola “negro”, di una persona con qualche chilo di troppo definendola “cicciona”, di un omosessuale utilizzando il termine “frocio”, e via dicendo. “Meno droga, più dieta, messa male”,  qualche giorno fa Maurizio Gasparri, vice-presidente del Senato, ad una ragazza che voleva difendere Fedez, stupendosi poi della reazione che il tweet provocava sui social network. “Io ho solo risposto, perché dovrei scusarmi?”, ha replicato a chi gli faceva notare non solo la volgarità della frase, ma anche la violenza del messaggio. Mostrando così di non capire fino a che punto certe parole possano ferire, e come talvolta sia proprio a forza di banalizzare la violenza verbale che si legittimano poi alcuni passaggi all’atto. Non è stato anche perché tutti lo chiamavano “grasso”, “chiattone”, “panzone”, che poi gli aguzzini di Vincenzo, il ragazzo napoletano ricoverato in fin di vita con gravi lesioni all’intestino, hanno pensato di poter continuare a “scherzare” stuprandolo con un tubo collegato a un compressore per “gonfiarlo”? La performatività del linguaggio, per riprendere le parole di John Austin e di John Searle, non è l’invenzione di alcuni filosofi avulsi dalla realtà, ma una delle caratteristiche principali della lingua. Quando si parla, il più delle volte non ci si limita a dire qualcosa o ad esprimere un’idea, ma si agisce. E, come ogni altro gesto e ogni altra azione, anche gli atti linguistici hanno delle conseguenze. Ecco perché, nel caso degli insulti, nel mondo anglosassone si parla di hate speech, “discorso dell’odio”, ossia di parole che vengono utilizzate al solo fine di offendere e far male. Non si tratta né di esprimere un’opinione né di cercare di argomentare con l’interlocutore, ma di far tacere la persona che si ha di fronte o con la quale si discute. È un modo per ridurre al silenzio l’altra persona, esattamente come quando la si schiaffeggia o si utilizza un altro tipo di violenza. D’altronde, che cosa potrebbe mai rispondere chi si sente urlare “ciccione”, “negro”, “frocio” o chi riceve una mail o un tweet di questo tipo? Cos’altro si potrebbe fare se non rincarare la dose, alimentando così la violenza, oppure ammutolirsi e soffrire in silenzio? “Parlar male di qualcuno equivale a venderlo, come fece Giuda con Gesù”, aveva  detto qualche mese fa Papa Francesco, invitando non solo a stare dalla parte di coloro di cui “si dice ogni male”, ma anche a non utilizzare quelle paroleproiettili che offendono, umiliano, feriscono, talvolta uccidono anche la personalità di chi le riceve. Tanto più che certe parole, quando le si utilizza sui social network, restano poi prigioniere della rete, moltiplicandosi in mille rivoli e privando il linguaggio di valore. Le parole servono per esprimere sentimenti e stati d’animo, per comunicare con gli altri e creare relazioni, per difendere le proprie idee e i propri valori. Quando prevale però la “cultura dello scarto”, per citare ancora una volta Papa Francesco, oppure si immagina che l’unico modo per emergere nella società sia denigrare e umiliare, anche le parole possono trasformarsi in armi che sfasciano il mondo.

 

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