anche la chiesa e la sua teologia hanno bisogno di una rifondazione?

CHE NE SARA’ DELLA CHIESA SENZA UNA NUOVA TEOLOGIA?

di Augusto Cavadi

 
è urgente anche, e per certi versi prioritariamente, una rivoluzione mentale. Nessuna riforma ecclesiale sarà incisiva e duratura senza una riforma del pensiero, del modo di concepire Dio e il mondo. Insomma: senza una nuova teologia

Ciò che leggiamo nel Vangelo secondo Luca (2,34- 35) a proposito di Gesù (“segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori”) lo possiamo ripetere per ogni “spada che trafigge l’anima” (ivi) dell’umanità, come la pandemia in corso nel mondo. Nell’ordinarietà del quotidiano possiamo procedere ambiguamente, in una sorta di zona grigia fra incredulità e fede, rimandando a data da destinarsi le domande cruciali sulla vita e sulla morte: ma, quando alcune calamità ci colpiscono più direttamente e più insistentemente, siamo costretti a sbilanciarci. Se non col pensiero, almeno nei fatti: con i gesti, i comportamenti privati e pubblici. Abbiamo assistito così, in questi mesi, alla divaricazione più netta delle correnti compresenti nel vasto mondo della cattolicità. Negli ambienti conservatori, tradizionalisti (le cui opinioni – espresse per esempio negli articoli di “Corrispondenza romana” – riesco a seguire solo per dovere di informazione), è stato un tripudio di suppliche, rosari, novene, processioni più o meno clandestine, benedizioni impartite per via aerea da elicotteri appositamente noleggiati… Gli ambienti più inquieti, più critici, sono stati spiazzati da questa sorta di “rivincita” del sacro che è apparsa come un salto indietro di alcuni secoli nella storia della devozione cattolica. Troppo ovvia la domanda: se Dio può fermare l’epidemia, perché aspetta le nostre preghiere per agire? Ha forse bisogno del sacrificio di migliaia di uomini e donne prima di muoversi a pietà? Nel mezzo, per così dire, Papa Francesco: se la scena di questo vecchio che avanza claudicante, sotto la pioggia sferzante, in una piazza San Pietro deserta, ha senza dubbio impressionato l’immaginario collettivo, non si può negare che per alcuni di noi il suo pellegrinaggio ad un’icona della Madonna per chiedere la fine dell’epidemia è risultato sconcertante. Questo scenario ci suggerisce molte riflessioni di cui posso qui evocarne solo qualcuna. Che ne sarà della Chiesa di papa Bergoglio? Ad ogni enciclica, ad ogni sinodo, ad ogni omelia siamo costretti a constatare che il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto: un passo avanti e uno indietro, un passo a sinistra e uno a destra, un saltello in alto e una flessione in basso. Ci siamo ripetuti a vicenda che da solo un papa non può riformare una Chiesa e che c’è bisogno di un movimento dal basso che lo sostenga e lo solleciti. Vero. Ma questo movimento dal basso che strumenti deve mettere in atto? Raccogliere firme, organizzare cortei, promuovere convegni, convocare assemblee, scrivere sui quotidiani, esprimersi sui social network…tutto giusto. Ma anche sufficiente? Non so se per deformazione professionale, ma mi sento obbligato a precisare che è urgente anche, e per certi versi prioritariamente, una rivoluzione mentale. Nessuna riforma ecclesiale sarà incisiva e duratura senza una riforma del pensiero, del modo di concepire Dio e il mondo. Insomma: senza una nuova teologia. E qui casca l’asino. Per quanto ne posso capire, papa Francesco e i suoi sostenitori sono indeboliti da un patrimonio intellettuale appartenente a un ‘paradigma’ (direbbe Küng seguendo Fayerabend) ormai insostenibile. Il Dio della Bibbia e della tradizione teologica occidentale è troppo antropomorfico per reggere l’urto dell’evoluzionismo darwiniano, della fisica quantistica e delle nuove teorie cosmologiche; il Cristo della devozione tradizionale è molto più vicino al pantocratore delle cattedrali normanne della mia Sicilia che al Gesù dei vangeli; la Chiesa cattolica è troppo simile all’impero romano d’occidente che alla famiglia dei discepoli erranti per il mondo, dotati solo di un bastone e di una bisaccia. Con questa visione teologica complessiva, mi pare non si vada molto lontano. In Italia la maggior parte dei teologi sembra non avvertire neppure le colossali dimensioni di questa problematica: tranne poche eccezioni (tra cui Carlo Molari, Cosimo Scordato, Vito Mancuso), sono solo alcuni biblisti (come Ortensio da Spinetoli, Franco Barbero e Alberto Maggi) a ricercare nuove prospettive sul divino. In occasione di questa pandemia, su iniziativa di don Paolo Scquizzato, è uscito un volume (La goccia che fa traboccare il vaso. La preghiera nella grande prova) che – pur nella varietà dei punti di vista – procede in questa direzione. Per fortuna ci sono nel mondo – cattolico e soprattutto protestante – dei ricercatori più coraggiosi come il gesuita Roger Lenaers (autore, tra l’altro, di Cristiani nel XXI secolo? Una rilettura radicale del credo) o il Vescovo episcopaliano John Shelby Spong (autore, tra l’altro, di Perché il cristianesimo deve cambiare o morire) che avanzano critiche radicali a quella impostazione che – non so quanto felicemente – definiscono ‘teismo’. Di questi tentativi non sapremmo nulla se l’agenzia di stampa “Adista” non ce ne parlasse spesso e se studiosi come don Ferdinando Sudati e Claudia Fanti non avessero pubblicato in italiano libri come cavad, Il cosmo come rivelazione, Una spiritualità oltre il mito. Personalmente sono convinto che questi studi sono più convincenti nella pars destruens che nella pars construens : ma se non si fanno ipotesi, se non ci si confronta creativamente e liberamente, si resta muti. La ‘destra’ cattolica ha duemila anni di volumi (dagli apologisti del II secolo a Joseph Ratzinger) cui attingere per riproporre la solita minestra (che l’opinione pubblica istruita tende a rifiutare sempre più diffusamente): gli altri abbiamo troppo poco in mano e dobbiamo darci da fare. Cioè: da pensare, da discutere, da scrivere, da divulgare.

di Augusto Cavadi, 27 Giugno 2020, www.zerozeronews.it

due ‘dei’ – un solo ‘dio’, quello dei mafiosi e dei leghisti

il ‘dio dei leghisti’ e il ‘dio dei mafiosi’

Premessa necessaria: la mafia e la Lega sono due organizzazioni radicalmente differenti. La mafia è un fenomeno di origine meridionale che si è diffuso al centro e al nord della Penisola; la Lega è un fenomeno di origine settentrionale che si è diffuso al centro e al sud della Penisola. La mafia è un’associazione di criminali che ha come obiettivo di acquisire l’egemonia mediante metodi (almeno potenzialmente) violenti; la Lega è un’associazione di cittadini che ha come obiettivo di acquisire l’egemonia mediante metodi (almeno formalmente) legali. La mafia ha conquistato Roma per inquinarla, corromperla, sfruttarla; la Lega ha conquistato Roma con l’intenzione di liberarla dagli inquinamenti dei corrotti e dallo sfruttamento dei “ladroni” (quanto ci sia riuscita, è ancora presto per dirlo). Negli ultimi anni un numero crescente di politici meridionali si guarda bene dall’ostentare relazioni mafiose nel timore di perdere consensi elettorali; invece, sempre negli ultimi anni, un numero crescente di politici meridionali si affanna ad ostentare relazioni leghiste nella speranza di accrescere i consensi elettorali.

Si potrebbe continuare per intere pagine nell’elencare le differenze fra la mafia e la Lega. Ma non hanno proprio nulla di comune?

Quando, alcuni anni fa, presentai in provincia di Bergamo un mio libro intitolato Il Dio dei mafiosi, interamente dedicato alla strumentalizzazione dell’universo simbolico cattolico da parte delle organizzazioni criminali del Sud, un signore del luogo, intervenendo al dibattito, mi chiese – non so se con candore o con malizia ben celata – se dunque la mafia non avesse insegnato alla Lega come rapportarsi all’elettorato cattolico, radicato nel lombardo-veneto non meno che in Sicilia. L’osservazione mi colpì al punto che volli studiare la questione e la stessa casa editrice milanese (la San Paolo) che aveva ospitato il primo volume pubblicò dopo poco anche Il Dio dei leghisti.

Eravamo nel 2012 e bisognava acuire lo sguardo per trovare documenti che attestassero questa strategia promozionale della Lega: l’associazione “Cattolici padani” del senatore Giuseppe Leoni; le dichiarazioni di Angelo Alessandri, presidente della Lega Nord (“Come molti fondamentalisti cattolici, pensiamo che la nostra fede sia tutt’uno con la nostra identità. E non dimentichiamo mai che è stata il sostegno più grande nella lotta di sempre: quella contro gli islamici”); alcune esternazioni confidenziali dello stesso Umberto Bossi che, convertitosi dopo una difficile crisi clinica, aveva abbandonato le originarie posizioni anti-clericali neo-pagane (quando accusava “il papa polacco” di “rubare il lavoro ai papi italiani”) , riscoprendo alcune devozioni dell’infanzia (“E’ un portafortuna. Ogni volta che vado via lo tocco…” dichiarò del crocifisso di legno esposto alla porta di casa) e sbilanciandosi anche in ardite speculazioni teologiche (“Anche Dio è federalista: c’è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”).

Dopo il tramonto del padre fondatore e l’ascesa del giovane Matteo Salvini tutto è diventato più chiaro, più tangibile: rosari e vangeli, Madonne e Padri Pii, vengono sventolati in radunate oceaniche sotto gli occhi di telecamere da ogni parte del mondo. Con quanta sincerità interiore? Con quanta adesione intima al vangelo della solidarietà, della compassione, dell’accoglienza dello straniero? Con quanta sintonia con un rabbino nomade che, dovendo spiegare come si dovrebbe amare il prossimo, sceglie il racconto di un Samaritano che si china a curare le piaghe di un poveraccio di un’altra religione e di un’altra etnia? Qui, come nel caso di don Calò Vizzini e di Genco Russo, di Benedetto Provenzano e di Pietro Aglieri, l’ultimo giudizio non spetta a noi mortali.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

 

image_pdfimage_print