un libro sulla profonda teologia di papa Francesco

la teologia di papa Francesco

di Bruno Scapin
in “Settimana-News”

Alberto Cozzi – Roberto Repole – Giannino Piana,

Papa Francesco. Quale teologia?,

Cittadella Editrice, Assisi 2016, pp. 210, € 13,90.

 

 

«Tre saggi che, muovendo da prospettive diverse e con metodi diversi, offrono uno spaccato significativo della “teologia” di papa Francesco…, smentendo le critiche, talvolta aspre e preconcette, di quanti lo accusano di scarsa profondità dottrinale».

È quanto si legge al termine della Prefazione a questo volume che raccoglie i contributi di Alberto Cozzi, docente di teologia sistematica presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano, di Roberto Repole, docente di teologia sistematica presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (sezione di Torino) e presidente ATI, e di Giannino Piana, già docente di etica cristiana presso le università di Urbino e di Torino ed ex presidente ATISM. Cozzi riconosce a papa Francesco un modo originale di esprimere la sua teologia sia nel linguaggio sia nel modo di argomentare. Luogo privilegiato della teologia bergogliana è il nucleo essenziale dell’annuncio evangelico. Centrale rimane la figura di Gesù che ha assunto nella sua carne tutto l’umano. Per questo papa Francesco ama in particolare il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio. Accanto ad esso, gli altri due pilastri della teologia di papa Bergoglio sono il mistero della croce e il mistero trinitario. In quest’ultimo, particolare rilievo viene data alla persona del Padre come fonte di ogni tenerezza e misericordia e allo Spirito Santo come artefice di fantasia e di novità nella vita della Chiesa. La teologia di papa Francesco nell’analisi di Cozzi – si legge nella Prefazione – «è una teologia robusta, fortemente ancorata alla tradizione e legata al contesto latinoamericano, più interessata all’azione pastorale che alla speculazione teorica». Roberto Repole, nel suo contributo, sottolinea la fedeltà di papa Francesco all’ecclesiologia conciliare, della quale riprende con vigore alcuni temi, come la Chiesa “popolo di Dio” e il sensus fidelium. Accentuazioni caratteristiche del pontefice sono la Chiesa “in uscita” e la Chiesa che risponde alle urgenze della società di oggi non rifuggendo dal mondo ma incarnando, in particolare nelle “periferie esistenziali”, l’amore di Dio per l’uomo. Non vanno dimenticate altre dimensioni dell’ecclesiologia bergogliana, come la centralità delle Chiese locali e la riforma del papato e della curia in senso sinodale. Bastano questi cenni per capire come questo pontificato segni «una nuova, importante tappa nella ricezione del Concilio» (dalla Prefazione). Il terzo contributo è di Giannino Piana su un tema a lui congeniale: “Il magistero morale di papa  Francesco. Tra radicalità e misericordia”.

È chiaro come il papa attuale coniughi l’ideale con la realtà, il dato oggettivo con il dato soggettivo, tenendosi lontano sia dal rigorismo sia dal lassismo e puntando, con l’aiuto della grazia, al “bene possibile”. Al mondo dell’economia papa Bergoglio chiede di non inseguire il feticismo del denaro e la logica spietata del mercato, che generano esclusione e “inequità”. E alla politica domanda la tutela dei diritti umani, la ricerca del bene comune e l’attenzione ad un’ecologia integrale. Non poteva mancare, nelle pagine di Giannino Piana, la trattazione dei temi della famiglia e della sessualità, comprese le “situazioni irregolari”. Qui – secondo il teologo – il pontefice mostra di avere a cuore la bellezza dell’ideale evangelico declinato, però, realisticamente, sulle diversità soggettive e situazionali. Preziosa, per interpretare i testi di papa Francesco, si rivela la Postfazione firmata dal card. Ravasi. Egli, infatti, sottolinea come il pontefice ami lo stile omiletico e il linguaggio simbolico. Il primo gli permette quell’approccio dialogico e immediato che crea una relazione coinvolgente con l’ascoltatore. Il secondo (pensiamo ad alcune espressioni come “Chiesa ospedale da campo”, “l’odore delle pecore”, “la mafia (s)puzza”…) gli permette di scolpire in immagini assai efficaci il concetto che intende trasmettere. Un testo che fa giustizia delle riserve che anche qualche influente ecclesiastico ha manifestato sullo spessore e sull’ortodossia della teologia di papa Francesco.

 

la “questione omosessualità” è una delle grandi sfide teologiche e pastorali della Chiesa di questo secolo

 

Nuove frontiere della pastorale e della teologia Lgbt

nuove frontiere della pastorale e della teologia Lgbt

Damiano Migliorini  

da: Adista Documenti n° 43 del 10/12/2016
È sotto gli occhi di tutti, ormai, che la “questione omosessualità” è una delle grandi sfide teologiche e pastorali della Chiesa di questo secolo. Basti pensare all’acceso dibattito del Sinodo 2014-2015 sulla famiglia, che ha visto emergere una realtà ecclesiale divisa a tutti i livelli, o almeno decisamente “in cammino”. È la questione, d’altro canto, che crea maggiori incomprensioni tra Chiesa, laici e società civile (incline a legittimare per via legislativa le unioni omoaffettive), ben più di altre, come la contraccezione o il sacerdozio femminile, che avevano acuito lo scontro nei decenni passati.
Sugli esiti del Sinodo e i suoi silenzi è stato detto molto
1. Amoris Laetitia è un testo – su questa tematica – sostanzialmente conservatore
2. ma l’accidentato percorso sinodale «ci ha mostrato la necessità di continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali»
3. L’amore omosessuale è uno di questi, lo si voglia o no. E se non è cambiata la dottrina, è almeno cambiato il metodo con cui affrontare le controversie su alcuni temi. Il che fa ben sperare.
Questo articolo s’inserisce nella consapevolezza di questo nuovo atteggiamento e in questa sfida: tratteggerò lo “stato dell’arte” a livello teologico, per poi focalizzarmi sulla pastorale. Procedo per punti.

Stato d’avanzamento in esegesi e teologia

Se l’esegetica ha sciolto buona parte delle difficoltà legate all’interpretazione intransigente dei versetti biblici, più complessa è la situazione della sistematizzazione teologica. L’antropologia cristiana fatica ancora a confrontarsi con il concetto di orientamento sessuale (o.s.), ed è per questo motivo che le istanze del mondo omosessuale sono diventate un problema test per la teologia cattolica (e per la filosofia4), poiché implicano di andare alle radici dei propri dispositivi teologici in morale sessuale. Senza pretendere di fare un resoconto delle questioni aperte5, è noto, ad esempio, che il conflitto con il paradigma scientifico – e la conseguente cultura sessuale – nasce dall’acquisizione moderna secondo cui l’o.s. non ha a che fare solo con la funzionalità degli organi, ma col desiderio, un fenomeno psicologico la cui evoluzione non è intrinsecamente eterosessuale, perché non è orientata (primariamente) alla procreazione6.

Accettare l’esistenza di un o.s. che si scopre (non si sceglie), allora, costringe a rivedere in parte l’insieme delle inclinazioni naturali che ci permettono di individuare i beni che rientrano nella legge morale naturale. Il fine (o bene) procreativo necessita o di un’interpretazione più ampia o di essere esigito solo in determinati contesti.

La difficoltà di pensare a uno sviluppo diverso da quello lineare “sesso biologico-identità di genere-orientamento eterosessuale-procreazione” sta dunque alla base dell’incapacità di concepire l’esistenza di più identità sessuali, di varianti sane della sessualità; e risiede in una rigida interpretazione teleologica, nella quale il desiderio sessuale (e quindi l’uso degli organi genitali) ha come unico fine la procreazione biologica7. Ecco perché, come si diceva in apertura, oggi il “tema omosessualità” è diventato il punctum dolens della teologia, ed è percepito dai più – a ogni di livello di discussione – come “la questione” con cui la Chiesa dovrà fare i conti se vorrà, finalmente, chiudere con un passato di modelli teologici carichi di pregiudizi e di pre-comprensioni pseudo-scientifiche, oltre che inserirsi in un modello democratico laico e liberale.

Nonostante le difficoltà teologiche (e disciplinari), non sono poche ormai le proposte interne al mondo cattolico che cercano d’armonizzare le acquisizioni scientifico-culturali con la morale sessuale cristiana8 (anche di solida impostazione tommasiana9). Certo, ciascuno può esprimere le sue perplessità, ma senza dubbio, pensare teologicamente l’orientamento sessuale è il compito dell’attuale “teologia delle sessualità”. Sforzo che si traduce nel comprendere perché il disegno di Dio preveda che ci siano minoranze sessuali (sarà necessario formulare una fenomenologia dell’amore omosessuale) e quale sia il Suo progetto su tanta diversità: forse è più ampio del previsto, forse rimarrà un mistero.

Se abbiamo l’umiltà di riconoscerlo, sarà fondamentale sondare se la recente teologia dell’unità duale, dell’una caro, il mistero nuziale e la teologia della famiglia come immagine della Trinità siano realmente consistenti10. La mia ipotesi è che ciascuna di esse sia valida (con non pochi accorgimenti!) quando è utilizzata per descrivere la bellezza di una realtà e non – come avviene oggi – per screditarne un’altra11. Le teologie che nascono “contro” qualcuno, raramente sono equilibrate. Faccio un esempio spicciolo: considerare il mistero nuziale come un destino all’eterosessualità riproduttiva – e considerare ogni azione che non attui quel destino come una negazione del mistero-progetto trinitario di Dio – crea dei cortocircuiti teologici, soprattutto riguardo alla scelta di vivere la sessualità in forma celibataria.

Come avanzare ancora?

Se la precarietà teologica (attuale) e l’approvazione ecclesiale (futura) hanno tempi di maturazione lunghi, quelli della vita reale sono brevi: che fare, dunque nel frattempo? Un’operazione che può sembrare banale – ma non lo è affatto – è cominciare a conoscere questa diversità: incontrandola, per sperare di comprenderla. Va bene l’ideale, ci ricorda papa Francesco, ma questo non può renderci ciechi di fronte alla realtà. E quest’ultima, oggi, è fatta anche della quotidianità degli amori delle minoranze sessuali. I teologi non possono più far finta che non esistano, pena il vivere in un mondo avulso da quello dei fedeli. Del resto, i ritardi nella teologia sono dovuti proprio a un “non voler vedere”, un “non voler incontrare”. Ecco perché scorgo all’orizzonte – nell’era di (più) libera discussione aperta da Francesco – due sfide per i cristiani Lgbt.

La prima è di contribuire al rinnovamento dottrinale: le persone omosessuali desiderano restare nella Chiesa, e questo prezioso legame con l’istituzione è espresso proprio nella richiesta di riconoscimento, non di semplice compassione. Le coppie cristiane Lgbt credono fermamente che in una razionalità condivisa possa trovare una sistemazione (teo)logica anche il proprio amore; ecco perché sostengono un rinnovamento dottrinale che non passi per l’abbandono di tutte le categorie etiche.

La seconda è quella della testimonianza: è il compito primario di andare dai pastori delle proprie Chiese e porsi in dialogo con loro. Consapevoli che per la maggioranza dei presbiteri, dei vescovi, l’omosessualità è un tema lontano, che li imbarazza e li mette in seria difficoltà pastorale (dovuta anche allo strabismo dottrinale); in pochi hanno la fortuna di parlare con credenti omosessuali che mostrino loro un percorso di fede e di amore; e se la verità si coglie nelle relazioni12, non possiamo sottrarci dal compito d’instaurarle con parresia e apertura di cuore. Questa è la pastorale che le persone omosessuali possono svolgere nei confronti della Chiesa13, sapendone accettare con pazienza e tenerezza le lentezze.

Come alcuni autori testimoniano nelle pagine seguenti, i cristiani Lgbt italiani stanno promuovendo ottime campagne di sensibilizzazione. E bisogna riscontrare una nuova sensibilità da parte dei media cattolici moderati; per la prima volta dopo secoli di silenzio, il mondo dei cristiani Lgbt trova la possibilità di testimoniare fiduciosamente la propria esistenza, positiva in quanto esistenza, comunità di persone raccolte nel nome di Gesù. Seppur con delle riluttanze interne, la Chiesa italiana sta trovando la forza di mettersi in ascolto (fa parte del suo compito, della sua essenza!) e va sostenuta in questo cammino; i frutti di bene non tarderanno a venire.

L’approfondimento proposto da Adista va in questa direzione narrando storie e progetti. Un incontro vivo con la diversità: gli autori testimoniano percorsi molto differenti, fatti di fatiche e gioie, protesta e proposta, cedimenti e rilanci. Ascoltiamoli senza pretendere di giudicarli, e sappiamone cogliere la buona volontà che li ha spinti a mettersi in gioco, qui come nella vita di tutti i giorni.

Le esigenze pastorali

In attesa di una visione teologica d’insieme è importante offrire alle persone omosessuali, qui e ora, un realistico percorso di vita (anche di coppia) cristiana – spirituale14 – conforme al bene possibile nella condizione data. Amoris Laetitia, da questo punto di vista, dà un piccolo segnale: quando si parla di famiglia bisogna parlare della possibilità che al suo interno vi siano persone gay. È una situazione comune, e perché tale va presa in considerazione con una certa serenità. Un genitore che legge AL è messo di fronte (si “prefigura”) alla possibilità di avere un figlio (o un parente) omosessuale, e la strada indicata è una sola: accoglienza serena prima di tutto, e poi discernimento. Riuscirà, questo, a ridurre i drammi di rifiuto che oggi si consumano nelle famiglie? Ho fiducia che la risposta possa essere affermativa. Da AL emerge che il figlio Lgbt non è (più) un lebbroso15, né una catastrofe: è un dono di Dio che può compiere la sua vita cristiana.

Questa accoglienza, a livello di comunità ecclesiale, saprà tradursi in azioni concrete volte a smontare cognitivamente i pregiudizi, attraverso processi di formazione in parrocchia? La speranza è che la risposta sia di nuovo affermativa; sarebbe la più coerente con l’invito generico all’inclusione di AL. C’è davvero un urgente bisogno di una nuova narrazione delle minoranze sessuali (e dei loro amori) nelle Chiese, con un linguaggio e una concettualità che la sappia “dire” con rispetto, superando quella latente omofobia che ancora c’impedisce un incontro sincero. È la speranza che – nonostante le nostre comunità non perderanno mai il vizio atavico d’escludere il presunto peccatore – Gesù tornerà continuamente a ricordarci che «anche lui», come Zaccheo, «è figlio di Abramo» (Lc 19,9).

Per concludere con uno sguardo di contesto: oggi assistiamo alla lenta e faticosa attuazione della rivoluzione dolce del Vangelo, riguardo alla visione della donna, della laicità, della democrazia, delle minoranze religiose, etniche e sessuali. Tolleranza, libertà e uguaglianza di dignità sono i Suoi frutti, che le nostre comunità stanno ora facendo maturare, assieme alle energie della società civile. Allora forza, «sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» (Lc 12,54-59).

Le testimonianze raccolte ci aiutano a guardare a questo tempo presente, con sguardo critico, accettando “il dolce gioco” dell’imprevedibilità della diversità. Per poterlo giudicare con ponderatezza non c’è davvero una via migliore. Prima o poi, ne sono convinto, si passerà dai silenzi al canto (Sal 30,13). Con coraggio, Adista cerca di aggiungere qualche nota allo spartito che si va via via componendo.

Note

1 L. Eugenio, “Le parole che non ti ho scritto”, in Adista Notizie 38/2015; D. Migliorini, “Sinodo, sull’omosessualità un silenzio rumoroso”, in Micromega-online, 2015.

2 Una mia più articolata analisi: “Amoris Laetitia e pastorale per le persone omosessuali”, in Confronti.net, 2016.

3 Amoris Laetitia, n. 2.

4 Per uno sguardo filosofico: J. Finnis e M. Nussbaum, “Is Homosexual Conduct Wrong?”, in The New Republic, 15\11\1993; M.J. Perry, “The Morality of Homosexual Conduct”, in Notre Dame Journal of Law 41 (1995), 41-74; J. Corvino ed., Same Sex: Debating The Ethics, Rowman-Littlefield 1997; J. Corvino e M. Gallagher, Debating Same-Sex Marriage, Oxford Univ. Press 2012; E. Feser, Michael Rea Owes Swinburne An Apology, in edwardfeser.blogspot.com, 26\09\2016.

5 Cf. A. Autiero, “Omosessualità: uno sguardo nuovo?”, Il Regno Doc, 32 (2015), 12-18.

6 N. Bonetti, “Intervista al moralista Schockenhoff”, in Ilregno-blog.blogspot.it, 2015; X. Thévenot, “Nuovi sviluppi in morale sessuale”, in Concilium 10 (1984) 3, 148-159.

7 Di qui la persistenza, nella Chiesa, della promozione delle “teorie riparative” (cf. P. Rigliano et al., Curare i gay?, Cortina 2012).

8 Oltre al nostro libro, qualche altro titolo: S.L. Cahill, Sesso, genere ed etica cristiana, Queriniana 2003; E. Chiavacci, “Omosessualità. Cercare ancora”, in Vivens Homo 11 (2000) 2, 423-457; K. Mertes, “La rimozione dell’omofobia nella Chiesa”, in Gionata.org, 2016; M. Vidal, Omosessualità, scienza e coscienza, Cittadella 1983; V. Tombolato, Omosessualità. Un oggettivo disordine morale?, Brigo 2008; C. Demur e D. Müller, L’omosessualità. Un dialogo teologico, Claudiana 1995; J. Gafo, Omosessualità, un dibattito aperto, Cittadella 2000; Aa.Vv., “Le omosessualità”, in Concilium 1 (2008), 13-147; G. Piana, Omosessualità. Una proposta etica, Cittadella 2010; G. Robinson, Le strade dell’amore, Piagge 2015; T. Salzman e M. Lawler, The Sexual Person, Georgetown Univ. Press 2008; M. Farley, Just Love, Bloomsbury 2006; P. Gamberini, “Coppie omosessuali”, in Il Regno Attualità 2 (2015) pp. 129-13. Più dirompente: M. Althaus-Reid, Il Dio Queer, Claudiana 2014.

9 A. Oliva, L’amicizia più grande, Nerbini 2015.

10 Tra le poche voci critiche, segnalo: S. A. Ross, “The Bride of Christ and the Church Body Politic”, in Verifiche 42 (2013) 1-3, 215-230.

11 Mi sembra questo il vizio di fondo, ad es., di S. Belardinelli e L. Melina (eds.), Amare nella differenza, Cantagalli 2012; cf.: S. Girgis et al., “Che cos’è il matrimonio?”, Vita&Pensiero 2015.

12 Consiglio: G. Findlay, “Wolterstorff Says ‘Yes’ To Same-Sex Marriage”, 2016, in www.calvin.edu.

13 Ho proposto questa prospettiva al IV Forum dei Cristiani Lgbt (Cf. “Omosessualità. Pensare e sognare una pastorale per la Chiesa”, 2016, in Gionata.org). È il messaggio anche del documento finale, “In cammino nella Chiesa” (Gionata.org, 6 nov. 2016).

14  J. McNeill, Scommettere su Dio. Teologia della liberazione omosessuale, Sonda 1994; F. Barbero et Al., Il posto dell’altro, La Meridiana 2000; J. Gramick e R. Nugent, Anime gay, Ed. Riuniti 2003; J. Alison, Fede oltre il risentimento, Transeuropa 2007; Lorenzetti e Rossi in Presbyteri 30 (1996) 2; rimando alla parte pastorale del nostro libro (pp. 347-408).

15 L. Ciotti, “I ‘nuovi’ lebbrosi”, in Aa.Vv., Francesco un “pazzo” da slegare, Cittadella 1983, 243-259.

Damiano Migliorini è filosofo e autore, insieme a Beatrice Brogliato, del libro L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale, Cittadella 2014

* Foto di William Murphy, tratta dal sito Flickr, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

quale teologia per una vera liberazione: 50 anni di ‘Concilium’ e 50 anni del Cocilio Vaticano secondo

lotte per un mondo più inclusivo

Lungo i cammini della liberazione. Le gioie e le speranze di una teologia declinata al futuro

lungo i cammini della liberazione

le gioie e le speranze di una teologia declinata al futuro

 
 da: Adista Documenti n° 16 del 30/04/2016

Il suo primo numero la rivista internazionale di teologia Concilium lo ha pubblicato nel 1965 prima ancora della conclusione del Vaticano II, con la lucida consapevolezza – come evidenziano i teologi brasiliani Maria Clara Bingemer e Luiz Carlos Susinnell’editoriale del numero, il primo del 2016, che celebra il «duplice giubileo» – che, «per una Chiesa che si rinnovava in modo così radicale», fosse «necessaria una teologia ugualmente rinnovata». E non ci sono davvero dubbi che la rivista sia stata «una delle espressioni più qualificate di questo rinnovamento teologico».

Chiamata dunque a celebrare il doppio appuntamento, quello del cinquantesimo anniversario del Concilio, con tutto ciò che questo ha comportato per la vita della Chiesa, e quello del suo cinquantesimo compleanno, la rivista aveva organizzato, nel maggio del 2015, alla Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro, un grande convegno internazionale, sul tema “Cammini di liberazione: gioie e speranze per il futuro”. Titolo, questo, che, oltre a recuperare «la bella e felice» espressione iniziale della Costituzione pastorale Gaudium et spes, voleva indicare la necessità non solo e non tanto di fare memoria di un evento passato, per quanto straordinaria sia stata la sua importanza per la Chiesa, quanto piuttosto, spiegano Bingemer e Susin, di «riscattare tutto il potenziale di innovazione e di appello che questa espressione conteneva, puntando al futuro» e dunque di domandarsi come quell’avvenimento «continui a invitarci a guardare avanti, attenti alle domande e alle inquietudini delle nuove generazioni e disposti a una fedele creatività nel tentativo di rispondere a esse». Con la convinzione, espressa dal teologo Jon Sobrino nel suo intervento, che «vi sono eventi passati che seppelliscono la storia e catene che la imprigionano. E vi sono eventi passati che liberano la storia dalle catene, come molle che spingono in avanti».

Non sorprende allora come, raccogliendo in questo primo numero del 2016, il cui titolo riprende esattamente quello del convegno, le riflessioni tenute a Rio de Janeiro nel maggio del 2015, la rivista Concilium dimostri nella maniera più chiara come la teologia da essa elaborata nel corso di questi cinquant’anni abbia «sempre seguito da vicino i cambiamenti epocali avvenuti nella cultura e l’avvento di nuovi paradigmi che hanno orientato l’intelligenza della fede verso inevitabili trasformazioni». Trasformazioni che, come evidenzia nel suo intervento André Torres Queiruga,portano con sé sfide di enorme portata, a cominciare da quella «lanciata al pensiero religioso dalla Modernità con la scoperta dell’autonomia». Una questione di fronte a cui la teologia si rivela ad oggi piuttosto impreparata, non avendo ancora trovato parole che presentino le questioni religiose «che ci interessano realmente» in maniera «davvero significativa, al di là della semplice ripetizione di formule o di concetti che non parlano affatto o dicono molto poco». Basti pensare, spiega il teologo spagnolo, a quanto sia difficile parlare, «in un ambiente mediamente critico», di questioni come la Trinità, o di Gesù Cristo, del male, della preghiera e di molti altri temi che costituiscono il nucleo del messaggio cristiano.

O, ancora, la sfida – su cui pone l’accento Luiz Carlos Susin – rappresentata dal «dialogo con le culture contemporanee in un mondo più complesso», tenendo presente il principio per cui “il tutto è più grande della somma delle parti”. Cosicché, se ha naturalmente senso la raccomandazione di Lev Tolstoj – «se vuoi essere universale, comincia a verniciare il tuo villaggio» – è vero anche, però, che «l’orizzonte ultimo, di futuro, di speranza e di ispirazione anche per la teologia, quando vernicia il villaggio», l’orizzonte «che guidi quindi il lavoro locale e incarnato», non può che essere «il tutto più grande, la visione basata su un vasto orizzonte». E, secondo Susin, «il più ampio orizzonte e contesto culturale e pratico nel quale dovremo fissare la nostra attenzione» è quello ecologico, quello del futuro della Terra e della vita sulla Terra. Un futuro comune che può essere assicurato, conclude Susin, solo dall’ospitalità, intesa come anima della religione, come sua ragione d’essere; l’unica che può «portare salvezza», tanto più nelle condizioni attuali di pluralismo e migrazione: quell’ospitalità che «apre alla famiglia umana e a tutti gli esseri viventi, anche a fratello lupo di san Francesco».  

Deriva da qui, secondo il teologo indiano Felix Wilfred, la necessità per la teologia di diventare «umile nel mezzo della situazione di crisi che l’umanità sta affrontando» e di cooperare con svariate altre forze, focalizzandosi «sugli elementi essenziali». Perché proprio come, di fronte alla casa in fiamme, si ha il tempo di salvare solo le cose fondamentali, così, «quando l’umanità e la natura sono in crisi profonda e immerse nella diseguaglianza e nell’esclusione, abbiamo bisogno di elaborare delle teologie, sia nel Nord che nel Sud del mondo, che si occupino esplicitamente della situazione di crisi dell’umanità e del creato». Una sfida che, per la teologia, presuppone anche la disponibilità, come sottolinea la teologa tedesca Regina Ammicht Quinn, a lasciarsi interpellare e «interrompere» da dubbi e domande, da inquietudini e provocazioni.

di seguito alcuni stralci della riflessione di Wilfred
 da: Adista Documenti n° 16 del 30/04/2016

 

L’intera vita è un viaggio; così anche la liberazione. Eguaglianza e inclusione sono i due occhi della liberazione; sono anche i mezzi per valutare la distanza che abbiamo percorso sulla strada della libertà: maggiori sono l’eguaglianza e l’inclusione, più grande è la liberazione. L’assenza di eguaglianza e di inclusione implicherebbe un mondo di crescente violenza e di crescenti contraddizioni. (…)

Nel mondo in via di globalizzazione il neoliberismo e il capitalismo avanzato, come grandi metanarrazioni, pervadono e controllano – sia come prassi che come ideologia – tutti gli ambiti della vita. L’umanità e la natura hanno bisogno di essere progressivamente liberate dalla loro morsa. (…). In questo cammino di lotta e di liberazione (…) da parte di donne e uomini di ogni nazione, le religioni e le teologie potrebbero svolgere un ruolo importante, con tutte le loro risorse.

Il ruolo della teologia si pone nel contesto della lotta per l’eguaglianza e l’inclusione ispirate dalla compassione e dalla solidarietà. Sulle orme di Gesù, una teologia genuina affronterà le questioni pressanti che toccano l’umanità e la natura, e intreccerà con questi temi la questione di Dio, dal momento che l’umano, il divino e l’universo sono inestricabilmente interconnessi a formare un unico mistero. (…).

UNA TEOLOGIA FOCALIZZATA SUGLI ELEMENTI ESSENZIALI

Senza un contatto diretto con la realtà; la teologia rischia la propria credibilità, per quanto brillantemente possa spiegare gli assunti dottrinali in riferimento alla Scrittura e alla tradizione. È necessario che la teologia diventi umile nel mezzo della situazione di crisi che l’umanità sta affrontando e sia pronta a cooperare con svariate altre forze. In un mondo segnato dalla frammentazione – della conoscenza, del sé, della comunità, dell’economia, della politica ecc. – la teologia, credo, potrebbe offrire un qualche senso di speranza. Una teologia correttamente orientata (…) possiede il potenziale per una visione olistica e mistica e per un approccio integrale. Questo è ciò che si richiede oggi per rispondere alla diseguaglianza e all’esclusione, all’oppressione e all’ingiustizia.

Quando la casa ha preso fuoco, si ha il tempo di salvare solo le cose essenziali. Quando l’umanità e la natura sono in crisi profonda e immerse nella diseguaglianza e nell’esclusione, abbiamo bisogno di elaborare delle teologie – sia nel Nord che nel Sud del mondo – che si occupino esplicitamente della situazione di crisi dell’umanitå e del creato. La teologia è tenuta a rispondere e ha una responsabilità nei confronti dell’umanità e della creazione di Dio. Può essere interessante compiere studi sulla verginità di Maria e fare sottili distinzioni teologiche tra la verginità ante partum, in partu, post partum ecc. Può essere stimolante discutere sul riavvicinamento tra i protestanti e i cattolici in merito alla interpretazione della dottrina della giustificazione. Ma tali interessi dottrinali che hanno impegnato e continuano a impegnare tanta attenzione del mondo teologico, devono retrocedere in secondo piano di fronte alla vastità dei problemi che l’umanità sta affrontando: problemi di diseguaglianza, esclusione, violazione della dignità e dei diritti umani, violenza, guerra, oppressione delle donne e discriminazione nei loro confronti, questioni ambientali. Purtroppo, un’ampia parte della teologia odierna – anche tra i teologi che asseriscono di trarre ispirazione dal Vaticano II  – è spesso evasiva sulla questione della povertà, della diseguaglianza e dell’esclusione.

Questi teologi spesso si perdono nelle discussioni se il Vaticano II sia in continuità con la tradizione o rappresenti una rottura e focalizzano la loro attenzione su minuzie esegetiche nell’ermeneutica dei testi conciliari. Una teologia che si limitasse a spiegare e a interpretare gli aspetti dottrinali del cristianesimo e il suo sistema simbolico non renderebbe un buon servizio all’umanità. La teologia ha bisogno di puntare il suo sguardo sul mondo e di cercare di rispondere alle questioni cruciali che gli esseri umani individualmente e collettivamente trovano proprio al centro della loro esistenza.

Vi è un grande divario fra la teologia classicista e l’empirica esperienza della vita quotidiana e delle sue lotte. Dio ha identificato il sé di Dio con l’umanità (verbum caro factum est). Giustamente, dunque, Nicolò Cusano ci ricorda che Dio è un cerchio infinito il cui centro è dovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte. Esiliare Dio e il prossimo dall’orizzonte dell’economia per perseguire un egoismo e un individualismo grossolani costituisce la più grande sfida da affrontare per la teologia odierna. Se il sabato (…) rappresenta un’interruzione, una pausa per pensare al tutto in vista di una trasformazione creativa, allora il ruolo della teologia sarebbe quello di promuovere la pratica del sabato in ogni campo della vita umana, personale e collettiva. Ciò significherà aiutare a connettere ogni frammento con il tutto; connettere ogni giorno con il giorno che non avrà fine.

Per seguire l’umanità nel suo cammino di liberazione, la teologia ha bisogno di attuare una riallocazione del sacro, rispetto agli spazi e agli oggetti tradizionalmente venerati; ha bisogno di nutrire rispetto per l’intera creazione e per tutte le forme di vita, dal filo d’erba agli esseri umani. Una delle intuizioni fondamentali della Bibbia è che la qualità di una comunità si misura dal modo in cui si prende cura dei suoi membri più deboli e più vulnerabili, e per tutto questo l’eguaglianza e la giustizia sono essenziali e centrali. Tale visione ricorre nell’intero corpus della tradizione biblica, in cui l’idolatria e l’ingiustizia sono interconnesse. Infatti, abbandonare il Signore ha provocato ingiustizia e diseguaglianza nella società; e, inversamente, l’ingiustizia sociale ha allontanato dal Signore e ha portato agli idoli.

A sua volta, l’esclusione è diametralmente opposta alle dinamiche di interdipendenza che ci vengono presentate nella Genesi dal racconto della creazione. Nella creazione Dio connette tutte le creature fra loro in armonia; la creazione, tuttavia, conferisce a ogni creatura anche la propria peculiarità, unicità e identità. Quando l’esclusione viene messa in pratica come assimilazione dell’altro, nega la legittima diversità e pluralità. Ciò che Dio ha esercitato nella creazione dovrebbe caratterizzare anche le comunità umane. Qui sta un compito importante per la teologia: quello di contribuire a creare comunità senza esclusione, comunità che rispettino le differenze e la pluralità. Ed è un compito di importanza cruciale in questi tempi in cui il sistema economico imperante è diventato una forza di divisione e di conflitto fra comunità.

La liberazione e il perseguimento dell’eguaglianza e dell’inclusione saranno ispirati da un nuovo senso del sacro e nutriti dalla profonda fede di Gesù. In un mondo che ha sacralizzato la gerarchia e il potere, che ha coltivato la diseguaglianza e praticato l’esclusione, Gesù ha difeso e propugnato la dignità di ogni essere umano come nuovo tempio di Dio: l’esclusione dei poveri dalla conoscenza, dalla libertà, dalla dignità, dalla partecipazione e dalla comunità era il vero sacrilegio. I vangeli ci dicono che Gesù era più interessato alle sofferenze e alle privazioni degli esseri umani che al peccato. Purtroppo, la soteriologia cristiana giunse a essere costruita intorno al peccato e non sugli aspetti più importanti delle azioni di Gesù per il bene (salus) di esseri umani e comunità. La visione gesuana della liberazione era radicata nell’esperienza del divino inteso come un Dio compassionevole e solidale con l’umanità sofferente. L’esperienza della sofferenza, della povertà, delle privazioni e dell’asservimento degli esseri umani lo toccava profondamente. La compassione e la solidarietà gli sgorgavano dall’intimo, dalle viscere. Una teologia che segue le orme di Gesù incorporerà la sua visione, la sua passione e la sua prassi. Come Gesù, metterà in discussione quello che viene accettato come lampante e fuori di ogni dubbio.

FECONDAZIONE INCROCIATA DI TEOLOGIE

C’è stato un tempo in cui le questioni teologiche venivano impostate in Occidente e coloro che venivano dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Oceania potevano dare un senso alla teologia solo nella misura in cui partecipavano dei dibattiti teologici di matrice occidentale. Oggi, la teologia occidentale, salvo alcune lodevoli eccezioni, è alle prese con una profonda crisi. I suoi approcci teologici pretenziosi e altisonanti si pongono in netto contrasto con la realtà effettiva di un cristianesimo occidentale logoro, dal quale i fedeli si allontanano in massa. Sembra esserci ben poca corrispondenza fra questa teologia e la situazione sul campo. La teologia occidentale dominante mi appare come un esercizio intellettuale per chi ha tempo libero, svincolata dalle problematiche urgenti dell’umanità e della natura. Ci si comincia a chiedere a chi sia rivolta questa teologia, e cui bono – cioè: a chi giova? Porrò la questione in maniera chiara e semplice: la teologia europea non ha futuro se non è disposta ad avviare un dialogo serio con le teologie emergenti in diverse parti del mondo, sulla base dell’esperienza di oppressione, di sofferenza, di diseguaglianza e di esclusione. (…).

CONCLUSIONE

Il cammino di liberazione è distribuito su molti deserti che devono essere attraversati con grande speranza. Sono i movimenti di resistenza in tutto il mondo contro la diseguaglianza e il rifiuto di abbattere l’esclusione a offrire speranza per il futuro. Questa resistenza è portata avanti da vari movimenti sociali, globali e locali. Sono oggi la coscienza del mondo e incarnano l’etica nella pratica.

In questo cammino di lotta e di liberazione, che deve essere intrapreso nella speranza congiuntamente da donne e uomini di ogni nazione, un giusto tipo di teologia potrebbe avere un ruolo molto significativo. Si potrebbe chiedere: “Che cosa si intende con giusto tipo di teologia?”. Risponderò ricordando una parabola di Buddha di 2.500 anni fa: la parabola della freccia avvelenata. Un uomo era stato colpito da una freccia mentre stava attraversando una foresta. Mentre i suoi amici e i suoi parenti si stavano dando da fare per aiutarlo, egli non volle in alcun modo che la freccia gli fosse tolta finché non gli fosse ben chiaro chi era stata la persona che lo aveva preso di mira con il dardo, quale fosse il suo nome, la sua età, il suo villaggio, la sua corporatura, la lunghezza dell’arco che aveva usato. E insistette nel voler sapere se le penne della freccia utilizzata fossero quelle di un avvoltoio, di una cicogna, di un falco o di un pavone! Questa parabola era una tagliente critica di Buddha contro l’alta casta dei brahmini del suo tempo, con la loro teologia piena di astruse speculazioni metafisiche, gravemente fallimentari dal punto di vista pratico. Buddha invitava ogni persona a rispondere alla sofferenza e all’oppressione con karuna (compassione e misericordia) e senza indugio. Nei suoi insegnamenti, Buddha sostenne l’eguaglianza di ogni uomo e di ogni donna senza distinzione, in virtù del fatto che ognuno è egualmente capace di illuminazione. Spezzò la stratificazione sociale delle caste che escludeva delle persone. Tuttavia, quando gli fu chiesto di Dio, Buddha tacque. L’enigmatico silenzio di Buddha costituisce in sé un grande tema.

Cinquecento anni dopo Buddha, Gesù si è identificato con l’umanità sofferente. Quello che colpisce è che Gesù ha rotto il silenzio di Buddha. Gesù ha aperto la sua bocca per parlare di un Dio, un Dio Padre-e-Madre profondamente coinvolto nella vita degli esseri umani e nelle loro sofferenze. Questo Dio non è una realtà alienante, ma un Dio compassionevole, misericordioso e solidale, che tratta con eguaglianza tutti i suoi figli e le sue figlie. Abbiamo così un grande messaggio di speranza per continuare a lottare per l’eguaglianza e l’inclusione e per proseguire sul cammino delle lotte per la liberazione, in questi tempi in cui la vita umana e la convivenza sono minacciate dal mercato liberista e dal suo modello di sviluppo. Una teologia sensibile alla questione dell’ineguaglianza e dell’esclusione nel nostro mondo odierno ha il compito liberatore di desacralizzare il “vitello d’oro” del libero mercato. La teologia cercherà costantemente di intrecciare la questione di Dio con i problerni epocali che affliggono l’umanità e di fornire una visione che si basi sull’unità di fondo del mistero dell’umano, del divino e dell’universo.

contro il conformismo, anche in teologia

la teologia non conformista fa bene alla Chiesa

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 Adista Segni Nuovi n° 15 del 23/04/2016

nell’ambito di un dibattito apertosi in Germania sul rapporto tra teologia accademica e magistero del papa e dei vescovi, il vescovo di Passau, mons. Stefan Oster, ha affermato che la teologia progressista può intaccare la fede degli studenti, condividendo l’opinione del vescovo di Regensburg, mons. Rudolf Voderholzer, secondo cui la teologia dovrebbe essere maggiormente subordinata al magistero. Anne Strotmann, redattrice della rivista tedesca “Publik-Forum” ha completato recentemente i suoi studi in teologia e ha un’opinione diversa. Ecco la sua lettera aperta al vescovo, pubblicata sulla rivista il 25 marzo scorso 


Ho constatato nelle ultime settimane come un’antica controversia possa  acquistare nuova forza. Si tratta del rapporto tra magistero del vescovo e teologia accademica. Mi sono guardata intorno abbastanza per sapere che ci sono ancora fantastici teologi e soprattutto teologhe che non ottengono mai il nulla osta, cioè l’autorizzazione all’insegnamento da parte della Chiesa. Eppure sono persone come loro che mi hanno ridato il desiderio di essere cristiana. Sono coloro a cui Lei rimprovera di impedire agli studenti di credere ad avermi aiutato, spiegandomi contenuti di fede ingombranti. Proprio come Lei, ritengo necessario che la Chiesa sia indipendente, che sia una cosa diversa da società e popolo. Che possa parlare ed esprimere le sue opinioni. In questo siamo d’accordo. Ma l’affermazione che i professori progressisti vogliono costruire un contro-magistero rispetto a Roma, la ritengo esagerata, o meglio, un cliché. E poiché stiamo parlando di cliché: anch’io ne soffro insieme a loro. Mi irritano le critiche stupide alla Chiesa e alla religione, perché so che la Chiesa è una cosa diversa. Ma posso capire la frustrazione che ci sta dietro. Lei lamenta che i giovani non trovano la Chiesa e la fede perché non vanno oltre le eterne controversie dell’ordinazione delle donne, della contraccezione, del matrimonio gay, della comunione per i divorziati risposati. È triste, ma la cosa può anche essere vista in senso opposto: se tradizioni e dogmi finiscono in una retorica di esclusione, si può anche diventare furenti. Furenti per amore.

Dalle strutture autoritarie traggono profitto i conformisti

I giovani teologi e le giovani teologhe conoscono il potere del magistero. Studiano, pensano, credono, amano con delle forbici nella testa. Dalle strutture autoritarie traggono profitto principalmente i conformisti. Non meraviglia che manchi loro il fuoco per accendere in altri l’entusiasmo per la fede cristiana. Di fatto pensavo che il rapporto tra il magistero vescovile e la teologia accademica fosse diventato meno teso. I vescovi esitano a sanzionare insegnanti e professori con il divieto di insegnamento, e vivono il dialogo. Ma, oggi come un tempo, spetta a loro l’ultima parola, la decisione finale. Io mi augurerei che i vescovi avessero ancor più fiducia e i teologi ancor più coraggio nel parlare chiaramente.

Solo se io posso dichiarare onestamente ciò che credo o non credo, dire quelli che sono davvero i miei problemi, nasce qualcosa di diverso dello pseudo-dialogo del catechismo. Sono stati dei teologi “progressisti” a costruirmi i primi ponti. Se qualcuno mi avesse risposto con gli schemi delle formule cristiane, avrei abbandonato le lezioni delusa. Naturalmente bisogna prima conoscere le tradizioni, Lei ha ragione (e io ho la fortuna di una socializzazione cattolica ampiamente senza incidenti). Ma le controversie scientifiche sono super. Sono riconoscente per il fatto di aver avuto molti formidabili insegnanti (uomini e donne) di diverse discipline che naturalmente non erano sempre d’accordo. Non esiste una univocità. Non solo i teologi, la Scrittura stessa si contraddice spesso su singole questioni. Ciò che io trovo affascinante è che attraverso tutte queste narrazioni, attualizzazioni, traduzioni risplenda la verità del Vangelo. Che evidentemente non è riducibile ad una frase, altrimenti il nostro canone (il Nuovo Testamento, ndr) non avrebbe 27 libri. Per me, la lingua dei teologi progressisti era quella giusta per parlare di Gesù.

Perché aver paura di una teologia libera?

Comunque, dal suo appello posso trarre qualcosa e rispetto alla realtà dell’islam in Germania, porre anche delle domande autocritiche: io stessa ho notato come il contatto con un’altra pratica di fede vissuta con entusiasmo abbia arricchito la mia. Ho imparato ad amare aspetti della mia confessione che prima non avevano alcun significato per me. E questo non per un atteggiamento di difesa, ma perché ho innanzitutto preso sul serio l’“Altro”. Questo aiuta contro le proprie zone d’ombra.

Evidentemente Lei non ha paura dell’altro. Perché allora aver paura che la teologia libera faccia vacillare il fondamento della fede cristiana? La Chiesa è sempre stata cambiamento. È sempre stata cultura. Ed è stata illuminata al massimo dallo Spirito Santo proprio dove essa era sovversiva nell’amore. Come agisca in modo nuovo il Vangelo in questo tempo, entrambi siamo curiosi di scoprirlo. Continuiamo a discutere. Le contrapposizioni tra “conservatori” e “progressisti” sono sempre più assurde. Non si tratta piuttosto di differenza tra conformisti senza amore e persone appassionate che riflettono? 

 
 
 

il grande compito della teologia oggi, rendere comprensibile il messaggio cristiano nel mondo contemporaneo


al di là del linguaggio dogmatico

il cristianesimo spiegato ai contemporanei

‘le 12 tesi’ di J. Spog

 

Tra i teologi più impegnati nel compito di riformulare il messaggio cristiano in un linguaggio che possa risultare comprensibile – e dunque nuovamente rilevante e significativo – alle donne e agli uomini contemporanei, il vescovo episcopaliano John Shelby Spong appare senz’altro in prima fila. E ciò fin da quando, attento ai numerosi segnali di declino evidenziati da ogni parte dalla religione cristiana, ha compreso, «come vescovo e come cristiano impegnato», che l’unica maniera di «salvare il cristianesimo come forza per il futuro» è quella di trovare nella Chiesa il coraggio che la renda «capace di rinunciare a molti schemi del passato». Un impegno, il suo, tradottosi, alla vigilia del XXI secolo, in un libro diventato una pietra miliare in questo cammino di riflessione teologica: Why Christianity Must Change or Die (“Perché il cristianesimo deve cambiare o morire”), successivamente ridotto a un manifesto in 12 tesi attaccato, «alla maniera di Lutero», all’ingresso principale della cappella del Mansfield College, all’Università di Oxford, nel Regno Unito, e poi inviato per posta a tutti i leader cristiani del mondo. Non poteva dunque assolutamente mancare un suo contributo nell’importante numero della rivista di teologia Horizonte (pubblicata dalla Pontificia Università Cattolica di Minas Gerais; n. 37/2015) dedicato al “Paradigma post-religionale” (v. Adista Documenti nn. 29 e 31/15), cioè al tema della presunta morte della religione – intesa come la configurazione storica, contingente e mutevole che l’insopprimibile dimensione spirituale dell’essere umano ha assunto dall’età neolitica – in direzione di una nuova espressione religiosa compatibile con le recenti acquisizioni scientifiche: senza dogmi, senza dottrina, senza gerarchie, senza la pretesa di possedere la verità assoluta. Su invito della rivista Horizonte, Spong ha così ripreso le sue celebri 12 tesi, ripercorrendole una ad una nella sua rilettura post-teista del cristianesimo (oltre, cioè, il concetto di Dio come un essere che dimora al di sopra di questo mondo e che da “lassù” interviene nelle vicende umane al di fuori delle leggi naturali.

INTRODUZIONE

Alla vigilia del XXI secolo, con le celebrazioni del millennio alle porte, mi sentii sempre più chiamato a esaminare lo stato della religione cristiana nel mondo. Da tutte le parti si vedevano molteplici segni del suo declino e persino, forse, di una sua morte imminente. Sempre meno persone frequentavano le chiese in Europa, e quelle che lo facevano erano sempre più anziane. Le Chiese del Nord America affondavano o in vuoto tanto liberale quanto insulso, o in un fondamentalismo anti-intellettuale. Le Chiese sudamericane si allontanavano sempre di più dalle preoccupazioni della gente e nessuno dei leader sembrava capace di rispondere a queste preoccupazioni con autorità. Nulla di tutto ciò era nuovo. Nel corso degli ultimi 500 anni, dinanzi a ogni scoperta proveniente dal mondo della scienza riguardo alle origini dell’universo e della vita stessa, le spiegazioni offerte dalla Chiesa cristiana sembravano sempre più sorpassate e irrilevanti. I leader cristiani, incapaci di assumere la rivoluzione della conoscenza, sembravano credere che l’unico modo di preservare il cristianesimo fosse quello di non alterare i vecchi modelli e di non prestare attenzione alle nuove conoscenze (e tanto meno metterle in pratica).

Nella misura in cui affrontavo tali questioni come vescovo e come cristiano impegnato, giunsi a convincermi che l’unica maniera di salvare il cristianesimo come forza per il futuro fosse trovare nella Chiesa il coraggio che la rendesse capace di rinunciare a molti schemi del passato. Cercai di articolare questa sfida nel mio libro Why Christianity Must Change or Die (“Perché il cristianesimo deve cambiare o morire”), pubblicato proprio alla vigilia del XXI secolo. (…). Poco dopo la pubblicazione di questo libro ridussi il suo contenuto a 12 tesi, che attaccai, alla maniera di Lutero, all’ingresso principale della cappella del Mansfield College, all’Università di Oxford, nel Regno Unito. E che dopo inviai per posta a tutti i leader cristiani del mondo, compresi il papa, il patriarca dell’ortodossia orientale, l’arcivescovo di Canterbury, i leader del Consiglio Ecumenico delle Chiese, quelli delle Chiese protestanti tanto negli Stati Uniti come in Europa, e alle più note voci televisive del cristianesimo evangelico. Un tentativo di invitarli a un dibattito sui veri problemi che – ero certo – la Chiesa cristiana ha di fronte a sé oggi. (…). Recentemente, gli editori della rivista Horizonte mi hanno chiesto di spiegare (…) le ragioni per invitare al dibattito intorno a queste 12 tesi. Sono felice di avere l’occasione di farlo. (…).

TESI 1

Il teismo come modo di definire Dio è morto. Non può più intendersi Dio in modo credibile come un essere dal potere soprannaturale, che vive al di sopra del cielo ed è pronto a intervenire periodicamente nella storia umana, perché si compia la sua divina volontà. Pertanto, oggi, la maggior parte di ciò che si dice su Dio non ha senso. Dobbiamo trovare un nuovo modo di concettualizzare Dio e di parlarne. (…).

La persona che, a mio giudizio, diede inizio a una nuova visione della realtà che ancora oggi sfida la credibilità del modo tradizionale di esprimere la mentalità cristiana fu un devoto monaco polacco del XVI secolo, Niccolò Copernico. Tuttavia, (…) nessuno comprese la profondità della rivoluzione che aveva cominciato, tant’è che, alla sua morte, egli venne accolto nel seno della Madre Chiesa.

Il successore intellettuale immediato di Copernico fu un astronomo italiano del XVII secolo, Galileo Galilei, anche lui, come Copernico, profondamente cattolico. (…). La teoria di Copernico sulla localizzazione del sole al centro dell’universo era qualcosa di cui Galileo era giunto a convincersi. (…). A differenza di Copernico, tuttavia, Galileo, non viveva in convento. Era un noto scienziato, una figura pubblica abituata a pubblicare le proprie scoperte. Fu allora che scoprì che le sue opere stavano provocando dibattiti e controversie che lo avrebbero inevitabilmente condotto a uno scontro diretto con la gerarchia della Chiesa cattolica.

In quel momento storico, la Chiesa era ancora una potente forza politica. Il suo potere era nella sua pretesa, ampiamente accettata, di avere l’autorità per parlare in nome di Dio. (…). Di certo, qualunque dubbio che – da qualsiasi parte venisse – potesse erodere questo aspetto del ruolo della Chiesa avrebbe rappresentato una sfida alla sua autorità. (…). La Chiesa e il suo sistema di fede funzionavano, così, come un sistema di controllo incredibilmente potente del comportamento umano. Era questo, in sostanza, che tanto Copernico quanto Galileo sembravano mettere direttamente in discussione. Era una sfida non solo a ciò che si percepiva come la verità, ma anche al potere politico. (…) Così, Galileo venne accusato di eresia. (…).

Il processo ebbe molta risonanza. (…). La visione di Galileo era considerata contraria alla “Parola di Dio” così come era rivelata nelle Sacre Scritture, che, in quel momento, si credeva fossero state dettate da Dio in maniera letterale. Se Galileo aveva ragione, la Bibbia e la Chiesa si sbagliavano. Questa era la conclusione ecclesiastica che avrebbe segnato il destino di Galileo. Quasi in ogni pagina della Bibbia c’era un racconto secondo cui Dio viveva al di sopra del cielo, nello strato superiore di un universo organizzato su tre livelli. (…). Galileo aveva sfidato questa antica e universalmente accettata visione del mondo (…). Aveva alterato la forma dell’universo. L’intuizione di Galileo espelleva Dio dalla sua divina dimora e, in fin dei conti, lo trasformava in un senza tetto. Se Dio non abitava in cielo, dove si trovava? (…). Non sorprende che al processo fosse ritenuto colpevole di eresia. (…).

La verità, tuttavia, non può essere respinta semplicemente perché non risulta conveniente, e le scoperte di Galileo avevano la verità dalla loro parte. Nel dicembre del 1991 il Vaticano annuncerà finalmente che Galileo aveva ragione. (…).

Le antiche interpretazioni sulla configurazione del mondo e sul concetto di Dio a essa vincolato iniziarono a venir meno. Le nuove definizioni non si erano ancora chiarite del tutto, era ancora difficile assumerle intellettualmente ed emotivamente. Il cristianesimo e la sua autorità, tuttavia, cominciavano a traballare. Questo traballare sarebbe diventato più intenso, molto di più di quanto si percepisse allora, nella misura in cui, nella coscienza umana, iniziavano a farsi strada altre scoperte, in altre discipline. Galileo aveva fatto sì che il mondo sperimentasse un periodo di trasformazione e di crescita rapide, cosicché, precipitando tutti questi cambiamenti sulla coscienza umana, sarebbe presto divenuto ovvio come il cristianesimo, così come era stato inteso tradizionalmente, non trovasse più posto nel nuovo mondo che stava nascendo.

L’anno della morte di Galileo nacque, in Inghilterra, Isaac Newton. (…). Studiò la causalità, la gravità e l’interrelazione di tutti gli esseri viventi. Non c’era posto nell’universo di Newton per un Dio esterno che interviene in maniera soprannaturale nella storia umana. I margini per la realizzazione di ciò che chiamavamo “miracoli” si riduceva sensibilmente. (…). Dio, espulso dal cielo da  Galileo, cominciava ora a essere svincolato da qualunque funzione relativa ai modelli climatici. (…). I traumi nel concetto tradizionale di Dio avrebbero continuato a farsi sentire nella misura in cui l’esplosione della conoscenza influiva su di noi, derivante anche da altre fonti. Ora, Dio non solo era un senza tetto, ma, progressivamente, stava diventando un disoccupato. (…).

Negli anni ’30 del XIX secolo, il naturalista inglese Charles Darwin iniziò il suo viaggio intorno al mondo a bordo della Beagle. (…). Nel 1859, pubblicò le sue scoperte nel libro L’origine delle specie. Pochi anni dopo, sarebbe seguito il libro L’origine dell’uomo. In quelle opere, Darwin sosteneva che la vita si fosse evoluta nel corso di milioni e anche di miliardi di anni, a partire dalle semplici cellule. Cosicché tutta la vita era connessa: nessuna specie esisteva in forma permanente, bensì era sempre in divenire; l’umanità era sorta dalla famiglia dei primati e il racconto della creazione della Genesi non era corretta né biologicamente né storicamente. Iniziava a farsi evidente che non eravamo stati creati, in nessun senso, a immagine di Dio, bensì che Dio era stato creato a immagine dell’umanità. E, anche, che gli esseri umani non erano poco meno degli angeli, come suggeriva il libro dei Salmi (Sal 8), ma, di fatto, poco più delle scimmie. (…). Con sempre maggiore rapidità il concetto teista di Dio veniva messo all’angolo nella coscienza umana.

Al principio del XX secolo, il medico tedesco Sigmund Freud iniziò a esplorare la mente umana con il suo studio sulla natura dell’inconscio, sulle emozioni e sulle attività di quella che una volta chiamavamo “anima”. (…). Molti dei simboli che un tempo costituivano il nucleo del racconto cristiano apparivano ora assai diversi se analizzati nella prospettiva freudiana. Il “Dio Padre” del cielo era una mera proiezione dell’autorità paterna umana? Il potere della colpa, su cui si era basata una parte così importante della vita cristiana, era qualcosa di più di una forma di controllo del comportamento umano? Questa potente forza della colpa si era proiettata anche nell’altra vita, vita di eterna beatitudine o di eterni tormenti, ma ora, in modo piuttosto repentino, sembrava derivare non dalla rivelazione divina, ma da disordini psichici. (…). Il timore di Dio, che costituiva buona parte del cristianesimo, con le sue immagini del cielo e dell’inferno, iniziò a venire meno. (…).

Sempre nel XX secolo, il fisico tedesco Albert Einstein (…) cominciò a studiare quella che si sarebbe chiamata “relatività”. Si scoprì che il tempo e lo spazio non erano infiniti, ma finiti, e relativi sempre l’uno all’altro. (…). Tutto quello che facciamo e diciamo, lo facciamo e lo diciamo in mezzo alla relatività dello spazio e del tempo. Ciò significa che non c’è un qualcosa come una verità assoluta. Anche se ci fosse una verità assoluta, non potrebbe essere pensata né espressa nel quadro dell’esperienza umana.

Con questa conclusione, qualsiasi pretesa religiosa di oggettività veniva meno. Non c’è un qualcosa come “la religione autentica” o “la vera Chiesa”. Come un papa o una Bibbia infallibili. Come (…) una dottrina particolare che possa definirsi vera per tutti i tempi. La vita umana è vissuta, piuttosto, in un mare di relatività. (…). Nessuna istituzione umana, inclusa la Chiesa, possiede la verità eterna, né può possederla. Gli esseri umani e le loro istituzioni possono solo, per dirla con le parole di Paolo, vedere «come in uno specchio, in maniera confusa» (1Cor 13,12).

Questa cronaca dell’articolazione della conoscenza umano dal XVI secolo a oggi, così breve e pertanto imperfetta, ci rende almeno coscienti del fatto che la maniera in cui gli esseri umani hanno pensato a Dio nel passato è stata stravolta nei suoi fondamenti. E, tuttavia, nelle liturgie di tutte le Chiese cristiane continuiamo a usare concetti del passato come modello su cui disegnare il culto. Anche se, intellettualmente, tali concetti sono stati già rifiutati. Così, diciamo ancora «Padre Nostro che sei nei cieli». Una preghiera che si rivolge a un Dio concepito come essere dal potere soprannaturale, che abita nell’alto dei cieli di un universo disposto su tre livelli da cui crediamo ancora che controlli il nostro mondo. (…). Ci avviciniamo ancora a questo Dio, concepito come giudice, in ginocchio, supplicando misericordia, chiedendo favori e cercando salute. Quando una tragedia ci colpisce, ancora ci chiediamo perché e ancora ci domandiamo se tale tragedia sia un riflesso della volontà di Dio di punirci per i nostri peccati. «Che ho fatto per meritare questo?», ci chiediamo.

Definiamo “teismo” questo modo di intendere Dio. (…). Un concetto che non ha più senso nel nostro mondo. Non c’è una divinità soprannaturale al di sopra del cielo in attesa di venire in nostro aiuto. (…). Questo linguaggio, pertanto, è privo di senso. Ebbene, questo significa che Dio non ha senso? Questa è la questione più importante che il cristianesimo ha oggi di fronte a sé. (…). Possiamo rinunciare alle nostre definizioni teiste di Dio senza dover negare al tempo stesso la realtà di Dio? Credo che possiamo e so che dobbiamo provarci. (…). Se il cristianesimo, come religione, deve sopravvivere, deve sviluppare una comprensione del divino che abbia senso nel XXI secolo. Questa è diventata la nostra massima priorità.

(…). Tutti gli dei che gli esseri umani hanno concepito nella storia assomigliano sempre agli umani, ma senza i loro limiti. Ricorriamo ancora al linguaggio della liturgia. «Dio onnipotente ed eterno», diciamo nelle preghiere. Quello che stiamo dicendo è: Dio, tu non sei limitato nel potere o nel tempo. Questo Dio è anche quello che sa tutto, che scruta i segreti del nostro cuore. Questa divinità onnisciente è in definitiva poco più di una costruzione umana.

Se la comprensione teista di Dio è morta, allora si pone la questione se è Dio a essere morto o la definizione umana di Dio. (…). La Bibbia ha definito l’idolatria come il culto a qualcosa che è costruito da mani umane. Il teismo è una comprensione di Dio sviluppata da menti umane. (…). Il teismo è una manifestazione dell’idolatria umana. Di modo che respingiamo il teismo come una definizione creata da noi, gli umani, e ci proponiamo di cambiare strada, verso la realtà di Dio. Un passo molto più rivoluzionario di quanto la maggioranza di noi può immaginare, ma questo è il mondo nel quale il cristianesimo deve imparare a vivere.

TESI 2

Dal momento che Dio non può essere concepito in termini teisti, non ha senso cercare di intendere Gesù come “l’incarnazione di una divinità teista”. I concetti tradizionali della cristologia sono, pertanto, in bancarotta.

Il cristianesimo è nato da un’esperienza di Dio associata alla vita di un ebreo del I secolo chiamato Gesù di Nazareth. Quali siano state le dimensioni precise di quella esperienza è difficile da dire. I vangeli sono stati scritti tra 40 e 70 anni dopo la condanna a morte di quest’uomo, cosicché non sappiamo come articolarono realmente tale esperienza quelli che furono i suoi primi discepoli nella prima generazione della storia cristiana. La maggior parte di questi era morta prima che si scrivessero i vangeli. Fin dove possiamo sapere, i primi discepoli erano convinti che tutto quello che avevano sempre pensato su Dio lo avevano sentito presente nella vita di Gesù. Questo è stato il nucleo del messaggio ed è così che è iniziato il cristianesimo. Pare che al principio i seguaci di Gesù si limitassero a proclamare il nucleo della propria esperienza: “Dio era in Cristo”. Questo è tutto ciò che l’apostolo Paolo dice all’inizio della sua vita cristiana (2Cor 5,19). (…). Dopo, tuttavia, intorno all’anno 56 o 58, quando scriveva ai romani (…), Paolo suggerì che nella resurrezione Dio avesse elevato l’umano Gesù fino a renderlo Dio (Rm 1,1-4). (…). Con il tempo, questa sarebbe diventata un’eresia, l’adozionismo, ma fin qui era arrivato il pensiero sulla natura divina di Gesù a metà e alla fine degli anni cinquanta del I secolo. Il problema era quello già indicato. La mente umana poteva concepire Dio solo in termini teisti. (…). Se questa era la definizione di Dio, allora la questione era: come era entrato questo Dio esterno nella vita di Gesù perché la gente ne sperimentasse in essa la presenza? Questa era la domanda a cui sentivano di dover rispondere e le risposte, nella misura in cui venivano sviluppate, cominciarono, nel corso degli anni, a configurare il cristianesimo in modi nuovi.

Quando il Vangelo di Marco, il primo, venne scritto, intorno all’anno 72, venne introdotta nelle menti dei seguaci di Gesù una nuova spiegazione del legame tra lui e Dio. Nel primo capitolo, Gesù, adulto e pienamente umano, è condotto al fiume Giordano perché lo battezzi un uomo chiamato Giovanni Battista. Nel suo racconto del battesimo, Marco dice che i cieli – il regno di Dio – si aprirono. Si concepiva l’universo come una superficie coperta da una cupola gigantesca. Il cielo era il tetto che separava il regno di Dio da quello degli umani (…). Così, un buco apparve nel tetto e il Dio che viveva lassù semplicemente mandò lo Spirito Santo sull’umano Gesù (…), uno spirito che, in ultima istanza, ridefiniva la sua umanità. Marco dice che, in quel momento, la voce di Dio proclamò dal cielo che Gesù era suo figlio, il figlio in cui si era compiaciuto. (…). Si cominciò a pensare a lui come a un essere umano pieno di Dio. A questo stadio si trovava la comprensione cristiana di Gesù negli anni settanta del I secolo.

Questo processo è andato avanti nella nona e nella decima decade, quando sono stati scritti i vangeli che chiamiamo di Matteo (intorno all’anno 85) e di Luca (89-93). In questi due vangeli, si pensava a Gesù non solo come a un essere umano permeato da Dio, ma come a una presenza di Dio nella sua forma umana.

Il momento in cui si dice che il Dio teista si è unito a Gesù si è andato spostando indietro: dalla resurrezione, che è quando Dio adotta Gesù secondo Paolo, al battesimo, che è quando Dio entra in Gesù secondo Marco, fino ad arrivare al concepimento (…). È stato allora che la tradizione della nascita verginale si è incorporata al racconto cristiano. (…). Nel pensiero cristiano, si è passati a pensare allo Spirito Santo come al padre biologico di Gesù. La sua umanità era ormai permanentemente compromessa. (…). Per quanto importante sia tale cambiamento, non sarebbe stato tuttavia il punto d’arrivo di questo sviluppo cristologico. Quando si completò il quarto Vangelo, verso la fine degli anni novanta dell’era cristiana (anni 95-100), si disse che Gesù era già parte di Dio; era il Verbo di Dio che era con Dio dal principio della creazione. (…). Giovanni stava affermando che il Dio teista che è nell’alto dei cieli aveva assunto forma umana in Gesù e che in lui Dio abitava tra noi. (…). Si erano così poste le basi tanto della dottrina dell’Incarnazione quanto di quella della Santissima Trinità. (…).

Tuttavia, se l’idea di un Dio nell’alto dei cieli è in bancarotta, lo è ugualmente, di conseguenza, l’idea che questo Dio teista si sia incarnato nel Gesù umano. (…). Ebbene, ciò significa che l’esperienza che tale spiegazione intendeva esprimere non è reale né valida? Non credo. Ma significa, questo sì, che bisogna cercare nuove parole che la spieghino. Le antiche non funzionano più. (…). Allora, (…) cosa c’è stato intorno a Gesù da far sì che la gente credesse di aver incontrato Dio in lui? Questo è quanto la ricerca della verità ci chiama oggi a scoprire. (…). L’esperienza di trovare Dio in Gesù deve essere stato qualcosa di originale e trasformatore. (…). Forse le persone hanno visto e sperimentato nella sua vita “la Fonte della Vita”, nel suo amore “la Fonte dell’Amore” e nel suo essere “il Fondamento dell’Essere”. Forse hanno sentito in lui e da lui la chiamata a vivere in pienezza, ad amare generosamente e ad essere tutto ciò che ciascuno poteva essere. Forse con questa esperienza sono arrivati a capire che si erano incontrati con la santità nelle dimensioni dell’umano. (…). Forse l’esperienza è reale e, una volta respinte le spiegazioni antiquate e irrilevanti, la realtà di tale esperienza può allora proporsi ancora una volta. Che realtà è stata quella che ha portato i seguaci di Gesù a sviluppare dottrine come quelle dell’Incarnazione e della Trinità? Come descrivere oggi tale realtà? Possiamo ancora pensare a Gesù, oggi, come essere divino senza intenderlo come incarnazione di una divinità soprannaturale che vive al di là del cielo? Quando è stata formulata la dottrina dell’Incarnazione, la gente pensava in termini dualisti. Il divino e l’umano si opponevano. Ma supponiamo che il divino e l’umano non siano due regni separati, ma una sola realtà continua. Forse il cammino verso la pienezza e anche verso il divino consiste nel farsi profondamente e pienamente umani. Forse l’impulso biologico verso la sopravvivenza non è il valore supremo per gli umani; forse questo valore supremo consiste piuttosto nel trascendere la necessità di sopravvivere e nell’essere capaci di donare se stessi nell’amore per gli altri.

Forse quando oltrepasseremo i limiti della nostra sicurezza tribale, di genere, di orientamento sessuale, di razza, di credo o di status, sperimenteremo un’umanità non legata all’istinto di sopravvivenza. Forse si incontra Dio nella libertà di permettere – e, in realtà, di accettare – la responsabilità di aiutare gli altri a essere quello che ciascuno è stato creato per essere, senza imporre loro le nostre idee. (…).

Interpretata letteralmente, l’Incarnazione non ha senso in un mondo il cui pensiero non è più dualista. Ma è infinitamente significativa quando la si vede non come una spiegazione ma come un’esperienza. Possiamo recuperare questo concetto cristiano per il XXI secolo? Credo di sì. Se il cristianesimo deve sopravvivere, credo che dobbiamo farlo. E il cristianesimo potrebbe risultare molto più profondo di quanto avevamo immaginato.

TESI 3

Il racconto biblico di una creazione perfetta e compiuta dalla quale noi, gli esseri umani, “siamo caduti” con il peccato originale è mitologia pre-darwiniana e non ha più senso.

(…). Questo mito delle origini includeva cinque grandi principi. Primo, si sono affermate la bontà e la perfezione originali della creazione. Secondo, è stato l’atto umano di disobbedienza a provocare la caduta dall’opera perfetta di Dio, finendo per prendere il nome di “peccato originale”. (…). Terzo, si è narrata la storia di Gesù in termini di riscatto offerto da Dio per salvare dalla caduta un’umanità peccaminosa e un mondo peccaminoso. Il mito suggeriva che Gesù avesse realizzato tale proposito pagando il “prezzo” reclamato da Dio e assumendo il castigo, castigo che gli esseri umani meritavano in quanto peccatori. Questo atto di redenzione è stato compiuto mediante quello che è stato chiamato “il sacrificio della croce”. Da questa prospettiva teologica del IV secolo sono derivate le parole “Gesù è morto per i miei peccati”, che in un tempo relativamente breve sono diventate un autentico “mantra” cristiano. (…). Il nostro peccato è stato presentato come la causa e come la ragione della sofferenza di Gesù. Così, la colpa è diventata moneta di scambio nel cristianesimo. La salvezza veniva dal riconoscere che la sofferenza e la morte di Gesù per noi si erano prodotte perché Dio, nella persona di suo figlio, aveva assunto il castigo meritato da noi esseri umani.

Si è stabilito il battesimo come forma sacramentale con cui lavare il “peccato originale” di chi è appena nato. (…). L’eucarestia cristiana era il cibo che permetteva di assaporare per la prima volta il regno di Dio. La fede nella resurrezione significava che Gesù aveva vinto la morte dando compimento al castigo reclamato da Dio per il peccato di Adamo che aveva stravolto il mondo perfetto di Dio. (…). Infine, ci è stato insegnato che con il sacrificio della vita di Gesù noi esseri umani siamo stati ristabiliti nella nostra perfezione originaria e che la vita eterna è il culmine della nostra restaurazione. Questo quadro teologico è diventato così forte nella teologia cristiana (…) da impadronirsi di ogni aspetto del messaggio cristiano. (…). Questo quadro teologico ha prodotto anche cose terribili che per secoli non si sono colte. Ha trasformato Dio in un mostro che non sa perdonare. Lo ha dipinto come qualcuno che richiede un sacrificio umano e un’offerta di sangue prima di offrire il proprio perdono. (…). In secondo luogo, questa teologia ha reso Gesù una vittima cronica (…), in quanto i ripetuti peccati degli esseri umani esigono continuamente la sua sofferenza e la sua morte. (…). In terzo luogo, questa teologia ci ha oppresso con uno schiacciante e anche malato senso di colpa. (…). Un’analisi di questi temi, arrivati a costituire quella che abbiamo chiamato “teologia dell’espiazione”, ci convincerà rapidamente del fatto che questo modo di intendere Gesù e il racconto cristiano è distruttivo e contrario alla vita. (…).

La teologia dell’espiazione assume una teoria sulle origini della vita che, nel mondo astrofisico o biologico, oggi nessuno accetta. È dimostrabile che la premessa da cui parte è falsa. Da quando Charles Darwin pubblicò la sua opera a metà del XIX secolo, sappiamo che non vi è mai stata una perfezione originaria. La vita umana è, piuttosto, il prodotto di un viaggio biologico partito da semplici cellule apparse 3.800 milioni di anni fa. (…). Da 100-80 milioni di anni fa fino a circa 65, i rettili furono i signori del pianeta. (…). Sulla Terra, il dinosauro non aveva eguali e, pertanto, non aveva nemici. Tuttavia, un qualche tipo di disastro naturale colpì il pianeta circa 65 milioni di anni fa e (…) provocò un cambiamento nel clima che avrebbe condotto all’estinzione dei dinosauri e aperto la porta ai mammiferi, dando il via alla loro scalata verso il predominio. Da questi animali dal sangue caldo e vivipari emerse infine la linea dei primati, creature simili agli umani. E questo avvenne circa 4 o 5 milioni di anni fa. In questo tempo, il cervello di tali creature si ingrandì, la mandibola si ritrasse, scese la laringe, si sviluppò la capacità di parlare e, infine, queste creature attraversarono la grande linea divisoria, passando dalla semplice coscienza all’autocoscienza.

Ora, questa creatura era cosciente della propria separazione rispetto alla natura. E assunse anche la propria mortalità. Iniziò a pensare anticipatamente alla propria morte, maturando una sorta di inquietudine esistenziale cronica che nessun animale aveva conosciuto prima. Le inquietudini dell’autocoscienza erano così forti da indurre questa creatura a sviluppare meccanismi di difesa. La religione fu uno di questi. (…).

Tuttavia, nella misura in cui questa creatura umana acquisiva una maggiore conoscenza rispetto alle origini dell’universo, diventava chiaro che non c’era mai stata una perfezione originaria e che la creazione è un processo continuo, mai compiuto. (…). Nulla di ciò che ha a che vedere con la vita è statico. Non c’è mai stato nulla di statico riguardo alla vita e mai ci sarà. (…).

Vediamo ora quello che tali scoperte significano per la nostra comprensione del cristianesimo.

Se non c’è stata una perfezione originaria, non ha potuto esserci una caduta da questa nel peccato. Ciò significa che l’idea del “peccato originale” è semplicemente sbagliata. (…). Se non c’è stato peccato originale, neppure c’era necessità di qualcuno che salvasse da questo peccato o che riscattasse dalla caduta. (…). Improvvisamente, tutto il quadro che per secoli aveva configurato le basi del racconto cristiano è crollato. (…). Pertanto, non possiamo più pretendere di continuare a presentare con questi concetti il racconto cristiano nel nostro mondo contemporaneo. Semplicemente, non funziona. Allora, per molti, la domanda è: possiamo continuare a raccontare la storia di Cristo in qualche modo? Possiamo distinguere tra la realtà di Cristo e il quadro interpretativo del passato nel quale questa realtà è stata colta, e anche così trovare in Lui qualcosa che parla alla nostra umanità e la rende migliore? (…).

Le vecchie parole non ci condurranno mai a queste mete. (…). La ricerca di nuove parole con cui presentare il nostro racconto deve diventare il compito principale della Chiesa cristiana nel nostro tempo. Se non assumiamo questi cambiamenti, non ci sarà speranza di un futuro per il cristianesimo. (…). La salvezza del cristianesimo merita lo sforzo e il costo? Credo di sì. L’appello a una riforma radicale è la sfida a cui la nostra generazione deve rispondere. Comincerà con una nuova comprensione di ciò che significa essere umani. Non siamo peccatori caduti, siamo esseri umani incompleti. Non abbiamo bisogno di essere salvati dal peccato, abbiamo bisogno della forza per accogliere la vita in una forma nuova.

TESI 4

(…). Quando la nascita verginale si incorporò alla tradizione nella nona decade dell’era cristiana, nel Vangelo di Matteo, la comprensione del processo di riproduzione era alquanto primitiva. Nessuno aveva sentito neppure parlare della possibilità che la donna (…) fosse, dal punto di vista genetico, co-creatrice al pari del maschio nella nascita e nello sviluppo di ogni nuova vita umana. (…). Poiché si pensava che la donna non contribuisse in nulla alla nuova vita, poteva diventare facilmente il ricettacolo del figlio di Dio (…). Questo tipo di racconto, che non è esclusivo del cristianesimo, è entrato nella tradizione circa 55 anni dopo la crocifissione di Gesù. È interessante notare che Paolo, che scrisse tra gli anni 51 e 64 (tra 21 e 34 anni dopo la crocifissione), non sembra aver sentito parlare della tradizione di una nascita verginale. (…). In tutto il corpus paolino non c’è nulla di inusuale intorno alla nascita di Gesù. (…). Quando Marco scrive il primo vangelo, intorno all’anno 72 (o 42 anni dopo la crocifissione), la tradizione non includeva ancora una storia su una nascita miracolosa. (…). Per sottolineare la normalità della nascita di Gesù, Marco afferma anche (Mc 3,21ss.), in relazione alla madre di Gesù e ai suoi fratelli, che essi credevano che Gesù fosse fuori di sé, cioè mentalmente squilibrato (…). Difficilmente sarebbe questo il comportamento di una donna a cui un angelo avesse annunciato che avrebbe portato nel suo seno il Messia. (…). Il racconto della nascita verginale non è storico, non è biologia, è mitologia, pensata per interpretare il potere di una vita. (…). Era la forma con cui i discepoli del I secolo proclamavano che in Gesù avevano incontrato la presenza di Dio. (…). Il mito della nascita verginale (…) non è da intendere letteralmente. Non ha a che vedere con la biologia. Noi cristiani dobbiamo smettere di fingere che sia qualcosa di più.

TESI 5

Le storie dei miracoli del Nuovo Testamento non possono più essere interpretate, nel nostro mondo post-newtoniano, come avvenimenti soprannaturali provocati da una divinità incarnata. Nella Bibbia, i miracoli non sono esclusivi di Gesù. (…). Credo che si possa ora dimostrare che quasi tutti i miracoli attribuiti a Gesù possono essere spiegati come versioni estese di storie di Mosè, di Elia e di Eliseo, o come applicazioni alla vita di Gesù, in senso messianico, dei segnali del regno di Dio in Isaia. (…). Cosicché i miracoli sarebbero segnali che interpretano Gesù, non avvenimenti soprannaturali che infrangono le leggi della natura. Conviene prendere nota che Paolo sembra non aver saputo assolutamente nulla di miracoli associati al ricordo di Gesù. (…). I miracoli associati a Gesù vengono introdotti nella tradizione cristiana con Marco, agli inizi dell’ottava decade del I secolo. (…). I testi dei racconti di miracoli nei vangeli, che costituiscono la base su cui parlare del potere soprannaturale di Gesù, sono pieni di simboli che servono a interpretare. (…). Se solo aprissimo gli occhi per vedere come i racconti di miracoli del Nuovo Testamento non debbano essere letti letteralmente come avvenimenti soprannaturali, ci avvicineremmo molto di più a ciò che gli evangelisti avevano in mente quando cercavano di usare il testo di Isaia 35 in maniera che trovasse compimento nei vangeli. (…).

TESI 6

L’interpretazione della croce come sacrificio per i peccati è pura barbarie: è basata su concezioni primitive di Dio e deve essere respinta. Nel libro dell’Esodo si racconta che l’inquietudine del popolo giunse a limiti pericolosi allorché Mosè rimase a lungo assente per ricevere da Dio la Torah e i Dieci Comandamenti. Per calmare la propria ansia, il popolo andò dal sommo sacerdote Aronne, fratello di Mosè, e gli chiese di costruire un idolo, un vitello d’oro, per avere una divinità che tutti potessero vedere. (…). Mosè tornò dal popolo proprio allora, portando, secondo quanto narra la storia biblica, le tavole di pietra in cui erano scritti i Dieci Comandamenti. Dinanzi all’atto di idolatria, ruppe le tavole contro il suolo e si infuriò con il popolo, il quale, secondo il racconto, soffrì l’ira di Dio finché finalmente Mosè decise che sarebbe tornato dal Signore e avrebbe cercato di realizzare un’“espiazione” per il popolo (Es 32,30). In questo antico riferimento notiamo che l’espiazione aveva a che vedere con il perdono. Con un Dio che offre una seconda chance.

Quando lo Yom Kippur – il Giorno dell’Espiazione – venne introdotto nel culto ebraico, era questo, secondo il Levitico, il suo scopo: celebrare il perdono di Dio, non il suo castigo (Lv 23,23ss). (…). Lo Yom Kippur includeva il sacrificio di animali che rappresentavano i sogni umani di perfezione. (…). Quando i gentili conobbero questa pratica, pensarono che gli animali fossero sacrifici richiesti e che dovessero presentarli come offerta a Dio per essere perdonati. Questi animali sarebbero stati il prezzo che Dio reclamava per offrire il suo perdono. (…).

Lo Yom Kippur si riferisce al popolo che torna a unirsi a Dio. Non ha nulla a che vedere con il castigo. Al momento dell’elaborazione dei vangeli, le immagini dello Yom Kippur vennero più volte trasferite nel racconto di Gesù. Fu Paolo a dare il via a questo processo nella prima Lettera ai Corinzi: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1 Cor 15,3). Era un chiaro riferimento all’azione liturgica dello Yom Kippur. Più tardi, Marco usò la parola «riscatto» per riferirsi alla morte di Gesù (Mc 10,45). (…). Quando venne scritto il quarto Vangelo, verso la fine del I secolo, il suo autore mise in bocca a Giovanni Battista, la prima volta che vede Gesù, questa interpretazione, con le parole: «Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29). Tali parole derivano direttamente dalla liturgia dello Yom Kippur. (…).

Le generazioni successive di cristiani gentili, che non erano consapevoli della tradizione ebraica dello Yom Kippur, sottoposero questi simboli a una rozza interpretazione letterale e svilupparono le idee ora associate alla cosiddetta “espiazione di sostituzione”.

Il concetto inizia a svilupparsi a partire dall’idea della depravazione degli esseri umani, caduti nel “peccato originale” a causa della disobbedienza umana alle leggi di Dio. (…). Si pensava che fossero talmente corrotti dal peccato originale che solo Dio potesse riscattarli, per mezzo di un suo intervento. Dal momento che il castigo per il loro peccato era più  di quanto qualsiasi essere umano avrebbe potuto sostenere, si sviluppò l’idea che Dio avrebbe messo il suo figlio divino al posto dei peccatori. Cosicché (…) Gesù si trasformò nella vittima dell’ira divina. (…). I cristiani iniziarono a dire: “Gesù ha sofferto per me”. E la frase “Gesù è morto per i miei peccati” diventò il mantra della vita cristiana (…). Siamo così diventati i responsabili della morte di Gesù. Gli assassini di Cristo, pieni di colpa. (…). Con il tempo, questa teologia ha fatto sì che la nostra principale risposta nel culto diventasse quella di presentare suppliche a Dio perché abbia misericordia. (…).

Che razza di Dio è questo di fronte a cui ci vediamo ridotti a mendicanti servili che supplicano misericordia? (…). L’espiazione di sostituzione è sbagliata sotto tutti i punti di vista. Il nostro problema non è quello di essere peccatori caduti da una perfezione originale in qualcosa chiamato “peccato originale”. Il nostro problema è che siamo essere umani incompleti che anelano a essere di più, a raggiungere la pienezza. Non abbiamo bisogno di essere risollevati da una caduta che non abbiamo mai sofferto. Abbiamo bisogno di essere accettati e amati semplicemente per quello che siamo, per arrivare a essere tutto quello che possiamo essere. (…).

TESI 7

La resurrezione è un’azione di Dio. (…). Pertanto, non può consistere in un resuscitare fisico all’interno della storia umana. (…).

È interessante notare che Paolo, il primo autore di uno scritto entrato a far parte del Nuovo Testamento, non descrive mai alcuna apparizione del Cristo risorto. Ci fornisce semplicemente una lista di quanti erano stati testimoni della resurrezione (1 Cor 15,1-6, risalente all’anno 54). Nella lista include se stesso, con la differenza, dice, che quella era stata l’ultima apparizione. Gli esperti stimano che la conversione di Paolo avvenne non prima di un anno dopo la crocifissione né dopo sei. Fu un corpo fisicamente risorto quello che vide Paolo? (..). Di certo Luca non la pensava così. Descrive la conversione di Paolo, la sua percezione del Gesù risorto, come qualcosa derivante da una visione durante il cammino di Damasco, non come la percezione di un corpo fisico (At 9,11ss). (…).

I racconti di Pasqua del Nuovo Testamento, quando vengono esaminati nel loro insieme, non dimostrano nulla. Riguardo al momento della Pasqua, discordano in tutti gli aspetti significativi. (…). Ciò potrebbe significare che non esiste un momento oggettivo della resurrezione e che, di conseguenza, tutto quello di cui disponiamo sarebbero teorie soggettive. Ma potrebbe anche significare che quello che chiamiamo “resurrezione” sia stata un’esperienza così potente e trasformatrice da non poter essere espressa a parole e che quello che ci stanno indicando tali contraddizioni non è altro che l’esistenza di tentativi soggettivi di esprimere quella che è stata e sempre sarà l’esperienza di una meraviglia ineffabile.

Credo che la resurrezione di Gesù sia reale. Non credo che abbia nulla a che vedere con una tomba vuota né con un corpo che resuscita. È la visione di qualcuno che non è più legato ad alcuno dei limiti della nostra umanità. È il richiamo a una nuova coscienza, il richiamo a una nuova realtà, oltre il tempo e lo spazio. (…).

TESI 8

Il racconto dell’ascensione di Gesù presuppone un universo a tre livelli e, pertanto, non può essere tradotto nei concetti di un’era post-copernicana.

Quando nei vangeli venne scritta la storia di Gesù, tra gli anni 70 e 100, esisteva un consenso generale sul fatto che la terra fosse il centro di un universo disposto su tre livelli. Il luogo in cui Dio abitava era al di sopra del cielo; l’inferno, il luogo del male, era sotto la terra (…). Cosicché buona parte dell’interpretazione tradizionale del cristianesimo ha assunto presupposti basati sulla conoscenza pre-moderna. Non è stato pertanto difficile comprendere come, nel momento in cui Luca introdusse nella tradizione cristiana (…) il racconto del ritorno di Gesù a Dio, ciò sia avvenuto secondo l’immagine di un mondo su tre livelli. Gesù poteva tornare al Dio che viveva al di sopra del cielo solo ascendendo verso questo cielo. Tutto aveva senso all’interno di questo universo pre-moderno. (…).

Lo studio delle Scritture rivelerà, tuttavia, che Luca sapeva di raccontare una storia basata sul racconto dell’ascensione di Elia, nel capitolo 1 del Secondo Libro dei Re. Luca non pretese mai che il suo scritto venisse interpretato letteralmente. Non abbiamo reso giustizia al genio di Luca interpretandolo letteralmente. (…).

TESI 9

Non c’è alcun criterio eterno e rivelato, raccolto nella Scrittura o in tavole di pietra, che debba sempre reggere il nostro agire etico.

È Dio che ha redatto i Dieci Comandamenti? Naturalmente no. (…). Un dato interessante della storia biblica è che i Dieci Comandamenti non erano al principio leggi con validità universale. Erano pensati solo per reggere le relazioni tra ebrei. I comandamenti dicono: “Non uccidere”. Tuttavia, nel Primo Libro di Samuele si legge che Dio istruì il profeta perché dicesse a Saul di andare in guerra contro gli amaleciti e di uccidere tutti gli uomini, le donne, i bambini, i neonati, i buoi e gli asini (1 Sam 15,1-4). (…). I Comandamenti dicono “Non dire falsa testimonianza”. Tuttavia, il libro dell’Esodo presenta Mosè nell’atto di mentire al Faraone sul perché avrebbe dovuto permettere agli israeliti di andare nel deserto a offrire sacrifici a Dio (Es 5,1-3). Il codice morale della Bibbia si conformava sempre alle necessità del popolo. Questa era la sua natura. La pretesa di una paternità divina di questo codice morale era semplicemente una tattica per garantirne l’osservanza.

Ogni regola ha la sua eccezione. (…). È male rubare? Naturalmente (…). Supponiano tuttavia che l’oppressione dei poveri da parte dell’ordine economico sia così estrema che rubare un po’ di pane sia l’unico modo per evitare che tuo figlio muoia di fame. (…). Potremmo riportare molti altri esempi, fino a prendere atto che non esiste un assoluto etico che non possa essere messo in discussione dinanzi alle relatività della vita. Pertanto, il criterio etico definitivo non può essere trovato semplicemente rispettando le norme. (…). Quello che ci guida non sono tanto le norme quanto le mete che perseguiamo. Se la forma suprema di bontà si esprime nella scoperta della pienezza della vita, allora tutte le decisioni morali, comprese quelle in cui non è chiaro cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, devono essere prese non in accordo alle leggi morali, ma secondo il fine che si persegue. La questione che bisogna porsi in ogni azione è: questo fatto fa sì che l’umanità si espanda e si consolidi? (…) Questa azione è contraria alla vita o la rende migliore? Incrementa l’amore o lo riduce? Chiama a un senso più profondo del proprio essere o lo reprime?

Se Dio è un verbo che bisogna vivere più che un nome da definire, allora i codici morali sono strumenti che bisogna apprezzare, ma non regole che devono essere seguite. (…). Non sempre è facile adottare la decisione corretta. Non è facile essere cristiani nel XXI secolo.

TESI 10

La preghiera non può essere una petizione fatta a una divinità teista perché agisca nella storia umana in un determinato modo.

Di tutti i temi di cui mi sono occupato, quello della preghiera e della sua efficacia è sempre quello che suscita maggiori reazioni. Credo che sia perché, in ultima istanza, la preghiera è l’attività attraverso cui le persone definiscono chi è Dio per loro e cosa intendono con la parola “Dio”. (…).

La maggior parte delle definizioni della preghiera poggiano su una concezione teista di Dio. (…). Così, si percepisce la preghiera come un’attività rivolta a una figura esterna che possiede un potere soprannaturale di cui non dispone chi prega. La preghiera diventa allora una petizione di chi è impotente verso il potente, perché agisca in modo tale da fare per il richiedente quello che lui non può fare da sé e quello che desidera che succeda. In questa concezione, l’attività della lode, che tanto spesso accompagna la preghiera, diventa una sorta di adulazione manipolatrice. (…). Si tratta di una concezione in cui la preghiera risulta, in fin dei conti, idolatria, un tentativo di imporre a Dio la volontà umana. È l’idolatria che consiste nel trasformare Dio in colui che farà quello che dico io, e si basa sulla presunzione che io sono superiore a Dio, che io so cosa è meglio. E in tal modo si assume anche il fatto che Dio è un’entità separata, che non è necessariamente in contatto con l’umano, eccetto che attraverso interventi miracolosi. (…).

La vita è così piena di tragedie, di malattie e di dolore che nel più profondo di noi sappiamo che questo tipo di preghiera è un’illusione. Tuttavia, il dolore della vita fa sì che, invece di riconoscere questo carattere illusorio, le persone pensino di essere così cattive da meritare non la benedizione di Dio, ma la sua ira.

(…). Cos’è allora la preghiera? Non sono le richieste degli umani a un Dio teista che è al di sopra del cielo affinché intervenga nella storia o nella vita di chi prega. La preghiera è piuttosto lo sviluppo della coscienza che Dio opera attraverso la vita, l’amore e l’essere di tutti noi. La preghiera è presente in ogni azione che fa sì che la vita migliori, che il dolore sia condiviso o che ci si faccia coraggio. La preghiera è sperimentare la presenza di Dio, la quale ci porta ad unirci gli uni agli altri. La preghiera è quell’attività che ci fa riconoscere che “è dando che si riceve”, per usare le parole di San Francesco. La preghiera è più nella vita che viviamo che nelle parole che diciamo.

Per questo San Paolo ha potuto esortarci a “pregare incessantemente”. Ciò non significa che dobbiamo recitare preghiere ogni momento. Significa che dobbiamo vivere le nostre vite come una preghiera, camminare attraverso la tragedia e il dolore sapendo che in realtà non procediamo da soli. La preghiera è sapere e capire che possiamo essere le vite attraverso cui il divino entra nell’umano. La preghiera è il riconoscimento che viviamo in Dio, che è la Fonte della nostra vita, la Fonte del nostro amore e il Fondamento del nostro Essere. (…).

TESI 11

La speranza della vita dopo la morte deve essere per sempre separata dalla moralità del premio e del castigo, la quale non è altro che un sistema di controllo della condotta umana. Pertanto, la Chiesa deve abbandonare la sua dipendenza dalla colpa come motivazione del comportamento.

Nella liturgia cristiana, si percepisce frequentemente Dio come colui che tutto vede, come il giudice che tutto sa, come qualcuno che è pronto a emettere una sentenza in base alla nostra condotta. (…). Difficilmente si può credere in un Dio simile quando assumiamo la consapevolezza delle dimensioni dell’universo. Dove abiterebbe questo Dio che tutto vede? (…).

Esistono anche altri problemi rispetto a questa interpretazione di Dio (…). Nel XIX secolo, gli esseri umani hanno cominciato ad accettare l’esistenza di un profondo condizionamento sociale della condotta. (…). Nel XX secolo, il mondo occidentale ha scoperto quanto profonda sia l’interdipendenza psicologica umana. (…). Considerare la vita solo in base alla condotta e ai nudi fatti è sancire un mondo radicalmente ingiusto. Se è questo quello che Dio fa, allora è un Dio radicalmente ingiusto. (…).

Nel 2009 ho scritto un libro sul perché credo nella vita dopo la morte. È stato pubblicato con il titolo Eternal Life: A New Vision (“Vita eterna: una nuova visione”). La direzione da seguire per raggiungere tale nuova visione era espressa nel sottotitolo: “Al di là della religione, al di là del teismo, al di là del cielo e dell’inferno”. Credo che la vita eterna debba restare per sempre separata dai concetti di premio e castigo, o di cielo e inferno. (…). So di molti adulti talmente spaventati dal ritratto presentato dalla Chiesa di un Dio giudice disposto a punire il malvagio da condurre la propria esistenza sotto la spinta non dell’amore, ma della paura. Il comportamento giusto motivato dalla paura può essere mai realmente giusto? (…). Se il Vangelo di Giovanni dice la verità, come credo che sia, la promessa che ci fa Gesù non consiste nel renderci religiosi, morali o credenti autentici; (…) consiste, secondo le parole scritte da Giovanni, nel dirci di essere venuto «perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

TESI 12

Tutti gli esseri umani sono fatti a immagine di Dio e devono essere rispettati per quello che sono. (…). Ciò appare ovvio in teoria, ma nella storia cristiana è stato difficile per i credenti viverlo realmente. (…). Come è possibile che l’antisemitismo sia stato il prodotto della religione fondata sull’ebreo Gesù? Che i leader della Chiesa abbiano giustificato guerre chiamate “crociate” per uccidere quegli infedeli dei musulmani che vivevano nella terra che i cristiani definivano santa? Che i cristiani abbiano cercato di mantenere pura e intatta la loro fede bruciando nei roghi chi discordava dall’ortodossia del loro credo? Su che base etica hanno praticato la schiavitù alcuni papi nella storia contro i neri? (…). Quando la schiavitù è stata sostituita dalla segregazione, com’è possibile che coloro che rivendicavano l’identità cristiana si siano opposti al suo superamento resistendo a base di idranti, di cani e di bombe nelle chiese in cui a morire erano bambine? Com’è possibile che i leader cristiani abbiano potuto definire la metà femminile dell’umanità come sub-umana, non permettendo alle donne di avere proprietà a loro intestate fino al XIX secolo, né di andare all’università fino al XX, di votare, di esercitare determinate professioni, di essere ordinate, di partecipare alla politica e candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti fino alla fine dello stesso XX secolo o all’inizio del XXI? Com’è possibile che la Chiesa abbia continuato a credere che l’omosessualità sia uno stile di vita motivato da una malattia mentale o dalla depravazione morale (…)? (…). Il mandato di Gesù di amare il prossimo come se stessi sembra non sia stato ascoltato dalla Chiesa. La parabola del buon samaritano, che suggerisce si debba amare l’oggetto delle proprie paure e dei propri più profondi pregiudizi, è stata ignorata. (…). Vi sono senza dubbio molte cose nella storia della Chiesa di cui bisogna pentirsi. L’unico cammino che abbiamo davanti è compiere questo atto di penitenza apertamente, con onestà, e chiedere perdono alle nostre vittime. (…). Nel servizio battesimale della mia Chiesa si pone ai candidati al battesimo, ai loro genitori e ai loro padrini la seguente domanda: «Cercherai Cristo in ogni persona, amando il tuo prossimo come te stesso?». Ed essi rispondono: «Lo farò, con l’aiuto di Dio». Questa deve essere la risposta di tutta la Chiesa cristiana se spera di sopravvivere nel futuro.

Le 12 tesi sono state già presentate dinanzi alla Chiesa. Il futuro del cristianesimo dipenderà da come questa sarà capace di rispondere.

si fa presto a dire Dio …

IL DIO IN CUI NON CREDO 

di Carlo Molari


“CHE DIO MI LIBERI DA DIO”

otto immagini di Dio “in cui non credere”

di Carlo Molari

prego Dio che mi liberi da Dio: sembra una contraddizione perché se preghi Dio credi in Lui e non puoi chiedere di fare senza di Lui. La formula viene da un mistico, un teologo domenicano vissuto a cavallo tra il secolo XIII e XIV, nato nel 1260 e morto nel 1327, Meister Eckhart. Eckhart come credente ha detto: Prego Dio che mi liberi da Dio per superare tutte le immagini di Dio, per giungere a quella esperienza profonda dove Dio si fa presente nel fondo dell’anima, come lui dice

 

È un discorso difficile, lui stesso ne era consapevole e infatti afferma: “vi prego per amor di Dio di comprendere se potete questa verità. Se poi non la comprendete non vi affliggete per questo, perché io parlo di una verità tale che solo poche persone buone la comprenderanno” (ib. p. 131). Dice ancora: “Chi non comprende questo discorso non affligga il suo cuore, perché l’uomo non può comprendere questo discorso finché non diventa uguale a questa verità”, cioè finché non la vive al punto da essere questa verità. “Infatti si tratta di una verità senza veli, che giunge immediatamente al cuore di Dio. Dio ci aiuti a vivere in modo da poterla conoscere in eterno. Amen” (ib. p. 139). Il luogo interiore dove Dio si incontra, per Eckhart, è il fondo dell’anima: là non c’è nessuna immagine perché è il luogo dove prendi contatto con la forza creatrice, con l’azione di Dio che ti rende figlio. Eckhart utilizza questa espressione: “Dio genera in te il figlio”. Vuol dire “la parola che un giorno in Gesù si è espressa, in te ora viene generata”, tu cresci come figlio. E in quel luogo non c’è nessuna immagine. Tudiventa l’immagine e non avrai bisogno di nessun’altra immagine, sarai luogo dove Dio si rivela. Non dove Dio fa qualcosa per te, dove Dio fa teimmagine sua.
Vorrei aggiungere un’altra breve riflessione preliminare sul significato del confronto con gli atei. Oggi molti cominciano a parlare di Dio, se si va nelle librerie laiche si trovano moltissimi libri che parlano di Dio scritti da atei o agnostici, che però sentono il dovere, la necessità di parlare di Dio. Si potrebbe dire che oggi i teologi si stanno avviando al silenzio, nel senso che scoprono che è meglio non parlare troppo di Dio, perché tutto quello che diciamo o è senza senso o, se ha un senso, conduce al silenzio, cioè all’adorazione, a liberarci da tutte le parole e da tutte le immagini; mentre gli atei si stanno avviando nella direzione di parlare di Dio. Per dire che non c’è. E siccome quel Dio che negano è spesso il Dio che anche noi neghiamo, succede che ci troviamo a camminare insieme. Il cammino che noi stiamo facendo anche nel confronto con gli atei è un cammino comune di credenti e non credenti, per un nuovo umanesimo, perché l’umanità risponda alle esigenze attuali. Infatti la situazione in cui oggi ci troviamo è quella di una svolta epocale, nel senso che la forza creatrice, la forza della vita, i processi evolutivi richiedono un salto qualitativo. Mentre nei passaggi precedenti – fisici, chimici e biologici – c’erano leggi ben determinate ora il salto sta avvenendo nell’ambito culturale e spirituale, dove qualcosa di nuovo sta sorgendo, ma non sappiamo che cos’è, non sappiamo che forma assumerà. Dobbiamo essere consapevoli che insieme lo possiamo far nascere, desiderandolo, attendendolo e accogliendolo, cioè diventando noi luogo di questa emergenza.
Il tema Dio è un ambito attraverso il quale la riflessione e l’attesa del nuovo acquista una efficacia straordinaria. Non semplicemente per l’apporto dei credenti, bensì anche dei non credenti, di coloro che soffrono, che lavorano per la giustizia, che giungono ad amare in modalità corrispondenti alle esigenze della nostra stagione storica. Dopo queste premesse esamino gli dei in cui non credo: otto immagini di Dio che non sono efficaci.
1. Il Dio della pura ragione: in questo Dio non credo, non merita fede, non merita fiducia, non è sufficiente. C’è un ateo convertito, morto nell’aprile scorso, un filosofo molto noto, Anthony Flew, che a quindici anni aveva fatto la scelta dell’ateismo. Quando nel 2004 fu chiamato negli Stati Uniti in un grande teatro per confrontarsi come ateo con tre teologi, prima di cominciare il dialogo dichiarò di aver cambiato idea. Successivamente ha giustificato il suo cammino razionale. In realtà Flew è giunto alla credenza in Dio attraverso la riflessione filosofica, ma non è giunto alla fede in Dio, cioè a considerare Dio come riferimento delle proprie decisioni, per giungere a conoscere e ad amare in un modo nuovo. Se non scopri che è un Dio che ti ama e che ti consente di giungere ad una forma nuova di vita, un Dio che salva a che ti serve? Anche il Cardinale Ruini, nel dicembre 2009 dopo aver proposto diversi argomenti per dimostrare l’esistenza di Dio, ha detto: “La difficoltà dell’approccio metafisico nel contesto culturale contemporaneo, aggiungendosi all’aporia derivante dall’esistenza del male nel mondo, sono le ragioni di fondo di quella «strana penombra (sono parole di Ratzinger che egli cita) che grava sulla questione delle realtà eterne». Perciò l’esistenza di un Dio personale, pur solidamente argomentabile, non è oggetto di una dimostrazione apodittica, ma rimane (e qui cita ancora Ratzinger) «l’ipotesi migliore, che esige da parte nostra di rinunciare ad una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile»”. L’atteggiamento dell’umile ascolto serve appunto per creare il silenzio interiore, per pervenire al ‘fondo dell’anima’ dove la forza creatrice sta alimentando il nostro cammino. Questa è l’esperienza da compiere in ordine alla fede. Per questo il Dio della ragione non è sufficiente.
2. Non credo nel Dio che opera nella creazione e nella storia inter-venendo, modificando le situazioni, completando le creature, rimettendo in funzione i meccanismi della creazione e della storia quando si inceppano. L’azione di Dio è un’azione creatrice che offre possibilità, che alimenta il processo, ma che non si sostituisce mai alle creature, proprio perché fa esistere ed operare le creature. La storia umana è fatta solo di azioni umane, come il processo cosmico è costituito solo da meccanismi di creature fisiche, biologiche, alimentate e sostenute dalla potenza divina. Siccome Dio molti praticanti pensano ancora che Dio intervenga all’interno dei processi, credo sia urgente chiarire l’inconsistenza di un tale modo di immaginare Dio. È un passaggio difficile ma necessario. Dobbiamo diffondere una immagine libera da queste ipoteche della ‘provvidenza’. Dio è provvidente non nel senso che risolve tutti i problemi, ma nel senso che, ovunque l’uomo si venga a trovare, il suo amore è tale che può condurlo al suo compimento. Dio perché non può risolvere alcun problema storico se non ci sono creature che aprendosi alla sua azione indicano e realizzano la soluzione. Il “dio tappabuchi” non può essere il Dio della fede.
3. Non credo nel Dio che punisce i peccati, che manda le pestilenze per far ravvedere gli uomini. Per moltissimo tempo si è pensato così. San Carlo Borromeo, in occasione di una pestilenza a Milano, organizzò una grande processione. Il santo portava la pesante croce di legno col sacro chiodo davanti a tutti invocando la misericordia di Dio. Scrisse poi al cardinale di Bologna esprimendo la sua gioia perché le chiese non erano mai state piene come in quei giorni. La peste, a suo giudizio, era stata lo strumento di Dio per il ravvedimento del popolo. Il segno chiaro che questa interpretazione era giusta stava nel fatto che “nonostante l’assembramento numeroso della gente che si era raccolta a pregare, non si era verificato nessun altro caso di peste”.
4. Non credo nel Dio che cambia atteggiamento per la preghiera degli uomini. Come se noi pregando sollecitassimo Dio a fare qualcosa di nuovo. È una pretesa insensata, un modello antropomorfico. La preghiera ha un grande valore perché mette in moto in noi dinamiche di novità e di cambiamento, non perché modifica l’atteggiamento di Dio. Noi pregando acquistiamo la capacità di vedere in modo più profondo il reale, e di amare in modo inedito. Quando giungiamo a sperimentare attraverso la preghiera le qualità nuove che fioriscono in noi, comprendiamo che la forza della vita contiene ricchezze ancora non espresse, qualità umane che possono fiorire e che domani avranno forme per noi ora non immaginabili. Il silenzio interiore, l’atteggiamento di ascolto e di accoglienza sono essenziali per l’efficacia della preghiera. Ma non perché diciamo a Dio di fare qualcosa di nuovo, ma perché noi accogliamo la sua azione in modo molto più profondo e ricco.
5. Non credo in un Dio che può fare le cose perfette dall’inizio, perché la creatura è tempo e può accogliere il dono solo a frammenti, nella successione. Dio è eterno, è pienezza di vita, è perfezione compiuta, ma la creatura è tempo e non può accogliere l’offerta divina tutta in un solo istante. Non ci può essere una creatura perfetta all’inizio. Nella prospettiva evolutiva si capisce bene che Dio alimenta il processo continuamente, cioè la creazione continua tuttora. Il compimento è il traguardo del cammino, la perfezione piena è solo alla fine.
6. Non credo nel Dio che vuole la riparazione del male attraverso la croce di Cristo o per mezzo di coloro che si uniscono alla sua sofferenza. Dio non vuole che gli uomini siano nel dolore, e quando qualcuno soffre Dio è dalla sua parte per sostenerlo nel suo cammino, perché possa giungere ad amare anche in quella condizione. I santi che hanno attraversato grandi sofferenze si sono santificati per l’amore a cui sono pervenuti. Lo stesso Gesù è giunto ad un amore supremo sulla croce e per questo è risorto. Amando Gesù ci ha salvato: è redentore non perché ha sofferto, ma perché la sofferenza è stata l’ambito in cui l’amore è fiorito in forme sublimi.
7. Non credo al Dio che parla all’uomo con parole umane. Dio parla nel silenzio perché non pronuncia parole umane, bensì divine, per noi silenziose. La sua Parola però alimenta la nostra vita come forza creatrice. Il contatto con Lui ci rigenera. Ma questo contatto non diventa parola, non diventa idea, non diventa immagine, bensì diventa esperienza vitale, evento di storia. Certo, l’esperienza può essere narrata, ma quando viene tradotta in parole umane viene anche in parte tradita, modificata, confusa, per cui la Parola divina è sempre da cercare oltre le parole umane. Quando diciamo che la Scrittura è ‘parola di Dio’ dobbiamo intendere la formula in senso analogico cioè di relazione. La Parola è quella forza di vita che ha suscitato gli eventi di salvezza, narrati dagli uomini secondo i modelli con cui li hanno vissuti e interpretati, e trascritta secondo i modelli culturali del tempo. Il processo che ci consente di cogliere il senso della Parola è rivivere le esperienze di fede che hanno caratterizzato l’evento narrato, coglierne la trama divina, e percepire nel silenzio la presenza che le ha rese possibili.
8. Non credo nel Dio del Progetto intelligente (Intelligent Design), come lo presentano i gruppi statunitensi che si battono per introdurre nelle scuole l’insegnamento alternativo all’evoluzionismo neo-darwinista. Dio della fede non è semplicemente il Dio delle origini ma del processo nella sua interezza. Le cause dei processi cosmici sono imperfette e il male accompagna sempre lo sviluppo della vita sulla terra. Il caos e la complessità caratterizzano molti eventi, perché Dio non interviene con azioni puntuali nelle situazioni della storia. L’azione divina in ogni circostanza offre molte possibilità per cui la casualità ha una parte importante nel divenire cosmico e negli eventi della storia. Il progetto salvifico si può realizzare anche attraverso fallimenti, vicoli ciechi, eventi casuali e imprevedibili che costellano il cammino evolutivo.

la visione teologica di papa Francesco

«papa Francesco: visione e teologia di un mondo aperto»

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

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pubblicazione del testo della Lectio Magistralis tenuta  dal cardinale Segretario di stato Pietro Parolin a Padova, nella Facoltà Teologica del Triveneto, nel decimo anno della fondazione

 

Eccellenze,

Autorità accademiche, civili e militari,

Docenti e studenti,

Personale tecnico-amministrativo e volontari,

Signori e Signore,

Cari Amici,

 

Sono lieto di prendere la parola in occasione di questo dies academicus della Facoltà Teologica del Triveneto, vivamente grato dell’invito che mi è stato rivolto di celebrarne con voi il decennale. 

 Dopo una partenza “in sordina”, la Facoltà Teologica si è ormai imposta come fucina di preparazione di sacerdoti, religiosi e laici.  Espressione delle Chiese locali della Regione conciliare e da esse sostenuta, rappresenta una risorsa significativa per far giungere la proposta del Vangelo – quella “vita” e quella “vita in abbondanza” che Gesù è venuto a darci con la sua esistenza terrena, la sua morte e la sua risurrezione (cfr. Gv. 10,10) – al mondo e agli uomini di oggi.  Sue finalità, infatti, sono, da una parte sostenere la comunicazione e la pratica ecclesiale della fede, e, dall’altra, corroborare la testimonianza vissuta e argomentata del credente e della comunità cristiana in modo da offrire, nello stile dell’incontro e in una visione aperta, punti di vista ispirati al Vangelo, che, dialogando con le altre istanze presenti nella società, la aiutano a diventare sempre più ambiente in cui viene riconosciuta, rispettata e promossa la dignità di ogni uomo e di tutto l’uomo.

 In questa prospettiva, è pertanto di vitale importanza confrontarsi con le nuove realtà, cioè quei segni dei tempi che domandano alla Ciesa di affrontare le grandi questioni del mondo contemporaneo e dei rapporti che al suo interno nascono, si sviluppano e, purtroppo, spesso si contrappongono.

 Come dimenticare che già cinquantanni or sono, a conclusione dell’esperienza conciliare, la Gaudium et Spes indicava nel rapporto Chiesa-mondo il nuovo ambito di riferimento per la teologia? Una sfida che chiama i teologi nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a ricercare modi sempre più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini della loro epoca” (GS 62). Con una consapevolezza, ad un tempo metodologica e dottrinale: “altro è … il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono espresse, a condizione tuttavia di salvaguardarne il significato e il senso profondo” (ib.).

 

Questo indirizzo essenziale scandito dal Vaticano II impone anche oggi – come ha indicato di recente la Commissione Teologica Internazionale – un attento discernimento che coinvolge la teologia e quindi il teologo che, chiamato a scoprire la parola che cresce come un seme nel terreno della vita del popolo di Dio e, dopo aver determinato che un particolare accento, desiderio o atteggiamento provengono effettivamente dallo Spirito, e corrispondono dunque al sensus fidelium, deve integrarla nella propria ricerca” (Commissione Teologica Internazionale, Il sensus fidei nella vita della Chiesa, 2014, 82).

 Seguendo un tale approccio le riflessioni che seguono vogliono solo cercare di individuare nel magistero di Papa Francesco i modi di annuncio della “buona Novella a tutte le genti” e, di conseguenza, le forme di presenza del popolo di Dio in un mondo che ha nella dimensione globale una componente essenziale del vivere sociale. Una dimensione, però, che ormai non nasconde più un evidente paradosso: ogni persona è diventata parte di un processo che si dice “aperto”, ma che non è in grado di eliminare preclusioni ed esclusioni. Per questo Papa Francesco non si stanca di leggere il mondo, con le sue vicende e i suoi protagonisti, con un intento che è critico ma parimenti costruttivo perché, se costante è l’obiettivo finale di “non escludere”, altrettanto presente è il richiamo alla “necessità del dialogo” quale metodo che appartiene anche alla ricerca teologca.  

Infatti, il mondo che Papa Francesco descrive e interpreta è un mondo aperto, dove in principio non esistono situazioni o abitudini precostituite, ma è un mondo di relazioni e di dialogo, due aspetti che sono per lui una regola di vita. Teologi e non, ci troviamo di fronte ad un approccio che può essere applicato alla geopolitica, come pure alla teologia, alla sua ricerca e al suo insegnamento. La teologia, infatti diviene per il Papa espressione di una Chiesa che è ‘ospedale da campo’, che vive la sua missione di salvezza e guarigione nel mondo” (Lettera del Santo Padre Francesco al Gran Cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina nel centesimo anniversario della Facoltà di Teologia, 3 marzo 2015).

 Questo Papa che viene da lontano, dalla fine del mondo come ha detto il giorno della sua elezione, guarda l’Europa e il mondo con uno sguardo diverso, decentrato e lontano da quella visione che accompagna la tradizionale lettura teologica. Egli non appartiene né all’Oriente né all’Occidente, come pure non proviene dal cuore del sistema internazionale: per questo il suo insegnamento decentra la nostra abituale prospettiva e per certi versi stravolge il nostro modo di vedere il mondo e la Chiesa. Da buon gesuita, egli esercita il suo discernimento e si pone alla ricerca della volontà di Dio per scrutarla e così prepararsi a prendere decisioni sulla terra: che cosa c’è di più geopolitico e teologico allo stesso tempo?

 

Permettetemi allora di introdurvi in questo “mondo aperto” di Papa Francesco. Poi cercherò di individuare come l’insegnamento della teologia può soddisfare le esigenze di questo mondo, per ritornare a considerare la missione della Chiesa e della Santa Sede.

 

1.         Un mondo aperto

 

Dati statistici, indici demografici, scenari economici e logiche politiche ci danno ormai piena coscienza di non vivere più in un mondo diviso tra Est e Ovest o tra Nord e Sud, ma piuttosto in una realtà multipolare dove le differenze non sono scomparse. Penso in particolare a quel divario che facilmente cogliamo tra i Paesi avanzati e altri di più recente indipendenza che si manifesta, ad esempio, nel diverso grado di sviluppo, nella disponibilità di tecnologia, nella speranza di vita delle popolazioni. Sempre più spesso, però, molti Paesi cosiddetti del Sud si pongono ormai come Nazioni emergenti dove strati di popolazione vivono in condizioni non diverse da quelle dei Paesi più ricchi. Ad una lettura superficiale – quella che per il teologo non disvela la profondità fenomenologica delle situazioni – sembra quasi che le vecchie divisioni del passato siano finalmente superate. Invece, rimangono presenti le chiusure e le esclusioni che per Papa Francesco possono essere superate riscoprendo un’autentica misericordia che “ci renda più aperti al dialogo per meglio conoscerci e comprenderci; elimini ogni forma di chiusura e di disprezzo ed espella ogni forma di violenza e di discriminazione” (Francesco, Misericordiae Vultus, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia, 11 aprile 2015, 23).  

Una tale concezione così articolata della misericordia non è solo un atteggiamento pastorale ma è la sostanza stessa del Vangelo di Gesù” (Francesco, Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina nel centesimo anniversario della Facoltà di Teologia, 3 marzo 2015). La centralità della misericordia diventa il modo per comprendere la multipolarità sempre più ampia che caratterizza il nostro mondo, non più dominato dalla contrapposizione tra Atene e Roma, oppure tra Mosca e Washington, ma caratterizzato da una moltitudine di capitali da Pechino a San Francisco, da San Paolo a San Pietroburgo. La multipolarità, infatti, è espressa da una rete globale che avvolge il settore degli affari, della finanza, della religione e delle decisioni politiche: basti pensare ai cosiddetti Vertici che mettono ormai attorno ad un tavolo i leader mondiali dell’industria, della finanza, della politica o delle religioni.  

Per descrivere questo processo Papa Francesco propone nell’Evangelii Gaudium l’immagine di una sfera, dove tutti i punti sono più o meno alla stessa distanza dal centro ed esercitano il medesimo ruolo nella gestione del pianeta. Una struttura così articolata dovrebbe portare ad una globalizzazione egualitaria e uniforme: tutti i Paesi tendono all’omogeneità e presentano le stesse dinamiche culturali, commerciali e politiche, che magari ruotano attorno alla realtà o all’obiettivo della democrazia. Lo notiamo ad esempio già nei centri urbani delle grandi città che tendono ad assomigliarsi, percorsi da arterie commerciali in cui si trovano le stesse catene di negozi e sono in vendita i medesimi marchi.  

All’immagine pur suggestiva della sfera, però, Papa Francesco preferisce sostituire piuttosto quella del poliedro. Ciascuna superficie del poliedro, infatti, conserva la sua unicità e la sua identità che ne determina la differenza rispetto alle altre. Ne consegue che la tutela dell’identità è un fatto essenziale, anzi è normale difenderla perché all’identità è legata la dignità della persona umana e la sua unicità. In proposito Papa Francesco ci offre alcune immagini per comprendere il valore del rapporto identità-dignità.  

La prima riguarda l’identità cristiana: che è quell’abbraccio battesimale che ci ha dato da piccoli il Padre, ci fa anelare, come figli prodighi – e prediletti in Maria –, all’altro abbraccio, quello del Padre misericordioso che ci attende nella gloria” (Evangelii Gaudium,144). Se il modello di questa  identità è il “donarsi di Gesù sulla croce” (ib. 269), il fine è la necessaria relazione del cristiano con ogni prossimo: “Affascinati da tale modello, vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la vita con tutti, ascoltiamo le loro preoccupazioni, collaboriamo materialmente e spiritualmente nelle loro necessità, ci rallegriamo con coloro che sono nella gioia, piangiamo con quelli che piangono e ci impegniamo nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri” (ib.). E qui è evidente la continuità con l’incipit della Gaudium et Spes e in particolare con l’affermazione che la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia” (GS, 1).  

La seconda immagine descrive il senso dell’identità individuale che trova compimento solo nell’appartenenza alla comunità, poiché il tutto è superiore alla parte: “una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo. Non è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili” (Evangelii Gaudium, 235). Qui è ben presente la realtà di quell’unico Popolo di Dio di cui parla la Lumen Gentium, dove le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità” (LG, 13).  

  Una terza immagine  è relativa all’identità politica e istituzionale che Papa Francesco vede come strumento per eliminare la fragilità del modello socioeconomico in cui siamo immersi e che si difende di fronte all’arrivo dell’altro. Si tratta dell’invito ad una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di creare nuove sintesi culturali. Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!” (Evangelii Gaudium, 210). Un indicatore che si collega all’auspicio del Vaticano II di operare in una società non più chiusa, ma dalle differenze ormai molteplici: “La giustizia e l’equità richiedono similmente che la mobilità, assolutamente necessaria in una economia di sviluppo, sia regolata in modo da evitare che la vita dei singoli e delle loro famiglie si faccia incerta e precaria” (GS, 66).

 

Da questo quadro ricaviamo che l’identità è essenziale perché contraddistingue il nostro essere cristiani, dà l’immagine esatta del Popolo di Dio, crea la relazione tra le persone. Dunque, non dovrebbe essere motivo di isolamento o per chiudersi in se stessi o nel proprio gruppo, perché il rischio è di congelarla e farla diventare rigida eliminandone il necessario divenire. Al contrario, ogni identità diventa viva e vera quando si pone in relazione con le altre e si apre al dialogo. Questo presuppone che sia ben delineata nella sua natura e definita nei suoi contenuti, perché si può dialogare quando sappiamo chi siamo.  

Ed ecco il dialogo, strumento della misericordia, che diventa allora la via maestra per favorire la comprensione tra le diversità e costruire la pace in mezzo a visioni e modi di vivere ed agire contrapposti. Sul dialogo dobbiamo insistere, trattandosi di un punto che è stato sviluppato in continuità da Papa Francesco sin dal suo insediamento al Soglio di Pietro come qualcosa che appartiene al mondo reale, alla quotidianità delle persone e non è legato ad un’idea o ad una teoria del dialogo. Infatti, se nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium troviamo l’affermazione che dovere di tutta la Chiesa è di porsi in una condizione di dialogo  nei diversi ambiti ad intra e ad extra che caratterizzano la sua missione (nn. 241-258), il Papa non manca di precisare che deve trattarsi di un dialogo strutturato che esige pazienza e umiltà che accompagnano uno studio approfondito, poiché l’approssimazione e l’improvvisazione possono essere controproducenti o, addirittura, causa di disagio e imbarazzo” (Francesco, Discorso al Pont. Istituto di Studi Arabi e di Islamistica, 24 gennaio 2015). Ed ecco che il dialogo tra la fede, la ragione e la scienza, il dialogo interreligioso, il dialogo sociale, il dialogo nei rapporti tra le Nazioni acquistano specificità e rilevanza sia per i modi di attuazione che per i membri della Chiesa e le istituzioni ecclesiali che debbono realizzarli.  

Cerchiamo allora di individuare i contenuti essenziali del dialogo, anche per superare quei dubbi che possono comparire circa la validità del dialogo rispetto al  metodo teologico; o a quelli che affiorano anche nei livelli istituzionali, anche alti, che ne contestano il realismo politico, come pure nelle critiche più o meno velate di settori dell’opinione pubblica.  

In primo luogo la finalità che Papa Francesco ci precisa è la edificazione di una società giusta: È tempo di sapere come progettare, in una cultura che privilegi il dialogo come forma d’incontro, la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni” (Evangelii Gaudium, 239 ).

Poi gli ostacoli al dialogo, di cui Papa è consapevole quando dice: “Riconosciamo che una cultura, in cui ciascuno vuole essere portatore di una propria verità soggettiva, rende difficile che i cittadini desiderino partecipare ad un progetto comune che vada oltre gli interessi e i desideri personali” (ib. 61). “La vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con un’identità chiara e gioiosa, ma aperti a comprendere quelle dell’altro” e “sapendo che il dialogo può arricchire ognuno” (ib. 251). Ecco allora che il dialogo diventa costruttivo.

 

Quindi i soggetti, e cioè quegli attori che attribuiscono al dialogo un valore aggiunto che va oltre il solo comunicare, anche le verità di fede: Un dialogo è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialogo” (ib. 142). Per ognuno dei suoi protagonisti il dialogo diventa un atteggiamento di apertura e di volontà, di benevolenza e di rispetto per colui con cui dialoghiamo, un silenzio interiore che permette di ascoltare l’altro.  

Infine, proseguendo nel suo insegnamento Papa Francesco fa emergere il metodo del dialogo che, se condotto seriamente, lungi dall’essere soltanto uno scambio di idee deve corrispondere ad un vero cambiamento, perché “la realtà è superiore alle idee” e pertanto sono da evitare le diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza” (ib. 231). Anche nella ricerca teologica se si tralascia il senso e la portata della tradizione della Chiesa, le idee sono sempre  minacciate da derive, da sofismi di qualsiasi tipo, mentre la realtà non sbaglia. Ed è qui che riconosciamo l’importanza del principio dell’Incarnazione, intorno a cui ruota tutta la storia della salvezza.  

Così questo mondo aperto è fatto di molteplici attori ognuno dei quali è portatore di una propria identità, di una specifica cultura, di una diversa storia. La globalizzazione non deve ridurre queste differenze, perché significherebbe toccare qualcosa di molto profondo nell’identità dei popoli e delle culture. Essa deve rispettare l’identità, perché la dignità umana è compresa in questa identità. Ora questa dignità umana fonda tutto il pensiero della Chiesa sull’uomo e sulla sua esistenza in una comunità. Il Papa lo ha ribadito con forza a Strasburgo a fine novembre davanti al Parlamento Europeo: “La nostra storia è caratterizzata dalla inequivocabile centralità della promozione della dignità umana” (Discorso al Parlamento Europeo, 25 novembre 2014).  

Rispettare le identità, però, non significa metterle in concorrenza o in contrapposizione. A dialogare tra loro e ad interagire sono delle identità aperte che tra di loro non innalzano muri, né instaurano una competizione, ma piuttosto operano per uno scambio: il mondo aperto è un mondo di relazioni, di confronto, come pure di divergenze e di conflitti. Ma queste differenze sono la ricchezza delle Nazioni quando sono oggetto di un dibattito ragionevole e di una discussione leale. Ed ecco che globalizzare in modo originale – sottolineo questo: in modo originale – la multipolarità comporta la sfida di un’armonia costruttiva, libera da egemonie che, sebbene pragmaticamente sembrerebbero facilitare il cammino, finiscono per distruggere l’originalità culturale e religiosa dei popoli” (Discorso al Consiglio d’Europa, 25 novembre 2014).  

Non sfugge che in questo momento storico ad alimentare le differenze sono costantemente le nuove migrazioni, in un mondo pieno di conflitti che causano spostamenti di migliaia di persone spesso in fuga dalla violenza, dalla morte per fame o dalla mancanza di un futuro umanamente dignitoso. Papa Francesco descrive questo fatto con un forte realismo: A volte non si va tanto in cerca di un futuro migliore, ma semplicemente di un futuro, poiché rimanere nella propria patria può significare una morte certa” (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 2015). Il Papa in quel contesto ha lanciato un appello alla nostra apertura e alla nostra capacità di accoglienza: È dunque necessario un cambio di atteggiamento nei loro confronti, per passare dal disinteresse e dalla paura ad una sincera accettazione dell’altro” (ib.). Egli chiama così tutti i credenti e tutti gli uomini di buona volontà a mostrare la loro umanità nell’accoglienza, come gesto concreto e solidale, non di sola assistenza o momentaneo aiuto. Torna alla mente ciò che Gesù ha detto nel Vangelo di Matteo, e che resta anche per noi una questione essenziale: Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me (Mt, 25,45).   

La visione di Papa Francesco sul mondo aperto è così applicata al nostro rapporto con l’immigrato. Non possiamo chiuderci su noi stessi per puro egoismo: il dolore e i problemi dell’altro sono un invito al dialogo con lui. Il Papa anche in questi ultimi giorni si è rivolto in particolare all’Italia, che è direttamente impegnata di fronte a questa realtà, anzi ne è per tanti aspetti soverchiata, perché nel perdurante clima di incertezza sociale, politica ed economica il popolo italiano non ceda al disimpegno e alla tentazione dello scontro, ma riscopra quei valori di attenzione reciproca e solidarietà che sono alla base della sua cultura e della convivenza civile, e sono sorgenti di fiducia tanto nel prossimo quanto nel futuro, specie per i giovani” (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 2015). Non si tratta di una semplice apertura materiale, pur necessaria ed impellente davanti a tragedie che di umano hanno ormai solo le vittime, ma di farsi portatori di istanze etiche capaci di trasformarsi in azioni politiche necessariamente condivise. E una condivisione che travalica i confini nazionali per esigenze di mezzi e di coordinamenti, ma che va oltre gli stessi legami europei trattandosi di una realtà le cui cause sono determinate da una Comunità internazionale in cui i responsabili, Stati e Istituzioni intergovernative, sono preoccupati di garantire equilibri sempre più precari piuttosto che puntare ad una stabilità e costruire situazioni pacifiche. Una onesta lettura della realtà, ci dice che i mezzi da adottare debbono rispondere a concreti obiettivi di giustizia e alle esigenze di una umanità lacerata nei suoi rapporti dalla legge del più forte e non dalla forza delle legge, e che vede ancora le sue istituzioni, a tutti i livelli, operare con idee, strumenti e regole che appartengono al passato e non in grado di fronteggiare fenomeni nuovi e sempre più impellenti.  Un’esigenza che se ignorata a livello istituzionale, non sfugge ad ogni persona, anche la più semplice, che si senta parte della famiglia umana. Secondo Papa Francesco per camminare verso il futuro serve il passato, necessitano radici profonde, e serve anche il coraggio di non nascondersi davanti al presente e alle sue sfide. Servono memoria, coraggio, sana e umana utopia” (Discorso al Consiglio d’Europa, 25 novembre 2014).   

È il bello di questa umanità chiamata a incontrare e a sostenere l’ignoto, a rispondere a bisogni nuovi e vecchi con la necessaria disponibilità di sentirsi famiglia. Papa Francesco lo esprime in un modo che è nel contempo sostanziale e semplice quando parla della Sacra Famiglia: “questa comunità aperta in cui c’è spazio per tutti, poveri e ricchi, vicini e lontani” (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 2014), riecheggiando l’invito rivolto da San Giovanni Paolo II di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: In un’autentica famiglia non c’è il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti. Sono questi, trasposti al livello della ‘famiglia delle nazioni’, i sentimenti che devono intessere, prima ancora del semplice diritto, le relazioni fra i popoli” (San Giovanni Paolo II, Discorso all’ONU, 5 ottobre 1995, 14).

 

In questa visione del mondo di oggi, c’è un altro aspetto importante che Papa Francesco sottolinea: l’uomo non può vivere senza solidarietà che intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita” (Evangelii gaudium, 240). La solidarietà, dunque, diventa la garanzia di una umanità che è alla ricerca di una reale giustizia e di un maggiore benessere non può dimenticare gli ultimi, né abbandonare coloro che non riescono a mantenere i ritmi di un’efficienza spesso esasperata. Qui può essere interessante notare che nella visita alle Istituzioni di Strasburgo, nel novembre scorso, Papa Francesco ha fatto riferimento all’integrazione europea come interessante veicolo di solidarietà perché esso lega i Paesi del Continente tra loro in una architettura costruita sulla solidarietà, anche se tale modello non è privo di vincoli per ogni Stato. Esso, infatti, crea quella “solidarietà di fatto” in grado di creare le condizioni perché tra i Paesi “prevalga l’aiuto vicendevole e si possa camminare, animati da reciproca fiducia” (Discorso al Parlamento Europeo, 25 novembre 2014).   

Questo tema della solidarietà, ampiamente approfondito da San Giovanni Paolo II nella sua enciclica Sollicitudo rei socialis e riportato nel suo significato originario di “virtù cristiana”, viene applicato da Papa Francesco alla odierna globalizzazione, come condizione per costruire la pace. Questo è stato il tema del suo discorso al Corpo Diplomatico nel gennaio 2015, partendo dal richiamo: Desidero far risuonare con forza una parola a noi molto cara: pace!”. La riflessione sulla relazione pace-solidarietà trova alcune ragioni che non solo la possono motivare, ma consentono di sottoporla all’attenzione della ricerca teologica.   

Anzitutto il costante riferimento nella dottrina della Chiesa e del suo insegnamento sociale volto a collegare il tema della pace alla questione della povertà avendo come riferimento sia la centralità della persona sia la lettura del dato reale di ordine economico-sociale. È quanto mostra la riflessione iniziata nella fase storica contemporanea con l’Appello ai Popoli belligeranti e ai loro reggitori di Benedetto XV di fronte agli orrori della Prima Guerra Mondiale, di cui stiamo vivendo il centenario e che proprio nelle terre venete ha avuto il suo epicentro di distruzione e di morte. Papa Della Chiesa nel denunciare quella “inutile strage”, ricordava alle Potenze del tempo che “l’equilibrio del mondo e la prospera e sicura tranquillità delle Nazioni riposano su la mutua benevolenza e sul rispetto degli altrui diritti e dell’altrui dignità, assai più che su moltitudine di armati e su formidabile cinta di fortezze” (Benedetto XV, Esortazione Apostolica Allorché fummo chiamati, 28 luglio 1915).   

In secondo luogo c’è la continuità di riflessione sviluppata da San Giovanni XXIII in particolare con la Pacem in Terris, e, qualche anno più tardi, dal Beato Paolo VI con la Populorum Progressio. Entrambi i testi presentano un contributo specifico all’aspirazione alla pace e al suo legame con la crescita economica e la cooperazione allo sviluppo, quali altrettanti traguardi della Comunità delle Nazioni in vista del bene comune della famiglia umana.   

La riflessione di Papa Francesco sulla guerra inserisce due elementi nuovi. Quanto alle cause remote insiste sull’indifferenza, sintetizzata  da quell’interrogativo definito “il motto beffardo della guerra”: “A me che importa?” (Omelia al Sacrario Militare di Redipuglia, 13 settembre 2014, alla celebrazione in occasione del centenario della I guerra mondiale). Circa le cause immediate richiama l’esistenza oggi di una “guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni” che non è un caso perché “dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi” (ib.). Di qui la convinzione che per fermare la guerra e creare condizioni di pace è necessaria una “nuova collaborazione sociale ed economica, libera da condizionamenti ideologici, che sappia far fronte al mondo globalizzato, mantenendo vivo quel senso di solidarietà e carità reciproca” (Discorso al Consiglio d’Europa, 25 novembre 2014). Purtroppo, la realtà è tutt’altra: egli osserva “con dolore le conseguenze drammatiche di [una] mentalità del rifiuto e della cultura dell’asservimento (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 2015) che evoca e sostiene la guerra “combattuta a pezzi” (ib.) a fronte della quale si colloca l’invito a intraprendere un sincero cammino di fiducia reciproca e di riconciliazione fraterna che permetta di superare l’attuale crisi (ib.).  La fraternità vista come antidoto alla guerra e come categoria per determinare il superamento di quell’egoismo quotidiano, che è alla base di tante guerre e tante ingiustizie: molti uomini e donne muoiono infatti per mano di fratelli e di sorelle che non sanno riconoscersi tali, cioè come esseri fatti per la reciprocità, per la comunione e per il dono” (Francesco, Messaggio per la XLVII Giornata Mondiale della Pace, 1º gennaio 2014, 2).   

Nel mondo aperto, per Papa Francesco questa fraternità, profonda e reale che non è privilegio dei cristiani ma accomuna ogni popolo, diventa un modo consapevole di rendere visibile il progetto di Dio sulla famiglia umana e sul mondo. Un progetto che non esclude le periferie, anzi le fa diventare centrali. L’attenzione alle periferie, costante nell’insegnamento de Papa, si pone come un interessante paradigma che permette di cogliere ancora meglio l’idea del mondo aperto. La vita sul pianeta non può semplicemente ruotare intorno a modelli di sviluppo più dinamici che per la loro natura sono ritenuti efficienti. Avvalorare tale convinzione  significherebbe prendere atto di una posizione dominate, quasi una logica di potere da cui discende l’emarginazione dei più deboli o di quanti non sono in grado di rispondere alle aspettative del modello. Il Vangelo ha una logica inversa visto che gli ultimi saranno i primi e i più poveri sono al centro delle attenzioni di Cristo e dei suoi seguaci: “i poveri li avrete sempre con voi” (Mt 26,11). Questo è il paradosso del Vangelo in cui il pastore lascia le novantanove pecore per cercare quella che si è perduta. E come la pecorella smarrita resta il cuore delle preoccupazioni del pastore, così le periferie devono essere al centro delle preoccupazioni dei Paesi che per condizione sociale, politica, economica, territoriale sono i protagonisti del sistema internazionale, come pure delle Istituzioni internazionali  chiamate a programmare e gestire la cooperazione e delle sue azioni. Solo inglobando le periferie è possibile attivare programmi e azioni ispirati dalla solidarietà e non finalizzati all’assistenza.   

Si tratta di una scelta teologica che ha delle conseguenze politiche e sociali che scuotono un ordine economico incentrato sul mercato come ci ricordano le analisi dell’Evangelii Gaudium. Il Papa l’ha ripetuto ancora nel corso del suo intervento alla FAO quando ha affermato che l’affamato “ci chiede dignità, non elemosina” (Discorso alla II Conferenza Internazionale sulla Nutrizione, 21 novembre 2014).

 

2.     Un insegnamento della teologia aperto sulla realtà del mondo

 

Una riflessione analoga può essere fatta nel contesto delle questioni teologiche che a voi interessano particolarmente e costituire un impegno sia nell’otium della ricerca che nella missio dell’insegnamento. Infatti “in questo tempo la teologia deve farsi carico anche dei conflitti: non solamente quelli che sperimentiamo dentro la Chiesa, ma a anche quelli che riguardano il mondo intero e che si vivono lungo le strade dell’America Latina. Non accontentatevi di una teologia da tavolino. Il vostro luogo di riflessione siano le frontiere. E non cadete nella tentazione di verniciarle, di profumarle, di aggiustarle un po’  e di addomesticarle. Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini” (Francesco, Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina nel centesimo anniversario della Facoltà di Teologia, 3 marzo 2015).   

Una teologia così concepita non può prescindere da un tempo e da uno spazio preciso che è il mondo reale. Dio, infatti, non parla in astratto, ma alle persone concrete che vivono in una data epoca e in un contesto più o meno permeabile all’incontro con Lui e disponibile a vivere la sua Parola. Nessuna particolare epoca ha il privilegio della verità, e Papa Francesco ci ricorda che la stessa Chiesa ha bisogno di crescere nella sua interpretazione della Parola rivelata e nella sua comprensione della verità” (Evangelii Gaudium, 40). Pertanto il teologo deve saper ascoltare se vuole poter parlare.

 

Attraverso il dialogo con il mondo reale, il teologo è in grado di integrare le questioni del mondo utilizzando l’epistemologia che è propria delle scienze sociali e umane. Egli non può agire come se esse non esistessero. I dibattiti sulla coscienza e i suoi diritti, quelli sulla libertà e la responsabilità devono essere capaci di acquisire tutte le dimensioni psicologiche e sociologiche che hanno contribuito al progresso della nostra conoscenza dell’animo umano e del suo funzionamento. Se è imprescindibile il principio che le scienze non impongono nulla in maniera diretta alla teologia, altrettanto evidente è che esse illuminano il cammino della ricerca teologica. Questo permette al teologo di interrogarsi e rispondere anche di fronte ai complessi e rapidi cambiamenti culturali che richiedono di prestare “una costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la sua permanente novità” (ib., 40); come pure consente al credente di essere più vicino all’integralità del messaggio evangelico e al fine ultimo di quella ricerca di Dio che l’esperienza di fede gli domanda: tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che concerne Dio e la sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono e a rimanerle fedeli” (Dich. Dignitatis Humanae, 1). Ciò significa seguire e restare ancorati a quella tradizione che misura il cammino intrapreso dalla Chiesa per proseguire nell’annuncio della Buona Novella a tutte le genti. Tuttavia nella prospettiva del Concilio Vaticano II, la tradizione è un elemento centrale per la riflessione teologica se confrontata alla realtà dei nostri tempi e alle aspirazioni degli uomini di oggi: Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo” (Cost. Dogm. Dei Verbum, 13).  

Un’altra dimensione che la riflessione teologica di oggi non può tralasciare è la necessaria apertura alle altre religioni. Questo è particolarmente evidente per i cristiani separati, poiché la divisione è una sorta di offesa fatta a Dio e al Vangelo. Tocca a noi di lavorare per ricomporre queste fratture e nell’incontro con i nostri fratelli in Cristo dobbiamo sempre ricordare che siamo pellegrini, e che peregriniamo insieme. A tale scopo bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze, e guardare anzitutto a quello che cerchiamo: la pace nel volto dell’unico Dio” (Evangelii Gaudium, 240).   

Analoghe sono le preoccupazioni per le religioni non cristiane che rappresentano delle vie di ricerca percorse da molti uomini, il cui rispetto, come sostiene il Vaticano II, rientra nella prospettiva di salvaguardare quel fondamentale diritto di ogni persona a “cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione” (Dignitatis Humanae, 2). Gli esseri umani, però, non potranno soddisfare un tale obbligo “in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione esterna” (ib.). Di fronte ad esse al cristiano è richiesto di conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti” (Decr. Ad Gentes, 11).   

La sfida di queste ricerche d’unità riguarda innanzitutto una preoccupazione teologica sullo status della verità, il ruolo della ricerca teologica e la pratica autentica che i diversi credi domandano. Essere un vero cristiano, un eccellente buddista, un buon musulmano non può che condurre ad un dialogoper invitare a degli interrogativi reciproci sulle pratiche di ciascuno ed evitare le derive fondamentaliste che sono oggi una forte tentazione. Tornerò in seguito su questo punto, per ora è sufficiente precisare che l’obiettivo ultimo – che dovrebbe interessare la riflessione teologica – è di permettere alla religione di avere un impatto sulla realtà sociale e politica dei nostri tempi, distinguendo i diversi modi di viverla ed evitando di emulare quanti esprimono grossolane e poco accademiche generalizzazioni quando parlano dei difetti delle religioni e molte volte non sono in grado di distinguere che non tutti i credenti – né tutte le autorità religiose – sono uguali” (Evangelii Gaudium, 256).   

Il dialogo, dunque, diventa strumento costruttore di pace tra le religioni, come ha ripetuto Papa Francesco in Albania riferendosi al modo in cui quel Paese è stato in grado di trovare un equilibrio pacifico tra le diverse comunità e religioni. Egli ha sottolineato che il clima di rispetto e fiducia reciproca tra cattolici, ortodossi e musulmani è un bene prezioso per il Paese e acquista un rilievo speciale in questo nostro tempo nel quale, da parte di gruppi estremisti, viene travisato l’autentico senso religioso e vengono distorte e strumentalizzate le differenze tra le diverse confessioni, facendone però un pericoloso fattore di scontro e di violenza, anziché occasione di dialogo aperto e rispettoso e di riflessione comune su ciò che significa credere in Dio e seguire la sua legge” (Discorso nell’incontro con le Autorità albanesi, 21 settembre 2014).   

Il medesimo concetto è stato successivamente ribadito in occasione del suo viaggio in Turchia, all’arrivo ad Ankara, quando il Papa ha ricordato che  “è fondamentale che i cittadini musulmani, ebrei e cristiani – tanto nelle disposizioni di legge, quanto nella loro effettiva attuazione –, godano dei medesimi diritti e rispettino i medesimi doveri. Essi in tal modo più facilmente si riconosceranno come fratelli e compagni di strada, allontanando sempre più le incomprensioni e favorendo la collaborazione e l’intesa. La libertà religiosa e la libertà di espressione, efficacemente garantite a tutti, stimoleranno il fiorire dell’amicizia, diventando un eloquente segno di pace” (Discorso nell’incontro con le Autorità della Turchia, 28 novembre 2014).   

Chiaramente oggi questo sforzo per la promozione dei diritti e dei doveri di tutte le religioni deve essere compiuto anche in situazioni molto critiche, in particolare nelle situazioni di conflitto in cui le cause vengono attribuite al fattore religioso anche se esso è presente il più delle volte solo nominalmente. Il dialogo interreligioso è costruttore di pace e cioè artefice di un’opera di grande respiro che potrebbe iniziare nella didattica e nello studio delle Facoltà di Teologia se esse saranno in grado di farne strumento non di contrapposizione, ma di ricerca della verità.   

Il pensiero di Papa Francesco domanda ai teologi di tenere in mente due principali preoccupazioni. In primo luogo, il rapporto tra la parola e le opere: la parola della teologia ha un peso sulle opere intraprese da tutta la Chiesa. Cosa ne sarebbe di una parola sui poveri, soggetto così importante per Papa Francesco, se la Chiesa non fosse così fortemente concentrata su un’opera di solidarietà verso i più poveri? La credibilità della teologia si basa sulla testimonianza delle opere dei cristiani che ha come presupposto una vera conversione del cuore. Parafrasando San Paolo, il teologo potrebbe dire che se manca la carità le sue dichiarazioni, i suoi studi sarebbero un inutile cembalo sonante ed una perdita di tempo.   

La seconda preoccupazione concerne l’effettivo cambiamento paradigmatico è operato da Papa Francesco nel suo rapporto con la compassione, quella attenzione all’altro che “comprende, assiste e promuove” (Evangelii Gaudium, 179). Sono l’amore e la compassione che controllano la nostra vita cristiana: il criterio teologico non sta nella legge o nei precetti, ma in quell’amore verso Dio e verso il prossimo che Cristo pone al vertice della legge. Ciò non mette in discussione la legge, ma la guarda da un’altra prospettiva, quella dell’amore, appunto. In questo, il Papa si basa sul Vangelo stesso, in cui Gesù ha più volte manifestato il suo distacco verso i maestri della legge e la sua volontà di impegnarsi a favore dei più poveri e degli emarginati. Se egli ha indetto un Anno Giubilare straordinario sulla Misericordia, è bene che tutta la Chiesa rifletta e approfondisca questa realtà viva del Vangelo: la misericordia di Dio non è un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio. È veramente il caso di dire che è un amore ‘viscerale’. Proviene dall’intimo come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono” (Francesco, Misericordiae Vultus, 6).   

Papa Francesco non è meno attento al peccato presente in questo mondo: Non possono lasciarci indifferenti i volti di quanti soffrono la fame, soprattutto dei bambini, se pensiamo a quanto cibo viene sprecato ogni giorno in molte parti del mondo, immerse in quella che ho più volte definito la ‘cultura dello scarto’. Purtroppo, oggetto di scarto non sono solo il cibo o i beni superflui, ma spesso gli stessi esseri umani, che vengono ‘scartati’ come fossero ‘cose non necessarie’”. (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 13 gennaio 2014). Il problema è che tutte queste violenze nel mondo hanno come origine una cultura del rigetto dell’umano che è considerato come un rifiuto: “Tutti i conflitti militari rivelano il volto più emblematico della cultura dello scarto a causa delle vite che deliberatamente vengono calpestate da chi detiene la forza” (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 2015). Sconfiggere il male e superare il peccato significa credere nell’azione misteriosa del Signore Risorto e del suo Spirito, certi che: Se pensiamo che le cose non cambieranno, ricordiamo che Gesù Cristo ha trionfato sul peccato e sulla morte ed è ricolmo di potenza” (Evangelii Gaudium, 275)

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Un quadro composito, di fronte al quale sorge l’interrogativo: la teologia di oggi come potrebbe non essere interrogata dai numerosi progressi e nel contempo dalle tragedie estreme della nostra modernità? Il peccato ha assunto un volto globale e più violento che mai, disprezzando la dignità umana, nonostante viviamo un tempo in cui siamo così attenti alla persona umana.

 

3.          Tra il “soft power” della Santa Sede e la sua missione

 

La missione evangelizzatrice della Chiesa cattolica non è mai lontana dalla diplomazia della Santa Sede. Peraltro è questa missione della Chiesa che giustifica un apparato diplomatico così sviluppato con una evidente funzione ecclesiale. Lo strumento diplomatico è veicolo di comunione tra il Vescovo di Roma e i suoi Confratelli nell’episcopato a cui è affidato il governo delle Chiese locali; come pure consente di garantire la vita di quelle Chiese locali rispetto alle Autorità civili. Ma seguendo un immagine cara a Papa Francesco, la diplomazia pontificia è anche lo strumento che consente al Pastore universale di “raggiungere le periferie” del suo gregge e gli ultimi della famiglia umana. Ad essa guardano credenti – e non solo battezzati – vittime di limitazioni alla loro fede, o le molteplici istituzioni ecclesiali desiderose di quel vitale contatto con il governo centrale della Chiesa da cui attingono indicazioni, sostegno e finanche credibilità.   

Coloro che hanno posto il loro ministero sacerdotale ed episcopale al servizio diplomatico della Santa Sede conoscono bene le ragioni ecclesiali del loro impegno  nelle quali il teologo ritrova in pienezza quella dimensione della collegialità esposta dalla Lumen Gentium e quel desiderio di portare l’annuncio del Vangelo in tutti gli angoli della terra. Come ha detto Paolo VI nella sua grande lettera Enciclica Evangelii Nuntiandi, l’evangelizzazione passa attraverso la spiegazione e la promozione dei valori evangelici, così come mediante un annuncio diretto. Ma non vi può essere alcun annuncio senza questa promozione.   

La prima missione è quella di superare ogni tentazione di restare rinchiusi nella propria dimensione e di essere quella “Chiesa in uscita” che significa abbandonare sicurezze e posizioni acquisite: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo” (Evangelii Gaudium, 20). Una luce che può contribuire a superare ostacoli e ogni forma di violenza.   

Papa Francesco parla costantemente dei pericoli di tutti i fondamentalismi, che siano essi culturali, religiosi o teologici. Nel fondamentalismo esiste un pericolo grave per l’ordine politico, perché esso produce delle violenze indefinite. Tocca dunque alle religioni di interrogarsi e di partecipare alla costruzione della pace. Il Papa lo specificava al suo arrivo in Turchia: per raggiungere una meta tanto alta ed urgente, un contributo importante può venire dal dialogo interreligioso e interculturale, così da bandire ogni forma di fondamentalismo e di terrorismo, che umilia gravemente la dignità di tutti gli uomini e strumentalizza la religione (Discorso in occasione dell’incontro con le Autorità ad Ankara, 28 novembre 2014).   

La chiusura in se stessi crea dei muri e delle frontiere: il Papa ha ricordato in occasione del 25º anniversario della caduta del Muro di Berlino, lanciando l’appello: Dove c’è un muro, c’è chiusura di cuore. Servono ponti, non muri! (Angelus, 9 novembre 2015).   

Egli soffre a vedere i muri che sono stati eretti tra le comunità in Medio Oriente dove i conflitti in atto rendono reale il pericolo della frammentazione di tutta la Regione e la fine di Stati costituiti sull’esperienza multi religiosi per far spazio a tante comunità religiose che escludono gli altri credenti. È per questo motivo che la Santa Sede lavora per garantire una costante comunicazione e collaborazione tra le diverse comunità, denunciando le violenze che sono ormai accadimento quotidiano nella regione. I muri sembrano quasi voler affermare che il dialogo è impossibile, che le differenze di credo sono incompatibili, dimenticando che una condizione di pace e il rispetto della vita sono elementi fondamentali per garantire una convivenza rispettosa della dignità di ogni persona, della sicurezza dei diversi popoli e dello statuto di ogni religione. Da questa convinzione nasce il motivo che ha indotto il Papa a chiedere che fosse fermata l’avanzata delle forze del cosiddetto Califfato nel nord della Siria.   

Ma al di là della denuncia di questi ostacoli, diventa sempre più necessario ricostruire. È per questo che il dialogo interreligioso è fondamentale e si presenta come il primo contributo diretto della Chiesa alla causa della pace. Se i Governi realizzano quella che è chiamata la “ragion di Stato” esercitando un “hard power” attraverso la potenza economico-finanziaria o le armi, la Santa Sede ha da portare a compimento una “ragion di Chiesa” mediante un “soft power” fatto di convinzioni e di comportamenti esemplari. Essa deve lavorare, anche mediante l’azione diplomatica, per creare più giustizia, la prima condizione della pace.   

Ho in precedenza ricordato la prospettiva di Benedetto XV, che ha fatto di tutto per scongiurare e poi per porre fine alla Prima Guerra Mondiale. Uno sforzo che Papa Francesco ha ricordato in occasione nel suo discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede il 12 gennaio 2014: “Ovunque la via per risolvere le problematiche aperte deve essere quella diplomatica del dialogo. È la strada maestra già indicata con lucida chiarezza dal papa Benedetto XV allorché invitava i responsabili delle Nazioni europee a far prevalere ‘la forza morale del diritto’ su quella ‘materiale delle armi’”.   

Per questo dobbiamo saper edificare una mentalità e quindi una società sul lungo periodo. Questo è ciò che fanno molti missionari in ogni continente, quando si costruiscono scuole e ospedali, quando redigono grammatiche o dizionari, quando promuovono lo sviluppo economico e sociale a vantaggio delle persone e della loro dignità. Questo è ciò che fa Papa Francesco attraverso i suoi ripetuti appelli alla pace e alla misericordia, sia a Roma, che durante i suoi viaggi in Italia o nel mondo. Non è questo che fa del Papa la quarta figura più influente del mondo nel 2014, secondo il Magazine Forbes?   

Eppure questa straordinaria influenza mediatica di Papa Francesco non riesce a celare i problemi più profondi determinati dalle trasformazioni della nostra civiltà europea occidentale. Tra le tante ne prendo in considerazione due che mi sembrano in questa fase più immediate e problematiche.    

Prima di tutto il vuoto dell’anima che si percepisce in quella parte della gioventù europea che sembra aver dimenticato quei valori propri della civiltà cristiana e che l’argomentazione teologica ha potuto sviluppare rendendoli parte della cultura dell’antico Continente. Viene da chiedersi, ad esempio, cosa abbia spinto tanti giovani europei a partire alla volta della Siria per unirsi a quanti combattono usurpando il nome di Dio. La risposta a questo interrogativo potrebbe essere l’azione militare degli Stati e l’invio di truppe a combattere contro di loro. Ma ci vuole una risposta a lungo termine capace di colmare questo vuoto, questa solitudine percepita da molti giovani nei loro Paesi europei. La risposta a lungo termine sta nel prendersi cura di questi giovani che sono alla ricerca di un ideale e che vengono invece attratti dalla radicalità della violenza, facendo capire loro che ci sono altri modi per vivere la vita che non sia il partecipare ad una guerra. La Chiesa e la sua teologia hanno delle proposte da fare ascoltare e dei suggerimenti da dare?   

La seconda questione riguarda la volontà – e la determinazione in alcuni casi – di diversi Paesi europei di dare all’eutanasia lo status di diritto umano. Credo che su questa volontà della ragione umana di intervenire in uno dei processi fondamentali della vita, il rispetto dei tempi della vita e della morte, sia importante interrogarsi non solo con i principi e le argomentazioni della morale. Che cosa è questa pretesa della ragione a voler controllare il flusso del tempo? Da dove nasce questa ubris così potente da fondarsi su se stessa e di disporre di un potere illimitato che giunge a rifiutare ogni apertura nei confronti di chi pone delle obiezioni? Di fronte a questo vuoto esistenziale, di fronte a questa grande ubris, manchiamo forse anche della più piccola speranza che vada oltre la ragione per aprirci alla relazione, alla solidarietà, all’amore invece di rinchiuderci nella morte. Tutti gli studenti di teologia dovrebbero leggere e studiare le parole di Benedetto XVI nella sua enciclica Spe Salvi sulla possibilità di farsi guidare da qualcosa di grande, quella speranza che può spalancare la porta oscura del tempo, del futuro. Una speranza che sottolinea in particolare l’importanza della capacità di ascolto, questa apertura che ci permette di uscire da noi stessi per ricordarci che nessun uomo è una monade chiusa in se stessa. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro” (Spe Salvi, 48).  Così, oltre ogni chiusura, l’amore è sempre possibile.   

Papa Francesco chiarisce l’uso del termine speranza quando ci spiega che non è solo ottimismo (cfr. Omelia a Santa Marta, 29 ottobre 2013) o un atteggiamento psicologico certamente positivo, ma limitato a delle circostanze particolari. Essa, la speranza, è in realtà un “desiderio ardente” della rivelazione del Figlio di Dio. Papa Francesco lo ricorda ai giovani riuniti ad Aparecida  durante il suo viaggio in Brasile che questa speranza supera tutte le circostanze scoraggianti o d’isolamento, “le sensazioni di solitudine e di vuoto”. Ed aggiunge davanti a quella moltitudine di giovani: Il più forte è Dio, e Dio è la nostra speranza!” (Omelia nella Santa Messa alla Basilica del Santuario di Aparecida, 24 luglio 2013).    

Quello appena delineato può essere un interessante programma per gli studenti di teologia: spetta a loro formarsi per offrire un messaggio positivo a questi giovani, per rispondere alla chiusura dell’uomo affinché egli accetti di lasciarsi sorprendere invece di voler controllare e dominare tutto. Tutto questo richiede un’attenzione profonda, una vera meditazione della Parola di Dio, una comprensione della tradizione teologica della Chiesa, ma, allo stesso tempo, un ascolto del mondo, delle sue tragedie e dei suoi bisogni. Così potrete parlare con piena sincerità a questa gioventù e all’uomo moderno, suscitando in essi la loro parte migliore, la loro libertà, il loro impegno, la loro passione.

 

 
 

teologi da museo e teologi che odorano di strada

papa Francesco: no a teologi da museo, ma di frontiera, segno della misericordia di Dio

Francesco papaLa teologia viva sulle frontiere, facendosi carico di tutti i conflitti del mondo. Così Papa Francesco nella lettera al cardinale Mario Aurelio Poli, arcivescovo di Buenos Aires e gran cancelliere della Pontificia Università Cattolica Argentina (Uca), in occasione dei 100 anni della facoltà di Teologia del medesimo ateneo della capitale argentina

 

 il servizio di Giada Aquilino:

Teologi che odorano di strada

  Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, “odorano di popolo e di strada”. Lo ha ricordato Papa Francesco, salutando gli alunni e il personale della facoltà, nel centesimo di fondazione in coincidenza – ha aggiunto – con i cinquant’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, che “ha prodotto un irreversibile movimento di rinnovamento che viene dal Vangelo”: adesso, ha sottolineato, “bisogna andare avanti”. La riflessione del Pontefice è partita dall’assunto che “insegnare e studiare teologia significa vivere su una frontiera”, quella in cui il Vangelo incontra le necessità della gente a cui va annunciato in maniera “comprensibile e significativa”.

Non una teologia da tavolino, ma da frontiera

Dobbiamo quindi “guardarci”, ha aggiunto, da una teologia “che si esaurisce nella disputa accademica o che guarda l’umanità da un castello di vetro”. Essa va “radicata e fondata” sulla Rivelazione, sulla Tradizione, accompagnando quindi i processi culturali e sociali, “in particolare le transizioni difficili”. L’idea di Francesco è dunque quella di una teologia che si faccia carico “anche dei conflitti”: non soltanto quelli “che – ha notato – sperimentiamo dentro la Chiesa”, ma anche quelli “che riguardano il mondo intero e che si vivono lungo le strade dell’America Latina”. L’invito è stato a non accontentarsi “di una teologia da tavolino”: il luogo di riflessione – ha scritto – “siano le frontiere”.

Costruire umanità

È tornata poi un’immagine cara al Pontefice, quella di una Chiesa “ospedale da campo”, per salvare e guarire il mondo, di cui la teologia sia espressione, attraverso la misericordia, che non è “solo un atteggiamento pastorale ma è – ha ricordato – la sostanza stessa del Vangelo di Gesù”. Senza di essa, teologia, diritto e pastorale “corrono il rischio di franare nella meschinità burocratica o nell’ideologia, che – ha spiegato – di natura sua vuole addomesticare il mistero”. Comprendere la teologia, ha aggiunto, “è comprendere Dio, che è Amore”. L’auspicio finale del Pontefice è stato quello di formare all’Università Cattolica Argentina non un “teologo da museo”, non uno studioso che resta a guardare dalla finestra lo svolgersi della storia, non “un burocrate del sacro”, ma “una persona capace di costruire attorno a sé umanità, di trasmettere la divina verità cristiana in dimensione veramente umana”.

(Da Radio Vaticana)

L. Boff e la teologia a partire dalla femminilità

presente-passato-futuro

“Papa Francesco ha detto che abbiamo bisogno di una teologia più profonda sulla donna e sulla sua missione nel mondo e nella Chiesa. È certo. Ma lui non può trascurare il fatto che oggi esiste una vasta letteratura teologica fatta da donne dal punto di vista delle donne, teologia della miglior qualità, cosa che ha arricchito enormemente la nostra esperienza di Dio”

così L. Boff, ed è a partire da qui che egli si è impegnato a sviluppare una teologia che tenga conto e faccia tesoro di questa migliore qualità teologica:

 

Teologia fatta da donne a partire dalla femminilità

 L.Boff

Papa Francesco ha detto che abbiamo bisogno di una teologia più profonda sulla donna e sulla sua missione nel mondo e nella Chiesa. È certo. Ma lui non può trascurare il fatto che oggi esiste una vasta letteratura teologica fatta da donne dal punto di vista delle donne, teologia della miglior qualità, cosa che ha arricchito enormemente la nostra esperienza di Dio. Io stesso mi sono impegnato intensamente sul tema, che culmina nei libri O rosto materno de Deus (1989) e Feminino e Masculino (2010) insieme con la femminista Rosemarie Muraro.

Tra tante del nostro tempo, ho deciso di rivisitare due grandi teologhe del passato, veramente innovatrici: Santa Hildegarda di Bingen (1098-1179) e Santa Guliana di Norvich (1342-1416).

Hildgarda viene considerata chissà come prima femminista dentro la chiesa. È stata una donna geniale e straordinaria per suo tempo e per tutti i tempi. Monaca benedettina, ha esercitato la funzione di maestra (abbadessa) del suo convento di Rupertsberg di Bingen sul Reno, profetessa (profetessa germanica), mistica, teologa, infuocata predicatrice, compositrice, poetessa, naturalista, medica non ufficiale e scrittrice.

I suoi biografi e studiosi considerano un mistero il fatto che questa donna, nel mondo medievale maschilista e di limitati orizzonti, sia stata quello che è stata. In tutto ha rivelato eccellenza e creatività. Molte sono le sue opere, mistiche, poetiche, sulla scienza naturale e sulla musica. La più importante e letta fino ad oggi è “Sci vias Domini”, “Impara le vie del Signore”.

Hildegarda fu soprattutto una donna dotata di visioni divine. In una relazione autobiografica dice: «Quando ho compiuto i 42 anni e sette mesi, i cieli si aprirono e una luce di eccezionale fulgore si è diffusa dentro il mio cervello. E allora essa m’incendiò il cuore e il petto come una fiamma, che non brucia ma riscalda… Inmediatamente compresi il significato delle narrazioni dei libri, ossia, dei Salmi, degli Evangeli, e degli altri libri cattolici del Vecchio e Nuovo Testamento». (Vedi il testo in Wikipedia, Hildegarda di Bingen con eccellente testo).

È un mistero il fatto che avesse conoscenze di cosmologia, di piante medicinali, di fisica e di storia dell’umanità. La teologia parla di «scienza infusa» come dono dello Spirito Santo. Hildegarda fu gratificata di tali doni.

Maturò curiosamente una visione olistica, intrecciando sempre l’essere umano con la natura e con il cosmo. È in questo contesto che parla dello Spirito Santo come quella energia che conferisce «Verdezza» a tutte le cose. «Viriditas» viene da verde che significa verdezza e freschezza, segni che marcano tutte le cose penetrate dallo Spirito Santo. (Flanagan, S. Hildegard of Bingen, 1998,53). Lei sviluppò un’immagine umanizzante di Dio, perché lui regge l’universo «con potenza e soavità» (mit Macht und Milde), seguendo tutti gli esseri con la sua mano premurosa e il suo sguardo amoroso.

Lei è conosciuta soprattutto per i metodi medicinali seguiti da Austria e Germania da medici fino al giorno d’oggi. Rivela una sorprendente conoscenza del corpo umano e di quali principi attivi delle erbe medicinali sono appropriati per i distinti disturbi. La sua canonizzazione fu ratificata da Benedetto XVI nel 2012.

Altra notevole donna è stata Giuliana di Norwich (1342-1416, Inghilterra). Poco si sa della sua vita, se era religiosa oppure una laica vedova. Certo è che visse per tutto il tempo reclusa, in una parte murata nella chiesa di San Giuliano. Quando compiva i trent’anni di età fu colpita da una grave infermità che quasi la portò alla morte. A un certo punto, nello spazio di cinque ore, ebbe 20 visioni di Gesù Cristo.

Scrisse immediatamente un riassunto delle sue visioni. Venti anni dopo, avendo meditato lungamente sopra il loro significato, scrisse una versione lunga e definitiva intitolata Revelations of Divine Love (Rivelazioni dell’amore divino: Londra 1952). È il primo testo scritto da una donna in inglese.

Le sue rivelazioni sono sorprendenti, perché permeate da invincibile ottimismo, nato dall’amore di Dio. Per lei l’amore è soprattutto allegria e compassione. Non interpretava le malattie – come era credenza in quel tempo e com’è ancora ancora oggi presso alcuni gruppi – come castigo di Dio. Per lei, le malattie e le pestilenze sono opportunità per incontrare Dio.

Il peccato è visto come una specie di pedagogia attraverso la quale Dio ci obbliga a conoscere noi stessi e a cercare la sua misericordia. Dice inoltre: dietro quello che noi chiamiamo inferno esiste una realtà maggiore, sempre vittoriosa che è l’amore e la misericordia di Dio. Per il fatto che Gesù è misericordioso e compassionevole lei è nostra cara madre. Dio stesso è padre misericordioso e madre di infinita bontà (Rivelazioni, 119).

Soltanto una donna poteva usare questo linguaggio di amorosità e di compassione e chiamare Dio ‘madre di infinita bontà’. Così vediamo una volta di più come una voce femminile è importante per avere una concezione non patriarcale e per questo più completa di Dio e dello Spirito che permea tutta la vita e l’universo.

Molte altre donne potrebbero essere qui ricordate come Santa Teresa d’Avila (1515-1582),Simone Weil (1909-1943), Madeleine Debrel (1904 -1964), e tra di noi, Ivone Gebara e Maria Clara Bingemer, che hanno pensato e pensano la fede a partire dal loro feminino. E continuano ad arricchirci.

 
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