il populismo ha la sua motivazione nell’ambito di una sinistra che non fa la sinistra

Habermas

il populismo cresce perché la sinistra non lotta più contro le diseguaglianze

la riflessione del filosofo tedesco

occorre dare una forma socialmente accettabile alla globalizzazione economica

Il filosofo tedesco Jurgen Habermas

il filosofo tedesco Jurgen Habermas

globalist 16 marzo 2017

Parole che andrebbero ascoltate e sulle quali meditare: “Come è stato possibile giungere a una situazione nella quale il populismo di destra sottrae alla sinistra i suoi stessi temi?”. Un interrogativo posto dal filosofo tedesco Jurgen Habermas, in un’intervista a MicroMega: “Solo una marginalizzazione tematica potrebbe togliere l’acqua al mulino del populismo di destra”. “Ci si deve chiedere perché i partiti di sinistra non vogliano porsi alla guida di una lotta decisa contro la disuguaglianza sociale, che faccia leva su forme di coordinamento internazionale capaci di addomesticare i mercati non regolati”, ha affermato Habermas, secondo il quale “l’unica alternativa ragionevole” allo status quo del “capitalismo finanziario selvaggio” e al nazionalismo “è una cooperazione sovranazionale capace di dare una forma politica socialmente accettabile alla globalizzazione economica. L’Unione europea una volta mirava a questo, l’Unione politica europea potrebbe ancora esserlo”.

“I partiti che riservano attenzione al populismo di destra, piuttosto che disprezzarlo, non possono aspettarsi poi che sia la società civile a mettere al bando slogan e violenze di destra”, afferma. Nella sua analisi, si sofferma su quello che definisce “l’egomane Trump”, che “con la sua disastrosa campagna elettorale” ha portato alle estreme conseguenze “una polarizzazione che i repubblicani, a tavolino e in modo sempre più sfacciato, hanno alimentato fin dagli anni Novanta; lo ha fatto però in una forma tale da far sì che questo stesso movimento alla fine sfuggisse totalmente di mano al Grand Old Party, che è pur sempre il partito di Abraham Lincoln. Questa mobilitazione del risentimento ha espresso anche le tensioni sociali che attraversano una superpotenza politicamente ed economicamente in declino”.

la battaglia contro il populismo si vince solo ripartendo dagli ultimi

Jürgen Habermas

“il populismo? si vince tornando vicino agli ultimi”

Il filosofo tedesco intervistato su “MicroMega” invita la sinistra europea a ripartire riscoprendo le battaglie delle origini

 

Dopo il 1989 si è parlato di una “fine della storia” nella democrazia e nell’economia di mercato, oggi assistiamo a un nuovo fenomeno: l’emergere – da Putin ed Erdogan fino a Donald Trump – di forme di leadership populiste e autoritarie. È ormai evidente che una nuova “internazionale autoritaria” riesce a determinare sempre di più il discorso pubblico.

Aveva ragione allora il suo coetaneo Ralf Dahrendorf quando prevedeva un XXI secolo sotto il segno dell’autoritarismo? Si può o si deve già parlare di una svolta dei tempi?

“Quando, dopo la svolta dell’89-90, Fukuyama riprese lo slogan della “po – Dst-storia” – che originariamente era legato a un feroce conservatorismo – questa sua reinterpretazione del concetto dava espressione al miope trionfalismo di élite occidentali che si affidavano alla fede liberale nell’armonia prestabilita tra democrazia ed economia di mercato. Questi due elementi plasmano la dinamica della modernizzazione sociale, ma sono connessi a imperativi funzionali che tendono continuamente a entrare in conflitto. Solo grazie a uno Stato democratico degno di questo nome è stato possibile conseguire un equilibrio tra crescita capitalistica e partecipazione della popolazione alla crescita media di economie altamente produttive: una partecipazione, questa, che veniva accettata, anche se solo in parte, in quanto socialmente equa. Storicamente, tuttavia, questo bilanciamento, che solo può giustificare il nome di “democrazia capitalistica”, è stato più l’eccezione che la regola. Già solo per questo si capisce come l’idea che il “sogno americano” si potesse consolidare su scala globale non fosse che un’illusione. Oggi destano preoccupazione il nuovo disordine mondiale e l’impotenza degli Stati Uniti e dell’Europa di fronte ai crescenti conflitti internazionali, e logorano i nostri nervi la catastrofe umanitaria in Siria o nel Sudan del Sud e gli atti terroristici di matrice islamista. E tuttavia, nella costellazione evocata nella domanda, non riesco a scorgere una tendenza unitaria diretta verso un nuovo autoritarismo: solo diverse cause strutturali e molte casualità. L’elemento unificante è il nazionalismo, che nel frattempo però abbiamo anche a casa nostra. Anche prima di Putin ed Erdogan, la Russia e la Turchia non erano certo “democrazie ineccepibili”. Con una politica occidentale solo un po’ più accorta forse avremmo potuto impostare relazioni diverse con questi paesi: saremmo forse riusciti a rafforzare anche le forze liberali presenti nelle popolazioni di questi paesi”.

Non si sopravvalutano così retrospettivamente le possibilità che erano in mano all’Occidente?

“Chiaramente per l’Occidente, già solo a causa dei suoi interessi divergenti, non era facile confrontarsi, in modo razionale e nel momento opportuno, con le pretese geopolitiche della retrocessa superpotenza russa oppure con le aspettative di politica europea dell’irascibile governo turco. Molto diversa è invece la situazione per quanto riguarda l’egomane Trump, un caso significativo per l’intero Occidente. Con la sua disastrosa campagna elettorale Trump ha portato alle estreme conseguenze una polarizzazione che i repubblicani, a tavolino e in modo sempre più sfacciato, hanno alimentato fin dagli anni Novanta; lo ha fatto però in una forma tale da far sì che questo stesso movimento alla fine sfuggisse totalmente di mano al Grand Old Party, che è pur sempre il partito di Abraham Lincoln. Questa mobilitazione del risentimento ha espresso anche le tensioni sociali che attraversano una superpotenza politicamente ed economicamente in declino. Ciò che trovo inquietante, quindi, non è tanto il nuovo modello di un’internazionale autoritaria, a cui si faceva riferimento nella domanda, quanto la destabilizzazione politica in tutti i nostri paesi occidentali. Nel valutare il passo indietro degli Stati Uniti dal ruolo di gendarmi globali sempre pronti a intervenire, non dobbiamo perdere di vista qual è il contesto strutturale in cui ciò avviene, contesto che concerne anche l’Europa. La globalizzazione economica, messa in moto negli anni Settanta da Washington con la sua agenda politica neoliberista, ha avuto come conseguenza un declino relativo dell’Occidente su scala globale rispetto alla Cina e agli altri paesi Brics in ascesa. Le nostre società devono elaborare la percezione di questo declino globale e insieme a ciò la complessi- tà sempre più esplosiva della nostra vita quotidiana, connessa agli sviluppi tecnologici. Le reazioni nazionalistiche si rafforzano negli strati sociali che non traggono alcun beneficio – o non ne traggono abbastanza – dall’aumento del benessere medio delle nostre economie”.

Stiamo assistendo a una sorta di processo di irrazionalizzazione politica dell’Occidente? C’è una parte della sinistra che ormai si professa a favore di un populismo di sinistra come reazione al populismo di destra.

“Prima di reagire in modo puramente tattico bisogna sciogliere un enigma: come è stato possibile giungere a una situazione nella quale il populismo di destra sottrae alla sinistra i suoi stessi temi?”.

Quale dovrebbe essere allora la risposta di sinistra alla sfida della destra?

“Ci si deve chiedere perché i partiti di sinistra non vogliono porsi alla guida di una lotta decisa contro la disuguaglianza sociale, che faccia leva su forme di coordinamento internazionale capaci di addomesticare i mercati non regolati. A mio avviso, infatti, l’unica alternativa ragionevole tanto allo status quo del capitalismo finanziario selvaggio quanto al programma del recupero di una presunta sovranità dello Stato nazionale, che in realtà è già erosa da tempo, è una cooperazione sovranazionale capace di dare una forma politica socialmente accettabile alla globalizzazione economica. L’Unione europea una volta mirava a questo – l’Unione politica europea potrebbe ancora esserlo”.

Oggi tuttavia sembra essere persino peggio del populismo di destra in sé il “pericolo di contagio” del populismo nel sistema dei partiti tradizionali, in tutta Europa.

“L’errore dei vecchi partiti consiste nel riconoscere il fronte che definisce il populismo di destra: ossia “Noi” contro il sistema. Solo una marginalizzazione tematica potrebbe togliere l’acqua al mulino del populismo di destra. Si dovrebbero quindi rendere di nuovo riconoscibili le opposizioni politiche, nonché la contrapposizione tra il cosmopolitismo di sinistra – “liberale” in senso culturale e politico – e il tanfo etnonazionalistico della critica di destra alla globalizzazione. In breve: la polarizzazione politica dovrebbe cristallizzarsi di nuovo tra i vecchi partiti attorno a opposizioni reali. I partiti che riservano attenzione al populismo di destra, piuttosto che disprezzarlo,  non possono aspettarsi poi che sia la società civile a mettere al bando slogan e violenze di destra”.

la sinistra che disprezza i poveri

 

 

 

 

“cara sinistra, basta disprezzare i poveri”

un intellettuale francese scrive un saggio durissimo contro i partiti che si sono dimenticati il popolo

 a Parigi è diventato un caso, ma potrebbe essere molto utile anche nel dibattito politico italiano

di Alessandro Gilioli

 Jack Dion, intellettuale e giornalista francese  ha da poco mandato in libreria il suo ultimo saggio , “Le mépris du Peuple” (il disprezzo del popolo; sottotitolo: “come l’oligarchia ha preso la società in ostaggio”):
Cara sinistra, basta disprezzare i poveri

Nel 1974 il cancelliere tedesco Helmut Schmidt, socialista, diceva che i profitti di oggi avrebbero costituito gli investimenti di domani e i posti di lavoro di dopodomani. Forse all’epoca poteva essere vero. Nel 2015 invece i profitti di oggi costituiscono solo i dividendi di domani e la disoccupazione di dopodomani.

Peccato che la sinistra, in Europa, non se ne sia accorta. E, non essendosene accorta, crede ancora in questo mercato, pensando che sia uguale a quello di quarant’anni fa come strumento di emancipazione dalla povertà e dalla subalternità sociale. Quando invece è diventato mezzo di concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi. Un fenomeno più evidente nel paese in cui è iniziato, cioè gli Stati Uniti: dove da sei anni il 95 per cento della crescita viene confiscato dall’uno per cento di popolazione più ricca. Ma la stessa dinamica è presente ovunque, in Occidente: compresi gli Stati che avevano storicamente strumenti di welfare e di redistribuzione, gradualmente smantellati con le varie leggi sulla “flessibilità” e le privatizzazioni.

Le accuse qui sopra sono di Jack Dion, intellettuale e giornalista francese che ha da poco mandato in libreria il suo ultimo saggio , “Le mépris du Peuple” (il disprezzo del popolo; sottotitolo: “come l’oligarchia ha preso la società in ostaggio”) che per una decina di euro si può comprare anche su Amazon in versione digitale.

È un libro che in Francia sta facendo parecchio discutere – specie dopo il recente crollo dei socialisti – e che anche in Italia potrebbe costituire utilissima lettura specie a chi parla di sinistra, ma non solo. Anzi: pur proveniente senza dubbio dalla tradizione della sinistra francese, Dion mette metaforicamente mano alla pistola quando sente questa parola, ormai diventata la foglia di fico (anche lì) per nascondere le più mercatiste e liberiste delle politiche e – soprattutto – per celare appunto il disprezzo per il popolo, verso le persone che stanno in basso nella società.

«Quando i partiti che si succedono al potere si trasformano in strumenti di difesa dell’ordine stabilito, il popolo diventa un nemico, simboleggia un pericolo potenziale», dice Dion. Che conia il termine prolofobia, per descriverli, questi socialisti alla Hollande o alla Strauss-Kahn. Prolofobia: paura e alterigia verso i proletari di oggi, divisi in mille lavori (o non lavori) diversi, intellettualmente incapaci di costituire un blocco sociale e progettuale, politicamente alla deriva tra l’astensione e (in Francia) il partito di LePen.

Ecco, LePen e il Fronte Nazionale. A cui nella propria prolofobia i partiti lasciano le masse degli esclusi e degli arrabbiati, ignorando i problemi concreti dei ceti impoveriti e limitandosi a reagire istericamente a ogni successo dell’estrema destra con la più scontata delle accuse, quella di populismo: centrodestra e  centrosinistra «difendono gli stessi precetti, quelli del neoliberismo», e per occultare questa verità descrivono tutto ciò che sta fuori di loro come populismo.

Il “j’accuse” sull’uso dell’epiteto in questione come arma mediatica dell’establishment per delegittimare il popolo – cioè i cittadini, le persone – rimanda in buona parte alle riflessioni di un filosofo che in Italia ha scarsa cittadinanza nel dibattito pubblico e culturale, Ernesto Laclau , di cui invece molto si parla altrove; ma questo è un altro discorso. Ciò su cui Dion insiste invece è l’utilizzo truffaldino del termine pupulismo per indurre nell’immaginario la convinzione che non esista alcuna alternativa possibile al liberismo, per sancire il dogma secondo cui ogni possibile scarto rispetto ai binari dell’ortodossia neocapitalista sia pericoloso e “anti democratico”, quando invece ad aver annegato la democrazia sottomettendola all’élite economica sono stati proprio loro, e in un’Europa in cui ormai il primo partito vero è quasi ovunque l’astensione.

Dice Dion che «questa democrazia malata ha messo il popolo in quarantena e la rappresentanza in ibernazione» e intanto si impadronisce del linguaggio chiamando «riforme» quelle che sono invece controriforme regressive per concentrare le ricchezze nelle mani di pochi; ma anche diffondendo a piene mani una narrazione basata su competitività, flessibilità, liberalizzazioni e costo del lavoro – e mai nessuno che spenda una parola sul costo, invece, di questo estremismo del capitale.

Eppure, un altro vocabolario è possibile, dice Dion. Altre parole per ribaltare l’egemonia culturale durata almeno tre decenni: come oligarchia – ad esempio – il vero tratto caratterizzante di quest’epoca, trasversale alla politica e al mondo del lavoro; oppure sovranità, sottratta sempre di più dalle mani dei cittadini e riservata alle élite che la esercitano (e di qui l’illusione-inganno lepenista secondo cui basterebbe tornare allo stato-nazione per restituirla ai cittadini, quando invece il suo recupero può avvenire ormai solo sul campo di battaglia europeo e globale, passando per ogni luogo di vita comune). E, anche attraverso un altro vocabolario, si può e si deve tendere verso un altro ordine delle cose: ordine politico, economico, ecologico, sociale, ideologico, morale, civico.

Dion alla fine è ottimista e chiude il suo libro citando la presa della Bastiglia, «un’esplosione di collera su cui è stato costruito un nuovo edificio: e ogni epoca, ogni collera, ha il suo nuovo edificio». Può darsi che sia una previsione un po’ eccessiva – o magari poco più di un auspicio. Ma il libro va comunque letto, perché come a volte capita ai pensatori francesi – ricordate “Indignatevi!”, di Stéphane Hessel ? – dice le cose che abbiamo sotto gli occhi con la forza della semplicità e senza il timore un po’ snob di non essere giudicato abbastanza “accademico”.

Ai politici e agli intellettuali della nostra sinistra, invece, il libro di Dion non dovrebbe essere semplicemente consigliato, ma proprio reso obbligatorio.

papa Francesco: il nuovo eroe dei progressisti e degli atei?

 

 

papa Franc

papa Francesco sembra ilnuovo eroe delle sinistra, e anche degli atei, in America come anche da noi:”E’ il nome più cliccato su internet nel 2013, prima di “Obamacare” e “NSA”. E l’account Twitter di Francesco, @Pontifex, è al quarto posto. In Italia, Francesco è perfino diventato il nome quasi più diffuso per i neonati. Roma registra un’impennata nel numero dei turisti ed è aumentata anche la frequentazione delle chiese – entrambi i fenomeni sono attribuiti all’ “effetto Francesco” “

così un bell’articolo di J. Freedland e così anche una entusiasta ‘confessione’-esternazione di R. Armeni: “Dovete capirci, noi di sinistra, se ci piace Papa Francesco. Non fate del sarcasmo, non diteci con ironica condiscendenza: «E che? Ora sei diventato cattolico» quando diamo segnali di soddisfazione per le parole del Pontefice. Dovete capirci, davvero”

qui di seguito i due contributi significativi di una radicale novità culturale :

Perché perfino gli atei starebbero già pregando per papa Francesco

di Jonathan Freedland
in “www.theguardian.com” del 15 novembre 2013

Alla parete, quel poster di Obama che promette pace e cambiamento appare oggi alquanto sbiadito. Le delusioni, sia per la guerra con i droni sia per il lancio pasticciato della legge sull’assistenza sanitaria, hanno fatto sì che i liberal e i progressisti nel mondo siano alla ricerca di una nuova “immagine da copertina” che possa prendere il posto del presidente USA. Se è così, il candidato non può che essere lui: il capo di un organismo che quegli stessi liberal e progressisti hanno a lungo considerato sessista, omofobico e, a causa di una serie di scandali di abusi su minori, spaventosamente crudele. L’ovvio, prevedibile nuovo eroe della sinistra è il papa. In carica solo da marzo, papa Francesco è già diventato un fenomeno. È il nome più cliccato su internet nel 2013, prima di “Obamacare” e “NSA”. E l’account Twitter di Francesco, @Pontifex, è al quarto posto. In Italia, Francesco è perfino diventato il nome quasi più diffuso per i neonati. Roma registra un’impennata nel numero dei turisti ed è aumentata anche la frequentazione delle chiese – entrambi i fenomeni sono attribuiti all’ “effetto Francesco”. La sua popolarità non è difficile da capire. I racconti della sua personale modestia sono quasi diventati leggenda. Porta personalmente la sua borsa. Rifiuta la magnificenza del palazzo papale, preferendo vivere in un semplice ostello. Quando gli hanno presentato le tradizionali scarpe rosse da pontefice, le ha rifiutate e ha invece telefonato al suo ottantunenne ciabattino di Buenos Aires chiedendogli di riparare le sue vecchie scarpe. Giovedì Francesco ha fatto visita al Presidente della Repubblica italiana – arrivando su una Ford Focus blu – senza alcuno strombazzare di sirene. Alcuni sottovaluteranno questi atti considerandoli meri gesti esteriori, se non addirittura espedienti pubblicitari. Ma sono atti che comunicano un messaggio potente, un messaggio di un egualitarismo quasi elementare. Il suo impegno consiste nel togliere i segni esteriori, l’edificio della ricchezza vaticana cresciuto nei secoli, e nel riportare la chiesa al suo obiettivo centrale, una chiesa che Gesù stesso potrebbe riconoscere. Dice di voler presiedere “una chiesa povera, per i poveri”. Non è l’istituzione che conta, ma la sua missione. Tutto questo potrebbe scaldare i cuori perfino degli atei più fervidi, a parte il fatto che Francesco è andato molto più in là. Sembra voler fare qualcosa di più che soltanto esprimere sollecitudine e tenerezza per i deboli. Sta sfidando il sistema che li ha resi deboli e li mantiene tali. “I miei pensieri vanno a coloro che sono senza lavoro, spesso a causa di una mentalità autoreferenziale rivolta al profitto ad ogni costo” ha twittato in maggio. Il giorno prima denunciava come “lavoro da schiavi” le condizioni a cui erano sottoposti i lavoratori del Bangladesh uccisi nel crollo di un edificio. In settembre ha detto che Dio vuole che siano gli uomini e le donne al cuore del mondo, mentre invece viviamo in un ordine economico globale che adora “un idolo chiamato denaro”. È innegabile la radicalità del suo messaggio, un attacco frontale e intenso a quello che chiama “capitalismo sfrenato”, con la sua cultura dello scarto riferita al cibo sprecato o alle persone anziane trascurate. I suoi nemici non hanno certo mancato di notarlo. Se una persona dev’essere giudicata dai suoi avversari, notate che questa settimana Sarah Palin lo ha denunciato come una “sorta di liberal”, mentre l’Institute of Economic Affairs favorevole al libero mercato si è lamentato che a questo papa manchi l’approccio “raffinato” del suo predecessore in tali materie. Nel frattempo, un pubblico ministero italiano ha avvertito che la campagna di Francesco contro la corruzione potrebbe metterlo nel mirino della seconda più potente istituzione del paese, cioè la mafia. Come se questo non bastasse perché il volto del settantaseienne Francesco comparisse sulle pareti delle stanze degli studenti in tutto il mondo, il papa sembra destinato a guidare una campagna della chiesa a favore dell’ambiente. Questa settimana è stato fotografato con degli attivisti anti-fracking, mentre il suo biografo, Paul Vallely, ha rivelato che il papa ha preso contatto con Leonardo Boff, un eco-teologo precedentemente ricusato da Roma e condannato ad un “silenzio rispettoso” dalla
Congregazione un tempo conosciuta come “Inquisizione”. Sembra che sia in arrivo un’enciclica sulla salvaguardia del pianeta. Molti a sinistra diranno che tutto ciò è molto gradito, ma inutile, finché il papa non mette ordine in casa propria. Ma anche qui vi sono segnali incoraggianti. Anzi, per essere più precisi, stupefacenti. Recentemente Francesco ha detto ad un intervistatore che la Chiesa era in un certo senso “ossessionata” da problemi come aborto, matrimonio gay e contraccezione. Non voleva che la gerarchia cattolica continuasse a preoccuparsi di “piccoli precetti”. Parlando ai giornalisti durante un volo – una circostanza già di per sé degna di nota – disse: “Se una persona è gay e cerca Dio e ha buona volontà, chi sono io per giudicare?”. La sua mossa più recente è l’invio di un questionario ai cattolici di tutto il mondo per conoscere il loro atteggiamento su quei controversi problemi nella vita moderna. Dovrebbe rivelare un gregge le cui pratiche sono, potremmo dire, in contrasto con l’insegnamento cattolico. In politica si direbbe che Francesco sta preparando il terreno per una riforma. Lo testimonia la sua reazione ad una lettera – inviata a “Sua Santità Francesco, Città del Vaticano” – da una donna single, messa incinta da un uomo sposato che da allora l’ha abbandonata. Con suo grande stupore, il papa le ha telefonato e le ha detto che se, come lei temeva, dei preti si fossero rifiutati di battezzare suo figlio, avrebbe presieduto lui la cerimonia. (Telefonare alle persone che gli scrivono è un’abitudine di Francesco). Confrontate questo con l’atteggiamento cattolico di un tempo nei confronti di queste “peccatrici”, così potentemente drammatizzato nell’attuale film Philomena. Francesco sostituisce la brutalità con l’empatia. Evidentemente, non è perfetto. La sua testimonianza in Argentina durante l’era della dittatura e della “sporca guerra” non è del tutto chiara. “I suoi inizi furono quelli di un personaggio severamente autoritario, reazionario”, dice Vallely. Ma, all’età di cinquant’anni, Francesco attraversò una crisi spirituale dalla quale, afferma il suo biografo, emerse completamente trasformato. Abbandonò i segni esteriori della sua alta funzione ecclesiale, andò nelle favelas e si sporcò le mani. Ora all’interno del Vaticano affronta una sfida diversa – per fronteggiare i conservatori della curia e fissare le sue riforme, in modo che non vengano annullate quando lui non ci sarà più. Data la scaltrezza di quei cortigiani, si tratta di un compito non da poco: avrà bisogno di tutto il sostegno che può ottenere. Qualcuno dirà che le persone di sinistra e i liberal di tutto il mondo non dovrebbero desiderare una “immagine di copertina”, che il desiderio è infantile e rischia di portare ad una delusione. Ma si tratta di un bisogno molto umano e non limitato alla sinistra: pensate ai poster di Reagan e Thatcher che metaforicamente ancora ornano le pareti dei conservatori dopo ben trent’anni. È vero che il papa non ha esercito, né battaglioni, né divisioni, ma ha un pulpito – e proprio ora lo sta usando per essere la voce più forte e più chiara del mondo contro lo status quo. Non è necessario essere credenti per credere a questo.

nidiata

 

Sì questo papa ci piace

di Ritanna Armeni

in “Rocca” del 1 novembre 2013

 

Dovete capirci, noi di sinistra, se ci piace Papa Francesco. Non fate del sarcasmo, non diteci con ironica condiscendenza: «E che? Ora sei diventato cattolico» quando diamo segnali di soddisfazione per le parole del Pontefice. Dovete capirci, davvero. Ricordate quando Francesco è stato eletto? Era il 13 marzo di quest’anno, in Italia c’erano appena state le elezioni politiche e, mentre la sinistra dava una delle peggiori prove di incertezza e inettitudine, la chiesa, che aveva avuto lo choc delle dimissioni di Benedetto XVI, in quattro e quattr’otto ha eletto un Papa che veniva dalla «fine del mondo». Sapete, malgrado tanti anni in cui anche noi siamo stati invischiati nel pantano delle decisioni lente e burocratiche della gestione del governo e dello stato, un po’ di sano gusto per l’efficienza ci è rimasto. E quella elezione rapida da parte di una istituzione che era in crisi ci è piaciuta. Sapete anche che abbiamo un passato terzomondista e quel capo della chiesa che veniva dalla «fine del mondo» rinverdiva molti vecchi sogni, ci faceva sperare in una nuova linfa vitale per la vecchia Europa cristiana. Ma queste sono state le prime reazioni, positive, ma limitate e, se volete, superficiali. Poi c’è stato il seguito. Da tanto tempo noi di sinistra, non abbiamo un padre o una madre. Qualcuno che ci dica con chiarezza e, magari anche con qualche eccesso di semplificazione: questo è bene, questo è male, questo si fa, questo non si fa. Presto probabilmente capo della sinistra diventerà Matteo Renzi che – ammetterete – della figura paterna ha ben poco. Al massimo somiglia a quegli amici dei nostri fratelli minori, furbi e bricconcelli ai quali a nessuno di noi sarebbe venuto in testa di chiedere consiglio sulle grandi domande della vita. Di una certa autorevolezza sentiamo disperatamente bisogno. Di qualcuno che dica, per esempio, «vergogna» di fronte alle morti nel Mediterraneo. Per anni in molti – e non solo di sinistra – ricevevamo un pugno allo stomaco alla notizia di quei barconi affondati, di quelle morti innocenti, ma si doveva stare attenti a non dimostrarlo troppo altrimenti nel migliore dei casi si era accusati di «buonismo» (ritenuto evidentemente di caratura morale inferiore al «cattivismo») e quindi di ignoranza delle cose del mondo, di incompetenza sui flussi, sulle leggi, sulle statistiche sulle compatibilità, sui pericoli per l’identità del paese ecc. ecc. Ci dovete capire. Quando il Papa, dopo aver abbracciato un disoccupato e un cassintegrato, dice «Signore Gesù dacci lavoro e insegnaci a lottare per il lavoro» abbiamo un sussulto, quasi un momento di commozione. Davvero. La parola «lotta» l’avevamo dimenticata, avevamo dimenticato che potesse avere un suono elevato, nobile. In tanti l’hanno calpestata in questi anni, disprezzandola come primitiva o usandola male, strumentalizzandola ai loro fini. Francesco invoca Gesù perché sa che non si può avere un lavoro se qualcuno non ci insegna anche come lottare per averlo. Ogni insegnamento, ogni regola, ogni priorità sono andate evidentemente perdute. I sindacati, è chiaro, hanno bisogno anche loro di qualche ripetizione. Come tanti di noi anche il Papa pensa che si deve cominciare proprio tutto daccapo. E allora, per favore, comprendeteci. Comprendete chi per anni a sinistra, quando andava bene, ha sentito parlare di disagio sociale, di crisi che ridimensiona i redditi e di soluzioni che alla fine buttavano sempre ad aumentare quel disagio sociale e a ridimensionare i redditi di chi aveva già poco. Poi abbiamo sentito un Pontefice che vuole mettere al primo posto gli ultimi. Fino ad allora nel dibattito pubblico erano apparsi lontani, lontanissimi, invisibili. Le reazioni, infatti sono state di meraviglia e stupore. Le sue parole sono suonate scandalose. Ma quello scandalo a noi è sembrato benefico. Qualcuno finalmente squarciava un velo. E poi di questo Papa ci è piaciuto anche qualcosa di meno nobile, ma di molto utile. Una sorta di furbizia, qualcuno dice da parroco di campagna, che gli ha fatto intuire immediatamente l’odio crescente nei confronti del privilegio. Il Pontefice che porta la sua borsa da viaggio, il Papa che telefona agli amici, il successore di Pietro che paga il conto in albergo, il capo della chiesa che non abita negli appartamenti vaticani, ma nel convento di Santa Marta. Non siamo così ingenui da pensare a gesti che non siano ponderati e inviati come messaggi, ma ci siamo chiesti perché tanti politici, anche di sinistra, non hanno sentito il bisogno di mandare messaggi analoghi. Per furbizia, magari, se non per convinzione. Ma quella furbizia avrebbe indicato una sintonia e un rispetto, un senso dell’opportunità che ai nostri antichi padri e antiche madri non mancava. Ma la dottrina, direte, la dottrina? Quando questo Papa parlerà di matrimonio gay, di aborto, divorzio, allora voi di sinistra che direte? Sarete ancora così entusiasti, così «papisti»? Probabilmente no. Probabilmente avremo molto da dire, da contestare, da criticare. Per il momento abbiamo provato una certa consolazione quando il Papa ha parlato degli omosessuali come «feriti sociali» e ha detto che la chiesa è la casa di tutti, anche e soprattutto, degli irregolari. E quando abbiamo constatato che dopo anni di affermazione di valori «non negoziabili» questo Pontefice ci ha detto: «L’opinione della chiesa su questi temi è nota e non c’è bisogno di parlarne sempre». Per il momento ci basta. E anche qui dovete capire: non ne potevamo più di quella perdita di buon senso a cui sempre più spesso portano le discussioni di dottrina. Non è inevitabile che sia così, ma così finora è stato. E allora per il momento attendiamo e pensiamo che non sarebbe male cominciare a discuterne prima di litigare con la chiesa. E chissà perché ci viene da pensare che, quando ne discuteremo con chi segue «la nota dottrina», troveremo orecchie più attente, una testa più aperta, e gli steccati, anche quelli dei laici, potranno essere più fragili. Sì, questo Papa ci piace. E chi alla chiesa ha sempre creduto dovrebbe essere contento della possibilità di una nuova fratellanza che si fonda su una fiducia reciproca. Di recente il mio amico Fausto Bertinotti, anche lui «papista» convinto, mi ha passato un numero del 2007 della rivista 30 giorni diretta da Giulio Andreotti. Contiene una stupenda intervista a Papa Francesco allora cardinale di Buenos Aires. Ne consiglio la lettura. Nell’intervista, nella quale con assoluta coerenza c’è già tutto Francesco, il Papa parla fra l’altro della necessità di «uscire dal recinto dell’orto dei propri convincimenti considerati inamovibili se questi rischiano di diventare un ostacolo, se chiudono l’orizzonte che è Dio». «Questo vale anche per i laici?», chiede l’intervistatrice Stefania Falasca. E il cardinale Bergoglio risponde: «La loro clericalizzazione è un problema. I preti clericalizzano i laici e i laici ci pregano di essere clericalizzati… È proprio una complicità peccatrice». E prosegue: «E pensare che potrebbe bastare il solo battesimo. Penso a quelle comunità cristiane in Giappone che erano rimaste senza preti per più di duecento anni. Quando tornarono i missionari li trovarono tutti battezzati, tutti validamente sposati per la chiesa, i loro defunti avevano avuto un funerale cattolico. La fede era rimasta intatta per i doni di grazia che avevano allietato la vita di questi laici che avevano ricevuto solo il battesimo e avevano vissuto la loro missione apostolica in virtù del loro battesimo. Non si deve aver paura di dipendere solo dalla Sua tenerezza». Adesso è chiaro perché ci dovete capire? Perché molti di noi di sinistra sono quelli che Karl Rahner definiva «cristiani anonimi», siamo fuori dal perimetro della chiesa, però ne possiamo condividere idee e convinzioni. E questo – rassicuratevi – sempre per dirla con Rahner «non rende superfluo il cristianesimo esplicito, anzi lo reclama per la sua stessa essenza e per la sua specifica dinamica». Allora tranquilli. Niente di male se il Papa piace a sinistra. Se piace ai laici, ai non credenti, agli atei e ai miscredenti. Abbiate un po’ di comprensione. Anche noi abbiamo bisogno di un padre che abbia fiducia in noi. Che poi sia santo, questo lo ammetto, è fatto che vi riguarda quasi esclusivamente.

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