il commento al vangelo della domenica

 


 “Pietro, seguimi!”
 
il commento di E. Bianchi al vangelo della terza domenica di pasqua (5 maggio 2019):

Gv 21,1-19

In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

Quando un autore finisce un libro e scrive la conclusione, manifestando lo scopo per cui ha scritto, il libro può essere pubblicato. Se poi a questa conclusione si sente il bisogno di aggiungere un altro capitolo di narrazioni, in continuità con quelle precedenti, allora ci devono essere ragioni decisive, importanti. Questo, come è noto, è ciò che è avvenuto anche per il quarto vangelo, terminato con il capitolo 20 (letto domenica scorsa) e poi allungato di un nuovo capitolo, il testo liturgico odierno. Perché una ripresa breve ma ricca di episodi? Difficile per noi rispondere con certezza, ma possiamo almeno fare un’ipotesi. L’autore o i redattori ritennero necessario mettere in relazione “il discepolo che Gesù amava” (cf. Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20.23) con Simone, il discepolo al quale fin dal primo incontro Gesù aveva dato il nome di Pietro, roccia salda tra tutti gli altri (cf. Gv 1,42). In ogni caso, questa appendice è straordinaria perché non è tentata di raccontare fatti straordinari o sovrumani riguardanti Gesù risorto, ma vuole dirci solo la sua presenza discreta, elusiva, fedele e paziente in mezzo alla sua comunità.

Questa manifestazione del Risorto avviene sulle rive del mare di Galilea, là dove secondo i sinottici era avvenuta la chiamata delle prime due coppie di fratelli: Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, pescatori uniti in una piccola impresa (cf. Mc 1,16-20 e par.). Dopo la morte e resurrezione di Gesù i discepoli sono tornati in Galilea, alla loro vita ordinaria fatta di lavoro, vita comune, vita di fede e di attesa. Ed ecco, in uno di quei giorni ordinari Pietro prende l’iniziativa, dicendo agli altri: “Io vado a pescare”. Gli altri sei ribattono: “Veniamo anche noi con te”. Questo racconto vuole dirci molto di più di ciò che è avvenuto a quei pescatori. Qui, infatti, c’è solo un pugno di discepoli – neanche undici, tanti quanti erano rimasti, e neppure le donne! – che rappresenta la comunità di Gesù; c’è Pietro che prende l’iniziativa di una pesca che non è pesca di pesci; c’è la disponibilità degli altri sei a seguirlo nella sua iniziativa.

“Ma quella notte non presero nulla”: una pesca infruttuosa, un lavoro e una fatica senza risultati. Questo risultato fallimentare indica qualcosa? Credo di sì: ovvero, Pietro può pretendere l’iniziativa, ma senza la parola, il comando, l’indicazione del Signore, la pesca resterà sterile, la missione senza frutti. Al levare del giorno, però, ecco sulla spiaggia un uomo di cui i discepoli ignorano l’identità. D’altronde mancano le condizioni per riconoscerlo: è ancora chiaroscuro ed egli non è vicino, né ha detto nulla perché i discepoli abbiano potuto riconoscerne la voce. È lui a rompere il silenzio, raggiungendoli con una domanda: “Piccoli figli, avete qualcosa da mangiare?”. Domanda sentita tante volte, per bocca di un mendicante sulla strada o sulla porta di casa. Sì, domanda di un mendicante che chiede qualcosa da mangiare per sostenersi. I discepoli devono averla sentita spesso sulle strade della Palestina, la sentono ora nell’alba e la sentiranno sempre in tutte le vicende della storia. La loro risposta è un secco: “No”. Non c’è stata pesca, non c’è cibo.

Ma quell’uomo continua: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. Così fanno, un po’ meravigliati, quei discepoli pescatori, e la rete si riempie di una tale quantità di pesci che è faticoso trascinarla a riva. Dunque una pesca abbondante, straordinaria, che desta stupore in tutti. Nello stupore, però, c’è chi discerne qualcosa di più e d’altro: è il discepolo che Gesù amava, il quale aveva vissuto un’intimità unica con Gesù, fino a posare il capo sul suo petto nell’ultima cena (cf. Gv 13,25). L’amore passivo di cui aveva fatto esperienza lo rendeva dioratico, uomo dall’occhio penetrante, uomo capace di vedere con il cuore e non solo con gli occhi. Ecco perché, indicando con il dito Gesù, può gridare: “È il Signore!” (ho Kýriós estin). Attenzione: lo dice a Pietro, indicando quell’uomo sulla spiaggia e rivelandogli ciò che egli non era stato in grado di vedere. Pietro non esita un istante e nel suo entusiasmo pieno di desiderio di essere con il Risorto si tuffa subito in acqua per raggiungerlo a nuoto.

Inutile tacerlo: nel quarto vangelo tra il discepolo amato e Pietro c’è una vera e propria “santa concorrenza”, non una concorrenza di gelosia, perché i due discepoli sono diversi e il loro rispettivo rapporto con Gesù è diverso. Nell’ultima cena Pietro sta dopo il discepolo amato presso Gesù e a lui, che è abbracciato a Gesù, sul suo petto, deve chiedere di informarsi su chi è il traditore (cf. Gv 13,24-25). E il discepolo amato, ricevuta da Gesù la risposta, non dice nulla a Pietro (cf. Gv 13,26). Poi nell’alba della resurrezione, informati da Maria di Magdala, Pietro e il discepolo amato corrono insieme al sepolcro, ma questi arriva primo (cf. Gv 20,3-4). Lascia entrare Pietro nel sepolcro (cf. Gv 20,5-7), ma è lui che “vide e credette” (Gv 20,8), mentre Pietro è annoverato tra quelli che “non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti” (Gv 20,9). Il discepolo amato precede Pietro nel discernimento, nella conoscenza, nella fede, e tuttavia riconosce sempre che nell’ordo della vita comunitaria Pietro è il primo per volontà di Gesù!

Quando poi i discepoli hanno trascinato a riva la rete piena di pesci, vedono un fuoco acceso con del pesce sopra e del pane, mentre Gesù chiede loro di portare un po’ del pesce che hanno preso. In ogni caso, Gesù ha preparato per loro un pasto: anche da risorto resta colui che serve a tavola, che prepara il cibo e lo distribuisce. Pietro intanto si dà da fare per scaricare il pesce e tutto avviene senza che la rete si rompa, perché egli sa maneggiarla impedendo che avvengano strappi. È il suo lavoro di unità, di comunione: spetta a lui conservare intatta, senza strappi la tunica di Gesù tessuta dall’alto in basso (cf. Gv 19,23-24); spetta a lui fare sì che la missione non provochi lacerazioni nella comunità dei credenti. Ed ecco il banchetto: “Venite a mangiare!”, dice Gesù, e nessuno replica, perché basta guardarlo, basta sentire la sua presenza, basta vedere il suo stile nello spezzare il pane e porgere il cibo per riconoscerlo. Non si dimentichi inoltre che, quando questo capitolo viene scritto, ormai Gesù è indicato con il termine ichthús, “pesce”, anagramma di cinque parole:

Iesoûs Christòs Theoû Hyiòs Sotér,
Gesù Cristo di Dio Figlio Salvatore.

Ed eccoci infine al racconto che è la vera motivazione dell’aggiunta di questo capitolo 21. Finito di mangiare, Gesù inizia un dialogo con Simon Pietro:

“Simone, figlio di Giovanni, mi ami (verbo agapáo) tu più di queste cose?”.
Gli rispose: “Sì, Signore, tu lo sai che ti voglio bene (verbo philéo)”.
Gli disse: “Sii il pastore dei miei agnellini”.
Gli disse di nuovo, per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami (verbo agapáo)?”.
Gli rispose: “Sì, Signore, tu lo sai che ti voglio bene (verbo philéo)”.
Gli disse: “Sii il pastore dei miei agnellini”.
Gli disse per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene (verbo philéo)?”.
Pietro si rattristò che perla terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene (verbo philéo)?”,
e gli disse: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene (verbo philéo)”.
Gli rispose Gesù: “Sii il pastore dei miei agnellini”.

Si noti con attenzione il gioco dei verbi greci. La terza volta Gesù non chiede più a Pietro: “Mi ami?” (verbo agapáo), ma, come aveva risposto Pietro per due volte, gli chiede: “Mi vuoi bene?” (verbo philéo). A Gesù basta l’amore umano di Pietro, la sua capacità di volere bene: verrà il giorno – glielo dice subito dopo – in cui Pietro saprà vivere l’amore, l’agápe fino alla fine (eis télos: Gv 13,1), fino al dono della vita nel martirio, ma non ora… Pietro, dal canto suo, appare grande perché umile, perché non pretende di dire: “Io ti amo”, con quell’agápe che scende solo da Dio. C’è qui tutta la grandezza di Pietro, che rinuncia a essere protagonista di quell’amore che solo Dio può donare. Il Pietro che era stato presuntuoso (“Darò la mia vita per te!”: Gv 13,37), il Pietro che era sempre così sicuro ed entusiasta da voler fare più di quanto Gesù gli chiedeva (“Signore, lavami non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!”: Gv 13,9), ora è il Pietro anziano, maturo spiritualmente, umile perché è stato umiliato, senza pretese, perché ha compreso di essere una roccia fragile, che al primo spirare del vento affondava… Per lui la vita è stata tutta una lezione, ma proprio per questo può essere il pastore di agnelli e di pecore sperdute.

Gesù allora può dirgli tutto. Non gli ricorda il peccato del rinnegamento e della paura, ma gli svela ciò che lo attende: “Sì, Pietro sei stato giovane, pieno di vita e di entusiasmo, e in quel tempo decidevi quello che volevi e andavi dove volevi. Ma, divenuto vecchio, non sarai più completamente padrone di te stesso. Sarai obbligato a farti aiutare, tenderai le mani e chiederai che altri ti vestano, perché tu non ce la farai da solo, e sarai portato dove non vorrai andare”. È certamente una profezia del martirio che lo attende, della forma di morte che gli toccherà quando sarò crocifisso e verserà il sangue a gloria di Dio; ma anche di una forma di “morte” quotidiana, nel ministero che gli compete, quando dovrà tante volte assecondare decisioni che lui non vorrebbe. Nella debolezza dell’anzianità sarà possibile, anzi necessario, anche questo “martirio bianco”… Dunque, che cosa spetta a Pietro? Seguire Gesù. L’ultima parola di Gesù a Pietro è come la prima: “Seguimi!” (cf. Gv 1,42-43). Anche nella diminutio, nella passività, nel fallimento, nel cedere ad altri le proprie facoltà si può seguire il Signore. Non è proprio quello che ha vissuto anche Gesù, reso oggetto, cosa, manipolato, in balia di altri che hanno fatto di lui ciò che hanno voluto, come era avvenuto per Giovanni il Battista (cf. Mc 9,13; Mt 17,12)? Questa è la sequela di Gesù cui nessuno di noi può sfuggire.

Ma resta ancora accanto a Pietro il discepolo amato da Gesù. Anche Pietro avrà imparato ad amarlo? Qui, improvvisamente Pietro si interessa a lui, chiedendo a Gesù: “Signore, che sarà di lui?” (Gv 21,21). Ma Gesù risponde: “Se voglio che egli dimori finché io venga, a te che importa? Tu seguimi!” (Gv 21,22). Risposta dura ma chiara: il discepolo amato è colui che dimora, del quale Pietro deve accettare un’altra fine, un altro ministero, un’altra testimonianza. Sarà tra gli agnelli di cui Pietro è pastore, ma quest’ultimo deve e riconoscerlo e basta.

il commento al vangelo della domenica


l’amore frustrato del Padre 
il commento di E. Bianchi al vangelo della quarta domenica di quaresima (31 marzo 2019):

Lc 15,1-3.11-32

In quel tempo1 si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.  farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola:11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

L’itinerario quaresimale che in questo anno liturgico C compiamo attraverso l’ascolto del vangelo secondo Luca è tutto teso all’annuncio della nostra conversione e della misericordia di Dio, che suscita in noi la conversione attraendoci verso “Dio” stesso, che “è amore” (1Gv 4,8.16). Di questa misericordia infinita si fa interprete Gesù con azioni, comportamenti, parole e parabole suscitate alcune volte da quanti non sono giunti a tale conoscenza di Dio, preferendo fermarsi al culto, ai sacrifici, alla liturgia come mezzi per avvicinarsi a lui (cf. Os 6,6).

Eccoci così all’inizio del capitolo 15, dove Luca racconta che i pubblicani, cioè coloro che erano manifestamente peccatori, gente perduta, venivano ad ascoltare Gesù. Perché costoro erano attirati da Gesù, mentre fuggivano dai sacerdoti e dai fedeli zelanti? Perché sentivano che questi ultimi non andavano a cercarli, non li amavano, ma li giudicavano e li disprezzavano. Gesù invece aveva un altro sguardo: quando vedeva un peccatore pubblico, lo considerava come un uomo, uno tra tutti gli uomini (tutti peccatori!), uno che era peccatore in modo evidente, senza ipocrisie né finzioni. A questa vista Gesù sentiva com-passione: non giudicava chi aveva di fronte, non lo condannava, ma andava a cercarlo la dov’era, nel suo peccato, per proporgli una relazione, la possibilità di fare un tratto di strada insieme, di ascoltarsi reciprocamente senza pregiudizi (cf. Lc 19,10). Così i peccatori fuggivano dalla comunità giudaica e si recavano da Gesù, il che scandalizzava gli uomini religiosi per mestiere, i quali “mormoravano dicendo: ‘Costui accoglie i peccatori e addirittura mangia con loro!’”.

Gesù è dunque costretto a difendersi, e lo fa non con violenza e neppure con un’apologia di se stesso, ma raccontando a questi farisei e scribi delle parabole, per l’esattezza tre: quella della pecora smarrita (cf. Lc 15,4-7), quella della moneta smarrita (cf. Lc 15,8-19) e quella che ascoltiamo nella liturgia, la famosa parabola dei due figli perduti e del padre prodigo d’amore. Cerchiamo di leggerla, ancora una volta, in obbedienza alle sante Scritture e formati dall’insegnamento che ci viene dalle nostre esperienze, dalle nostre storie.

Gesù narra la vicenda di una famiglia che, come tutte le famiglie, non è ideale, non è esente dalle sofferenze e dall’“irregolarità” dei rapporti. Essa è composta da un padre (manca però la madre: è morta, o forse assente?) e da due figli, nati e cresciuti nello stesso ambiente eppure capaci di due esiti formalmente diversi, agli antipodi: in realtà, però, entrambi sono accomunati dalla non conoscenza del padre e dalla volontà di negarlo. Ma si badi bene: il padre di questa parabola appare fin dall’inizio altro rispetto ai padri terreni, perché alla richiesta del figlio minore di ricevere in anticipo l’eredità (dunque, in qualche modo, il figlio lo vuole già morto!), risponde lasciandolo fare, senza ammonirlo, senza contraddirlo, senza metterlo in guardia. C’è tra noi umani un padre così? No! Siamo dunque subito portati a vedere in questo padre il Padre, cioè Dio stesso, l’unico che ci lascia liberi di fronte al male che vogliamo compiere, che non ci ferma ma tace, lasciandoci allontanare da sé. Perché? Perché Dio rispetta la nostra autonomia e la nostra libertà. Ci ha dato l’educazione attraverso la Legge e i Profeti, ma poi ci lascia liberi di decidere come vogliamo.

È così che il padre della parabola divide tra i due figli l’eredità, o meglio – come dice il testo greco – “la sua vita” (ho bíos), e lascia partire il figlio minore, mostrandogli, anche se costui certamente non lo capisce, rispetto della sua libertà, gratuità, amore fedele. Il figlio minore esige, reclama, rivendica, forza la mano al padre, e quest’ultimo risponde in modo sorprendente: tutto il suo atteggiamento lo mostra come inoperoso, quasi assente, per rispetto della libertà del figlio. Il figlio, dunque, se ne va finalmente fuori da quella casa che sentiva come una prigione, lontano dallo sguardo di quel padre che sentiva come uno spione, via da quello spazio che doveva condividere con il padre e con il fratello maggiore e che non sentiva come proprio.

Se ne va, ma presto dissipa tutto in feste con amici, giochi, prostitute, rimanendo così senza soldi, fino a doversi mettere a lavorare per sopravvivere. Finisce addirittura per fare il mandriano di porci, animali impuri, disprezzati dagli ebrei, e in quella desolazione comincia a capire meglio dove si può andare a finire… Così “cominciò a trovarsi nel bisogno” (érxato hystereîsthai): gli manca qualcosa, e la mancanza di qualcosa è sempre capace di suscitare in noi delle domande. Cosa gli manca? Certo i soldi spesi, certo il cibo per vivere, ma gli manca anche qualcuno accanto, qualcuno che gli dia da mangiare, “qualcuno che” – dice il testo – “gli porga le carrube”, facendogli sentire riconoscimento e cura! È così, noi abbiamo bisogno dell’altro, e quando gli altri scompaiono dal nostro orizzonte siamo desolati e senza gli altri ci incamminiamo verso la morte.

A partire dall’esperienza di questa condizione degradata, uguale a quella degli animali, il figlio minore comincia a rientrare in se stesso, a prendere consapevolezza della propria situazione. Non è uno che si converte, ma in lui c’è ormai il desiderio di dire “basta” a quella condizione di fame e desolazione. Pensa allora come poter tornare indietro e ritrovare la condizione di prima, a casa sua, convincendo il padre a dargli almeno da mangiare: farà il servo e così si assicurerà il vitto; meglio a casa da servo, che qui da maiale… Ritorna, dunque, cercando di immaginare la scena che reciterà al padre, per placare la sua collera e farsi riammettere in casa. Non è pentito, non è mosso da amore verso il padre, ma solo dall’interesse personale.

Ma ecco che qui inizia un cammino pieno di sorprese, perché finalmente il figlio conosce il padre in modo diverso da come l’aveva conosciuto quando viveva con lui. Egli pensa che il padre lo chiamerà a rendere conto delle sue malefatte, e invece trova il padre che gli corre incontro; pensa di doversi sottomettere al castigo, diventando schiavo, e invece il padre lo veste con l’abito del figlio; pensa che dovrà piangere e umiliarsi, e invece è il padre a imbandire per lui un banchetto, facendo uccidere il vitello ingrassato; pensa che dovrà stare ai piedi del padre come un penitente, e invece il padre lo abbraccia e lo bacia. Si noti che il padre non si preoccupa se il figlio manifesta un vero pentimento, una vera contrizione. Non lo lascia parlare, lo abbraccia stretto, gli impedisce gesti penitenziali ed espiatori, e così gli mostra il suo perdono gratuito. Proprio come aveva profetizzato Osea: Dio continua ad amare il suo popolo mentre questi si prostituisce, e, appena può, lo riabbraccia e lo riprende (cf. Os 1,2; 11,8-9). Sì, questo padre era altro da come il figlio minore lo aveva conosciuto stando a casa e poi fuggendo lontano: ed è come se questa scoperta lo risuscitasse, lo rimettesse in piedi, gli desse la possibilità di una nuova vita in comunione con lui.

La parabola potrebbe concludersi qui, e l’insegnamento di Gesù sarebbe completo: finalmente il figlio ha conosciuto il vero volto del padre, volto di misericordia, amore fedele che non viene mai meno, amore senza fine… E invece c’è un seguito: i peccatori sono invitati dalla prima parte della parabola a conoscere il vero volto di Dio e quindi a sentirsi perdonati a tal punto da convertirsi; ma i giusti, o meglio quelli che si credono giusti e buoni, come il figlio maggiore che è restato fedelmente in casa, che ne è di loro? La parabola contiene un insegnamento anche per loro, cioè per il figlio maggiore. Eccolo entrare in scena mentre, da ragazzo bravo, diligente e volenteroso, ritorna dai campi dove ha lavorato. Egli sente il rumore di musica e danze provenire dalla casa e si chiede il perché di tutto ciò; è un servo a spiegargli come sono andate le cose: “Tuo fratello è tornato e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. In risposta, egli non sa fare altro che adirarsi, ripromettendosi di non prendere parte a una festa per lui tanto ingiusta.

Se ne sta dunque fuori, ed è il padre a uscire ancora una volta, facendosi incontro anche a lui: lo prega di entrare per partecipare alla gioia del fratello che era come morto, ma ora è un uomo nuovo. Inutile, le parole del padre lo infastidiscono ancora di più: com’è possibile – egli pensa –, c’è una giustizia che deve regnare! Suo fratello (anzi, egli rivolgendosi al padre dice con disprezzo: “Questo tuo figlio…”) se n’è andato, ha sperperato tutto con amici e prostitute, ha goduto e gozzovigliato, mentre egli a casa ha dovuto mandare avanti la campagna e la cascina. E adesso, com’è possibile festeggiare quello che è tornato, quando mai è stato festeggiato lui, rimasto fedelmente a casa? Così nel suo cuore risuona come reazione una parola: “Non è giusto!”. Appare dunque chiaro che anche questo figlio, il maggiore, pur essendo restato accanto al padre, non lo aveva mai conosciuto, non aveva mai letto il suo cuore, non aveva mai messo fiducia in lui e da lui non aveva imparato nulla: per questo giudica e condanna! Era rimasto in una casa che, come per suo fratello, era una prigione; era rimasto accanto a un uomo, suo padre, che mai aveva conosciuto in verità. È il padre a doverglielo svelare: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, potevi liberamente prenderti un capretto per fare festa con i tuoi amici. Perché non l’hai fatto? Ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Questa è davvero la parabola dell’amore frustrato di quel padre che ha amato fino alla fine (cf. Gv 13,1), totalmente, gratuitamente, e che invece è apparso un padre-padrone in virtù delle proiezioni che entrambi i figli hanno fatto su di lui. Capita sempre così quando il Padre è Dio, sul quale proiettiamo le nostre immagini; capita così a volte anche nei rapporti tra i padri e i figli di questo mondo. L’unica differenza è che l’amore di Dio è preveniente, sempre in atto, mai contraddetto, fedele e misericordioso, il nostro invece… Per il fratello maggiore resta il compito di non dire più al padre: “questo tuo figlio”, bensì: “questo mio fratello”. È un compito che ci attende tutti, ogni giorno. Affermare che l’uomo è figlio di Dio è facile, e tutti gli uomini religiosi lo fanno, perché hanno cara la teologia ortodossa. È invece più faticoso dire che l’uomo è “mio fratello”, ma è esattamente questo il compito che ci attende. Dio, il Padre, resta fuori dalla festa, accanto a ciascuno di noi, e ci prega: “Di’ che l’uomo è tuo fratello, e allora potremo entrare e fare festa insieme”.

il commento al vangelo della domenica


 
ascoltate lui, il Figlio! 
il commento ai E. Bianchi al vangelo della seconda domenica di avvento (17 marzo 2019):

Lc 9,28b-36

In quel tempo Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

Nella prima domenica di Quaresima abbiamo contemplato Gesù nella sua condizione umana, tentato dal demonio nel deserto e durante la sua vita (cf. Lc 4,1-13). In questa seconda domenica il vangelo che ci viene donato, quello della trasfigurazione di Gesù, ci porta a confessare che in quella sua carne mortale spogliata delle sue prerogative divine, perché volontariamente e liberamente egli “aveva svuotato se stesso assumendo la condizione di uomo e di schiavo” (Fil 2,7), la sua identità profonda restava quella di Figlio di Dio e il suo destino era la gloria divina (cf. Fil 2,9-11).

Eccoci dunque davanti a questo racconto testimoniato dai tre vangeli sinottici (cf. Mc 9,2-10; Mt 19,2-9), ciascuno con dei particolari diversi e significativi. Luca scrive che l’evento avvenne “otto giorni dopo” il giorno della svolta (Lc 9,28a), cioè quello della confessione di Pietro che ha riconosciuto e confessato Gesù come “il Cristo di Dio” (Lc 9,20), quello stesso giorno in cui Gesù ha annunciato per la prima volta la necessitas della sua passione, morte e resurrezione (cf. Lc 9,22). Proprio in quel giorno Gesù decide di salire sul monte santo per dedicarsi alla preghiera, per vivere più intensamente il rapporto con il Padre e attendere la sua Parola. Porta con sé i discepoli a lui più vicini, Pietro, Giovanni e Giacomo, ai quali aveva promesso la visione del regno di Dio prima della loro morte (cf. Lc 9,27)

Gesù entra in quell’incontro con Dio, come sempre faceva nei momenti decisivi della sua vita, esercitandosi all’ascolto della sua voce, della sua Parola, per poterla comprendere, assumere e conservare nel cuore e, di conseguenza, poter dire il suo “amen” a questa volontà di Dio. La preghiera di Gesù sta tutta qui, e tale è anche la preghiera del cristiano: non c’è molto da dire a un Padre che conosce ciò di cui abbiamo bisogno (cf. Mt 6,8) e ciò che abbiamo nel cuore, non ci sono lunghi discorsi da fare (cf. Mt 6,7), ma c’è solo da rispondere al Signore con l’obbedienza, con il “sì” assunto liberamente e con grande fede amorosa. Tante volte – ci testimoniano i vangeli, in particolare Luca (cf. Lc 5,16; 6,12; 9,18) – Gesù ha cercato la solitudine, la notte, la montagna, per vivere questa preghiera assidua al Padre; anche ora, dopo la confessione di Pietro, che ha segnato un balzo in avanti nella fede dei discepoli e gli ha permesso di consegnare loro l’annuncio della sua morte e resurrezione, Gesù entra nella preghiera. Sappiamo bene che la preghiera non muta Dio ma trasforma noi, eppure ce ne dimentichiamo facilmente, perché la forma di preghiera pagana che vuole parlare a Dio, che vuole piegarlo ai nostri desideri, sta nelle nostre fibre di creature fragili e bisognose, pronte a fare di Dio colui che può sempre dirci “sì”. Gesù invece non prega così, perché sa che è lui a dover dire “sì” a Dio, non viceversa.

Ebbene, in quell’ascolto del Padre, in quell’adesione a lui, accade la rivelazione indirizzata ai tre discepoli, che così vengono costituiti “testimoni della sua gloria” (cf. 2Pt 1,16): secondo il racconto di Luca il volto di Gesù appare “altro” (héteron), le sue vesti raggianti di luce, scintillanti. Per noi umani questa è la visione della gloria: percepiamo un mutamento di Gesù, contempliamo il cambiamento del suo aspetto, la sua forma “altra”, la sua “trasfigurazione” (“fu trasfigurato”: Mc 9,2; Mt 17,2). A prescindere dall’inadeguatezza delle nostre parole, la realtà è che Gesù viene percepito nella sua alterità: l’uomo Gesù, che i tre discepoli seguivano come profeta e Messia, ha un’identità altra, non ancora rivelata, ma che con questo evento si rivela loro momentaneamente, per allusione, comunque in modo sufficiente a trasformare la loro fede in lui.

Qui non riusciamo a dire molto di più, balbettiamo, ci sentiamo alla presenza di un evento che chiede soltanto la nostra adorazione. Nel corso dei secoli i cristiani si sono molto interrogati, alla lettura di questo brano. Nella tradizione orientale si è giunti a pensare che in verità Gesù è rimasto lo stesso, mentre sono stati gli occhi dei discepoli a subire una trasfigurazione, fino a essere resi capaci di leggere e vedere ciò che quotidianamente non vedevano (cf. Giovanni Damasceno). Altri cristiani hanno pensato che in questo evento Gesù ha concesso agli apostoli di vedere la sua gloria, di cui si era spogliato nell’incarnazione, gloria non perduta ma solo “messa tra parentesi” nei giorni della sua vita mortale. Altri, recentemente, preferiscono vedere nel racconto della trasfigurazione un’anticipazione pasquale: sarebbe frutto della fede in Gesù risorto, della sua identità svelata nella resurrezione, e dunque letta a posteriori come profezia della Pasqua. Diverse letture, tutte possibili, che non si escludono a vicenda. Noi con semplicità, con occhi semplici, accogliamo il mistero di questo evento come rivelazione:

Gesù, quell’uomo di Galilea, che come un profeta aveva dei discepoli e parlava alle folle, quell’uomo precario, fragile e incamminato verso la morte, in verità era il Figlio di Dio e le sue prerogative divine non apparivano perché egli era veramente e totalmente uomo. Sì, quell’uomo era il Figlio di Dio e “in lui abitava corporalmente la pienezza della divinità” (Col 2,9), che nella trasfigurazione si rese visibile ai tre testimoni privilegiati

A testimoniare questa identità di Gesù, ecco intervenire Mosè ed Elia, nella loro gloria di viventi in Dio. Gli sono accanto e gli parlano del suo “esodo”, della sua fine, della sua morte che avverrà presto a Gerusalemme, la città verso cui è incamminato: sarà un esodo, un passaggio, perché il Padre lo innalzerà nella gloria (cf. Lc 9,51; 24, 51). Ciò che Gesù aveva annunciato come sua fine prossima a Gerusalemme è confermato come necessitas dalla Legge (Mosè) e dai Profeti (Elia). Vi è qui la convergenza su Gesù di tutte le Scritture di Israele, che solo in lui trovano unità e pieno compimento. Per i tre discepoli questo evento appare come un sigillo su colui che essi seguono: ciò che gli accadrà a Gerusalemme, la città verso cui Gesù sale, è conforme a tutte le Scritture, è secondo la rivelazione di Dio data a Israele, il popolo dell’alleanza.

Inadeguati a tale mistero, Pietro, Giovanni e Giacomo sono oppressi dal sonno, ma riescono a vincerlo e a contemplare “la gloria” di Gesù e dei due uomini che parlano con lui della sua passione, morte e resurrezione. Il peso della gloria li invade, così che, in qualche modo, vedono il regno di Dio venire con potenza (cf. Mc 9,1). Pietro allora, in una sorta di estasi, chiede a Gesù di rendere quel momento durevole, in quanto momento di visione e non più di fede, di beatitudine e non più di fatica, di pace e non più di lotta spirituale. Ma mentre Pietro sta ancora parlando in modo estatico, ecco venire la nube della Shekinah, della Presenza di Dio, che li avvolge con la sua ombra, destando nei discepoli timore e tremore. Sono davanti a Dio nella sua sfera di vita, non nella luce che abbaglia ma nella nube che oscura e non permette di vedere: sentono timore ma non vedono nulla, percepiscono la Presenza di Dio ma non la vedono. Però odono, ascoltano il Dio che non si può vedere senza morire (cf. Es 33,20), ma si può ascoltare, proprio come Mosè aveva insegnato ai figli di Israele: “Il Signore vi parlò dal fuoco e voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura; vi era soltanto una voce!” (Dt 4,12).

La voce di Dio risuona in quella nube come rivelazione dell’identità di Gesù e, nel contempo, come compito per i suoi discepoli: “Questi è il Figlio mio, l’Eletto; ascoltatelo!”. Cosa ascoltano in realtà Pietro, Giovanni e Giacomo? Ascoltano il Profeta promesso da Dio attraverso Mosè, il Profeta al quale deve andare l’ascolto (cf. Dt 18,15), e vedono il compimento della profezia di Isaia sull’anonimo Servo del Signore, figura attesa dai credenti di Israele: “Ecco il mio Servo, il mio Eletto” (Is 42,1). La rivelazione ormai è Gesù stesso, la sua persona, e il grande comando “Ascolta, Israele!” (Shema‘ Jisra’el: Dt 6,4) diventa: “Ascoltate il Figlio, l’Eletto di Dio, ascoltate lui!”. Anche l’ascolto della Legge e dei Profeti deve diventare ascolto di Gesù, il Figlio che Dio ama perché compie la sua volontà, conformemente alla missione ricevuta. I tre ormai conoscono Gesù: è il Figlio amato di Dio, da lui inviato perché fosse ascoltato.

Così, nel silenzio, si conclude questo evento non facilmente narrabile: Gesù è di nuovo solo con i tre, i quali, ammutoliti dallo stupore e dall’adorazione del mistero, non parlano, non sanno raccontare ciò che hanno visto, fino a dopo che Gesù sia risorto dai morti. Proprio della resurrezione, infatti, la trasfigurazione è segno e profezia!

il commento al vangelo della domenica


 

L’oggi di Dio 
il commento al vangelo della terza domenica del tempo ordinario
di ENZO BIANCHI 


Lc 1,1-4; 4,14-21

Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi
e proclamare l’anno di grazia del Signore».
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Nel dare forma alla buona notizia, il Vangelo, attraverso il racconto, Luca ha la consapevolezza di una propria responsabilità davanti a Dio e agli uomini. Davanti a Dio deve essere un “servo della Parola”, capace di tenere conto di altri scrittori precedenti a lui e più autorevoli di lui: “i testimoni oculari”, quelli che hanno vissuto nell’intimità e nella vita pubblica con Gesù (cf. At 1,21-22); davanti agli uomini sente il dovere di rispondere a quei primi cristiani della sua comunità, dando loro una parola come cibo capace di nutrire e confermare la loro fede. Per questo ha composto quello che chiamiamo il terzo vangelo, attingendo con cura alla tradizione apostolica ma nello stesso tempo scrivendo con le sue capacità e la sua sensibilità a dei cristiani di lingua greca negli anni 70-80 della nostra era. Il Vangelo è un canto a quattro voci, quattro racconti, quattro memorie: ma il canto polifonico resta un solo canto, e uno solo è il Vangelo fatto carne, uomo (cf. Gv 1,14), Gesù di Nazaret.

Luca è molto attento a testimoniare la presenza dello Spirito di Dio in Gesù. Gesù – che è la Parola di Dio (cf. Gv 1,1) – e lo Spirito santo sono “compagni inseparabili” (Basilio di Cesarea), dunque dove Gesù parla e agisce là c’è anche lo Spirito. Nei capitoli precedenti del vangelo, quelli riguardanti la venuta nel mondo del Figlio di Dio, Luca ha mostrato che egli è stato concepito nell’utero di Maria grazie alla potenza dello Spirito santo (cf. Lc 1,35), e la sua apparizione pubblica quale discepolo di Giovanni il Battista, che lo ha immerso nel Giordano, è stata sigillata dalla discesa su di lui dello Spirito santo (cf. Lc 3,22). Proprio questo Spirito conduce Gesù nel deserto, dove viene tentato dal demonio (cf. Lc 4,1-2a), e lo accompagna – è l’inizio del nostro brano liturgico – quando ritorna in Galilea, la sua terra, dalla quale si era allontanato per andare nel deserto e mettersi alla sequela del profeta battezzatore. Con questa insistenza Luca è intenzionato a far comprendere al lettore che Gesù è “ispirato”, che la sua sorgente interiore, il suo respiro profondo è lo Spirito di Dio, il Soffio del Padre. Non è un profeta come gli altri, sui quali lo Spirito scendeva momentaneamente, perché in lui lo Spirito riposava, sostava, dimorava (cf. Gv 1,32), lo riempiva di quella forza (dýnamis) che non è potere, ma partecipazione all’azione e allo stile di Dio.

E cosa fa Gesù nel suo ritorno alla “Galilea delle genti” (Mt 4,15; Is 8,23), terra periferica e impura? Va a “insegnare nelle sinagoghe”. Per iniziare la sua missione non ha scelto né Gerusalemme né il tempio, ma quelle umili sale in cui si riunivano i credenti per ascoltare le sante Scritture e offrire il loro servizio liturgico al Signore. Nelle sinagoghe di sabato si facevano preghiere, poi si leggeva la Torah (una pericope, una parashah del Pentateuco), la Legge, quindi si pregavano Salmi e, a commento della Torah, si proclamava un brano (haftarah) tratto dai Profeti. Non era una liturgia diversa da quella che ancora oggi noi cristiani compiamo ogni domenica. Gesù è ormai un uomo di circa trent’anni, non appartiene alla stirpe sacerdotale, quindi non è un sacerdote, è un semplice credente figlio di Israele ma, diventato a dodici anni “figlio del comandamento” (cf. Lc 2,41-42), è abilitato a leggere pubblicamente le sante Scritture e a commentarle, facendo l’omelia.

E così accade che quel sabato, proprio nella sinagoga in cui la sua fede era stata nutrita fin dall’infanzia, quando abitava a Nazaret, mediante le liturgie comunitarie, Gesù sale sull’ambone e, aperto il rotolo che gli viene dato, legge la seconda lettura il brano previsto per quel sabato: il capitolo 61 del profeta Isaia. Questo testo è l’autopresentazione di un profeta anonimo che testimonia la sua vocazione e la sua missione:

Lo Spirito del Signore è sopra di me,
per questo mi ha unto (échrisen)
e mi ha inviato per annunciare la buona notizia ai poveri,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista,
per rimandare in libertà gli oppressi,
per proclamare l’anno di grazia del Signore (Is 61,1-2a).

Chi è questo profeta senza nome, presentato da Isaia? Quale la sua identità? Quale sarà la sua missione? Quando la sua venuta tanto attesa? Queste certamente le domande che sorgevano alla lettura di quel testo.

Gesù, dopo aver letto il brano tralasciando i versetti finali che annunciavano “un giorno di vendetta per il nostro Dio” (Is 62,2b), lo commenta con pochissime parole, così riassunte da Luca:

Oggi si è realizzata questa Scrittura

(ascoltata) nei vostri orecchi.

Oggi, oggi (sémeron) Dio ha parlato e ha realizzato la sua Parola. Oggi, perché quando un ascoltatore accoglie la parola di Dio, è sempre oggi: è qui e adesso che la parola di Dio ci interpella e si realizza. Non c’è spazio alla dilazione: oggi! È proprio Luca a forgiare questa teologia dell’“oggi di Dio”. Per ben dodici volte nel suo vangelo risuona questo avverbio, “oggi”, di cui queste le più significative:

per la rivelazione fatta dagli angeli a Betlemme (cf. Lc 2,11);
per la rivelazione ad opera dalla voce celeste nel battesimo (cf. Lc 3,22; variante che cita Sal 2,7);
nel nostro brano, come affermazione programmatica (cf. Lc 4,21);
durante il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (cf. Lc 13,32.33);
come annuncio della salvezza fatto da Gesù a Zaccheo (cf. Lc 19,5.9);
come parola rivolta a Pietro quale annuncio del suo rinnegamento (cf. Lc 22,34.61);
come salvezza donata addirittura sulla croce, a uno dei due malfattori (cf. Lc 23,43).

Oggi è per ciascuno di noi sempre l’ora per ascoltare la voce di Dio (cf. Sal 95,7d), per non indurire il cuore (cf. Sal 95,8) e poter così cogliere la realizzazione delle sue promesse. La parola di Dio nella sua potenza risuona sempre oggi, e “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti” (Lc 8,8; cf. Mc 4,9; Mt 13,9). Oggi si ascolta e si obbedisce alla Parola o la si rigetta; oggi si decide il giudizio per la vita o per la morte delle nostre vicende; oggi è sempre parola che possiamo dire come ascoltatori autentici di Gesù: “Oggi abbiamo visto cose prodigiose” (Lc 5,26). E possiamo dirla anche dopo un passato di peccato: “Oggi ricomincio”, perché la vita cristiana è andare “di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine” (Gregorio di Nissa).

Gesù è dunque il profeta atteso e annunciato dalle sante Scritture, il profeta ultimo e definitivo, ma questo non lo proclama apertamente, bensì lascia ai suoi ascoltatori di comprendere la sua identità facendo discernimento sulle azioni che egli compie, accogliendo la novità della buona notizia da lui annunciata. Gesù è il Cristo, il Messia unto da Dio (échrisen), non con un’unzione di olio ma attraverso lo Spirito santo; è l’inviato per portare ai poveri, sempre in attesa della giustizia, il Vangelo; per proclamare ai prigionieri di ogni potere la liberazione; per dare la vista ai ciechi; per liberare gli oppressi da ogni forma di male; per annunciare l’anno di grazia del Signore, il tempo della misericordia, dell’amore gratuito di Dio.

Missione profetica questa, che Gesù ha inaugurato con segni e parole, ma missione affidata ai discepoli nel loro abitare la storia nella compagnia degli uomini. Sì, queste parole di Gesù ci possono sembrare una promessa mai realizzata, perché i poveri continuano a gridare, gli oppressi e i prigionieri continuano a gemere e neppure i cristiani sanno vivere la misericordia di Dio annunciata da Gesù. Eppure questa liturgia della Parola, che ha avuto in Gesù non solo il lettore e l’interprete, ma soprattutto colui che l’ha compiuta e realizzata, illumina tutto il suo ministero: da Nazaret, dove egli l’ha inaugurata nella sinagoga, a Gerusalemme, dove in croce porterà a compimento la sua missione.

le tempeste e gli uragani che colpiscono la chiesa

FRANCESCO E LE PIAGHE DELLA CHIESA

Enzo Bianchi

 

Natale ci dona la certezza che nessun peccato sarà mai più grande della misericordia di Dio!». È questa la nota di fondo che pervade il discorso di papa Francesco alla Curia in occasione dei tradizionali auguri natalizi. Questo non significa tacere i mali e i peccati. Al contrario, a volte il papa è stato criticato per la sua insistenza verso le malattie proprie degli uomini religiosi, del clero e dei vescovi. Tuttavia l’intento pastorale profondo che anima le parole forti di Francesco è quello di purificare un corpo composto da molte membra, con ruoli, responsabilità e funzioni diverse ma anche con fragilità, patologie e perversioni che affliggono l’intera compagine. Il papa ha il coraggio di dire che alcuni «hanno iniziato a perdere fiducia nella chiesa e ad abbandonarla», mentre altri la offendono fino a scuoterla. Così, soprattutto nell’Occidente europeo, molte comunità cristiane si assottigliano fino a diventare precarie e le nuove generazioni appaiono la parte mancante della chiesa.
È significativo allora che Francesco esordisca facendo riferimento a due fenomeni mondiali quali le migrazioni e il martirio di molti cristiani. Due tragedie sulle quali Francesco non perde occasione per ritornare, cercando per ciò che riguarda i migranti, di destare le coscienze di tutti gli uomini e le donne di buona volontà – in primis di quanti hanno responsabilità pubbliche – per una gestione umana, prima ancora che umanitaria, di una piaga che da tempo non può più essere considerata “emergenza”. L’afflizione del martirio nelle parole del papa non è mai motivo per appelli a resistenze violente o a leggi del contrappasso e della reciprocità nell’infliggere il male, ma sempre occasione per gridare con voce ferma e a nome dei senza voce il caro prezzo che si paga per «vivere liberamente la fede cristiana» e per «non negare Cristo». A questo punto papa Francesco ritorna su due delle piaghe più laceranti che affliggono oggi la chiesa: gli abusi sui minori e l’infedeltà nel ministero. Verso coloro che si sono macchiati di gravi abusi «sessuali, di potere e di coscienza; tre abusi distinti che però convergono e si sovrappongono», papa Francesco arriva a usare parole di una durezza finora riservata solo ai colpevoli di crimini di mafia: «Convertitevi, consegnatevi alla giustizia umana e preparatevi alla giustizia divina!». Poco importa che in altre istituzioni si compiano di questi abusi in quantità ben maggiore: secondo la logica del Vangelo applicata da papa Francesco, le statistiche non offrono nessuna attenuante né giustificazione, perché lo scandalo patito anche da «uno solo di questi piccoli» porta in sé tutto il male del mondo. L’afflizione dell’infedeltà, poi, è inferta al corpo della chiesa da chi tradisce in profondità la propria vocazione giungendo con parole e opere a «pugnalare i fratelli e seminare zizzania, divisione e sconcerto». Anche qui però le tenebre della «corruzione spirituale» non giungono mai a sopraffare la luce di Cristo, «la luce del Natale che parte dalla mangiatoia di Betlemme, percorre la storia e arriva fino alla parusia ». Sì, parole dure e forti, scomode, laceranti come spade a doppio taglio ma parole di speranza perché dal mistero del Natale, del «Dio che si fa povero e piccolo per i poveri e per i piccoli» si sprigiona lo Spirito che anima tanti piccoli, oscuri testimoni della speranza e che trasforma «i peccati in occasione di perdono, le cadute in occasioni di rinnovamento, il male in occasione di purificazione e vittoria».

il commento al vangelo della domenica


 Vieni, Signore Gesù, vieni presto!” 
il commento di E. Bianchi  al vangelo della prima domenica di avvento (2 dicembre 2018)
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

La prima domenica di Avvento segna anche l’inizio di un nuovo anno liturgico, in cui domenica dopo domenica la chiesa celebra e fa rivivere il mistero di Cristo morto e risorto, dinamica di salvezza sempre presente in ogni evento della vita di Gesù, dalla sua nascita alla sua venuta gloriosa alla fine dei tempi. Quest’anno il vangelo che verrà letto cursivamente è quello secondo Luca, che ci presenta Gesù soprattutto come profeta che annuncia la venuta di Dio in mezzo a noi nell’umiltà, nella debolezza, nella misericordia infinita ispiratagli dal Padre suo, un Padre con viscere d’amore materne.

Avevamo concluso la lettura liturgica di Marco con l’annuncio della venuta gloriosa del Figlio dell’uomo (cf. Mc 13,26-27), e oggi lo stesso evento è posto davanti ai nostri occhi nella versione lucana. Sì, questo evento finale e definitivo, dopo il quale c’è solo il regno di Dio che si instaura su tutta la creazione e su tutta l’umanità di ogni tempo e di ogni terra, è l’Avvento (adventus), che significa “venuta”. Ecco allora il discorso escatologico di Gesù: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di genti in ansia per i maremoti e le tempeste” (cf. Is 65,8). Gesù si serve del linguaggio apocalittico, quello proprio di una corrente spirituale che cercava di far rinascere nei credenti la speranza, soprattutto in tempi di prova, di persecuzione e di tenebra. Nella pressura, quando sembra addirittura che la storia sfugga dalle mani di Dio, vi è più che mai una rivelazione, un alzare il velo (questo il senso letterale di apokálypsis, apocalisse) da parte di Dio, il quale agisce, è Kýrios, Signore, e porta a compimento il suo disegno di salvezza. Alla fine della storia i tre spazi in cui viviamo – terra, cielo e mare – subiranno un processo di rinnovamento che potrà sembrare un ritorno al caos primordiale: sarà invece un parto, una nuova creazione in cui il cosmo verrà trasfigurato, per diventare dimora del Regno.

Le immagini di questa fine possono spaventarci, ma cerchiamo di decodificarle con intelligenza. Il sole, la luna e le stelle per le genti erano idoli, dèi, ed erano adorati – come potenze divine –; in quel giorno della venuta del Figlio dell’uomo queste creature celesti saranno dunque demitizzate e detronizzate per sempre, perché solo il Signore nostro Dio sarà Dio e Re dell’universo. Di questo potere di Dio sul cosmo e sulla storia vi è già stato un segno nell’ora della morte in croce di Gesù, quando “verso mezzogiorno si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato” (Lc 23,44-45): ovvero, tutte le creature furono turbate da quell’evento della morte del “giusto” (Lc 23,47), perché erano testimoni della morte del loro Signore. In quel giorno (il giorno del Signore) l’umanità vivrà questo dramma cosmico, storico ed esistenziale: proverà angoscia (synoché), sperimenterà una situazione senza via di scampo, una situazione di smarrimento e confusione (aporía). Ma questi sono i dolori del parto della nuova creazione che, anziché moltiplicare la paura, devono ammonirci e destabilizzare le nostre certezze mondane sugli assetti del cosmo e della storia.

Gesù dunque qui annuncia questa epifania di Dio alla fine della storia e dei tempi, una fine che arriverà all’improvviso. Non si tratta di un domani lontano, di un evento che riguarderà l’ora nella quale, per cause intrinseche all’universo, esso avrà una fine così come ha avuto un inizio: no, è un evento vicino, che ci può cogliere in modo da sorprenderci. Improvvisamente, senza che nessuno di noi possa prevederlo, “apparirà il Figlio dell’uomo su una nube con grande potenza e gloria” (cf. Dn 7,13) e la sua presenza si imporrà su tutto l’universo. Nessuno potrà sottrarsi a questa visione che rivelerà la piena identità di Gesù. Quell’uomo, Gesù di Nazaret, che “passò facendo il bene” (At 10,38), che fu condannato a una morte violenta e ignominiosa, lui che era innocente e giusto, capace di amare e di perdonare fino alla fine (cf. Lc 23,34), ebbene quell’uomo, che ormai è in Dio in pienezza e nella gloria, si rivelerà quale Kýrios, Signore e Salvatore dell’umanità, Giudice del male e del bene compiuti nella storia.

Scrive il veggente Giovanni, riprendendo le parole del profeta Zaccaria (cf. Zc 12,10): “Ecco, viene sulle nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che l’hanno trafitto” (Ap 1,7; cf. anche Gv 19,37). Si noti: tutti lo riconosceranno nelle trafitture delle mani, dei piedi e del costato, trafitture non scomparse nel corpo spirituale del Risorto, come appare dalle sue manifestazioni ai discepoli dopo la resurrezione (cf. Lc 24,40; Gv 20,20.27); trafitture che gli umani gli hanno inflitto ogni volta che hanno ferito e colpito l’altro, il fratello, il povero, l’innocente, l’ultimo, il senza voce e senza dignità riconosciuta. Questa la parusia, la presenza manifesta del Crocifisso risorto nella gloria di Dio. È un evento che si impone, un evento a cui nessuno sfugge, un evento temibile ma anche misericordioso, perché chi appare è colui che ha già portato il peccato del mondo, è colui che è venuto a sedersi alla tavola dei peccatori (cf. Lc 7,34), è colui che è venuto per cercare e salvare chi era perduto (cf. Lc 19,10).

Che fare dunque in attesa di quel giorno? Vigilare, stare attenti, osservare la realtà nella quale si è immersi, abitare la vita concreta del nostro tempo. Il contadino che vive tra gli alberi di frutta, che li conosce, li osserva e li cura, dal fico comprende anche l’andamento delle stagioni. Quando la gemma di questa pianta, appena accennata nell’inverno, si gonfia, cresce e sembra pronta ad aprirsi, allora il contadino capisce che sta arrivando l’estate. Così, quando noi leggiamo in profondità eventi del nostro tempo e realtà dei nostri luoghi, possiamo discernerli come “segni”, cioè segnali capaci di indicare qualcosa: segni dei tempi (cf. Mt 16,3) e dei luoghi che i discepoli di Gesù devono essere esercitati a interpretare, per comprendere come e dove va la storia guidata da Dio e come gli uomini si oppongono a questo cammino (cf. Lc 21,29-33).

I discepoli di Gesù, i credenti in lui dovranno dunque non abbattersi ma “sollevare la testa”, assumere la postura dell’uomo in cammino, in posizione eretta, sorretto dalla speranza. Immagine straordinaria: l’umano in piedi, con il capo levato nella parrhesía, nella franchezza e nella convinzione che ciò che accade è per la sua salvezza; l’umano che non teme e quindi cammina sicuro verso il Signore veniente. È la postura dell’umano in preghiera davanti a Dio, che desidera l’incontro con chi ama; è la postura della sentinella che in piedi, sveglia, attenta, scruta l’orizzonte per essere pronta a gridare alla città che il Signore viene, sta per giungere e per manifestarsi nella gloria (cf. Is 62,6-7).

E come i discepoli e le discepole di Gesù devono vivere questa vigilia, questa attesa del “giorno del Signore”? Con la veglia e la preghiera! La veglia significa stare svegli, attenti, senza essere preda dell’intontimento spirituale, esito di una vita distratta, di cuori appesantiti dalle preoccupazioni mondane e di una ricerca di piaceri che stordiscono. Senza questa vigilanza, è impossibile mantenere un orientamento nella vita e restare in attesa della venuta del Signore, perché altre cose diventano oggetto delle nostre attese: la veglia è una vera lotta spirituale! E insieme alla veglia, la preghiera, che è stare davanti a Dio, è discernimento della sua presenza in noi, è manifestazione dell’adesione a Cristo che si vive quotidianamente; ma è anche invocazione, carica di desiderio, della venuta del Signore e del suo Regno, quando “Dio sarà tutto in tutti” (cf. 1Cor 15,28).

Noi cristiani aspettiamo davvero questo evento oppure non ci crediamo, lo consideriamo niente più che un mito? Ma è su questa venuta del Signore nella gloria che si decide la nostra fede cristiana, la quale non è solo un’etica nello stare al mondo, non è solo l’adesione a una storia di salvezza, ma è speranza certa della venuta del Signore: colui che è venuto nella debolezza della carne umana a Betlemme, verrà gloriosamente nella pienezza di Dio e Signore, per fare cielo e terra nuovi (cf. Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1). L’Avvento, dunque, ci invita a risvegliare l’attesa del Veniente, ci invita a invocare: “Marana tha (1Cor 16,22)! Vieni, Signore Gesù (Ap 22,20), vieni presto!”.

la passione di papa Francesco per i poveri, gli ultimi, gli scartati della storia, le vittime della società

“Papa Francesco e i poveri”


dal sito del Monastero di Bose

Nell’affrontare il tema della passione di papa Francesco per i poveri, gli ultimi, gli scartati della storia, le vittime della società, non posso non fare memoria di alcune parole profetiche di Giovanni XXIII, pronunciate un mese prima dell’apertura del concilio: “La chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la chiesa di tutti, e particolarmente la chiesa dei poveri” (Radiomessaggio ai fedeli di tutto il mondo, 11 settembre 1962). Parole che allora parvero inedite, ma che durante il concilio presero fuoco e diventarono un’urgenza avvertita con forza, un segno dei tempi, perché quell’ora era ritenuta “l’ora dei poveri”.
Quel fuoco acceso da papa Giovanni forgiò uno straordinario diamante nella Lumen gentium: “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza … Così anche la chiesa, benché per compiere la sua missione abbia bisogno di risorse umane, non deve cercare la gloria terrena, ma con il suo esempio diffondere umiltà e abnegazione” (LG 8). Questa è la logica dell’evangelizzazione operata dal Signore Gesù Cristo, che “da ricco che era si è fatto povero per noi” (cf. 2Cor 8,9; cf. ibid.), e dunque questa deve essere la via percorsa dalla chiesa per portare la buona notizia ai poveri. Questa istanza – diciamo la verità – è parsa paradossale e anche, qua e là nella chiesa, scandalosa, perché molti hanno continuato a pensare che solo una chiesa ricca, forte e potente possa fare del bene ai poveri. Anche per questo la profezia evangelica della povertà, dopo il concilio, e in particolare negli anni ’80 del secolo scorso, si è indebolita, è diventata silente ed è stata spesso contraddetta in modo anche clamoroso, provocando scandalo nella chiesa e nel mondo.
Ma proprio tra sue primissime parole, papa Francesco ha quasi sospirato: “Ah, come vorrei una chiesa povera e per i poveri!” (Udienza ai rappresentanti dei media, 16 marzo 2013). Da allora Francesco, che ha assunto il nome del santo che ha legato la sua vita cristiana alla povertà, non cessa di ripetere, quasi in modo ossessivo, l’urgenza della povertà della chiesa e della sua responsabilità di fronte ai poveri del mondo. Sono convinto che di questo papa saranno ricordate soprattutto le sollecitudini per la misericordia e la povertà, perché in lui il mistero cristiano si riassume soprattutto nel Cristo povero e misericordioso dei vangeli. D’altronde egli è ben consapevole che solo una chiesa povera e misericordiosa può fare riforme profonde, non operazioni di maquillage che sono senza forza e durano un momento, che incantano ma non causano conversione. È significativa questa sua affermazione: “Non si può comprendere il vangelo senza la povertà” (Intervista a La Vanguardia, quotidiano catalano, 12 giugno 2014; cf. Osservatore romano, 13 giugno 2014).
Potrei fornire diverse citazioni, tratte da numerosi interventi del papa su questo tema, sia in discorsi sia nel suo magistero quotidiano nelle omelie mattutine a Santa Marta: contro il “denaro, radice di tutti i mali” (cf 1Tm 6,10), “capace di togliere la fede”, “fonte di corruzione”, contro il potere che non diventa servizio del fratello, soprattutto dell’ultimo, contro la vanità e l’orgoglio ecclesiastico. Ma, anziché ricordare queste invettive profetiche del papa, preferisco mettere in evidenza due sue preoccupazioni emblematiche.
La prima è quella che i cristiani abbiano occhi capaci di scorgere nei poveri “la carne di Cristo”. Al cristiano – ricorda il papa – è assolutamente necessario innanzitutto sentire la chiamata a essere povero, a spogliarsi di se stesso, in una vera kénosis sull’esempio di Cristo (cf. Fil 2,7), a imparare a stare con i poveri, praticando la condivisione con chi è privo del necessario, in modo da “toccare la carne di Cristo” (Veglia di Pentecoste con i movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali, 18 maggio 2013; cf. anche omelia a Santa Marta, 7 marzo 2014). Ha affermato ancora il papa: “Il cristiano è uno che incontra i poveri, che li guarda negli occhi, che li tocca” (Incontro con i poveri assistiti dalla Caritas, Assisi, 4 ottobre 2013). E recentemente, con parole che vanno messe in pratica, senza commenti: “Davanti ai poveri non si tratta di giocare per avere il primato di intervento, ma possiamo riconoscere umilmente che è lo Spirito a suscitare gesti che siano segno della risposta e della vicinanza di Dio. Quando troviamo il modo per avvicinarci ai poveri, sappiamo che il primato spetta a Lui, che ha aperto i nostri occhi e il nostro cuore alla conversione. Non è di protagonismo che i poveri hanno bisogno, ma di amore che sa nascondersi e dimenticare il bene fatto. I veri protagonisti sono il Signore e i poveri” (Messaggio per la II Giornata mondiale dei poveri, 13 giugno 2018). Sembra che il bacio di san Francesco al lebbroso sia per il papa l’icona del vero rapporto di amore con chi è bisognoso. Ma, di nuovo, questo è lo stile di Gesù, è ciò che i vangeli ci raccontano di Gesù, il quale sempre ha voluto toccare corpi di malati, abbracciare i bisognosi, stare a tavola con gli scarti della società, impuri ed emarginati.
Papa Francesco esprime una vera povertà cristologica, o una cristologia della povertà, con accenti che ricordano i padri della chiesa, soprattutto Basilio di Cesarea, Giovanni Crisostomo, Ambrogio di Milano. “Il povero è un vicario di Cristo”, ha detto più volte (cf., per esempio, Incontro con i poveri, Assisi, 4 ottobre 2013; Omelia a Santa Marta, 20 gennaio 2014; Intervista all’Osservatore romano, 13 giugno 2014), proprio lui che mai e poi mai direbbe di sé di essere il vicario di Cristo. Per i poveri nessuna carità “presbite”, che li tiene lontani e li discerne solo nella lontananza; verso di loro nessuna ottica di superiorità, l’ottica di chi li guarda dal centro o dall’alto. No, occorre vederli stando accanto a loro nelle periferie dell’esistenza, nella consapevolezza che “esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri … i destinatari privilegiati del Vangelo” (Evangelii gaudium 48); “i poveri … categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro la sua prima misericordia”, perché “essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente” (ibid. 198). L’insegnamento di papa Francesco sui poveri è un insegnamento in primo luogo a livello rivelativo, cristologico, e questo conferisce alle sue parole una particolare autorità nello spazio della fede. La chiesa non può restare sorda o non tenerne conto, perché sul rapporto con i poveri e la povertà si gioca la sua fedeltà al Signore, il suo essere o non essere chiesa di Cristo.
L’altra preoccupazione di Francesco riguarda la povertà della chiesa stessa. Se la chiesa è chiesa di Cristo, allora – come si vedeva nella citazione della Lumen gentium – essa deve percorrere la via di Cristo nel suo cammino verso il Regno, facendo della povertà, dell’umiltà, della mitezza, del servizio il suo stile. Qui povertà e umiltà della chiesa sono immanenti l’una all’altra: sempre siamo tentati dalla ricchezza, dal potere, dal successo, come Gesù nel deserto all’inizio del suo ministero (cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13). Ma – dice Francesco nel suo splendido discorso tenuto a Seoul ai vescovi della Corea del Sud il 14 agosto 2014 – “la vita e la missione della chiesa … non si misurano in definitiva in termini esteriori, quantitativi e istituzionali; piuttosto esse devono essere giudicate nella chiara luce del Vangelo e della sua chiamata a una conversione alla persona di Gesù Cristo”. Sempre la memoria della nostra identità “deve essere realistica, non idealizzata e non ‘trionfalistica’ … L’ideale apostolico [è quello] di una chiesa dei poveri e per i poveri, una chiesa povera per i poveri” … Tutti infatti saremo giudicati su quel “protocollo” – Mt 25,31-46 –, dove Cristo identifica se stesso con i poveri e i bisognosi. La chiesa deve soprattutto vigilare “nei momenti di prosperità”, quando c’è “il pericolo che la comunità cristiana diventi una società, cioè che perda quella dimensione spirituale, che perda la capacità di celebrare il Mistero e si trasformi in una organizzazione spirituale, cristiana culturalmente, con valori cristiani, ma senza lievito profetico”. Nessuna chiesa è esente dalla tentazione di porre fiducia in sé e nei suoi mezzi, nella sua affermazione nel mondo. È “la tentazione del benessere spirituale, del benessere pastorale”. Allora la chiesa “non è una chiesa povera per i poveri, ma una chiesa ricca per i ricchi, o una chiesa di classe media per i benestanti” (ibid.).
Queste sono parole infuocate, soprattutto se le pensiamo rivolte a una chiesa particolare che, secondo il papa, può correre tale rischio. Francesco opera un capovolgimento dei traguardi che qualcuno voleva dare a qualche chiesa particolare negli ultimi decenni, proponendo che la chiesa cercasse riconoscimenti, si facesse vedere forte, volesse concorrere culturalmente con la società… Il risultato dell’evangelizzazione di una chiesa in questo stato è la sterilità, e in tal modo l’immagine della chiesa si deforma, diventando sempre più debole nell’essere un segno innalzato tra le genti.
È all’insegna della misericordia, del “cuore per i miseri”, che va compresa la passione di papa Francesco per i poveri, gli ultimi, gli scartati della storia, le vittime della società: tutti figli e figlie di Dio, tutti con la stessa dignità, tutti “segno” di Gesù Cristo. Una “chiesa povera e per i poveri” e dunque una chiesa di poveri “beati” secondo il Vangelo: questo è ciò che desidera papa Francesco ed è ciò cui si sente impegnato dal nome del santo di Assisi che ha voluto assumere.

il commento al vangelo della domenica

 “La tua fede ti ha salvato” 
il commento di E. Bianchi al vangelo della trentesima domenica (28 ottobre 2018) del tempo ordinario:


Mc 10,46-52

In quel tempo 46 Gesù e i suoi discepoli giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Con il brano che leggiamo in questa domenica il vangelo secondo Marco conclude il racconto della salita di Gesù a Gerusalemme, ossia l’itinerario del discepolato durante il quale Gesù ha dato insegnamenti, ha formato quanti lo seguivano, nella consapevolezza che giunti a Gerusalemme sarebbe avvenuta “la fine del profeta”, mediante la sua condanna a morte. Subito dopo Gesù entrerà nella città santa, scortato festosamente e acclamato figlio di David, cioè Messia (cf. Mc 11,7-11), evento in qualche modo anticipato nella nostra pagina.

Siamo a Gerico, la porta della Giudea a oriente. Mentre non solo i discepoli ma molti altri seguono Gesù, un cieco che porta il nome di Bar-Timeo (figlio di Timeo), un uomo marginale, ridotto a mendicare sulla strada, uno “scarto” di cui nessuno si prende cura, sente dire che sta per passare Gesù di Nazaret. Essendo cieco, non l’aveva ovviamente mai visto, né l’aveva incontrato, ma la fama di questo rabbi galileo l’aveva raggiunto. Nel suo cuore era certamente presente almeno il desiderio di vedere, la speranza di avere la vista, per poter uscire dalla notte. Udito che Gesù sta passando, inizia dunque a gridare: “Figlio di David, Gesù, abbi pietà di me!”. In questo grido vi è una grande spontaneità, vi è la sua fede giudaica nel Messia veniente, vi è l’attesa di una guarigione, della salvezza, vi è la forza di gridare e di farsi sentire, nella personale convinzione che quel rabbi può fare qualcosa per lui, dunque è un maestro capace di cura e di amore verso chi incontra. Bartimeo ripete con altre parole quanto aveva affermato Pietro: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). In quel caso però Pietro era stato immediatamente rimproverato da Gesù per la sua incapacità di comprendere la sua vera messianicità (cf. Mc 8,30-34). Il figlio di Timeo sta invece di fronte al figlio di David, animato dalla fiducia che il Messia avrebbe aperto gli occhi ai ciechi, compiendo anche in questo le sante Scritture (cf. Is 35,5; 42,7).

Ma allora come adesso, tra Gesù e chi lo cerca ci sono altri: qui è la folla, in altri casi sono i discepoli stessi, cioè la sua comunità, a diventare ostacolo, barriera tra Gesù e chi desidera incontrarlo. Attenzione, ciò accade anche per ragioni “sante”: paura di disturbare il maestro, volontà di proteggerlo dagli assalti della gente… Bartimeo, però, non desiste, si mette a gridare più forte, e così la sua invocazione raggiunge Gesù. Questi si ferma e lo manda a chiamare. Ciò avviene puntualmente, con le parole che tante volte i discepoli di Gesù avevano udito durante i suoi incontri con chi si trovava nella sofferenza o nel peccato: “Coraggio, alzati!”. Nell’invito espresso con “Coraggio!” (cf. Mt 9,2-22; 14,27; Mc 6,50) c’è il cuore di Gesù, che dice innanzitutto: “Coraggio, non temere, abbi fiducia!”. Questo il primo atteggiamento necessario all’incontro con Gesù: occorre uscire dal timore, dalla sfiducia, dalla mancanza di attesa, dalla visione di se stessi come non degni di essere da lui amati. A quel punto si tratta di alzarsi – verbo egheíro, che esprime anche il risorgere (cf. Mc 5,41; 6,14.16; 12,26; 14,28; 16,6)! – dal giaciglio alla postura dell’uomo che ha speranza (homo spe erectus). Una volta in piedi, si può ascoltare e comprendere che il Signore chiama ciascuno in modo personalissimo e pieno di affetto (“Chiama te”).

Quel cieco, allora, “getta via il suo mantello, balza in piedi e viene da Gesù”. È un povero che non ha nulla, se non il mantello, segno della sua identità di escluso, unica sua inalienabile proprietà (cf. Dt 24,13). Al contrario dell’uomo ricco che non aveva saputo liberarsi della zavorra dei suoi beni, e dunque se ne era andato triste (cf. Mc 10,21-22), Bartimeo si spoglia di ogni pur minima sicurezza, del suo passato, della sua stessa vita, e balzando in piedi si mette in movimento a tentoni e viene da Gesù. Grande è l’ardire di quest’uomo, che nasce dalla sua libertà: nella sua nuda povertà e nella sua cecità sta di fronte a Gesù, attendendo tutto da lui… Quest’ultimo non presume il bisogno di chi lo ha invocato, non si rivolge a lui in modo meccanico e anonimo, ma proprio per conoscere dalle sue parole il bisogno che lo abita gli domanda: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E Bartimeo risponde, con un tono di confidenza umile e audace: “Rabbunì, mio maestro, che io veda di nuovo!”. La preghiera è desiderio espresso davanti a Gesù, e Bartimeo desidera vedere, ben oltre la semplice visione con gli occhi: vuole vedere anche con il cuore, vuole vedere nella fede, vuole essere nella luce e non nella tenebra…

Gesù, sempre attento a ogni singolo uomo o donna che incontra, sempre capace di comunicare “in situazione”, si accorge di ciò che Bartimeo sta vivendo. Per questo si rivolge a lui con un’affermazione straordinaria: “Va’, la tua fede ti ha salvato”, parole che egli ha ripetuto spesso di fronte a chi gli chiedeva salvezza (cf. Mc 5,34 e par.; Lc 7,50; 17,19; 18,42). Innanzitutto gli dice: “Va’”, lo invita cioè a mettersi in cammino, senza chiedergli nulla. Alla libertà di chi entra in relazione con lui, Gesù risponde potenziando questa stessa libertà, invitando il suo interlocutore a esercitare la libertà. E questa prassi di liberazione si radica in un atteggiamento che contraddistingue Gesù, al punto che possiamo intenderlo come il suo tratto specifico, peculiare: la sua capacità di cogliere e di far emergere nelle persone la fede-fiducia che le anima. Ecco come Gesù fa emergere la fede già presente nell’altro: attraverso la sua presenza di uomo affidabile e ospitale, che non dice di essere lui a guarire e a salvare, ma la fede di chi a lui si rivolge. Fede-fiducia nella vita, negli altri, prima ancora che in Dio: non è infatti possibile, per parafrasare la Prima lettera di Giovanni, “credere in Dio che non si vede, se non sappiamo credere all’altro, al fratello che si vede” (cf. 1Gv 4,20)…

Guarigione non solo fisica quella di Bartimeo, ma salvezza che lo investe interamente: infatti, “subito si mette a seguire Gesù lungo la strada”. La salvezza viene sperimentata dal credente non tanto come condizione in cui installarsi, ma come cammino perseverante dietro a Gesù, come relazione quotidiana con lui. Bartimeo si pone alla sequela di Gesù, come i discepoli che sempre lo seguono (cf. Mc 1,18; 2,14.15; 5,37, 6,1; 8,34; 10,21.28.32; 11,9; 14,51.54; 15,41), vanno dietro a lui (cf. Mc 1,17.20; 8,33.34). Colui che era cieco, ai bordi della strada, mendicante, dopo l’incontro con Gesù è capace di seguirlo come un discepolo, verso Gerusalemme. Di più, il suo grido rivolto a Gesù – “Figlio di David!” – subito dopo viene ripreso dalla folla, durante l’ingresso di Gesù nella città santa: “Benedetto il Regno veniente di David nostro padre!” (Mc 11,10). Si potrebbe dire che è questo cieco ad aver intonato per primo le grida di gloria nei confronti di Gesù…

Questo episodio è molto di più di un semplice racconto di miracolo, come il lettore di Marco può ormai capire. Gesù sta per entrare nella città santa per la sua passione e morte, ma i suoi Dodici discepoli lungo tutto quel cammino sono rimasti ciechi. Ascoltavano le sue parole ma non capivano, mostrando di essere ben lontani dal vedere gli eventi come li vedeva Gesù: prima Pietro (cf. Mc 8,32), poi tutti e Dodici (cf. Mc 9,34), infine Giacomo e Giovanni (cf. Mc 10,35-37) sono sembrati ciechi di fronte a ogni rivelazione fatta loro da Gesù. Ma ora ogni lettore può identificarsi con questo cieco di Gerico; deve solo prendere coscienza della propria cecità, gridare al Signore: “Abbi pietà di me!” e avere fede che egli può strapparlo dalla tenebra e fargli vedere ciò che i suoi occhi non riescono a vedere. Sì, in quel mettersi in cammino dietro a Gesù, Bartimeo è per noi più esemplare dei Dodici. Dunque? Ognuno di noi si metta davanti al Signore Gesù e, guardando a lui con fede e attesa, si scoprirà non vedente. Abbia allora la forza e il coraggio di gridargli solo: “Signore, abbi pietà di me”, “Kýrie eleison”, questa invocazione brevissima eppure così completa rivolta a lui, con piena fiducia che egli può salvarci.

il commento al vangelo della domenica


 Tra voi non è così 


Mc 10,35-45

In quel tempo Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, si avvicinarono a Gesù dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Nel vangelo secondo Marco dopo ognuno dei tre annunci della passione fatti da Gesù nella sua salita verso Gerusalemme è registrata una scena di incomprensione da parte dei discepoli. Dopo il primo annuncio (cf. Mc 8,31), è Pietro che arriva a contestare le parole di Gesù (cf. Mc 8,32), facendosi “ostacolo” – “Satana” (Mc 8,33), come lo chiama Gesù – sul cammino che Dio ha assegnato a suo Figlio. Quando Gesù afferma per la seconda volta la necessitas passionis (cf. Mc 9,31), tutti i discepoli, come intontiti, non comprendono, anzi si mettono a discutere su chi tra loro può essere considerato il più grande (cf. Mc 9,32-34).

Nel brano evangelico di questa domenica, dopo il terzo annuncio della sua sofferenza e morte, passaggio inevitabile verso la resurrezione (cf. Mc 10,32-34), sono Giacomo e Giovanni che mostrano quanto sono distanti dal modo di pensare di Gesù. I due fratelli hanno seguito Gesù fin dall’inizio del suo ministero pubblico, sono i suoi primi compagni insieme a Pietro e ad Andrea, hanno abbandonato tutto, famiglia e professione, per stare con lui (cf. Mc 1,16-20), e in qualche modo si sentono gli “anziani” della comunità. Essendo figli di Salome, probabilmente sorella di Maria, la madre di Gesù (cf. Mc 15,40; Mt 27,56; Gv 19,25), sono cugini di Gesù, dunque suoi parenti, appartenenti alla famiglia, al clan, e per questo pensano di vantare precedenze sugli altri.

Eccoli allora presentarsi a Gesù per dirgli ciò che pensano di “meritare” per l’avvenire, quando Gesù, il Re Messia, stabilirà il suo regno: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. È una pretesa più che una domanda, fatta da chi ragiona esattamente come tante volte facciamo noi nel quotidiano: le relazioni contano, dunque occorre rivendicare il loro peso… E questo non avviene solo tra noi uomini e donne, fratelli e sorelle, perché anche nei confronti di Dio vantiamo pretese: siamo noi i credenti, siamo noi i cristiani, dunque presso Dio dobbiamo avere una precedenza sugli altri…

Gesù replica a Giacomo e Giovanni con infinita pazienza: “Non sapete quello che chiedete”. Risposta anche ironica, perché Gesù sa che nella sua vera gloria, quella sulla croce, alla sua destra e alla sua sinistra ci saranno due malfattori, crocifissi e suppliziati come lui (cf. Mc 15,27). Vi è qui lo scontro tra due visioni della gloria: i due discepoli la intendono come successo, potere, splendore, mentre Gesù l’ha appena indicata nel servizio, nel dono della vita, nell’essere rigettato in quanto obbediente alla volontà di Dio. Per questo egli tenta ancora una volta di portare i discepoli a guardare non alla gloria come termine finale, ma al cammino che conduce alla vera gloria, quella che essi neppure riescono a immaginare. E lo fa ponendo loro una domanda: “Potete bere il calice che io sto per bere, o ricevere l’immersione nella quale io devo essere immerso?”.

Gesù chiede innanzitutto se sono disposti a bere “il calice della sofferenza”, espressione biblica per indicare la sofferenza da subire (cf. Sal 75,9; Is 51,17.22, ecc.). Si ricordi che Gesù stesso nell’agonia del Getsemani sarà tentato di allontanare da sé quel calice: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36)… Nella sequela di Gesù, nel condividere la sua strada e la sua sorte, vi è per i discepoli una sofferenza da accogliere, senza rivolte e senza la tentazione di esserne esenti. Non solo, c’è anche un’immersione, un “andare sotto”, un affogare momentaneo nei “flutti della morte” (Sal 18,5), che sarà un evento prima per Gesù, ma che poi dovrà essere condiviso da chi si sente coinvolto nella sua vita e vuole stare con lui ovunque egli vada (cf. Ap 14,4). Viene qui impiegato il termine greco báptisma (e il verbo corrispondente baptízein), di cui non comprendiamo più il significato: battesimo è immersione, è andare sott’acqua, è affogare come creatura vecchia per uscire dall’acqua come creatura nuova. Si noti l’insistenza del testo originale, come appare da una traduzione alla lettera: “Potete voi con l’immersione con cui sono immerso essere immersi?”. Ecco il battesimo, che dà inizio sacramentalmente alla vita cristiana, ma che deve diventare esperienza, vita concreta, fino al momento finale della morte, quando i flutti ci travolgeranno, e poi dopo la morte, quando Dio ci chiamerà alla vita eterna attraverso la resurrezione.

Giacomo e Giovanni, sempre “boanèrghes, cioè ‘figli del tuono’” (Mc 3,17), rispondono affermativamente alla domanda di Gesù, e capiranno solo più tardi il prezzo di questa disponibilità: quando Marco scrive il vangelo, intorno all’anno 70, sa che nel 44 Giacomo era stato martirizzato da Erode a Gerusalemme (cf. At 12,2) e Giovanni secondo la tradizione vivrà nell’isola di Patmos una lunga passione di prigioniero esiliato… In ogni caso, Gesù accoglie questa loro spontanea professione di disponibilità alla croce, ma ricorda anche che non spetta a lui concedere di sedere alla sua destra o alla sua sinistra, ma “è per coloro per i quali è stato preparato” dal Padre (passivo divino). Sta di fatto che questa richiesta dei due fratelli – che Matteo, per riguardo a Giacomo e a Giovanni, pone in bocca alla loro madre (cf. Mt 20,20) – suscita subito una reazione sdegnata negli altri con-discepoli, che li contestano per gelosia e perché infastiditi dalla loro pretesa.

E qui va detto con franchezza e senza ingenuità che la comunità di Gesù è immagine delle nostre comunità: uomini e donne chiamati da Gesù e scelti da lui; uomini e donne che sovente mostrano di avere poca fede o addirittura apistía, incredulità (cf. Mc 9,24; 16,14); uomini e donne fragili e deboli che a volte non riescono a comprendere le parole di Gesù, le esigenze della sequela, e dunque contraddicono la loro vocazione e la loro identità. La comunità, peraltro scelta, istruita e formata dal Signore presente e operante in mezzo a essa, appare una povera comunità. Marco ha l’audacia di metterci davanti agli occhi la tragica parabola di questa comunità: quelli che

“abbandonata la barca, le reti e il padre, seguirono Gesù” (cf. Mc 1,18-20),

nell’ora della passione “abbandonarono Gesù e fuggirono tutti” (Mc 14,50).

Ecco, non dimentichiamo la debolezza e la fragilità della comunità del Signore, perché se tale era la comunità i cui membri erano stati scelti e istruiti personalmente da Gesù, come potrebbero le nostre comunità essere migliori?

Allora Gesù li chiama tutti e dodici intorno a sé e dà loro una lezione molto istruttiva, perché è un’apocalisse del potere mondano, politico. Dice: “Voi sapete”, perché basta guardare, osservare, “che coloro i quali sono considerati i governanti delle genti dominano, spadroneggiano su di esse, e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così (Non ita est autem in vobis)”. Attenzione, Gesù non dice: “Tra voi non sia così”, facendo un augurio o impartendo un comando, ma: “Tra voi non è così”, ovvero, “se è così, voi non siete la mia comunità!”. Non è possibile che la comunità cristiana abbia come modello il potere mondano, che si lasci conformare a ciò che fanno i governi, quasi sempre ingiusti e spesso totalitari: il governo nella comunità cristiana è “altro”, oppure non è governo, ma dominio. D’altra parte, Gesù non nega la necessità di un governo nella società umana, ma lo legge nella sua realtà, come si manifesta in concreto. Sì, a volte c’è qualcuno che merita il governo perché sa esercitarlo nella giustizia, ma è evento raro, perché le forze mondane, i poteri oscuri lo rimuovono presto…

Ecco dunque la vera “costituzione” data alla chiesa: una comunità di fratelli e sorelle, che si servono gli uni gli altri, e tra i quali chi ha autorità è servo di tutti i servi. Nella chiesa non c’è possibilità di acquisire meriti di anzianità, di fare carriera, di vantare privilegi, di ricevere onori: occorre essere servi dei fratelli e delle sorelle, e basta! Il fondamento di questa comunità è proprio l’evento nel quale il Figlio dell’uomo, Gesù, si è fatto servo e ha dato la sua vita in riscatto per le moltitudini, cioè per tutti. Gesù non ha dominato, ma ha sempre servito fino a farsi schiavo, fino a lavare i piedi, fino ad accettare una morte ignominiosa, assimilato ai malfattori. Sì, Gesù è il Servo sofferente tratteggiato dal profeta Isaia nel brano che in questa domenica ascoltiamo come prima lettura: “Dopo il suo intimo tormento”, cioè dopo aver conosciuto la sofferenza, “il giusto mio Servo” – dice il Signore – “giustificherà le moltitudini (rabbim), egli si addosserà le loro iniquità” (Is 53,11). Questa la gloria del Messia, di Gesù, quindi la gloria del cristiano: non riconoscimenti mondani, non posizioni o posti di successo e di trionfo, ma la gloria di chi serve i fratelli e le sorelle e dà la vita nella libertà e per amore al seguito di lui, Gesù.

Questo vangelo non riguarda solo la comunità storica di Gesù, i Dodici, ma riguarda soprattutto noi, la chiesa oggi. In particolare, riguarda quelli che nella comunità cristiana esercitano un servizio, sempre tentati di farlo diventare dominio, potere, sempre tentati di lavorare per sé e non per il bene della comunità. E sia chiaro: nella chiesa il servizio non è finalizzato ad assicurare una dinamica di gruppo positiva ed efficace secondo schemi psicologici. No, il servizio è una legge per la comunità cristiana, perché realizza concretamente il nostro amore fraterno, perché questa è la posizione del Kýrios, del Signore. Al cuore della comunità c’è il Kýrios che si fa nostro servo e ci dice: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13,14).

il commento al vangelo della domenica


il Signore conosce i suoi
il commento di E. Bianchi al vangelo della ventiseiesima domenica (30 settembre 2018) del tempo ordinario:

Mc 9,38-43.45.47-48

In quel tempo Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geenna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue.

Il testo evangelico di questa domenica si presenta composito, riportando una serie di parole di Gesù appartenenti a contesti diversi ed eterogenei, eppure legate da alcune espressioni ricorrenti: “nel tuo/mio nome”, “scandalizzare”, “fuoco e sale”. Mi soffermerò dunque più ampiamente sull’episodio dell’esorcista che compie azioni di liberazione pur non seguendo Gesù, poi cercheremo una comprensione generale delle “sentenze”, degli ammonimenti raccolti da Marco in questo contesto.

Gesù sta continuando il cammino verso Gerusalemme insieme ai suoi discepoli, ma il clima comunitario non è pacifico. Egli fa annunci della sua passione e i discepoli non capiscono (cf. Mt 9,32) o si ribellano, come Pietro (cf. Mc 8,31-33); quando, in assenza di Gesù, viene chiesto ai discepoli di guarire un ragazzo epilettico, forse giudicato posseduto da uno spirito impuro, essi si mostrano incapaci di liberarlo dalla malattia (cf. Mc 9,14-29); infine, tutti i Dodici si mettono a discutere su “chi tra loro fosse più grande” (Mc 9,34). Sì, ormai tra Gesù e la sua comunità vi è distanza, incomprensione. Se il passo di Gesù è sempre convinto, con uno scopo preciso che gli richiede una radicale obbedienza, quello dei discepoli è invece incerto e sbandato. Nel vangelo secondo Marco tutto il viaggio verso la città santa sarà caratterizzato da questa tensione tra Gesù e i suoi, dall’incomprensione da parte di tutti, nessuno escluso.

Ed ecco, puntualmente, un nuovo episodio che attesta tale stato di cose: Giovanni, “il figlio del tuono” (cf. Mc 3,17) il fratello di Giacomo, uno dei primi quattro chiamati (cf. Mc 1,16-20), uno dei discepoli più intimi di Gesù, testimone privilegiato della sua trasfigurazione (cf. Mc 9,2), vede un tale che scaccia demoni, compie azioni di liberazione sui malati nel nome di Gesù, pur non facendo parte della comunità, dunque non seguendo Gesù con gli altri discepoli. Allora si reca da Gesù e dichiara risolutamente: “Lo abbiamo visto fare ciò e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Cosa c’è in questa reazione di Giovanni? Certamente uno zelo mal riposto, ma uno zelo che rivela un amore per Gesù, una gelosia nei suoi confronti: se uno usa il nome di Gesù, dovrebbe seguirlo e dunque fare corpo con la sua comunità… Mescolato a questo sentimento vi è però anche uno spirito di pretesa, il pensiero che solo i Dodici siano autorizzati a compiere gesti di liberazione nel nome di Gesù; c’è un senso di appartenenza che esclude la possibilità del bene per chi è fuori dal gruppo comunitario; c’è la volontà di controllare il bene che viene fatto, affinché sia imputato all’istituzione alla quale si appartiene.

Sono qui ritratte le nostre patologie ecclesiali, che a volte emergono fino ad avvelenare il clima nella chiesa, fino a creare al suo interno divisioni e opposizioni, fino a fare della chiesa una cittadella che si erge contro il mondo, contro gli altri uomini e donne, ritenuti tutti nello spazio della tenebra. Dobbiamo confessarlo con franchezza: negli ultimi decenni il clima della chiesa è stato avvelenato in questo modo e tale malattia, nonostante i continui ammonimenti di papa Francesco, non è ancora stata vinta. Vi sono porzioni ecclesiali che si ergono a giudici degli altri, che si ritengono una chiesa migliore di quella degli altri. Vi sono cristiani che, con certezze granitiche, giudicano gli altri fuori della tradizione o della chiesa cattolica e aspettano di poter ascoltare da parte dell’autorità ecclesiastica condanne verso quanti non somigliano a loro o non fanno parte del loro gruppo, soggetto a tentazioni settarie.

Guai alla comunità cristiana che pensa di essere chiesa perfetta, guai all’autoreferenzialità e all’autarchia spirituale, atteggiamenti di chi pensa di non avere bisogno delle altre membra, perché crede se stesso membro del corpo di Cristo (cf. 1Cor 12,12-27). Gesù non ha mai mostrato di essere totalitario, escludente, né ha mai obbligato nessuno a seguirlo e a far parte della sua comunità. Nessun proselitismo! Nel contempo, quale Cristo risorto Gesù è il Signore di tutta la chiesa e lui solo conosce i suoi (cf. 2Tm 2,19): non spetta dunque ai suoi, o ai pretesi suoi, giudicare altri come zizzania, fino a tentare di estirparli (cf. Mt 13,24-30). Cristo trascende le frontiere di ogni comunità cristiana e può operare il bene in molte forme attraverso la potenza del suo Spirito santo, che “soffia dove vuole” (Gv 3,8). Nella chiesa, purtroppo, si soffre di questa malattia dell’“esclusivismo” e facilmente non si riconosce all’altro la capacità di compiere il bene, di operare per la liberazione dell’uomo dai mali che lo opprimono.

Papa Francesco in questi pochi anni di pontificato è tornato più volte a denunciare questi mali ecclesiastici, chiedendo soprattutto ai cristiani appartenenti ai movimenti di rifuggire derive settarie e di imparare a camminare insieme agli altri cristiani, non separati, non al di sopra, non con itinerari in opposizione. La diversità è ricchezza, è multiforme grazia dello Spirito che rende policroma la chiesa (cf. Ef 3,10), la sposa del Signore, la rende più bella e pronta per le nozze con il Messia (cf. Ap 19,7; Ef 5,27). Se uno fa il bene in nome di Cristo, questo bene va innanzitutto riconosciuto, non negato, e poi occorre avere fiducia in lui: se compie il bene in nome di Gesù, potrà forse subito dopo parlare male di lui? “Chi non è contro di noi è per noi”, chiosa lo stesso Gesù. Ovvero, egli esorta ad accettare di non essere i soli a compiere il bene, ad accettare che altri, diversi da noi, che neppure conosciamo, possano compiere azioni segnate dall’amore. Si tenga anche presente che vi sono molti che apparentemente seguono Gesù, profetizzano, scacciano demoni e compiono miracoli nel suo nome (cf. Mt 7,22), che magari hanno anche una pratica di ascolto della sua parola e una pratica sacramentale eucaristica (“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e ti abbiamo ascoltato”: cf. Lc 13,26). Tutti costoro, però, non sono garantiti dalla loro appartenenza e potranno risultare estranei al Signore, che dirà loro: “Non vi ho mai conosciuti: allontanatevi da me, voi che avete operato il male!” (Mt 7,23; cf. Lc 13,27).

La vera domanda che dobbiamo porci non è dunque: “Chi è contro di me, contro di noi?”, bensì: “Sono io, siamo noi di Cristo?”. Scrive l’Apostolo Paolo: “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,22-23). Ovvero: se non siamo di Cristo, se non abbiamo i suoi “modi” (cf. Didaché 11,8), se non assumiamo i suoi comportamenti e il suo pensiero (cf. 1Cor 2,16), non siamo nulla: non abbiamo sale in noi stessi, ma siamo come il sale insipido (cf. Mc 9,50), che “serve solo ad essere gettato via e calpestato” (Mt 5,13). La nostra responsabilità è quella di lottare ogni giorno contro noi stessi, non contro presunti nemici esterni, perché niente e nessuno può impedirci di vivere il Vangelo, se non noi!

Quanto alle sentenze di Gesù riguardanti lo scandalo (vv. 42-50), oggi proviamo una certa difficoltà ad accettare la loro radicalità. Dobbiamo però vigilare per non rimuoverle o annacquarle. È verissimo che non possono essere compiute alla lettera attraverso atti di mutilazione fisica, per impedire l’azione malvagia, ma devono essere accolte come severi ammonimenti. Scandalizzare significa mettere ostacoli sul cammino di “questi piccoli che sono credenti” (mikrôn toúton tôn pisteuónton) e compiere un’azione che per loro è mortifera. Meglio, in questo caso, dare la morte a se stessi!

Il discepolo deve vigilare sul suo comportamento, sugli organi della comunicazione di cui è dotato (mani, piedi, occhi, cioè il fare, l’andare, il vedere), che possono essere ostacoli sulla via delle Regno, soprattutto per i piccoli, i fragili e i deboli, i poveri e gli ultimi. Tagliare un membro del corpo o cavare un occhio sono indicazioni di una lotta molto determinata nella logica del perdere la propria vita (bíos) per guadagnare la vita autentica ed eterna (zoé), cioè quella con Cristo nel Regno. E non si compia una facile attualizzazione delle parole di Gesù, restringendole allo scandalizzare i bambini, ma si tenga conto che i mikroí, i piccoli individuati da Gesù, sono tutti quelli che rispetto al discepolo sono meno muniti, più esposti e deboli…

Tutti i discepoli sono così posti da Gesù davanti a due esiti opposti: la vita eterna con Cristo risorto nel regno di Dio, oppure la Gheenna (letteralmente una valle vicina a Gerusalemme, utilizzata come discarica dei rifiuti), cioè la morte, la tenebra, il caos: Gheenna o inferno più volte evocati da Gesù come separazione dall’amore, dalla vita. Come i profeti, come Isaia (cf. 66,24, fine del libro), Gesù ricorre all’immagine della Gheenna non per condannare, ma per avvertire e ammonire i credenti.

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